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Celebrazioni mobili

Il mio Santo

*Santa Ammonisia - Vergine e Martire - (I Domenica di Febbraio)

Il piccolo centro valsesiano di Scopa venera come sua compatrona di questa Santa, le cui reliquie, come attestato dall’autentica che ne dichiarava il recupero dalla catacomba di Priscilla nel 1750, giunsero nella parrocchia, chiesa matrice di tutte le comunità della Val Grande, tramite i fratelli Giovanni Antonio e Pietro Antonio Pianazzi, la cui famiglia era emigrata da alcune generazioni a Roma.
La data d’arrivo della reliquia è il 1755, come riportato sull’iscrizione di una lapide presso l’altare della Santa e fu sistemata nella cappella di San Marco; come testimonia il Lana, ancora nel 1840, le ossa erano visibili all’interno di una piccola urna di legno, posta sopra l’altare, che a stento le conteneva.
Soltanto nel 1880, per la sensibilità dell’allora pievano don Giuseppe Canziani, esse furono ricomposte in una figura di cera ricoperta da un vestito realizzato dalle ragazze del paese, che fu poi collocata in un’urna più grande. Contemporaneamente si provvide anche a conferire un nuovo assetto, seppur risultato poi poco armonioso, all’altare dove si doveva riporla, che da allora s’intitolò ad Ammonisia.
Riguardo alla presenza di questa presunta martire, invocata a Scopa come protettrice dalle
inondazioni del Sesia che scorre poco lontano dalla chiesa, va ricordata la violenta contestazione, organizzata da un gruppo di locali esponenti della massoneria, in occasione dei solenni festeggiamenti indetti per inaugurare gli interventi sopra descritti.
L’accusa mossa al clero della parrocchia era quella di aver creato un nuovo oggetto di superstizione, promovendo il culto ad una santa inesistente per ricavarne un profitto economico, derivante dalle numerose offerte elargite per la copertura delle spese effettuate.
L’episodio s’inquadra in quel clima di diffuso anticlericalismo, più o meno manifesto, che fu presente in ambito valsesiano dalla fine dell’ottocento fino al primo conflitto mondiale e che i parroci locali cercarono di arginare con una riproposta di diversi elementi devozionali: culto mariano, culto eucaristico e venerazione dei santi locali, rispondendo alle provocazioni attraverso l’organizzazione di concrete manifestazioni di fede, quali pellegrinaggi, processioni e la pubblicazione di testi devozionali.
Del corpo santo di Ammonisia si è occupato brevemente padre Antonio Ferrua, interpellato nel 1987 dal parroco locale per avere ulteriori notizie circa la presunta martire. Le ricerche compiute dal religioso gesuita hanno permesso di risalire a quello che, con molta probabilità, è l’epitaffio originario posto a chiusura del loculo da cui fu estratto il corpo poi fatto pervenire a Scopa.
Il testo, pubblicato dal Ferrua stesso in edizione critica, riporta il nome originale della defunta: Artemisia, modificato per ragioni cultuali in Ammonisia, l’iscrizione, infatti, così riporta: III – NON – MAR – ARTEMISIA – IN PACE. Sulla stessa superficie figuravano anche sei monogrammi costantiniani ed una palma, allora interpretata, similmente al presunto “vaso di sangue” visibile nell’urna, come segno certo dell’avvenuto martirio, del quale manca invece ogni accenno nel testo riportato.
A partire dal 1880 la devozione nei confronti di Ammonisia s’incrementò notevolmente tra la popolazione di Scopa, che da quell’anno dedicò ufficialmente alla santa una festa annuale.
Inizialmente la ricorrenza era celebrata la prima domenica di marzo, fu poi anticipata alla prima di febbraio per permettere la partecipazione degli emigranti che, ritornati in autunno, ripartivano in primavera; ancora attualmente, in tale occasione, l’urna è portata in processione lungo le strade del paese.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Ammonisia, pregate per noi.  

*Beata Berta - Benedettina - Badessa di Cavriglia - (I Domenica di Agosto)

1106 c. - 1163
Nacque nel 1106, entrò giovanissima nel monastero delle benedettine vallombrosane di Santa Felicita di Firenze e qui si fece notare per la grande santità dimostrata, cosicché nel 1153, il generale dell'Ordine vallombrosano, il Beato Gualdo Gualdi, la scelse per affidarle il compito di riformare il monastero di Cavriglia in provincia di Arezzo.
Berta si trasferì in quel nuovo posto dove fece rifiorire il monastero spiritualmente e numericamente, con una maggiore osservanza della Regola.
Dopo dieci anni da badessa, nel 1163, durante la Quaresima, ebbe la percezione della sua fine
terrena; il giovedì santo partecipò alla solenne liturgia, lavando i piedi alle sue monache, il venerdì santo partecipò con grande fervore ai riti della croce e il sabato santo riunite le monache, raccomandò loro per l'ultima volta di restare unite nella preghiera e nella carità, durante la notte morì.
Il suo corpo tumulato nel monastero, andò nel secolo XIV disperso durante le guerre fra Siena e Firenze, anche se ancora oggi gli abitanti di Cavriglia asseriscono che si trova sotto un altare laterale della chiesa parrocchiale. (Avvenire)
Il luogo della nascita è incerto, c’è chi dice Firenze e chi dice nei pressi del castello di Vernio nel 1106 circa, figlia del conte Lotario Alberti.
Entrò giovanissima nel monastero delle benedettine vallombrosane di S. Felicita di Firenze e qui si fece notare per la grande santità dimostrata, cosicché nel 1153, il generale dell’Ordine Vallombrosano il beato Gualdo Gualdi, la scelse per affidarle il compito di riformare il monastero di Cavriglia in provincia di Arezzo, nella valle superiore dell’Arno.
Berta si trasferì in quel nuovo posto dove l’ubbidienza la portava e impegnandosi alacremente nel compito affidatogli, fece rifiorire il monastero spiritualmente e numericamente, con una maggiore osservanza della Regola.
Dopo dieci anni da badessa, nel 1163, durante la Quaresima, ebbe la percezione della sua fine terrena; il giovedì santo partecipò alla solenne liturgia, lavando i piedi alle sue monache, il venerdì santo partecipò con grande fervore ai riti della croce e il sabato santo riunite le monache, raccomandò loro per l’ultima volta di restare unite nella preghiera e nella carità, durante la notte morì.
Il suo corpo tumulato nel monastero, andò nel secolo XIV disperso durante le guerre fra Siena e Firenze, anche se ancora oggi gli abitanti di Cavriglia asseriscono che si trova sotto un altare laterale della chiesa parrocchiale.
Dal 1773 è patrona dei Comuni di Montano e Cavriglia; in suo onore sorse un’opera che aveva come scopo quello di mantenere il suo culto; nel 1815 si trasformò in una Congregazione e nel 1831 se ne costituì un’altra per sacerdoti.
Queste due Congregazioni sono tuttora fiorenti ed attive ed hanno il merito di perpetuare il culto della beata Berta, la cui festa si celebra la prima domenica d’agosto.

(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Berta, pregate per noi.

*Domenica della Divina Misericordia - (II Domenica di Pasqua)

"Desidero che la prima domenica dopo Pasqua sia la Festa della Divina Misericordia.
Figlia Mia, parla a tutto il mondo della Mia incommensurabile Misericordia!
L'Anima che in quel giorno si sarà confessata e comunicata, otterrà piena remissione di colpe e castighi.
Desidero che questa Festa si celebri solennemente in tutta la Chiesa." (Gesù a Santa Faustina)
É la più importante di tutte le forme di devozione alla Divina Misericordia.
Gesù parlò per la prima volta del desiderio di istituire questa festa a suor Faustina a Płock nel 1931, quando le trasmetteva la sua volontà per quanto riguardava il quadro: "Io desidero che vi sia una festa della Misericordia.
Voglio che l'immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia" (Q. I, p. 27).
Negli anni successivi - secondo gli studi di don I. Rozycki - Gesù è ritornato a fare questa richiesta addirittura in 14 apparizioni definendo con precisione il giorno della festa nel calendario liturgico della Chiesa, la causa e lo scopo della sua istituzione, il modo di prepararla e di celebrarla come pure le grazie ad essa legate.
La scelta della prima domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero pasquale della Redenzione e la festa della Misericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: "Ora vedo che l'opera della Redenzione è collegata con l'opera della Misericordia richiesta dal Signore" (Q. I, p. 46).
Questo legame è sottolineato ulteriormente dalla novena che precede la festa e che inizia il Venerdì Santo.
Gesù ha spiegato la ragione per cui ha chiesto l'istituzione della festa: "Le anime periscono, nonostante la Mia dolorosa Passione (...).
Se non adoreranno la Mia misericordia, periranno per sempre" (Q. II, p. 345).
La preparazione alla festa deve essere una novena, che consiste nella recita, cominciando dal Venerdì Santo, della coroncina alla Divina Misericordia.
Questa novena è stata desiderata da Gesù ed Egli ha detto a proposito di essa che "elargirà grazie di ogni genere" (Q. II, p. 294).
Per quanto riguarda il modo di celebrare la festa Gesù ha espresso due desideri:
- che il quadro della Misericordia sia quel giorno solennemente benedetto e pubblicamente, cioè liturgicamente, venerato;
- che i sacerdoti parlino alle anime di questa grande e insondabile misericordia Divina (Q. II, p. 227) e in tal modo risveglino nei fedeli la fiducia.
"Sì, - ha detto Gesù - la prima domenica dopo Pasqua è la festa della Misericordia, ma deve esserci anche l'azione ed esigo il culto della Mia misericordia con la solenne celebrazione di questa festa e col culto all'immagine che è stata dipinta" (Q. II, p. 278).
La grandezza di questa festa è dimostrata dalle promesse:
- "In quel giorno, chi si accosterà alla sorgente della vita questi conseguirà la remissione totale delle colpe e delle pene" (Q. I, p. 132) - ha detto Gesù.
Una particolare grazia è legata alla Comunione ricevuta quel giorno in modo degno: "la remissione totale delle colpe e castighi".
Questa grazia - spiega don I. Rozycki - "è qualcosa di decisamente più grande che la indulgenza plenaria.
Quest'ultima consiste infatti solo nel rimettere le pene temporali, meritate per i peccati commessi (...).
É essenzialmente più grande anche delle grazie dei sei sacramenti, tranne il sacramento del battesimo, poiché‚ la remissione delle colpe e dei castighi è solo una grazia sacramentale del santo battesimo.
Invece nelle promesse riportate Cristo ha legato la remissione dei peccati e dei castighi con la Comunione ricevuta nella festa della Misericordia, ossia da questo punto di vista l'ha innalzata al rango di "secondo battesimo".
É chiaro che la Comunione ricevuta nella festa della Misericordia deve essere non solo degna, ma anche adempiere alle fondamentali esigenze della devozione alla Divina Misericordia" (R., p. 25).
La comunione deve essere ricevuta il giorno della festa della Misericordia, invece la confessione - come dice don I. Rozycki - può essere fatta prima (anche qualche giorno).
L'importante è non avere alcun peccato.
Gesù non ha limitato la sua generosità solo a questa, anche se eccezionale, grazia.
Infatti ha detto che "riverserà tutto un mare di grazie sulle anime che si avvicinano alla sorgente della Mia misericordia", poiché‚ "in quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie divine.
Nessuna anima abbia paura di accostarsi a Me anche se i suoi peccati fossero come lo scarlatto" (Q. II, p. 267).
Don I. Rozycki scrive che una incomparabile grandezza delle grazie legate a questa festa si manifesta in tre modi:
- tutte le persone, anche quelle che prima non nutrivano devozione alla Divina Misericordia e persino i peccatori che solo quel giorno si convertissero, possono partecipare alle grazie che Gesù ha preparato per la festa;
- Gesù vuole in quel giorno regalare agli uomini non solo le grazie salvificanti, ma anche benefici terreni - sia alle singole persone sia ad intere comunità;
- tutte le grazie e benefici sono in quel giorno accessibili per tutti, a patto che siano chieste con grande fiducia (R., p. 25-26).
Questa grande ricchezza di grazie e benefici non è stata da Cristo legata ad alcuna altra forma di devozione alla Divina Misericordia.
Numerosi sono stati gli sforzi di don M. Sopocko affinché‚ questa festa fosse istituita nella Chiesa.
Egli non ne ha vissuto però l'introduzione.
Dieci anni dopo la sua morte, il card. Franciszek Macharski con la Lettera Pastorale per la Quaresima (1985) ha introdotto la festa nella diocesi di Cracovia e seguendo il suo esempio, negli anni successivi, lo hanno fatto i vescovi di altre diocesi in Polonia.
Il culto della Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua nel santuario di Cracovia - Lagiewniki era già presente nel 1944.
La partecipazione alle funzioni era così numerosa che la Congregazione ha ottenuto l'indulgenza plenaria, concessa nel 1951 per sette anni dal card. Adam Sapieha.
Dalle pagine del Diario sappiamo che suor Faustina fu la prima a celebrare individualmente questa festa, con il permesso del confessore.

(Fonte: www.festadelladivinamisericordia.com)

*San Fortunato di Casei - Martire (III Domenica di Ottobre e 16 Ottobre)

San Fortunato è un legionario romano, africano, originario dell’Alto Egitto al confine con la Nubia, che poco più che ventenne, nel 286, coronò la sua fede col martirio in quello che oggi è il Vallese svizzero. dal 1765 il suo corpo fu traslato a Casei Gerola, in provincia di Pavia, importante borgo della diocesi di Tortona.
Nelle valli alpine settembre regala ancora giornate luminose, che profumano d’estate l’azzurro intenso del cielo terso, e insieme annunciano gli imminenti rigori dell’inverno, che incombe nell’aria via via più frizzante. Così doveva essere anche nella tarda estate dell’anno 286 nella valle di Agaunum, dove aveva posto il campo la legione Tebea, nelle aspre gole di monti selvaggi, confine della civiltà romana e via che univa la pianura padana alla valle del Reno: in quella che per noi oggi è la Svizzera meridionale, più precisamente il Vallese e la conca di Saint Moritz.
Avvolti nella rossa clamide per difendersi dai venti autunnali e appoggiate al pilum, le sentinelle scrutavano le creste dei monti da cui avrebbero potuto scendere improvvisi e feroci i Bagaudi. Dalla
primavera dell’anno precedente infatti i Bagaudi, agricoltori e pastori immiseriti dalla voracità dei governatori, riuniti in grosse bande percorrevano le campagne incendiando, saccheggiando, distruggendo; erano guidati da Amando ed Eliano, che sognavano di costituire sotto di sé un impero celtico, avevano sconvolto le Gallie ed ora minacciavano l’Italia.
L’imperatore Diocleziano per combatterli aveva scelto fra i suoi generali uno dei più valorosi, Marco Aurelio Massimiano, illirico come lui, e lo aveva nominato “Cesare”, associandolo a sé nel governo dell’impero. Dall’Egitto era stata trasferita in fretta anche la legione Tebea, costituita da uomini valorosi, abituati a combattere per la gloria di Roma; erano i fedeli custodi dei confini meridionali dell’impero ed ora si trovavano nelle fredde terre del nord a fronteggiare barbari sanguinari. Venivano dalla valle del Nilo, erano stati arruolati nei villaggi attorno a Tebe d’Egitto, nei deserti della Nubia e giù fino alle cateratte del grande fiume e agli altipiani d’Etiopia.
Erano figli dell’Africa e ne portavano i segni caratteristici nel colore della pelle e nei tratti del volto, erano figli della grande civiltà egizia che si esprimeva in loro in nobiltà e fierezza, erano soprattutto figli della Chiesa, Cristiani di una delle terre di più antica evangelizzazione, dove il Vangelo già era risuonato in età apostolica. Maurizio era il comandante in capo, Candido, Vittore ed Essuperio erano gli alti ufficiali, Alessandro custodiva, come signifero, le insegne da battaglia della legione; tra i militi vi era anche Fortunato.
Il vento soffiava dalle cime delle Alpi, gelido e sinistro quasi fosse un presagio di morte, mentre i legionari ripensavano alle assolate distese del deserto nubiano, alle acque solenni del Nilo che scendevano a fecondare il loro paese, ai tanti volti cari lasciati al di là del mare. L’araldo giunse al campo con l’ordine di marcia, si dovevano levare le tende e partire, perché Massimiano aveva deciso di sferrare l’ultimo definitivo attacco volto a spezzare la resistenza dei ribelli, prima che le nevi dell’inverno coprissero i valichi e rendessero impraticabili i passi.
Per propiziarsi l’esito della battaglia il comandante supremo ordinava a tutte le sue legioni di offrire sacrifici agli dei di Roma, ciascuna nel proprio campo, quella sera stessa prima della partenza.
Un silenzio gravido di attesa scese su quei soldati, si guardarono uno ad uno, compagni di cento battaglie, qualcuno toccò sotto il giustacuore le cicatrici delle ferite ricevute nella difesa dell’impero; alla fine il silenzio fu rotto dalla voce del comandante: “Nessuno può dubitare in terra della nostra fedeltà a Roma e al suo imperatore: le zagaglie etiopiche e le lance numide, le spade nabatee e le asce barbariche non ci hanno mai fermato.
Nessuno deve però dubitare in Cielo della nostra fedeltà a Cristo Signore: siamo Cristiani e non sacrificheremo mai agli idoli, agli dei falsi e bugiardi, che altro non sono che demoni oscuri!”.
A quelle parole seguì un frastuono di spade che battevano sugli scudi; col consueto grido di guerra i legionari Tebei si preparavano all’ultima battaglia, quella del martirio; poi deposero le armi e attesero il carnefice. Caddero per primi gli ufficiali, poi venne l’ordine della prima decimazione, a cui seguì una seconda ed infine lo sterminio a colpi di clava dell’intera legione.
Fortunato pregava con gli occhi levati in alto, guardava l’azzurro luminoso che in quel giorno era così simile al suo cielo africano: fra poco sarebbe entrato al cospetto del suo Signore; lui, giovane legionario egiziano, avrebbe ricevuto la corona dei martiri, avrebbe stretto in pugno la palma della vittoria.
Non sappiamo come il corpo di San Fortunato venne trasferito dal luogo del martirio ad Agaunum nelle Alpi svizzere fino a Roma.
Forse lo raccolse e lo custodì un commilitone. Di certo sappiamo che fu venerato nelle catacombe
romane di San Callisto fino al 1746, quando il cardinale Guadagni, vicario di Papa Benedetto XIV per la città di Roma, ne ordinò la riesumazione e l’esposizione nella Collegiata romana di Santa Maria in Via Lata.
Da Santa Maria in Via Lata le reliquie di San Fortunato giunsero a Casei nel 1765, come dono della Santa Sede al Prevosto dell’Insigne Collegiata, ai canonici e alla comunità casellese, tramite il vescovo di Tortona mons. Giuseppe Ludovico de Anduxar.
Non deve meravigliare questo gesto, se si considera che la Parrocchia di Casei, fino al Prevosto don Bianchi agli inizi del 1900, fu di “collazione papale”, cioè il suo parroco era nominato direttamente da Roma con bolla papale e per potervi essere designato un sacerdote doveva esibire un titolo accademico in teologia conseguito presso una facoltà romana, come attesta un documento dell’archivio parrocchiale, datato 1806.
All’epoca della traslazione a Casei di San Fortunato risale la preziosa urna che custodisce le reliquie e in quell’occasione le ossa del capo frantumate (indizio del martirio avvenuto a colpi di clava, come si usava fare presso l’esercito romano in occasione delle decimazioni) vennero inserite nella sagoma in gesso del teschio, poi rivestito con l’elmo.

(Autore: Don Maurizio Ceriani – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Fortunato di Casei, pregate per noi.

*San Giusto - Martire Cagliaritano (Ultima Domenica di Agosto)

Patronato: Patrono di Misilmeri (PA)
Emblema: Palma intrecciata con la Corona
All’inizio del sec. XVII, in Sardegna come a Roma, si sviluppò un’intensa campagna di scavi per portare alla luce i resti dei primi martiri Cristiani. Presso l’Archivio arcivescovile di Cagliari si trovano tre manoscritti che raccolgono gli atti di quei ritrovamenti.
Tra le reliquie trovate, alcune vennero collocate nel “SANTUARIO DEI MARTIRI”, inaugurato il 27 novembre 1618 all’interno della cattedrale di Cagliari, e altre vennero donate a uomini illustri del tempo perché venissero esposte al culto del pubblico. Di S. Giusto, vissuto nell’età paleocristiana non si possiedono notizie relative alla sua vita terrena.
Unica fonte rimangono gli atti notarili del Seicento relativi al ritrovamento della sua sepoltura. Il 26 maggio del 1645, durante gli scavi all’interno della basilica di San Saturnino, a Cagliari, venne ritrovato un sarcofago di pietra con l’epigrafe:
"S. IVSTVS M. ET SOCII". Dopo il ritrovamento, le sacre reliquie, furono donate al Signor Don Giuseppe della Matta, appassionato alle ricerche dei “Cuerpos Santos” (Corpi Santi), il quale le inviò in Sicilia alla nipote Donna Antonia Sagara.
Questa a sua volta le donò a Donna Maddalena Bazan, prima moglie di Don Francesco del Bosco, principe di Cattolica e duca di Misilmeri. Le reliquie furono ereditate da Don Giuseppe del Bosco,figlio di don Francesco, la cui moglie Donna Tommasa del Bosco e Sandoval le donò solennemente a Misilmeri il 17 maggio 1761. Da qui inizia il culto di S. Giusto,che venne dichiarato patrono della cittadina.
Inizialmente le reliquie vennero poste in una cassa lignea argentata con 4 vetri. Si tratta però soltanto di una soluzione sempre provvisoria, per cui nel 1748 venne commissionata la realizzazione di una nuova urna all’ argentiere Palermitano Don Ignazio Richichi. All’interno di questa stessa urna, ancora oggi vengono custodite le reliquie, oggetto di fervida venerazione da parte dei fedeli. La festa di S. Giusto ricorre l’ultima domenica di Agosto.
All’inizio della settimana dedicata ai festeggiamenti, un tempo, sfilavano i cosiddetti “palii” (specie di insegne a forma di colomba indicanti i giorni di festa, ogni tre palii era un giorno di festa), accompagnati dalla banda musicale. Durante i festeggiamenti si svolgevano anche le corse dei cavalli, con l’esibizione di cantanti famosi nella piazza principale del paese.
Nella chiesa madre, durante la festa, le reliquie di San Giusto vengono solennemente esposte sull’altare e si celebra la Santa messa solenne cantata, con la partecipazione delle autorità civili e militari.
Una particolare menzione merita il carro addobbato dove viene collocata l’urna. Al suo passaggio durante la processione, avviene la cosiddetta “volata degli angeli”: due bambini vestiti da angeli, in due balconi situati uno di fronte all’altro e trattenuti in aria da due corde, all’arrivo del santo si posizionano sopra il carro e recitano una poesia. Al termine dei giorni di festa ci sono i giochi pirotecnici eseguiti da ditte locali.
L’iconografia, raffigura il santo in abbigliamento militare,ossia cioè del “MILES CHRISTI”, soldato di Cristo, associando alla divisa militare anche la palma, simbolo del martirio. Qualche pittore più recente ha aggiunto alla palma anche il giglio, simbolo di purezza.
Un particolare importante nelle varie iconografie è la presenza del paesaggio di Misilmeri con il castello Emiro, simbolo del paese, che fa da sfondo alla figura del Santo.
Nell’anno 2000, alla figura di San Giusto e alle circostanze storiche del suo ritrovamento e della sua traslazione in Sicilia, Mauro Dadea, Don Giovani Liotta e Maria Concetta di Natale hanno dedicato un libro, dal titolo: S. GIUSTO MARTIRE PATRONO DI MISILMERI, edito sotto il patrocinio dell’ Amministrazione comunale.
Mauro Dadea, archeologo cagliaritano, ha introdotto il volume con uno studio generale su Cagliari e la Sardegna in età Paleocristiana. Il compianto Don Giovanni Liotta, recentemente scomparso, è stato per tanti anni parroco di Misilmeri facendosi promotore di questa rivalutazione del Santo.
Alle sue ricerche dobbiamo la riscoperta di tutta la documentazione seicentesca relativa al Santo e la prima ricchissima raccolta delle sue varie testimonianze iconografiche.
La professoressa Maria Concetta di Natale, dell’università di Palermo, si è invece occupata dello studio dell’urna argentea settecentesca.
Si tratta di un volume di grande valore, ormai già esaurito, che pertanto si desidererebbe poter vedere presto ristampato.

(Autore: Antonino Cottone - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Giusto, pregate per noi.

*Santa Greca - Vergine e Martire (Ultima Domenica di Settembre)

Emblema: Palma
Il suo nome si trova in un volume della Collettoria del Vaticano, dove sono state registrate le decime da versare alla Santa Sede, raccolte in Sardegna negli anni 1346-1350. La si ricorda, inoltre, in un
testamento di Raimondo, vescovo sulcitano, del 21 gennaio 1359, custodito nell'Archivio Vaticano; ed ancora, in un documento del 1363, conservato nell'Archivio di Stato di Cagliari. Ebbene in questi documenti viene ricordato il "Monastero di santa Greca" esistente in Decimomannu.
E' vero che in questi scritti al nome "Greca" non si trova aggiunta la qualifica di "martire", ma ciò non giustifica affatto la tesi secondo la quale il monastero abbia preso il nome di "Greca" al ricordo di una "Greca"che di tale cenobio era stata "abbadessa" o, comunque, una monaca di singolari virtù, tanto da essere considerata una "santa".
Prova ne sia la scoperta di un documento, stando il quale si viene a sapere che nel 1413 l'arcivescovo di Cagliari Antonio Dexart nominò una nobildonna valenzana abbadessa "in monasterio et ecclesiae sanctae Grecae martyris in villa deDecimo"; ne consegue che la tradizione locale più antica conosceva esplicitamente Greca in qualità di martire.
I monasteri medioevali sorgevano quasi sempre a custodia di sepolture di santi; tanto è vero che i monaci Vittoriani, a partire proprio dall'XI secolo, cercarono di accaparrarsi tutti i principali santuari martoriali della Sardegna meridionale (s. Saturnino a Cagliari, s. Efisio a Nora, s.Antioco nel Sulcis).
Nel tardo medioevo, per motivi sconosciuti, il monastero di s. Greca di Decimomannu fu abbandonato e la chiesa cadde in rovina.
Verso il 1560 l'arcivescovo Antonio Parraguez de Castellejo ordinò che la chiesa fosse restaurata, e durante i lavori tra le macerie fu ritrovata un'epigrafe marmorea contenente il nome di Greca. Per motivi di sicurezza l'epigrafe fu portata in una chiesa vicina. Solo a restauri conclusi, il nuovo arcivescovo Francisco del Val, verso il 1590, ordinò che l'epigrafe fosse riportata nella chiesa da cui proveniva.
Come ho già ricordato, nel 1618 l'arcivescovo Francesco l'Esquivel,riordinando il calendario liturgico della diocesi, sulla base della tradizione e dell'epigrafe, inserì tra le feste dei santi anche quella della "martire Greca".
Nel 1624 il cappuccino Serafino Esquirro, diretto collaboratore di mons. Desquivel, pubblicò il testo dell'epigrafe e annunciò che presto sarebbero stati effettuati gli scavi alla ricerca delle relative reliquie; ma questi lavori di scavo poterono avere inizio solo nel 1633, sotto l'episcopato di mons. Ambrogio Machin de Aquena.
Essendosi scavato l'intero pavimento della Chiesa, si trovò una sola tomba verso il centro dell'aula sul lato sinistro. Si trattava di un cassone in pietra coperto da pesanti lastroni, che conteneva uno scheletro femminile:per esclusione fu ritenuta la tomba di santa Greca.
Le reliquie furono divise in due parti: una fu lasciata a Decimomannu e conservata dell'altare maggiore della chiesa parrocchiale; l'altra fu portata a Cagliari per essere custodita nel "Santuario
dei Martiri", sotto l'altare maggiore della Cattedrale.
Il tempo entro il quale si deve tenere un'omelia non mi permette di entrare nei dettagli (mi auguro che lo si possa fare in altra occasione), tuttavia non voglio tacere su alcuni interventi espliciti della Santa Sede a proposito del culto di santa Greca.
Nel 1882 il suo nome, assieme a tanti altri santi sardi, fu tolto dal Calendario Diocesano per volontà della Sacra Congregazione dei Riti, ma l'anno appresso (1883), la Sacra Congregazione a nome di papa Leone XIII ordinava che nell'elenco delle feste, tra i nomi venerati con culto locale venisse reinserito anche quello di Santa Greca, con la qualifica di martire.Un altro intervento della stessa Sacra Congregazione si ebbe quando, con decreto del 15 maggio 1914, fu estesa a tutta la Sardegna l'ufficiatura dei"Martiri Cagliaritani", tra i quali è ricordata santa Greca.

(Fonte: Dal Discorso di S. E. Mons. Ottorino Pietro Alberti, tenuto il 29 settembre 2001, in occasione della proclamazione di Santa Greca quale Compatrona di Decimomannu)
Giaculatoria - Santa Greca, pregate per noi.

*Madonna dell'Arco (Lunedì dell'Angelo)  

Fra i tanti Santuari che costellano il territorio italiano, dedicati alla Madonna e fra i tanti titoli che le sono stati attribuiti nei secoli, ve n’è uno che la venera sotto il titolo di Madonna dell’Arco.
Il Santuario omonimo e il culto popolare tributatole fa parte dei tre maggiori poli della devozione mariana in Campania: Madonna del Rosario di Pompei, Madonna di Montevergine e Madonna dell’Arco.
L’inizio del culto è legato ad un episodio avvenuto verso la metà del XV secolo; era un lunedì di Pasqua, il giorno della cosiddetta ‘Pasquetta’, cioè la famosa gita fuori porta di una volta e nei pressi di Pomigliano d’Arco, alcuni giovani stavano giocando in un campetto a “palla a maglio”, oggi diremmo a bocce; ai margini del campetto sorgeva un’edicola sulla quale era dipinta una immagine della Madonna con il Bambino Gesù, ma più propriamente era dipinta sotto un arco di acquedotto; da questi archi vengono i nomi di Madonna dell’Arco e Pomigliano d’Arco.
Nello svolgersi del gioco, la palla finiva contro un vecchio tiglio, i cui rami ricoprivano in parte il muro affrescato, il giocatore che aveva sbagliato il colpo, in pratica perse la gara; al colmo dell’ira il giovane riprese la palla e bestemmiando la scagliava violentemente contro l’immagine sacra, colpendola sulla guancia che prese a sanguinare.
La notizia del miracolo si diffuse nella zona, arrivando fino al conte di Sarno, un nobile del luogo, con il compito di ‘giustiziere’; dietro il furore del popolo, il conte imbastì un processo contro il giovane bestemmiatore, condannandolo all’impiccagione.
La sentenza fu subito eseguita e il giovane venne impiccato al tiglio vicino all’edicola, che però due ore dopo ancora con il corpo penzolante, rinsecchì sotto lo sguardo della folla sbigottita.
Questo episodio miracoloso suscitò il culto alla Madonna dell’Arco, che si sparse subito in tutta l’Italia Meridionale; folle di fedeli accorsero verso il luogo del prodigio, per cui fu necessario costruire con le offerte dei fedeli, una cappella per proteggere la sacra immagine dalle intemperie.
Un secolo dopo il 2 aprile 1589, avvenne un secondo episodio prodigioso, era anche questa volta un lunedì dopo Pasqua, ormai consacrato alla festa della Madonna dell’Arco e una donna certa Aurelia Del Prete, che dalla vicina Sant'Anastasia, oggi Comune a cui appartiene la zona di Madonna dell’Arco, si stava recando alla cappella per ringraziare la Madonna, sciogliendo così un voto fatto dal marito, guarito da una grave malattia agli occhi.
Mentre avanzava lentamente nella folla dei fedeli, le scappò di mano un porcellino che aveva acquistato alla fiera, nel cercare di prenderlo, sfuggente fra le gambe della gente, ebbe una reazione inconsulta, giunta davanti alla chiesetta, gettò a terra l’ex voto del marito, lo calpestò maledicendo la sacra immagine, chi l’aveva dipinta e chi la venerava.
La folla inorridì, il marito cercò invano di fermarla, minacciandole la caduta dei piedi, con i quali aveva profanato il voto alla Madonna; le sue parole furono profetiche, la sventurata cominciò ad avere dolori atroci ai piedi che si gonfiavano e annerivano a vista d’occhio.
Nella notte tra il 20 e 21 aprile 1590, notte di venerdì santo, ‘senza più dolore e senza una goccia di sangue’ si staccò di netto un piede e durante il giorno anche l’altro. I piedi furono esposti in una gabbietta di ferro e ancora oggi sono visibili nel Santuario, perché la grande risonanza dell’avvenimento, fece affluire una grande folla di pellegrini, devoti, curiosi, che volevano vederli; con loro arrivarono le offerte, si rese necessario costruire una grande chiesa, di cui fu nominato rettore s. Giovanni Leonardi da parte del papa Clemente VIII.
Il 1° maggio 1593 fu posta la prima pietra dell’attuale Santuario e già dall’anno seguente subentrarono a gestirlo e lo sono tuttora, i padri Domenicani. Il tempio sorse tutto intorno alla cappellina della Madonna, la quale fu anch’essa restaurata ed abbellita con marmi, nel 1621; l’immagine dopo questi lavori, fu in parte coperta da un marmo, per cui per tutto questo tempo e rimasta visibile solo la parte superiore dell’affresco, il mezzo busto della Madonna e del Bambino; recentissimi lavori hanno riportato alla luce e alla venerazione dei fedeli l’intera immagine.
Vari prodigi si sono ripetuti intorno alla sacra effige, che riprese a sanguinare nel 1638 per diversi giorni, nel 1675 la si vide circondata da stelle, fenomeno osservato anche dal papa Benedetto XIII.
Il Santuario raccoglie nelle sue sale e sulle pareti, migliaia di ex voto d’argento, ma soprattutto migliaia di tavolette votive dipinte, rappresentanti i miracoli ricevuti dagli offerenti, che costituiscono oltre la testimonianza della devozione, una interessantissima carrellata storica e di costume dei secoli trascorsi.
Il culto della Madonna dell’Arco è sostenuto da antica devozione popolare, propagata da Associazioni laicali, sparse in tutta la zona campana, ma soprattutto napoletana, i suoi componenti si chiamano ‘battenti’ o ‘fujenti’ cioè coloro che fuggono, corrono; le Compagnie di questi devoti sono dette ‘paranze’ e hanno un’organizzazione con sedi, presidenti, tesorieri, portabandiera e soci.
Hanno bandiere, labari, vestono di bianco, uomini, donne e bambini, con una fascia rossa e blu a tracolla, che li caratterizza. Organizzano pellegrinaggi, di solito il lunedì dell’Angelo, che partendo dai vari luoghi dove hanno sede, portano dei simulacri a spalla abbastanza grandi da impiegare trenta, quaranta uomini e sempre tutti a piedi e a volta di corsa, percorrono molti km per convergere al Santuario, molti sono a piedi nudi; lungo la strada si raccolgono offerte per il Santuario, cosa che fanno già da un paio di mesi prima, girando a gruppi con bandiere, banda musicale e vestiti devozionali per i rioni, quartieri e strade di città e paesi.
Ma se il Santuario con l’annesso grandioso convento dei Domenicani è il centro del culto, in molte strade ed angoli di Napoli e dei paesi campani, sono sorte cappelline, edicole, chiese dedicate alla Madonna dell’Arco, che ognuno si fa carico di custodire, accudire e abbellire, così da continuare la devozione tutto l’anno e vicino alla propria casa.

(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

*Sant'Olivo - Martire, Venerato a Carpignano Sesia (IV Domenica di Aprile)

La reliquia del corpo di Olivo giunse nel paese di Carpignano Sesia nel 1614 procurata al paese della pianura novarese dal gesuita padre Domizio Piatti, appartenente alla famiglia feudataria del luogo.
Egli aveva ottenuto i resti di Olivo e altre reliquie, tra cui i teschi di Pelbonia e Fortuno (Fortunato), a Roma, dove erano state recuperate dalla catacomba di Priscilla sulla Salaria.
Il corpo santo venne collocato all’interno della chiesa parrocchiale, in una nicchia appositamente realizzata sopra l’altare di San Carlo, là si trovava il 5 novembre 1645, quando il borgo di Carpignano venne saccheggiato dalle truppe francesi.
In quell’occasione si verificò un fatto che, agli occhi della popolazione, ebbe del miracoloso ed accrebbe notevolmente la devozione locale nei confronti di Olivo, come testimonia il racconto redatto dall’allora parroco del posto don Giovanni Francesco Soglio: “I francesi il 5 novembre 1645 hanno saccheggiato la casa parrocchiale con ogni sorta di maltrattamenti alla popolazione ed
incredibile danneggiamento e disprezzo delle cose sacre, ed anche nessun riguardo per le Sante Reliquie di Sant’Olivo e di altri santi, che se non fossero state miracolosamente difese avrebbero asportato e distrutto. Per dir tutto in breve, cosa degna di essere ricordata, quando già avevano alzato le scuri per spezzare le urne in cui le reliquie si conservavano, apertesi queste da sé, furono accecati in modo tale, come attestarono gli stessi ufficiali, da non potersi ritirare che rispettandole. Io Giò F. Soglio altro curato ho scritto questo a gloria di Dio e per memoria del fatto.”
Soltanto però nel 1802 si giunse a comporre i resti del presunto martire in una figura umana e a sistemarli in un’urna, opera dell’intagliatore milanese Luigi Zuccoli; il desiderio della comunità era quello di realizzare una nuova e più grande cappella per contenere la reliquia di Olivo, l’altare infatti, pur rinnovato a metà settecento, con l’esecuzione da parte del pittore milanese Francesco Bianchi di una grande tela, era giudicato inadeguato.
Per tutto l’ottocento si susseguirono progetti e sforzi per concretizzare l’idea di un nuovo scurolo e finalmente, nel 1900, la costruzione, realizzata dietro la cappella del Rosario, fu inaugurata; nel 1910 si sostituì l’urna ottocentesca con quella attuale ed in essa fu ricomposto il simulacro del Santo.
Inizialmente il culto di Olivo era celebrato indistintamente con quello delle altre reliquie al martedì dopo Pasqua, quando si portavano in processione le cassette lignee che le contenevano. Successivamente, quando ad Olivo si attribuì il ruolo di compatrono del paese, s’iniziò a celebrare una festa particolare in suo onore: la data venne fissata prima alla quarta domenica di luglio, poi dal 1806 anticipata alla quarta di maggio ed infine dal 1940, per motivi legati ai lavori agricoli della popolazione, fissata alla quarta domenica di aprile.
Accanto alla celebrazione annuale, il paese ha dedicato al suo compatrono grandi festeggiamenti a scadenza periodica: il primo documentato risale al 1676 e per l’occasione Papa Clemente X concesse ai partecipanti l’indulgenza plenaria, successivamente si registrano quelli del 1802, per l’inaugurazione della nuova urna e quella del 1928, che diede origine alla scadenza venticinquennale rispettata nel 1954 e nel 1979, occasioni di grandi manifestazioni religiose e folcloristiche di vasta risonanza, mentre sono già in fase di programmazione i festeggiamenti previsti per il 2004.

(Autore: Damiano Pomi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Olivo, pregate per noi

*Sant'Orsa, Vergine e Martire, Venerata a Pieve Vergonte (Ultima Domenica di ottobre e 26 ottobre)

Patronato: Ossola
Il nome di Orsa (nella variante Ursa) viene menzionato in alcune versioni dei Martirologi all’interno di un gruppo di martiri orientali, precisamente di Nicomedia: Luciano, Marciano, Floro, Eraclio ecc., vittime della persecuzione di Decio (249-251), condannati a morte per ordine del proconsole Sabino un 26 ottobre, giorno in cui i santi sono ricordati.
Secondo la tradizione esistente a Pieve Vergonte, popoloso centro dell’Ossola, la cui parrocchia fu una delle prime chiese dell’intera vallata, le reliquie della Santa sarebbero state trasferite, fin dall’epoca del suo martirio, nel complesso cimiteriale di Priscilla a Roma.
In quella catacomba rimasero fino al 1715 quando, estratte dal loculo che le conteneva, vennero destinate alla venerazione dei fedeli.
Attraverso una lunga serie di passaggi, i resti della giovane martire pervennero alla parrocchia dei Santi Vincenzo e Anastasio di Pieve Vergante come dono della nobile famiglia Cattaneo di Vogogna, come documenta un atto notarile del 4 dicembre 1732.
Ottenuta l’autorizzazione del vescovo di Novara Gilberto Borromeo, il corpo di Sant’Orsa venne esposto alla venerazione, ma soltanto nel 1741 collocato nell’elegante urna in cui ancor oggi è visibile.
Per l’inaugurazione della pregevole opera, realizzata a Milano da Giovanni Antonio Ferreri, si svolsero solenni festeggiamenti il 23 ottobre dello stesso anno, con un grande concorso di devoti da ogni parte dell’Ossola, che contribuirono ad accrescere nei vari paesi la devozione verso la Santa.
Nel 1879, caso più unico che raro nel culto dei corpi santi estratti dalle catacombe romane, la Sacra Congregazione dei Riti concesse alla comunità di Pieve l’ufficio e la liturgia propria della Messa per la celebrazione della festa annuale, nell’ultima domenica di ottobre.
La motivazione di tale concessione risiedeva nel fatto che le reliquie, recuperate a Roma, vennero effettivamente ritenute appartenenti alla santa martire di Nicomedia citata nelle fonti agiografiche e che dunque poteva vantare una certa qual storicità.
Dubbi su questa identificazione tuttavia sussistono, in particolare per quanto riguarda la supposta traslazione dalla città asiatica alla catacomba di Priscilla, non ricordata da alcuna fonte storica.
L’unico elemento che avrebbe potuto fare chiarezza in merito era l’epigrafe posta a chiusura del loculo che conteneva le ossa della santa, purtroppo andata perduta e della quale fino ad ora non se ne conosce una trascrizione.
A prescindere da questa possibile identificazione, Sant’Orsa è tutt’oggi oggetto di un sentito culto popolare: oltre ad essere stata proclamata patrona delle valli ossolane, è particolarmente invocata come protettrice dei bambini, la cui benedizione si svolge in occasione della festa annuale.
Attualmente l’urna di Sant’Orsa, sormontata da un angelo recante corona e palma simboli del martirio, è conservata in uno scurolo sopraelevato che si apre sulla navata destra della chiesa, terminato con elegante forma nel 1898.
(Autore: Damiano Pomi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Orsa, pregate per noi.

*San Primo - Martire (II Domenica di Agosto)

Difficile stabilire con precisione la famiglia a cui apparteneva.
Si ha solo la certezza del nome e dell’età: quattro anni e otto mesi.
Si presume che fosse figlio dei Santi Claudio e Prepedigna, nipote si San Massimo e fratello di Sant’Alessandro e Sant’Aguzio, ma non vi sono di prove certe.
Venne martirizzato ai tempi dell’Imperatore Diocleaziano con lo scopo di indurre la famiglia presente al martirio, a rinunciare alla propria fede.  Nel paese di Casabasciana, sulle colline della Val di Lima lucchese, si venerano da ormai 170 anni le
spoglie mortali di San Primo Martire.
Il Corpo, custodito in un’urna nella Pieve di San Quirico e Giulitta, venne rivenuto il 28 dicembre 1831, a Roma nelle catacombe di Sant’ Ippolito, situate nell’agro di Santa Ciriaca presso il Campo Verano, durante i lavori di sistemazione.
In quella circostanza, infatti, si rivenne il corpicciolo di San Primo, martire, e con esso un vaso di vetro che ne contiene il sangue; e inoltre una lapide con il nome e l’età di lui, di anni quattro e otto mesi.
Le preziose reliquie sono subito trasportate al Vicariato di Roma, in Sant’Apollinare e qui vengono custodite.
Il Padre gesuita Silvestro Iacopucci, ebbe il desiderio di portare i resti del piccolo martire a Casabasciana, sua terra natale, ed inizia le pratiche burocratiche interrotte dalla sua morte prematura.
Suo fratello Padre Carlo Antonio anch’egli Gesuita, abbraccia il progetto di Padre Silvestro e ottiene il permesso da Papa Gregorio XVI di trasportare le spoglie di San Primo con il vaso del suo sangue nella natia Casabasciana dove giungono il giorno di Pentecoste del 1833.
Papa Gregorio XVI fissò la data della sua festa alla II Domenica di agosto.

(Autore: Bruno Micheletti - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Primo, pregate per noi.

*Santa Sperandea (Sperandia) - Religiosa/Benedettina - (I Domenica di Settembre e 11 Settembre)

Gubbio, 1216 - 11 settembre 1276
La vita di Santa Sperandia è da inserirsi, nel movimento del beghinismo femminile, ortodosso, che nel secolo XIII era largamente diffuso nell'Italia centrale. Il movimento era formato da donne pie e religiose che, pur restando nel mondo, dedicavano lo loro vita ad atti di pietà e di carità cristiana, pellegrinando di luogo in luogo fino a che non si riunivano sotto la guida dei principali ordini monastici.
Così fu anche per Santa Sperandia che solo alla fine della sua vita si ritirò nel monastero delle benedettine di Cingoli.

Etimologia: Sperandia = Spera in Dio
Sperandia nacque a Gubbio, in Umbria, si presume intorno al 1216 e morì nell'anno 1276. Visse, quindi, in un periodo ed in una regione in cui l'ideale di povertà evangelica proposto da S. Francesco attirava una miriade di proseliti.
All'età di nove anni a S. Sperandia apparve Gesù che le rivelò che doveva spogliarsi delle sue vesti e fare penitenza. Lo spogliarsi delle vesti indicava il distacco dei beni materiali per una scelta totale di quelli spirituali.
La Santa si rivestì di una ispida pelle di maiale, con un cintura di ferro ai fianchi e si allontanò dalla famiglia per seguire la chiamata del Signore. Tutta la vita di Santa Sperandia fu pervasa da un'ansia profonda di preghiera e soprattutto dalla meditazione della Passione di Cristo. Tale meditazione fu spesso preludio di estasi e visioni allegoriche, specialmente nel giorno del Venerdì santo.
La preghiera era anche accompagnata da un'aspra vita penitenziale, fatta di astinenze e lunghi digiuni quaresimali. L'ultima quaresima della sua vita la santa la trascorse nel territorio di Cingoli, al "Sasso di Citona", luogo oggi chiamato "Grotte di santa Sperandia". Sperandia trascorse al
freddo quei quaranta giorni della quaresima di San Martino, senza tunica, a capo scoperto e a piedi nudi, chiusa in una capanna di stuoie.
Ad un'anima così eletta il Signore non negò il carisma dei miracoli, che attrasse verso la santa, sia durante la vita che dopo la morte, una moltitudine di devoti. Con il segno della croce, la santa operava prodigi, con particolare predilezione verso i fanciulli infermi, le donne sterili e i carcerati. Un altro tratto della sua vocazione, fu la carità verso i poveri, ai quali rivolgeva parole fervide di fede e di speranza, come le seguenti: "il Signore provvederà", "confida nel Signore", etc.
La santa veniva anche chiamata a dirimere le discordie fra città o anche all'interno della stessa città fra le diverse fazioni dei guelfi e ghibellini. Sperandia fu, inoltre, una Santa itinerante, dall'inizio della sua vocazione fin verso gli ultimi tempi della sua vita. Ella , come molti santi e religiosi del Medioevo, intendeva imitare Cristo, itinerante per le contrade della Palestina, il quale disse: "gli uccelli dell'aria hanno i propri nidi, le volpi le proprie tane, ma il Figlio dell'uomo non ha dove riporre il capo".
Tale imitazione voleva anche sensibilmente testimoniare ai fedeli il radicale distacco dai beni terreni. La vita peregrinante permetteva a Santa Sperandia e ad altri come lei di transitare in numerose città e borghi e di edificare i cristiani con la parola, con l'esempio e con i prodigi. Santa Sperandia visitò Roma, Spoleto, Gubbio, Recanati, Fossato di Vico, Fabriano, Cagli e la tradizione la vuole anche pellegrina in Terra Santa. Dopo lunghe peregrinazioni, la santa stabilì la sua dimora a Cingoli, vestendo l'abito di San Benedetto nel Monastero di San Michele. A motivo della sua santità ed autorità, venne anche eletta all'ufficio di abbadessa.
La tradizione tramanda anche il celebre miracolo delle ciliegie. Nel mese di gennaio la santa aveva chiamato alcuni muratori per il restauro e l'ampliamento del monastero. Preparò loro da mangiare e a fine pasto chiese loro se avessero avuto bisogno di qualcos'altro.
I muratori, presi da spirito goliardico, risposero che avrebbero gradito delle ciliegie fresche. La santa, dopo aver fatto ricorso alla preghiera, vide apparirgli un angelo in atto di porgerle un cesto di ciliegie. Santa Sperandia le portò ai muratori, i quali sbalorditi per il prodigio, si gettarono ai suoi piedi, chiedendole perdono per l'insulsa ed irriverente beffa. Santa Sperandia morì l'11 settembre 1276.
La sua sepoltura divenne subito meta di pellegrinaggi e luogo di grazie e di miracoli. Il suo corpo incorrotto è esposto alla venerazione dei fedeli nel monastero benedettino propriamente detto di santa Sperandia a Cingoli.

(Autore: Elisabetta Nardi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Sperandea, pregate per noi.

*Beata Vergine Maria di San Luca (Giovedì della VI settimana di Pasqua)

Patronato: Patrona della città e della diocesi di Bologna
La venerazione verso la Madonna di San Luca, con il culto del vescovo S. Petronio, costituisce un dato caratterizzante la città e diocesi di Bologna.
Questo vincolo di grazia e benedizione, iniziato con la fondazione della chiesa sul Monte della
Guardia nel 1194, ebbe una storica conferma allorchè durante l'episcopato del Beato Nicolò Albergati, il 4 luglio 1433, la venerata immagine scese per la prima volta dal Colle della Guardia per liberare la città dalle piogge diluviali.
Dal 1476 la visita della B. Vergine si verifica con cadenza annuale nei giorni delle Rogazioni antecedenti l'Ascensione.
Ogni evento, triste e lieto, della storia di Bologna si riflette su questa immagine dolce e austera, che appartiene al modello della Hodigitria, cioè di Colei che indica la Via.
Maria sembra ripetere ai Bolognesi le parole pronunciate a Cana: "Fate quello che Egli vi dirà" (cfr. Gv 2,5).
La Madonna di San Luca, incoronata dall'arcivescovo Alfonso Paleotti nel 1603, ricevette un prezioso regale diadema per le mani di Pio IX il 10 giugno 1857 nel corso del viaggio alle Legazioni Pontificie.

(Autore: Damiano Pomi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Vergine Maria di San Luca, intercedete per noi

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