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Opere d'Arte nel Santuario

Il Santuario > Pompei tra Cronaca e Storia
Pel giorno di Domenica prossima ventura, si vedrà scoperta e compiuta in tutta la massima eleganza dell’arte moderna. La Cona del Santuario di Pompei, lavoro di un anno intero di studio, di pazienza, di genio e di gusto dell’Architetto Giovanni Rispoli di Napoli. Le pitture e decorazioni sono del celebre artista anche Napoletano, Cav. Vincenzo Poliotti, il quale questa volta ha fatto un’opera veramente impareggiabile.
Dobbiamo confessare ad onor del vero, che in questo nuovo lavoro della Cona od Assida, che ha assorbito un anno intero di palpiti, di concitamenti, di fastidi, di assidue fatiche, e talvolta di pentimenti e poi di novelle risoluzioni, tutti, artisti ed operai, pittori e incisori, stuccatori e doratori, han superato sé stessi. Noi non vogliamo prevenire il giudizio del pubblico, che di certo interverrà numeroso in questo e nel venturo mese ad ammirare il frutto dell’arte Cristiana Napoletana, la quale terrà fronte, fin da ora prevediamo, superba e vittoriosa sull’arte pagana antica, che signoreggia la famosa e distrutta Pompei.
Questo nostro ideale, che a taluni, secondo l’umano senso, sembrava follia, di erigere cioè un monumento di arte cristiana rimpetto ai monumenti dell’arte pagana in Pompei, è stato da Dio benedetto, e sostenuto ed attuato per mezzo di prodigi.
Sì, oggi siamo nel grado d’invitare alla Valle di Pompei tutti gl’increduli, gli spiriti forti e tutti i razionalisti moderni, e mostrare loro la potenza della fede cattolica, l’intervento del soprannaturale nelle azioni degli uomini.
Ma il maggior prodigio, il più evidente anche agli occhi più ciechi, si è questo, che in dieci anni abbiamo mutato una deserta campagna in un centro popoloso di vita e di arte, dove più di cento famiglie vivono ogni giorno del lavoro che loro noi apprestiamo; e dove regnava l’abbandono, l’ignoranza e l’abbruttimento, oggi, dopo dieci anni, fiorisce una Tipografia editrice, che non è al certo una delle infime d’Italia, una ligatoria, una sala di lavoro per le fanciulle, un asilo infantile, un orfanotrofio nascente, una scuola serotina, l’ufficio della Regia Posta, una piccola Stazione di ferrovia, e fra poco anche il telegrafo.
E là, dove cresceva l’ortica e si coltivava l’umile patata, oggi dopo soli 10 anni si vede sorto gigante un momento cattolico, che forse non ha l’uguale in molte delle prime città italiane. E per questo monumento abbiamo pagato sin oggi oltre a duecentomila lire!
- È miracolo questo o no?
Se voi dite di no, e noi togliendo da S. Agostino l’argomento contro coloro che negano il cristianesimo essere opera divina, vi rispondiamo: - È ben questo il più gran miracolo, cioè che un secolare, ignoto, forestiero, appartenente ad una estrema provincia d’Italia, senza raccomandazioni di Principi, senza l’appoggio di Ministeri o di Municipi, senza titoli o autorità di sorta, tranne il titolo di avvocato, che per i più suona contrario a fiducia religiosa, abbia, in tempi di incredulità e di poca fede e di miseria quasi universale, eretto un Tempio Cattolico, che sfolgoreggia per l’oro e per le decorazioni dell’arte; - e dove? – in un’aperta e solitaria campagna, in mezzo ai poveri ed abbandonati contadini. – E per mezzo di chi? – per le oblazioni spontanee di migliaia di persone lontane, che senza conoscerlo, senza aver nulla veduto, senza domandare alcuna cosa, senza speranza di alcun guiderdone, mandano il loro danaro notificando che ciò fanno per avere ottenuto miracoli.
Ora chi è così pazzo, che si spogli del proprio denaro, assicurando di avere avuto un miracolo, che non è vero= E chi sono tutte queste persone lontane che attestano prodigi e mandano il proprio denaro? Sono forse le femminucce, o la gente del volgo? Sono forse i preti soltanto e i papalini? – No – Sono letterati ed avvocati, artisti e militari, Principi e Cardinali, Deputati e Senatori, liberali e perfino liberi pensatori. Se un giorno ci sarà dato di scrivere tutta la Storia di questo Santuario, allora si farà gran luce.
Ora chi ispira a persone così alte e lontane tanta fiducia di mandare il loro denaro a quest’omiciattolo ignoto, a quel meschino secolare e avvocato, senza conoscerlo e senza sapere con certezza che il loro denaro è ben speso?
Oh, solamente un prodigio di Dio può mettere nei cuori umani tanta fiducia! Né può essere cagione movente la vana gloria (che entra da per tutto, anche nelle azioni più santa) poiché moltissimi mandano le offerte e non vogliono pure essere nominati!
Oh, nel giorno del giudizio, quando si aprirà l’immenso sipario, che copre la sterminata scena di questo mondo, e si vedranno al nudo tutte le coscienze degli uomini, oh, come resteremo stupefatti nel vedere che tanti, che noi oggi reputiamo intemerati, giusti e pii, staranno a sinistra del gran Giudice Eterno, condannati alla geenna eternale, perché la loro vita è stata una continua ipocrisia; e tanti altri che noi reputiamo atei, liberali, liberi pensatori, staranno a destra, salvati dalla protezione della Madre della Misericordia, dalla regina che ha suo trono in Pompei!
Il popolo che noi reputiamo eletto, sarà forse riprovato: vengono invece a Pompei dall’Oriente e dall’Occidente peccatori pentiti, ed ai piedi del soglio della Regina di Clemenza rinverranno il perdono.
- È miracolo questo? – Se voi dite di no, e noi sfidiamo tutti gli avvocati del mondo e gli uomini più grandi ed insigni ad inventare, se possono, tanti ritrovati e tanti spedienti da far tutto questo senza un miracolo.
Oh! che qui accade ripetere le nobili parole, che ieri o l’altro una dama Napoletana, nota per virtù di madre e per santità di vita, la Marchesa Amati Imperiali, pronunziava enfaticamente alla vista della Cupola e dell’assida compiuta in questo Santuario. “Chi non ha fede, elle esclamava, venga qui. Qui, intorno al cornicione di questa cupola, tra la bellezza di quei colori e lo splendore di quell’oro, ogni occhio volgare vi legge: “Digitus Dei est hic”: - Qui è la mano onnipotente di Dio”.
Sì, lo ripetiamo, l’Opera di Pompei non è opera d’uomo, e tanto meno è opera nostra, giacché noi troppo conosciamo noi stessi.
Adunque, o Fratelli e Sorelle del Rosario, con l’animo commosso da spirituale letizia, che ben ci ripaga di tutti gli affanni e delle fatiche e dei dolori di un anno, noi vi invitiamo in questo mese a visitare la nostra Regina, che siede benefica e clemente a quel posto dove nel venturo Maggio Le erigeremo un trono.
Venite, noi ora vi diremo col Profeta Reale: “Venite et videte opera Domini, quae posuit prodigia supe terram”. (Venite e vedete le opere del Signore, e i prodigi da lui fatti sopra la terra di Pompei).
Per i fratelli lontani, che non verranno qui a visitare la nostra Regina sul luogo dei suoi prodigi, faremo una descrizione della Cona nel venturo quaderno di novembre.
(Autore: Bartolo Longo – 1885)
8 Dicembre 1884, è giunto l’istante fortunato in cui tutti dobbiamo porre la nostra pietra per erigere l’Altare Maggiore del Santuario di Pompei, e dietro di esso la gran macchina di marmo su cui verrà collocata la prodigiosa Effigie, Ci vorrà del tempo, ci vorranno pure delle forti somme; forse novelli assalti noi sosterremo dagli avversari di questo Tempio; ma gli splendidi trionfi che Maria ha conseguiti in questo anno 1884, ci sono di forte guarentigia d’inaspettati e di più gloriosi risultati.
Chi sente il cuore balzargli d’insolito affetto all’udire il nome di Maria Regina in Pompei, si faccia Promotore e Zelatore della più grande Opera che si compirà in questo Tempio, cioè l’Altare e il Trono della Regina delle Vittorie. L’offerta ed il concorso di ciascuno dev’essere spontaneo e diviso dall’associazione al Nuovo Tempio.
Nel giorno destinato dai decreti di Dio, che sorriderà di nuova luce di grazia ai figli del Rosario in questa Valle dei prodigi, in quel giorno in cui si benedirà l’Altare, e sul suo Trono verrà collocata la regina delle Misericordie; oh, in quel giorno stesso tutti i nomi di ciascuna persona che avrà mandato un obolo qualsiasi per l’Altare e per il Trono della prodigiosa Vergine di Pompei, verranno rinchiusi in un gran cuore di argento. E questo cuore resterà perennemente ai piedi del soglio della Gran Regina, sostenuto da un angelo, che elevando le sue braccia, presenterà quel cuore con tutti i nomi che esso racchiude alla Sovrana dell’Universo. Simbolo dell’offerta dei cuori dei figli alla propria Madre.
E su quel cuore di argento arderà perennemente una lampada, simbolo dell’amore ardente verso Maria di tutti coloro i cui nomi si troveranno lì dentro scritti; i quali hanno concorso all’erezione del Tabernacolo e dell’Altare del Rosario, guidati da ferma speranza che il loro amore manifestato nel tempo nel tempo perduri inestinguibile per tutta l’eternità.
*Descrizione del Trono e dell'Altare - Maggio 1885
Altare e Trono da dedicarsi alla Vergine SS. del Rosario nel suo nuovo Tempio in Valle di Pompei
Fatto di pianta e terminato di rustico il Tempio della SS. Vergine del Rosario, bene avviate di già le magnifiche decorazioni dello stesso, il primo pensiero, dopo un periodo di lungo e penoso lavoro, si è rivolto all’altare di nostra Signora ed al Trono, su cui Ella siederà come Regina di Misericordia: Trono, che formar dovrà il più perfetto gioiello, che sarà consacrato alla Madre nostra dolcissima.
Ed oggi, che dopo sei mesi di studio il disegno del nostro Architetto Rispoli è compiuto, per soddisfazione nostra e per letizia spirituale di tanti generosi che mandano le loro offerte per l’erezione del Trono e dell’Altare della nostra Regina, ci è grato dare una particolareggiata descrizione di questa parte importantissima dell’Opera nostra, ed ora ci facciamo pregio di presentare cotal disegno.
Il lavoro si comporrà di due parti al tutto distinte, staccate l’una dall’altra; ma in complesso formar dovranno un sol tutto. L’Altare ed il Tabernacolo della Vergine, ecco le due parti. La difficoltà di conciliare questi due concetti di somma importanza, senza far servire l’uno all’altro, è stata grandissima. Alle incontrovertibili ragioni di rito si opponevano anche validissime ragioni di arte, e ci trovavamo di fronte ad un problema complesso, il quale offriva un campo di incognite, di cui l’una si risolveva a pregiudizio dell’altra.
Però la ferma volontà di conseguire lo scopo non ci ha fatto perdere d’animo. Non dissimuliamo che il concepire un lavoro di simil fatta, e coordinarlo strettamente alle esigenze del culto, e non derogare alle rigide leggi di estetica e del bello artistico, ci ha fatto trepidare non poco e meditare di continuo nello svolgimento del concetto, al quale abbiamo già dato una plastica esecuzione con un rigoroso disegno e con un rilievo in grosso ridotto al decimo del vero.
Chi ha avuto agio di vedere questo rilievo, esposto nei mesi di Ottobre e di Novembre ultimi, ci ha confortato col suo giudizio. Ma oggi siamo assai lieti di poterne presentare il disegno a tutti, anche a quelli che si trovano lontani, i quali senza vederne il modello, con una fiducia veramente eroica, sono stati solleciti di mandare le loro generose offerte rimettendosi a noi.
Come dicevamo, l’Altare forma sistema da sé, e il concetto informatore è stato ispirato sui monumentali altari delle grandiosi Chiese di Roma. Il principio fondamentale che ci ha guidati è stato sempre la Rubrica, e quella stupenda semplicità grave e maestosa dell’Altare romano, in cui signoreggia lo stile corretto a preferenza del materiale prezioso o almeno raro.
Con tre ampi scalini di granito del Sempione si impiana la predella. La larga e spaziosa mensa è sorretta da quattro colonne di uno spiccato marmo rosso con capitelli di bronzo dorato.
Il fondo della sotto mensa è ornato con marmi rari e con una croce a bronzo dorato. La mensa sarà vuota nella parte sottostante, e verrà ricacciato da un massello di marmo bigio.
Fiancheggeranno la mensa le due ali dell’altare, ricche per scelti marmi e partito di fondati e di risalti, da creare un giusto movimento di linee che inquadrano buona scultura.
Dalla mensa in sopra vi saranno due scalini per i candelieri. Il primo bassissimo, ed il secondo raggiungerà appena l’altezza di centimetri 50.
Il lato destro e quello sinistro dei due scalini assortiti con marmi rari e di valore, avranno ognuno una disposizione tale architettonica, che i tre candelieri grandi, da collocarsi per ogni lato, sormontino un dado che fa da base, nel fronte del quale per ognuno verrà una testa di Cherubino a bronzo dorato, inquadrato in calotta di bronzo con patina antica. Fra i tre dadi nasceranno due rincassi per i due candelieri piccoli. Gli scalini nella parte centrale sono discontinui, e nel mezzo della mensa, fra i cennati scalini, si ergerà un maestoso Ciborio.
Esso avrà una forma di “panteon”, riccamente adorno di pietre preziose e istoriato con bronzi cesellati e dorati. Si è inteso così di esprimere il concetto vero della Custodia, che deve raffigurare la sacra “Pisside”, la quale custodendo gelosamente il Corpo santissimo di nostro Signore viene per riverenza preziosamente vestita.
La specialità del nostro Altare sta appunto nella spaziosa mensa e nella mancanza dei capi altari, cose che gl’improntano un tipo tutto proprio.
A ridosso della Custodia, che viene isolata completamente, si eleverà un dado sino a raggiungere il piano superiore degli altri scalini, e su di esso verrà collocata la croce.
Tralasciamo di enumerare i nomi dei marmi da impiegarsi per non imbarazzare chi legge in un linguaggio troppo tecnico.
Il gran Tabernacolo della Vergine SS. si ergerà a ridosso dell’Altare scostandosene di un metro, in modo da formare un corpo tutto a sé, e non menomare punto la maestà dell’Altare, il quale conserverà completamente la sua autonoma dignità.
Due grandi pilastri sorreggeranno il gran ripiano dove poggerà la macchina architettonica. Tali pilastri decorati in rivestimento di scelti marmi a colore, lasceranno uno spazio fra essi, ed in modo da fare intravedere la decorazione delle prospere e degli stalli del dietrostante Coro. La parte alta dei pilastri è cinta ad un gran festone di alloro scolpito in fino marmo di Carrara.
Il gran ripiano è garantito da una bassa barriera di serti e corone, e nel fronte principale è intermezzato da 5 grandi angeli di grandezza quasi eguale al vero, i quali sorreggono in alto ognuno un Cuore in cui resteranno perennemente chiusi i nomi di tutti i prediletti figliuolo di Maria che hanno concorso ad innalzarle il Trono. In cima di ogni cuore arderà perennemente una lampada, simbolo della fede e dell’amore di quei generosi, i cui nomi sono lì dentro racchiusi come in un’arca di salvezza. Questa parte verrà eseguita da valente artista, in bronzo patinato. Dal modello possiamo argomentare, senza tema di errare, che tale cinta ai piedi del Tabernacolo risulterà di un effetto meraviglioso e senza riscontro in altri lavori di tal fatta.
Il Tabernacolo avrà un imbasamento, che sorregge quattro belle colonne a marmi colorati a contrasto di tinte, con capitelli e basi di bronzo dorato: ed una trabeazione di fino ordine corintio, di scelti marmi e vagamente intagliati, ispirandosi nel più bello antico, sormonterà le quattro colonne. Sulla trabeazione vi sarà un frontone coronato da un terminato, nel quale in un cerchio di Cherubini sarà letto il monogramma di Maria.
Le quattro colonne, due da un lato, due dall’altro lasceranno uno spazio nel mezzo che costituirà la parte preziosa del monumento, che esser deve la sede della regina del Rosario.
La prodigiosa Immagine verrà inquadrata in una grande piastra di rame, cesellata ed a sbalzo, del più scelto gusto, e dorata o bronzata secondo il bisogno. In tale piastra, fra serti di fiori, di allori, di cherubini, e di svolazzi saranno incastonati quindici quadretti circolari rappresentanti “i quindici Misteri del Rosario”.
Quale sarà la nostra cura in tale parte speciale del Tabernacolo, lo potrete giudicare dal risultamento; ed abbiamo fede nel patrocinio della nostra potente Regina, che raggiungeremo lo scopo prefissoci.

(Autore: Bartolo Longo - 1885)

*12 Settembre 2023 - Dedicazione del nuovo Altare
L’Arcivescovo Tommaso Caputo ha presieduto, il 12 settembre, la celebrazione di Dedicazione della mensa eucaristica di marmo che lascia ora emergere, in tutto il suo splendore, il mosaico dell’Agnello dell’Apocalisse, posto, per volontà del Beato Bartolo Longo, al di sotto dell’antico Altare. Sul frontale del nuovo Altare, inoltre, sono state incise le parole “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. Durante il rito, il Prelato ha posto, all’interno di una delle otto colonne che sorreggono la sacra mensa, le reliquie del Fondatore, di San Ludovico da Casoria e di Santa Caterina Volpicelli
Il 12 settembre 2023, Memoria del Santissimo Nome di Maria, la comunità pompeiana si è radunata attorno alla mensa eucaristica per la solenne celebrazione di Dedicazione del nuovo Altare del Santuario, presieduta dall’Arcivescovo della Città mariana, Monsignor Tommaso Caputo. Grazie alla nuova disposizione, si può ora ammirare meglio lo splendido mosaico, voluto dal Beato Bartolo Longo, al di sotto dell’antico Altare, raffigurante l’Agnello dell’Apocalisse in trono, simbolo di Cristo risorto, che regna vincitore, perché col sacrificio della croce ha redento e salvato l’umanità.
Egli ha con sé “il libro della vita con i sette sigilli”, e rivela il senso di tutta la storia, dell’umanità nel suo insieme e del singolo uomo. Sul frontale del nuovo Altare, inoltre, sono state incise le parole “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. I marmi e l’assemblaggio dell’Altare, frutto di un lavoro sinergico che si è avvalso della collaborazione del Professor Saverio Carillo del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, sono un dono dell’impresa di famiglia dell’Architetto Giuseppe Gargiulo di Santa Maria La Carità (NA), che ha anche commissionato la preparazione dell’opera presso una nota azienda di San Gennaro Vesuviano (NA).
Il marmo della mensa, di colore grigio cinerino, proviene dalla cava Maiellaro di Mercato San Severino (SA). Le otto colonne e i quattro candelieri sono di marmo rosso alicante estratto da una cava dei Pirenei spagnoli. I capitelli e le basi in bronzo sono stati realizzati da una vita con i sette sigilli”, e rivela il senso di tutta la storia, dell’umanità nel suo insieme e del singolo uomo. Sul frontale del nuovo Altare, inoltre, sono state incise le parole “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”.
I marmi e l’assemblaggio dell’Altare, frutto di un lavoro sinergico che si è avvalso della collaborazione del Professor Saverio Carillo del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, sono un dono dell’impresa di famiglia dell’Architetto Giuseppe Gargiulo di Santa Maria La Carità (NA), che ha anche commissionato la preparazione dell’opera presso una nota azienda di San Gennaro Vesuviano (NA). Il marmo della mensa, di colore grigio cinerino, proviene dalla cava Maiellaro di Mercato San Severino (SA). Le otto colonne e i quattro candelieri sono di marmo rosso alicante estratto da una cava dei Pirenei spagnoli.
I capitelli e le basi in bronzo sono stati realizzati da una Il rito La dedicazione del nuovo Altare L’Arcivescovo Tommaso Caputo ha presieduto, il 12 settembre, la celebrazione di Dedicazione della mensa eucaristica di marmo che lascia ora emergere, in tutto il suo splendore, il mosaico dell’Agnello dell’Apocalisse, posto, per volontà del Beato Bartolo Longo, al di sotto dell’antico Altare. Sul frontale del nuovo Altare, inoltre, sono state incise le parole “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. Durante il rito, il Prelato ha posto, all’interno di una delle otto colonne che sorreggono la sacra mensa, le reliquie del Fondatore, di San Ludovico da Casoria e di Santa Caterina Volpicelli. Fonderia di Nola.
La messa in opera dell’Altare è stata curata da una ditta specializzata in beni culturali, in coordinamento con l’ufficio tecnico del Santuario. Il progetto ha usufruito dei consigli e dell’approvazione della competente Autorità di tutela del patrimonio artistico. Durante il rito, ricco di gesti simbolici densi di significato, all’interno di una delle otto colonne di marmo che sorreggono il nuovo Altare sono state deposte le reliquie del Beato Bartolo Longo e di due santi che sono stati sostegno e strumento nella realizzazione della sua missione a Pompei: San Ludovico da Casoria e Santa Caterina Volpicelli. «Questo Altare – ha spiegato il Prelato nell’omelia – con la sua scritta sarà un ricordo perenne per noi, “invitati alla cena dell’Agnello”: seguendo fedelmente Cristo risorto, in comunione tra noi, porteremo a compimento la sua missione salvifica e contribuiremo a rendere nuovi e belli la nostra vita e questo nostro mondo. E saremo “beati”, perché tenderemo alla santità, sull’esempio di San Ludovico da Casoria, di Santa Caterina Volpicelli e del Beato Bartolo Longo, le cui reli
quie sono a fondamento di questo Altare». Non a caso, in Basilica, hanno partecipato al rito le Suore Domenicane “Figlie del Santo Rosario di Pompei” fondate dal Beato e dalla Contessa Marianna Farnararo De Fusco; le Suore Francescane Elisabettine Bigie fondate da San Ludovico; le Ancelle del Sacro Cuore di Santa Caterina Volpicelli. «Affidiamo i nostri propositi – ha proseguito l’Arcivescovo nell’omelia – alla potente intercessione della Madre di Dio e madre nostra, Regina di questa straordinaria città.
Contemplando nella preghiera del Rosario il volto di Cristo con gli occhi della Madre e nutriti dell’unico pane di vita, possiamo vivere in sintonia con Cristo Signore e in comunione tra noi ed essere seminatori di pace e di speranza a Pompei e nel mondo intero!». Un nuovo Altare è anche simbolo stesso di pace, di concordia tra gli uomini, di riconciliazione. Nel brano del Vangelo di Matteo proclamato durante la Santa Messa, è scritto: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’Altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’Altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24). «Il Vangelo di oggi – ha affermato l’Arcivescovo commentando proprio questo passaggio – illumina la nostra coscienza con esigenze inevitabili.
Per essere di Cristo, per essere veri cristiani, non è sufficiente una osservanza esteriore, né una pratica legale dei comandamenti, perché il Padre celeste vede nel segreto del cuore, dove accogliamo la Parola, ma dove a volte si può consumare il peccato». «La vera preghiera, l’autentico incontro con Dio – ha detto ancora – non può non aprire il nostro cuore ai fratelli. Come cristiani abbiamo la missione di essere seminatori di pace e di speranza e non possiamo mai stancarci di costruire rapporti umani sempre più autentici ad iniziare con le persone che incontriamo ogni giorno. Non è facile. I conflitti sono dietro l’angolo e non possiamo sempre attribuire la colpa agli altri, alimentando chiusure crescenti. Gesù ci invita a percorrere costantemente la via della riconciliazione
(Autore: Michele Cantisani)
Il Primo Angelo del Trono della SS. Vergine del Rosario in Valle di Pompei
La prima fusione in bronzo è fatta, né sappiamo contenerci nel farne subito menzione. Si è fatta quella fusione tanto anelata, e che era il continuo tormento pel dubbio che ci aveva incolti della sua riuscita.
È un angelo di bronzo dell’altezza di due metri, che presenta con la sinistra un cuore, dentro del quale saran chiusi i nomi di quegli avventurati figliuoli del Rosario che hanno concorso ad erigere il trono della propria Madre e regina.
Il bravo Professore Salvatore Cepparulo, autore delle cinque monumentali figure, in quello slancio di vena artistica, che forma l’originalità e la nota nuova dalle sue stupende produzioni d’arte, in un momento di assai felice vena si era ispirato in un ideale ascetico che completamente l’aveva signoreggiato e trascinato a delle figure di uno slancio da far restare compresi di ammirazione quanti le hanno vedute. Però quando il calcolo subentrò a quella ammirazione quanti le hanno vedute. Però quando il calcolo subentrò a quella ammirazione, la difficoltà di tradurre in bronzo lo stupendo magistero di quelle fattezze ci fece cadere nel più profondo scoraggiamento, perché il Cepparulo stesso non dissimulava quanto difficile cosa sarebbe il tradurre in bronzo la sua plastica di argilla. Allora dubitammo di vedere privato il trono di Maria di cinque produzioni d’arte che avrebbero formato il più bell’ornamento dell’opera nostra, ed essere astretti contentarci di un lavoro di modesta fattura, che presentasse difficoltà superabili. Tutti tacevano, ma nessuno ardiva proporre il nuovo espediente, quando in un momento si udì un grido – coraggio! Avanti! – e questo fu il programma che tutti accettammo. Coraggio, sì, e ce ne volle; il cuore di tutti batteva forte, ma non più per il dubbio, ma per quel coraggio che senz’altro invase l’animo di tutti.
Fu immediatamente dato principio a quel lungo e delicato processo di forme e di fusioni in cera, prima che tutto fosse allestito pel getto in bronzo.
È la sera del 20 Febbraio, di Sabato, all’ora dell’Ave Maria, la fusione in bronzo era compiuta.
Che era successo di quella massa incandescente di metallo scivolato e versato in men che si dica nella forma?
Nessuno ardiva pronosticarlo, tutto era avvolto in una massa lignea che non permetteva la benchè minima indagine; ma l’amore per la propria arte vinse la ritrosia: e con avida fatica in poche ore la statua fu scoperta fra l’emozione generale e fra le grida di gioia.
La statua era riuscita di una perfezione da stordire i più provetti in questa difficile arte. L’opera del Cepparulo si mostrò grande quale noi la vedemmo in creta: quelle difficoltà che annebbiavano la mente, ora felicemente superato, formano nel bronzo quella vaghezza di una figura che sarà in potere della storia dell’arte napoletana. I fonditori Antonio e Giuseppe Alfano, con un’annegazione unica profondendo mezzi ed opere, rivendicano un antico diritto che compete ai fondatori napoletani. Sì, o fratelli, rammentatelo alla vostra mente.
Napoli nei tempi di mezzo, quando fra noi fiorivano le arti, e la nostra cultura artistica era scuola in Italia, Napoli aveva i suoi artisti fonditori: non uno, ma infiniti lavori in tal genere ne fanno la più ampia testimonianza. R forse fuori della nostra città ammiriamo opere nostre credendole degli altri, laddove, è ben doloroso di dirlo, un ricco corredo di arte napoletana da noi medesimi è stato distrutto! Lasciamo questa nota lugubre, oggi non è così: quest’arte sorge novellamente, e mancava lo sprone perché fosse portata a destini sconfinati come una volta. Ed i cinque angioli dell’Altare del Rosario sono quelli destinati a suscitare questo artistico risorgimento. Siamo così contenti appieno di avere contribuito con l’opera nostra e con gli angioli del Rosario a rendere parvente l’antica gloria dell’arte napoletana, che giaceva quasi assopita nei fervidi petti dei nostri artisti.
Il lungo tempo che è stato necessità impiegare in questa prima fusione (presso a sei mesi), ci sarà compensato nella brevità del tempo che richiederanno le altre quattro statue; da che se per primo Angelo si è dovuto fare tanti studi ed apparecchi, e fabbricar fornelli alla Cellini; avendo oramai il lavoro d’impianto dato così felici risultamenti, ne viene che ci sarà dato con piena fidanza accertare che tutte le cinque statue di bronzo saranno pronte per il prossimo mese di Luglio. E però l’Altare e il monumento potrà vedersi finito e completo di tutto ai primi di Settembre.
(Bartolo Longo)
Crediamo che meglio potrà apprezzarsi la saviezza e giustezza delle impressioni provate, alla vista del nostro tempio, dello scrittore del superiore articolo, e da quanti sinora vi concorsero a visitarlo, riferendo la descrizione architettonica dell’Assida o Cona già compiuta.
La Cona dovette subire un ingrandimento di superficie, e tale modificazione fu giudicata di una indiscutibile necessità a cagione del sempre crescente numero di visitatori, e della frequenza di sontuoso funzioni da conseguirsi nel Santuario. Dall’altra parte volendo innalzarsi un grandiosissimo trono alla benedetta Vergine, questo richiedeva, per sorgere degnamente, un ampliamento del tempio almeno di altri quindici metri.
Completata la decorazione della Cupola e delle vòlte della Crociera, il nostro pensiero si rivolse perciò al compimento della Cona essendo addivenuto tal lavoro indispensabile a compiersi prima dello scorso Ottobre; dappoi che doveva essere tutto sgombro per iniziare la erezione del trono e dell’Altare.
E, la Dio mercé, possiamo assicurare che ancora questa volta i nostri intendimenti sono stati coronati da un felice successo. Di modo che già sono quasi al compimento le fondazioni di quella gran mole che deve costituire il Trono, di cui si avrà, come fu più volte ripetuto, la beata inaugurazione il giorno otto di maggio 1886.
Ci è grato, in vista dei risultati del lavoro, giudicato serenamente da competenti nell’arte e da profani, il dare una succinta rassegna di quanto si è eseguito, poiché è riuscito così splendido e perfetto da contentare tutti indistintamente.
La decorazione in generale serba l’identico tipo di quella finora fatta per la cupola e per la crociera. È di effetto brillante, e per la sua importanza, superiore ad ogni altro lavoro fin qui compiuto. Queste sono le espressioni schiette di un pubblico scelto che ogni giorno accorre volenteroso a vedere tanta parte importante dell’opera; ed ognuno, lo diciamo con gioia, riporta una graditissima impressione di quanto ha avuto agio di osservare.
La gran volta è ripartita in due Zone. La prima zona ricopre la parte retta dell’Assida, e l’altra la rimanente parte formante ciò che gli architetti con loro vocabolo chiamano “Scodella”. Nella prima con savio accorgimento si è ripetuto l’identico spartito delle volte della Crociera, e si è ottenuto in tal guisa una attacco ammirabile fra questa e la cona, formante una unità di modulazione da servire di facile passaggio alla parte semicircolare della Scodella. Tale vòlta ha nel centro un gran riquadro e forma rettangolare, cinto da una ricca cornice, con modiglioni e rosoni nelle più parte scintillanti d’oro ed a più colori.
Il dipinto raffigura uno slancio di abituale carità del Beato Martino Porres, Terziario Converso Domenicano delle Americhe, apostolo di carità, rappresentato nell’atto che distribuisce elemosine ai poverelli. Dipinto riuscitissimo per elevato concetto e per robusta esecuzione. Di seguito al dipinto, a scendere giù sul cornicione, nella parte destra e sinistra sono incominciati otto maestosi rosoni con riquadrature, ed ottagoni, recinti da una “modellata greca” da formare con la loro varietà di piani ed intagli colorati e riccamente dorati una elegante e seria decorazione. Sono da rilevarsi in tale in tale vòlta i due belli altorilievi che per il loro ardire e varietà di movimento richiamano l’attenzione di tutti.
La scodella ha superato finora ogni altra bellezza del tempio; e così doveva essere, perché sotto di essa dovrà sorgere il Trono della Vergine miracolosa.
Un gran quadro in centro rappresenta la SS. Trinità circondata da stuoli di Angioli, che si perdono all’infinito. L’effetto di tal lavoro, per giudizio imparziale di persone espertissime in questa nobile arte, è stato meraviglioso, e rapisce addirittura. L’artista ha superato se stesso! è ciò che tutti ripetono. Avvi un effetto di luce abbagliante e di una fluida vaporosità, nell’ambiente che ti risveglia l’idea di quelle grandi opere d’arte che hanno formato la gloria dei secoli scorsi, e che, ossequenti a tanta maestà, i posteri ammirano stupefatti. Lo ripetiamo alto: il lavoro è bello, e malgrado le difficoltà, il soggetto, presentato sotto una forma nuova, è stato informato dall’artista in modo da non potersi bramare di meglio0. Chi è venuto al Tempio può giudicare se noi esageriamo.
A questo quadro è stato dato il posto d’onore circondandolo di un’architettura seria, studiata re variata. Una gran cornice, di uno sfarzo ed ardire di linee intrecciate con sculture e colori ed oro profuso, recinge il quadro e forma attacco con il rimanente della volta fino al cornicione. Questo rimanente di volta è tagliato da nove finestroni, cinque dei quali non danno luce, per studiate ragioni di ottica, ma che in compenso presentano una scenica prospettiva da contentare i più difficili e raggiungere una illusione perfetta. Tutti i finestroni hanno decorazioni architettoniche, dalle quali partono delle fasce vagamente intrecciate di ornati, fino a raggiungere il gran riquadro centrale; fasce che nel loro sviluppo sulla vòlta lasciano degli spazi a grandi scolloni, nei quali sono dipinti otto colossali angeli in candida veste su fondo bleu a smalto.
L’ardire di tale pensiero supera ogni descrizione; vi è tale armonico contrasto di colori, e le fatture degli Angeli sono tanto nobili, da raccogliere profondamente il pensiero del visitatore.
Nelle nove lunette che sormontano i finestroni, si sono istoriati i simboli della litania più culminanti, sorretti ciascuno da due putti, che potrebbero ricordare benissimo quelli del Beato Angelico. E sono nell’ordine seguente: Stella Matutina. Rosa Mistica. Regina sine labe concepta. Turris Davidica. Regina Martyrum. Turris Eburnea. Regina Patriarcharum. Regina Confessorum.
Superiormente ai quattro finestroni, e proprio sulle lunette, in quella parte della volta dove non stringe rapidamente la scodella, sono ricacciati quattro grandi medaglioni su fondo dorato si sono dipinte quattro mezze figure di una robustezza di colorito da sembrare uno smalto, e rappresentano: La Beata Caterina da Racconiggi, S. Raimondo, Beato Stefano, S. Pietro Martire, tutti dell’Ordine del Rosario. Ogni medaglione poggia su di un fondo, sul quale è stato dipinto a mezzo colore a grandi figure otto Virtù accoppiate in modo per ogni medaglione da corrispondere al soggetto del medaglione stesso. Ecco le virtù come sono distribuite: Fortezza, Temperanza, Giustizia, Prudenza, fede, Purità, Amor divino, Preghiera.
Grandi stemmi di ricca fattura, a gran colore, festoni dorati, palmizi d’oro, poggiano sull’Attico e formano il sostrato ove si sviluppano le volte. L’Attico serve di passaggio al cornicione sottoposto.
Detto cornicione, simile a quello della crociera, è di ordine Corintio, tipo di Pantheon, ricco di ornati e dorature; e se ne ammira maggiormente la ricchezza per il proseguimento che fa all’altro della crociera.
Il cornicione sormonta dodici colossali capitelli corinti a foglie di acanto con fregi fra capitello e capitello e scultura ad alto rilievo. I pilastri eziando del numero di dodici sono di marmo “lumachelle”, baccellati e lustrati. Fra i pilastri si racchiudono in magnifiche cornici tredici quadri, per ora vuoti, ma ci auguriamo in un tempo non lontano poterne annunziare i soggetti e l’artista che li eseguirà.
Le nostre trepidazioni per la cona hanno ottenuto un successo da superare la generale espettazione, e non dissimuliamo che si è dovuto lottare con formidabili ostacoli per ottenerne il riuscimento – Gli artisti, per quanto avessero fede, pure si sentivano spesso turbati dal dubbio d’impossibile riuscita. Ma si è pregata, scongiurata la Sovrana pietosa di Pompei; si è lottato, e si è vinto!
La cona non poteva riuscire meglio, essa ha avuto il risultato che le competeva, e tutti, proprio tutti, hanno intonato un coro di applausi a quel lavoro che giganteggia ora su tutti e che giustamente era soggetto di ansie e di aspettazioni.
La cupola e crociera con la smagliante decorazione resero stupefatti ed immobili a prima vista i visitatori del Tempio.
I dipinti sono del Cav. Vincenzo Paliotti di Napoli, al quale saremo eternamente grati per questa novella prova del suo esimio valore in arte, che ci ha voluto mostrare in tanta parte importante dell’opera.
All’Architetto Giovanni Rispoli di Napoli stringiamo commossi la mono. Ormai per lui il Tempio di Pompei è la cosa più cara che abbia al mondo. Che i risultati ottenuti gli siano di sprone a raggiungere quella meta che tanto agogna, e che formar dovrà la pagina più preziosa della sua vita artistica.
(Autore: Bartolo Longo – 1885)
(Da: il Rosario e la Nuova Pompei del 1885)

*Cancelli della Balaustra
«Ricchezza di metallo, rara maestria di disegno, fine lavoro di cesello, renderanno i cancelli della balaustrata una meraviglia di arte e di buon gusto, novello titolo di onore per l’arte sacra napoletana».
Così, nell’aprile del 1891, nelle pagine del periodico da lui stesso fondato, "Il Rosario e la Nuova Pompei",
Bartolo Longo annunciava ai fedeli la realizzazione, tra le altre grandi opere, del cancello che avrebbe «sbarrato il vano centrale della balaustrata».
Il Fondatore, infatti, volle completare la balaustra del presbiterio chiudendone il vano centrale con due cancelli di grande valore artistico, lo stesso valore delle opere già realizzate.
Creati su progetto dell’Architetto Giovanni Rispoli, i cancelli, realizzati in bronzo e argento dalla
ditta Alfano, vennero inaugurati nel 1891.
Ancora oggi, anche alla luce dei recenti lavori di restauro conservativo della Basilica mariana, iniziati nel 2009, i visitatori ne possono ammirare la ricchezza dei metalli, la maestria dei disegni e la realizzazione artistica su disegno dello scultore
Salvatore Cepparulo. La particolarità dei cancelli, che chiudono il vano centrale dell’elegante balaustra dai finissimi marmi, il Serrangolino Bieyodi e il Rosa d’Ouvard, sono le cinque statue che rappresentano, da sinistra, la Carità, la Speranza, la Religione, la Purità e la Fede.
Insomma, la stupenda balaustra, opera di grande valore per i pregevoli e rari marmi in cui era stata realizzata, meritava "degno suggello".
E tale fu, tanto che il Beato Bartolo Longo, felice e orgoglioso di quell’opera, ne parlava spesso nei suoi scritti, definendolo «monumento di arte per la classica purezza e l’alto magistero del disegno, per la mistica espressione dell’insieme purissimo, sposato all’ispirazione dell’ideale religioso».

(Autore: di Daria Gentile)
La Balaustra del Presbiterio

Una meraviglia di arte e di buongusto
Il 7 maggio del 1891 venivano benedetti i cancelli della balaustra del presbiterio. Su progetto dell’architetto G. Rispoli e realizzati dalla ditta Alfano, si aggiungeva un’altra gemma al complesso del santuario. Ancora oggi i visitatori possono constatarne la ricchezza dei metalli, la maestria dei disegni e l’artistica realizzazione.
"Ricchezza di metallo, rara maestria di disegno, fine lavoro di cesello, renderanno i cancelli della balaustra una meraviglia di arte e di buon gusto, novello titolo di onore per l’arte sacra napoletana". Siamo nell’aprile del 1891, nel Periodico, Bartolo Longo, annunzia ai fedeli che, tra le altre grandi e costose opere, è stato realizzato anche il cancello "che sbarra il vano centrale della balaustra, nella quale l’eleganza del disegno è pari al pregio della materia, e che si può, con vantaggio, paragonarsi alle più belle che si ammirano in Roma ed altrove".
Lo splendore dei finissimi marmi, impiegati nella costruzione della stupenda balaustra: il Serrangolino Bieyodi ed il Rosa d’Ouvard, meritava un degno suggello: un gioiello prezioso di bronzo e d’argento.
Bartolo Longo già da lungo tempo aveva pensato di completare la balaustra del presbiterio chiudendo il vano centrale con due cancelli che per il valore artistico, la ricchezza del materiale e la finezza del disegno compendiassero quanto di magnifico e di sontuoso si era già realizzato: la sistemazione del pavimento dell’Abside, l’erezione dell’Altare e del Trono alla vergine, il Ciborio, squisitissimo lavoro di cesello.
Don Bartolo ama parlarne (e spesso) di quel cancello; eccolo felicissimo esclamare: "Monumento di arte per la classica purezza e l’alto magistero del disegno, per la mistica espressione dell’insieme purissimo, sposato all’ispirazione dell’ideale religioso"; in vena di teorizzare, si
improvvisa esteta ed, a parer nostro, coglie essenziali definizioni dell’arte. "Ora l’arte, io dico, deve servire alla pietà, non deve imperare alla pietà". E con maggiore acutezza si dimostra d’attualità in questo passo: "L’arte, anelito dello spirito umano verso l’ideale, quando incarna un tipo mistico soprannaturale, diventa fonte di educazione morale, di sentimento religioso e di un godimento estetico purissimo, che conforta sempre più e rinsalda gli abiti della virtù e l’ispirazione al bene. Cotesti effetti produce in noi, e in quanti qui traggono, l’andare osservando lo splendore degli altari e delle decorazioni che rivestono questa novella Arca del Signore".
La data del 7 maggio 1891, programmata per la grande festa di dedicazione del Tempio alla Vergine del Rosario, non era lontana; notevoli impegni di spesa erano stati assunti, era urgente e necessario impiegare tutte le risorse finanziarie per approntare ogni cosa al fine di rendere solennissima la cerimonia.
Intanto Don Bartolo riceve una lettera; la riassumiamo: "Pregiatissimo signor Avvocato, uscendo dal Santuario, fu osservato da alcuni visitatori che era spiacevole vedere quei due sgabelli di legno che fanno da sportelli alla Balaustra". Ritornato a Napoli ebbe un’idea. Qual è la famiglia, nella quale non trovasi dimenticato in qualche cassetto, in qualche fondo di mobile, qualche oggetto prezioso fuori uso; come a dire cucchiai o forchette rotte, montature di orecchini non più servibili, qualche braccialetto che non è più in moda? Ora, se l’egregio signor Bartolo Longo, facesse un appello a tutte le famiglie, vedremmo, in brevissimo tempo in preziosi metalli pure gli sportelli della Balaustra. Le partecipo l’idea, certo che, se la Madonna vuole che diventi un fatto, gli ispirerà che diventi sua". Napoli, 18 luglio 1889. Luigi D’Auria fu Tito.
La lettera fu inserita nel quaderno di luglio 1889 del Periodico "e subito avemmo ad avvederci che, quando si tratta di fare onore alla benigna Vergine dei miracoli, tutte le proposte sono in un tempo medesimo, gradite, approvate ed eseguite".
Nel quaderno del Periodico di marzo 1890, il Fondatore dà ai fedeli, come di consueto, il puntuale resoconto dei lavori che si progettano, si eseguono, sono già portati a compimento. A pagina 98, tra l’altro, leggiamo: "Si è consegnato il disegno ed il prezioso metallo per la costruzione dell’artistico cancello della Balaustrata al Presbiterio". Il cancello fu concepito e disegnato dall’architetto Giovanni Rispoli di Napoli, autore di tutta la decorazione e direttore dei lavori che si eseguivano nel Tempio e fuori di esso; sono suoi i disegni del Ciborio, sarà suo il progetto ed il disegno della Facciata Monumentale. I modelli furono eseguiti dallo scultore
Cavalier Salvatore Cepparulo, valentissimo artista, autore dei cinque angeli di bronzo che ornavano il primitivo altare; Giuseppe Alfano, orafo, incisore finissimo, fuse, con perizia ineguagliabile, il bronzo e l’argento. Dell’Alfano riportiamo un breve stralcio di una lettera indirizzata a Bartolo Longo datata 15 luglio 1893; in essa è contenuta qualche notizia utile ed illuminante circa il lavoro eseguito dall’artista. "Ill.mo Comm/re Avv/to Bartolo Longo. Per mettere in completo assetto il cancello della Balaustrata con quei lavori di completamento, che ne rendono facile il maneggio ed il movimento, cosa che non si potette da principio fare perché la Signoria Vostra, ben si ricorderà, che questo speciale lavoro fu da me accettato per solo riguardo a voi, dappoiché quanti lo potevano eseguire tutti lo ricusarono per il brevissimo tempo di soli sessanta giorni. La Signoria Vostra ben comprese, allora, i sacrifici sopportati dalla mia officina per poter arrivare a tempo a far figurare voi per una promessa che avevate, di far trovare a posto questo eccezionale lavoro".
E così, grazie alla generosità ed al sacrificio della ditta Alfano, fu mantenuta la promessa fatta ai fedeli: i cancelli furono benedetti il giorno 7 maggio 1891, festa solennissima della dedicazione del Santuario di Pompei.
Nel programma per le feste di maggio di quell’anno, Bartolo Longo indugia nella descrizione minuziosa e puntuale della bella opera d’arte. La riportiamo come prosa di ineguagliabile efficacia.
"I cancelli che chiudono la balaustrata del Presbiterio sono stati oggetto di serio studio.
Ai comuni e troppo noti cancelli metallici, più o meno rabescati e spesso barocchi, si è voluto sostituire un concetto prettamente artistico. Se si sia raggiunto lo scopo lo lasciamo giudicare
al pubblico quando visiterà il Santuario nelle feste del prossimo Maggio o di poi.
I cancelli degni della balaustrata, bellissima anch’essa e di gran valore per i pregevoli e rari marmi, richiameranno alla mente, ne siam sicuri, l’altro lavoro che adorna il Maggiore Altare, cioè la custodia monumentale. Nel lavoro di un cancello sta svolto un concetto dettato dal genio dell’arte.
Cinque virtù, la religione, la fede, la carità, la Speranza e la Purità, rappresentate da cinque statue in altrettante nicchie, si mostrano nel fronte principale dei due cancelli, e dicono chiaramente quanto di grande e sublime si raccoglie nel prodigioso ambiente. Una architettura solida, condotta con risalti e cavi, inquadra la duplice imposta.
Le cinque nicchie, una grande nel mezzo, e quattro laterali che accolgono le statue, formano la
parte nobile dell’architettura, e però a queste si è dato una conveniente ricchezza.
Intermezzano le nicchie otto colonne a rilievo, di finissimo ed accurato cesello, con basi attiche e capitelli corinti, e con ornati tanto nel basso quanto nell’alto. Di esse, sei colonne formano binato alla grande nicchia centrale; tutte sono sorrette da piedistalli quadrati poggianti su di un largo plinto modanato, che forma ricorrenza della balaustrata di marmo.
La nicchia centrale poi, che racchiude la maggiore statua, cioè quella della Religione, è coronata nella parte alta da due figure allegoriche.
Le quattro nicchie laterali hanno in alto fregi allegorici ed ornati.
Sottostanno alle medesime altrettante piccole nicchie circolari, ciascuna delle quali porta il simbolo di uno degli Evangelisti. Fra i piedistalli delle colonne lo spazio è spartito in quadri con fregio ad alto rilievo.
Sulle otto colonne che formano risalto, corre la trabeazione corintia di massima ricchezza con
modiglioni e dentelli. Nei quadri del fregio vi hanno ornati cesellati con teste di angeli e palme. La parte superiore è terminata dal frontone, nel timpano del quale vagamente spicca una conchiglia con fregi.
Sui lati inclinati del frontone stesso si adagiano due severe figure rappresentanti la Fortezza l’una, la Giustizia l’altra. Sotto le quattro colonne estreme, fra le nicchie piccole, un rilievo termina e corona il cornicione.
Il materiale scelto è il più perfetto bronzo, e la lega è riuscita tanto felice da non abbisognare di pulimento alcuno né di altre dorature.
Il disegno e la direzione è del medesimo architetto Rispoli; l’esecuzione della Ditta Alfano, la quale ha saputo rispondere perfettamente alle esigenze della direzione e all’importanza eccezionale del lavoro, che accoppia così ad un concetto ardito una esecuzione inappuntabile".

(Autore: Nicola Avellino)

*Deposizione di Gesù

Il Santuario è stato destinatario di due donazioni quanto mai significative per il valore artistico e religioso. Gli eredi dello scultore Francesco Pesce "Accettura (Pz)  1908 - Firenze 1992) sigg. Molinari-Zetti hanno generosamente offerto un gruppo scultoreo in bronzo rappresentante la Deposizione di Gesù dalla Croce.
Questa non è l’unica opera d’ispirazione religiosa eseguita dallo scultore F. Pesce, forse l’ultima in ordine di tempo, ma la più imponente per volume e la più "ispirata" per comunicazione di sentimenti.
Volti paesani, di un mondo lontano non più disprezzato, anzi desiderato, carichi di sentimenti profondi e positivi.
Giovani ed anziani accomunati da un gesto umanitario e di fede verso un "fratello" morto ammazzato ma innocente.
Di fronte al mistero della morte (e Gesù si è fatto in questo simile a noi) nessuno dei personaggi perde la serenità della Fede e della Speranza.
Collocata nella Cappella Sacramento della Penitenza potrà suggerire già la gioia della Risurrezione a chi ha sperimentato la morte per il peccato.

(Autore: Pietro Caggiano)



*Dipinti dei Pennacchi e della Crociera

Il tamburo della cupola con otto grandi finestroni è decorato con splendido sfarzo, di una trabeazione composita sormontata da una balaustra che dà una illusione piacevolissima allo sfondato della sovrastante cupola. Fra i finestroni avvi un binato di ricchi pilastri compositi, fra i quali spiccano otto colossali figure di angeli che recitano il Rosario. I finestroni alla lor volta sono cinti di finimenti architettonici e sormontati da intagli di buonissimo accordo e fattura e doratura.
Il cornicione anulare poggia il tamburo, è ricco di ornamenti, da formare un giusto passaggio dal tamburo ai sottostanti pennacchi, i quali nella loro elegante trovata figurano quattro colossali figure di quattro colossali figure di quattro grandi benefattori della Società e della Chiesa, tutti e quattro figlioli devotissimi del Rosario e decoro del santo Domenicano Ordine. Sono essi un Papa, un Cardinale, un Arcivescovo ed un Vescovo.
Verso la cona a sinistra di chi entra nel Tempio si porge una nobile ed austera figura di un Pontefice. È il Santo Pontefice del Rosario, il grande Frate Domenicano, S. Pio V, quel papa che abbassò l’orgoglio ottamano a Lepanto e salvò l’Italia e la civiltà europea della sozza dominazione della mezzaluna. Il pennacchio a destra di chi entra presenta un Cardinale: è il B. Giovan Domenico, Arcivescovo di Ragusa, quel frate che si rese celebre nel Concilio di Costanza. Dalla parte della nave a sinistra è il B. Alberto Magno, Vescovo di Ratisbona, il portento di sapienza, il degno maestro di S. Tommaso d’Aquino; e a destra si vede il dolcissimo Arcivescovo di Firenze, S. Antonino, il dotto, il devotissimo scrittore di Maria.
I quattro archi sorreggenti i pennacchi serbano sempre il carattere della soprastante architettura, variata abilmente, ma in modo però da serbare la unità di concetto. Nel basso sono gli stemmi dell’Ordine di S. Domenico.
Le due volte della crociera sono benanche decorate con partiti architettonici da risultare un solo tutto con le altre parti decorate.
In centro ad ogni volta avvi un riquadro. Quello a sinistra rappresenta un episodio della vita del V. Gian Leonardo Fusco nell’atto che di notte oscura è guidato da un angelo, il quale con la face rischiara i suoi passi. All’apparir dell’angelo si vedono dileguarsi le tenebre e spuntare la luna e le stelle. Questo quadro è di un effetto meraviglioso.
L’altro della volta di destra ricorda un fatto del B. Egidio, Portoghese, quel celebre mago e spiritista, il quale convertito dalla parola del grande Domenicano, il B. Giordano di Sassonia, si rese anch’egli Frate Domenicano, e divenne zelantissimo Missionario. Qui viene rappresentato nell’atto che al solo pronunziarsi in sua presenza il nome SS. di Gesù, va in estasi sino a sollevarsi dal suolo per abbracciarsi con un ratto al Crocifisso che gli è di contro.
Nel piede di ogni volta in ampio riquadro sono incastrati quattro bassorilievi; ognuno è un orchestra di putti che cantano le glorie di Maria, recitando il Rosario. Le forme e gli atteggiamenti infantili esprimono assai bene il concetto che si è voluto informare: tutte le figure della Chiesa del Rosario di Pompei debbono esprimere assai bene il concetto che si è voluto informare: tutte le figure della Chiesa del Rosario di Pompei debbono esprimere il trionfo del Rosario in terra ed in Cielo.
Il devoto pellegrino che vuole esaminare ancora minutamente gli altri fatti storici che illustrano il Rosario, e che decorano la parte alta dei due Cappelloni della Croce, levando gli occhi al braccio di croce a sinistra, vede ai due lati del finestrone due bei dipinti.
Quello a mano manca raffigura il battesimo di un Cinese, tenuto dal celebre Domenicano Gasparre Della Croce, il primo Missionario che pose piede nella Cina, è piantò il vessillo del Rosario nel Celeste Impero. L’altro a dritta è il V. Bartolomeo Las Casas, quell’intrepido e generoso Domenicano che evangelizzò l’America poco dopo scoperta dal Colombo, e che era perciò chiamato il Padre dei poveri indiani; e viene qui rappresentato che predica a difesa della libertà dei poveri selvaggi delle Americhe contro l’avarizia e la crudeltà degli Spagnoli suoi connazionali.
Chi nel mezzo del Tempio volge gli occhi alla parte superiore della croce destra, è rapito alla vista di due altri bellissimi dipinti, che costeggiano quel finestrone.
Si vede a un lato il B. Venturino gran Missionario anch’esso, italiano, che predica alle turbe d’Italia, e nell’altro il B. Alfonso Navarrete, Gran Missionario Domenicano, Martire del Giappone.
Terminiamo la nostra rapida descrizione, come abbiamo cominciato: o fratelli e sorelle del Rosario, al cuor nostro dilettissimi, ecco quanto si è fatto dall’Ottocento del 1883 all’Ottobre del 1884.
(Da: Il Rosario e la Nuova Pompei 1884)

*1883-1884 - G li ornati dell'interno del Tempio

Non sono trascorsi che soli dieci mesi, e già la parte principale della Chiesa è al suo compimento, adorna di quella maestà che si addice alla casa della Nostra Signora.
Niente da noi si è trascurato, ed ogni cura si è inculcata a chi si doveva, al fine di ottenere un risultato degno della ben giusta e varia e trepidante aspettativa.
Il Tempio del Rosario di Pompei dall’Ottobre del 1883 all’Ottobre del 1884 ha rapidissimamente compiuto lo studio di sua adolescenza. Quelle forme di bellezza estetica, che ti mostrano fin da oggi qual dovrà essere il concetto estetico di tutto il Santuario, ti rapiscono addirittura per un dolce incanto che esercitano all’occhio per una gentile ed elegante decorazione della parte superiore del Tempio.
Il torrino, la cupola, il tamburo con i finestroni, i quattro pennacchi e le volte di copertura alla croce, si presentano nella completa loro perfezione.
I lavori di stucco, d’intaglio, di scultura, di pittura e doratura condotti con gusto veramente squisito, ti manifestano a prima vista che l’arte Cristiana-Napoletana signoreggia qui nello splendore della più fine e gentile eleganza.
Il torrino che sormonta la cupola, nella sua calotta è stato istoriato da una pittura rappresentante lo Spirito Santo. I finestroni sono coronati da cornice con modiglioni, ed intramezzati da pilastrini risaltati che poggiano sull’anello inferiore.
Questo anello che forma attacco con la cupola o determina il passaggio fra questa ed il torrino, si è creduto necessario decorarlo convenientemente con intagli a vaghe forme e dorature.
(Da: il Rosario e la Nuova Pompei 1884)

*Il Ciborio
Di grande eleganza e preziosità anche il Ciborio, posto al centro dell’Altare, riportato anch’esso all’antico splendore dai lavori di restauro.
Nato dalla genialità creativa dell’Architetto Rispoli e realizzato tra il 1886 e il 1887, su modello di un tempietto classico, è ricco di marmi e metalli preziosi.
La sua porticina rappresenta la cena di Emmaus e lo adornano colonnine di rosso diaspro ai lati e molteplici statuine di bronzo, in cui, su disegno dello scultore Salvatore Cepparulo, sono effigiati gli Apostoli Pietro e Paolo, e dottori e santi della Chiesa.

(Autore: di Daria Gentile)


*Il Silenzio di Gesù
del Pittore: Saverio Altamura

La storia di un quadro donato al Santuario: il suo autore, il pittore Saverio Altamura; il suo donatore, il filantropo Matteo Schilizzi e il giudizio artistico della famosa scrittrice Matilde Serao.
"S’avvicinava l’epoca di una Esposizione Universale a Parigi nel 1878. Pensai di fare un soggetto di Cristo. E scelsi il momento, che uno dei Scribi e Farisei a Lui, incatenato con funi, domandasse: Quid te ipsum putas?". È questa l’occasione, la motivazione e la scelta del soggetto fatta dal pittore Saverio Altamura, l’autore del quadro di cui presentiamo una bella riproduzione e la corrediamo con le consuete notizie di cronaca. Il Silenzio di Cristo, o Gesù tra i Farisei. Olio su tela: cm. 204 x 195, firmato, in basso a destra, S. Altamura – 1877.

Il quadro, prima di essere spedito a Parigi per la mostra, rimase esposto per breve tempo, da solo, in una grande aula dell’Accademia delle Belle Arti in Napoli. Matilde Serao in quell’ambiente freddo, misterioso, avvolto in struggente malinconia, ebbe occasione di ammirare il quadro. Fu avvinta da profonda commozione, il mistero del Cristo crudelmente ingiuriato, suscitò in essa uno straordinario sentimento di pietà e nel contempo di ribellione interiore magistralmente espressi in un articolo che scrisse di getto. Con qualche taglio, lo riproduciamo: è un giudizio sofferto, il turbamento incontenibile di un’artista sensibilissima al cospetto di un’opera d’arte.  "È un episodio della passione di Gesù: gli leggono la condanna, dopo averlo flagellato.

Son ebrei -  uno di essi, dalle spalle tarchiate, dalle braccia nerborute, stringe un flagello, indifferente se la discorre con certi altri; un secondo flagellatore sghignazza orribilmente, ed alza la verga quasi volesse continuare ancora. Alla destra di Gesù è un tale che gli strappa la tunica, a sinistra un altro che gli mostra con atto vero e vivace la condanna.

Tutta questa gente, sebbene animate da sentimenti diversi, come l’odio, il disprezzo, la noncuranza, ha il tipo ebreo spiccato: carnagione scura, bruna, sopracciglia vicinissime, sguardo falso; quello poi che ha in mano la carta è un fariseo, un ipocrita che si rivela: labbra strette, su cui corre l’insulto, fronte bassa, mano rugosa. Guarda il Nazareno con invidia e con ira; invidia per quella sua serenità pacata; ira perché si vede vinto; e indica la sentenza. Ma il Nazareno non lo ascolta, non lo guarda: pensa.
A che pensa? Forse agli sconfinati orizzonti della sua Palestina che non vedrà mai più, alle campagne ridenti, inondate dal sole, al lento volo delle azzurre tortore, alle limpide notti, al cielo stellato e profondo che tante volte ha interrogato con lo sguardo, al placido lago di Tiberiade: egli che amò tanto la natura, pensa forse a tutto questo. O forse gli vengono in mente i cari compagni delle sue peregrinazioni, quelli che lo compresero e amarono; forse ricorda la dolce madre che dovette abbandonare così presto; forse colei che lo adorò sopra tutti; e pensa al loro dolore? No. In quello sguardo vi è qualche cosa di più largo, di più vasto: quel Gesù pensa al suo ideale, s’inebria di esso e dimentica l’individuo nell’universo. La fatale notte del Getsemani, in cui il dubbio lo ha sopravvinto, in cui ha visto scomparire l’anima e la sua immortalità, in cui ha sofferto lo spasimo dell’uomo che vede spezzarsi il suo sogno, quella notte è lontana; egli crede in sé, crede negli altri; ancora pochi giorni ed egli morrà; ma il mondo sarà scosso, rivoluzionato dal più grande concetto umanitario: la libertà dell’anima.
Io non mi intendo di pittura e molto meno di disegno, non conosco le scuole antiche e moderne e mi affido al solo mio gusto; non so, quindi, se la luce sia giusta nel quadro di Altamura, se le figure del secondo piano siano proporzionate a quelle del primo, se le pieghe degli abiti siano armoniose e via discorrendo. Ma quando una pittura mi colpisce e mi commuove, quando io vi
resto estatica lungo tempo davanti, dimenticando in quella sala vuota e fredda il mondo e la vita, quando la tela è illuminata da quel viso intelligente, pallido, buono, sofferente, quando in mezzo a quel gruppo di cretini, di ipocriti, di malvagi, vedo dominare viva e vera la persona del filosofo, del pensatore, del Maestro, io dico che il pittore è un artista, perché ha raggiunto il sommo dell’Arte.
Filosofo. Ho sognato su questa parola.

Ho riveduto un altro paese bello e fecondo, culla della civiltà umana, ho riveduta la campagna sterminata e la lunga sfilata dei portici marmorei, sotto cui passeggiava gravemente un vecchietto, circondato da molti giovani. Il vecchio anche parlava ad essi di libertà, di anima, d’immortalità e quelli lo ascoltavano e lo amavano: come il Galileo, il vecchio maestro distruggeva gli idoli antichi, annientava il passato e creava l’avvenire. Ma in Grecia ebbero paura come in Gerusalemme, carcerarono il vecchio e gli dettero la cicuta; ed il Nazareno dovette morire. Così, attraverso il tempo, avevano comune il sacrificio i due più grandi martiri dell'Ideale: Socrate e Gesù".

Il quadro fu esposto alla mostra. Cherles Blanc, un famoso critico d’arte francese, giudicò l’opera, "Una delle poche, venute d’Italia, che per il suo fare largo, per la sua esecuzione non leccata, ma saggiamente libera e spigliata, si allaccia alla grande arte". L’ Arcivescovo di Parigi, osservando l’opera ne rimase affascinato al punto da avviare trattative con l’artista per acquistarla; desiderava collocare il quadro nella maestosa Chiesa del Sacro Cuore in avanzata fase di costruzione sulla collina di Montmartre a Parigi.

Una fatale malattia condusse a morte l’illustre prelato ed in conseguenza le trattative furono interrotte; L’Altamura se ne tornò a Napoli portando con sé la grande tela che fu collocata, provvisoriamente, in un salone al piano terra del Villino Colonna in via Amedeo. E qui, attratti dalla fama e dalla notorietà acquisite dal quadro, giunsero, per ammirare il dipinto, la Contessa Costanza Gravina accompagnata da Matteo Schilizzi. Un signore milionario, greco di origine, banchiere, trasferitosi da Livorno a Napoli, per ragioni di salute.

Divenne benemerito per molteplici opere filantropiche, specie in occasione del terribile colera del 1884; fu anche proprietario del Corriere di Napoli, fondato da E. Scarfoglio. Lo Schilizzi fu vinto dal fascino misterioso emanato dalla figura di Gesù, in primo piano nel quadro, e decise, senza indugio, di acquistare il pezzo. Versò a Saverio Altamura, autore e proprietario dell’opera, lire diecimila ed in più, pagò lire duemila, per corredare la grande tela di una bellissima, imponente cornice.

Alcuni anni dopo, nel mese di giugno del 1887, Matteo Schillizzi, nel donare il quadro al Santuario di Pompei (soltanto per atto di ammirazione e di munificenza non devozionale), prometteva a Bartolo Longo "di venire a Pompei per ammirare i miracoli di civiltà che essi (Bartolo Longo e la Contessa) hanno attuato all’ombra di quelli della religione". S. Altamura, soddisfatto, commentò l’atto di donazione: "sicché questo quadro, che in principio pareva destinato ad un celebre Santuario, ha finito col decorare un altro non meno celebre del primo, e più caro, perché del mio Paese".
(Autore: Nicola Avellino)
(Da: Il Rosario e la Nuova Pompei – n° 2 Marzo-Aprile 1990)

*La Cupola di Angelo Landi, uno sguardo verso il Paradiso
Nel 1940 Papa Pio XII incaricò il Delegato Pontificio Mons. Antonio Anastasio Rossi, Patriarca di Costantinopoli, di bandire un concorso, per scegliere l'artista cui commissionare l'affresco della Cupola del Santuario di Pompei.
Il vincitore fra i partecipanti fu Angelo Landi da Salò. Egli iniziò la sua carriera artistica a soli vent’anni esponendo a Brera il suo primo quadro intitolato "Affanni", Anche se in seguito ha realizzato altre opere, la sua fama era legata principalmente all’attività di ritrattista.
Un lavoro difficoltoso
La decorazione della cupola di Pompei era difficoltosa per la sua struttura architettonica, la cupola centrale si compone architettonicamente di due tamburi sovrapposti: l’inferiore è completato da una calotta forata al centro, il superiore è traforato da finestroni e coperto da doppia cupola con cupolino.
Considerata l’anomalia delle due sfere sovrapposte, il pittore Angelo Landi superò gli ardui problemi che gli si presentavano per le decorazioni con il doppio affresco completamente staccato dal resto della chiesa, ma a tale difficoltà si aggiunse anche quella di integrare le nuove decorazioni con quelle svolte precedentemente da Fermo Taragni di Redona (BG), che con l’aiuto dei suoi collaboratori, aveva decorato quasi tutta la Basilica, e anche la parte inferiore della cupola, con medaglioni con le effigie dei "quattro Santi Dottori della Chiesa che hanno cantato le glorie della Madonna": San Giovanni Crisostomo, Sant’Ambrogio, San Giovanni Damasceno, San Bernardo di Chiaravalle, alternati a composizione di carattere pompeiano.
Oggi questi medaglioni sono nella sacrestia del Santuario. Angelo Landi avrebbe dovuto concludere il lavoro iniziato da Fermo Taragni, ma preferì decorare l’intera superficie della cupola per assicurare un’opera armoniosa.

Il tema. La visione di San Domenico
Il tema affidatogli dal Delegato Pontificio fu La visione di San Domenico, lo stesso tema che Bartolo Longo affidò a Vincenzo Paliotti per la decorazione della cupola originaria.
È la visione del Paradiso che il Santo ebbe in dono dalla Vergine Maria, Regina del Cielo, quale protettrice su tutti i figli dell’Ordine domenicano e su tutti i devoti del santo Rosario.
La storia della visione è nota ai figli del santo fondatore. San Domenico, una sera, stando in preghiera, vide in estasi il Paradiso: qui il Signore era assiso in trono e vi era alla sua destra la Beata Vergine Maria. Dinanzi a Dio, il Santo, vedeva religiosi di tutti gli Ordini, ma per quanto si sforzasse di guardare non ne vide neanche uno dell’Ordine da lui fondato: Piangendo, nel constatare ciò, non ebbe il coraggio di avvicinarsi né al Signore, né alla Madre sua. Allora la Madonna gli fece cenno con la mano di accostarsi a lei, ma egli non si mosse finché non fu il Signore a dirgli di avvicinarsi e chiedendogli il perché di tante lacrime. Domenico affermò che poteva osservare religiosi di tutti gli Ordini, ma del suo nessuno.
Allora il buon Dio gli chiese se desiderava vedere il suo Ordine e appoggiando una mano sulla spalla della Beata Vergine si rivolse di nuovo a Domenico dicendogli che il suo Ordine lui l’aveva affidato alle cure amorevoli della Madre sua. E dicendo questo la madonna allargò il mantello, del colore dei zaffiri, e sotto di esso egli vide una moltitudine immensa dei suoi frati. Visto tutto ciò, si inginocchiò e la visione scomparve.
L’artista pensò di rappresentare la Visione di San Domenico, raffigurando nella prima cupola una schiera di santi, angeli e beati, che si protraggono verso la Madonna raffigurata nella cupola superiore. La Vergine si sarebbe dovuta innalzare in un pulviscolo d’oro "di sol vestita", come canta il Petrarca, nel componimento 366 del suo Canzoniere, trascinando dietro il suo manto, i fedeli e i propagatori del Rosario.
L’artista pensò di servirsi dell’anomalia architettonica della doppia cupola per rappresentarvi un unico cielo, senza inserire nessuna membratura architettonica o apertura decorativa. Giuseppe de Mori ci spiega che il referente a cui si ispirò l’artista fu la cupola del Duomo di Parma, che Antonio Allegri, detto il Correggio, decorò.
Il capolavoro è composto da 327 figure in 507 mq. Di superficie dipinta. Le figure dovendo essere osservate da 57 mt. Di distanza sono alte 3 mt. E mezzo a quattro.
Il 3 ottobre 1942, quando vennero inaugurati gli affreschi di Angelo Landi da salò, il popolo esclamò "Madonna! Quello è un Paradiso".
Il pittore rappresentò nella cupola inferiore un corteo di Santi e Beati ed in posizione centrale collocò san Domenico.

La descrizione di un autentico capolavoro
Guardando San Domenico e muovendoci dalla sua sinistra incontriamo Santa Caterina de’ Ricci, nobile fiorentina, che regge davanti al suo rapito il Crocifisso. Accanto alla stigmatizzata fiorentina è inginocchiata la Beata Imelda Lambertini di Bologna, con le braccia protese al cielo. Raccolto in preghiera, segue San Pio V, il Papa di Lepanto. Sotto di lui, lungo il tamburo sottostante, Leone XIII e Pio X, i due Pontefici tanto benemeriti del Santuario di Pompei. Sullo stesso piano vi sono raffigurati gli orfanelli e le orfanelle delle opere della carità cattolica, che vivono all’ombra del Santuario, con il loro Fondatore, il Beato Bartolo Longo e un fratello delle scuole Cristiane, il Patriarca Antonio Anastasio Rossi e il suo Vicario, il Vescovo Vincenzo Celli.
Al di sopra vi è dipinta la principessa Maria Clotilde di Savoia Napoleone, del Terz’Ordine domenicano, inginocchiata presso il suo scudo, con le mani giunte intrecciate al Rosario, nel suo abito vedovile.
La "Santa di Moncalieri", com’è denominata la principessa Savoia, pare lì a preparare il gruppo delle tre regine. Prima delle cosiddette "tre regine", è la Beata Giovanna del Portogallo, figlia del re Alfonso, che rifiutò la corona del figlio di Federico III per essere fedele sposa di cristo. Segue la Beata Margherita d’Ungheria, della stirpe di re Santo Stefano, rinunciò al trono di Boemia e morì nel monastero fabbricatole dal padre Bela IV in un’isola del Danubio presso Buda. Genuflessa e rapita in estasi, la Beata Margherita di Savoia, monaca domenicana e fondatrice del monastero domenicano di Alba, dove si spense nel 1464. Ai piedi delle rispettive sante Regine vi sono tre corone che araldicamente le caratterizzano.
Inginocchiati, anch’essi, in orazione vi sono San Pietro Martire di Verona, con la penna che fu la sua spada contro i Manichei eretici. Il Beato Raimondo da Capua,
confessore di santa Caterina da Siena, Maestro Generale dei Domenicani, riformatore dellOrdine dei Predicatori. San Raimondo di Peňafort di Barcellona, confessore di Papa Gregorio IX, a terra il libro dei Decretali, saggio della sua sapienza e della sua cultura.
Incontriamo poi i giganti del Rosario: San Tommaso d’Aquino, Sant’Alberto Magno, Sant’Agnese
da Montepulciano, Santa Rosa da Lima e Santa Caterina da Siena: Il Dottore Angelico San Tommaso d’Aquino con in mano un volume aperto a simboleggiare la sapienza dell’autore della Somma Teologica, sul suo petto brilla il Sole che illuminò il suo tramonto terreno e gli accese i primi raggi della vita celeste.
Accanto a lui, nella sua austerità episcopale, Sant’Alberto Magno spiega le carte della sua dottrina. Dopo di loro Sant’Agnese da Montepulciano, inginocchiata in preghiera, mentre dei fiori sbocciano ai suoi piedi e il suo mento si costella di croci. Santa Rosa da Lima, primo fiore della santità dell’America Latina, incoronata di rose, appare il simbolo incarnato del Rosario.
Santa Caterina da Siena, sembra rapita da un’estasi, con in mano un candido giglio, meditabonda con il libri delle sue Lettere che stringe sul fianco.
Sul tamburo sottostante vi sono raffigurate la Carità e la fede. Le due virtù sono compendio di tutte le Opere di assistenza sociale fiorite dalle fede che brilla dalla vergine del Rosario, per poi propagarsi a tutti i fedeli.
Oltre a leone XIII e Pio X, Angelo Landi in solo quattro giorni ha dipinto magistralmente le figure di Pio XI e di Pio XII.
Pio XI è ritratto genuflesso sulla soglia della Porta Santa, rivestito degli abiti pontificali, la croce astile nella mano destra, nella sinistra l’olivo, offerta per la pace del mondo.
Pio XII, eretto nella sua figura ieratica, candido nell'immacolata talare, apre le braccia e le distende nell'atteggiamento della sua universale paternità.
L’azione che nell’affresco inferiore appare statica e riposante, nella calotta superiore si apre potente e suggestiva. La Regina del Rosario trionfa e nel volo verso Dio spiega il manto come un’immensa vela, e nel suo turbine accorrono, attratti verso di lei, cherubini e serafini, schiere di religiosi e religiose e terziari dell’ordine domenicano, tra cui Simone di Monfort, vincitore degli eretici Albigesi, recante il vessillo delle Crociate. La polmonite contratta durante i due anni di lavorazione, portò l’artista ad allontanarsi varie volte da Pompei.
La morte colse l’insigne pittore nella città natale, Salò. Era il 16 dicembre 1944 mentre lavorava attorno ad una "Via Crucis", un estremo viatico di fede per lui che forse non aveva pensato al cielo se non nel periodo in cui dipingeva il suo capolavoro nel Santuario di Pompei.

Illustrazioni sui nuovi dipinti - Dal taccuino di un Terziario
 
Un bravissimo al pittore – E se questa della cupola non è la più fatata visione di Paradiso, che non si parli più di pittura.
 
Il pellegrino di Val di Pompei, che alza gli occhi in su, infila di un colpo tutta una storia di prodigi e di vittorie, di conversioni e di grazie, di carismi e di protezione della gran Madre di Dio sui figli di S. Domenico e sui devoti del Rosario.
 
Ma questa di S. Domenico è qualcosa di più bello. Di più spiegato, di più commuovente di quella misteriosa visione di S. Gertrude. Sotto il gran manto di Maria ella non vedeva che orsi, tigri, leoni, leopardi, lupi, pantere raccolti a salvezza: e voleva dire che quel manto benedetto è l’ultimo rifugio dei peccatori più rei, delle anime più perdute. Ma veder qui sotto il manto di Maria portati a salvamento e frati, e suore, e terziari domenicani è un predicar già di fatto avverate le belle promesse di Maria ai recitanti il Rosario.
 
Chi potrebbe contare la gran folla di ombreggiati da quel manto celestiale? Vi sono papi e re, vescovi e sacerdoti, guerrieri e borghesi, nobili e plebei, idioti e sapienti, poveri e ricchi, preti e frati, suore e pie donne. Ma in testa alla eletta schiera brilla il famoso crociato di Maria, il primo terziario domenicano, quel conte Simone di Monforte, che regge il vessillo della prima vittoria ottenuta con il favore del Rosario. Quel raggio di luce, che, partendo dal petto di Maria, scende ad irrorare l’estatico sguardo di S. Domenico, e il Rosario che Essa tiene fra le mani in quel di guardare con tanto amore il santo Patriarca, e tutta quella coorte di eletti, che stringono in pugno la corona benedetta, hanno già fatto intendere a chi guarda, che tutti quei salvati sono salvi per il Rosario; e che la loro salvezza è il finale compimento di tutte quelle promesse, che Maria faceva a S. Domenico. Vedete voi là quel coro di angioletti, che intona il Rosario al suono di sacri ritmi; e là in mezzo quell’angelo bellissimo, il quale, dando fiato a una tuba, tempra ad armonia di paradiso i canti di quell’altro coro, che fa ala alla vergine? E quell’altro gruppo di frati e suore domenicane, che in varia posa dipinti fanno atto di venerare la vergine? Ecco che il pittore traduce con bel trovato il concetto, che Gesù Cristo medesimo spiegava al B. Albano; che il recitare devotamente il Rosario è un coronare nuovamente Maria in cielo. E le rose, che quegli angeli vanno spargendo intorno a S. Domenico, troppo chiaro simboleggiano quelle mistiche rose di laudi a Maria, che egli predicò inculcando il Rosario.
 
Di gran belle prediche si saranno fatte in questa chiesa, e di più gran belle se ne faranno ancora, finché quelle dorate volte copriranno questo nuovo santuario di Maria; ma quella cupola lassù istoriata di sì bella visione di paradiso sarà sempre la più gran bella predica sul tema del Rosario.
 
Ditemi che ho sbagliato.
 
Ma, di grazia, come fareste voi a provar con dimostrazione più lampante e più perentoria che questa divozione è la più necessaria a tutti, e la più gradita al cuore di Maria; Essa che a predicarla mandò il santo Patriarca Domenico, e S. Ludovico Bertrando, e S. Vincenzo Ferreri, e il B. Tommaso da Siena, e il B. Alano, e il Ven. Sprenger, e il Ven. Blanes, e cento altri insigni figliolo dell’Ordine Domenicano?
 
Quanto non dovreste sclamarvi a recitare quel che Maria stessa ripeté tante volte al B. Alano: che la divozione del Rosario è il più certo segno di predestinazione? A noverare gli eccelsi encomi, con i quali tanti sommo Pontefici e il fior de’ santi più illustri hanno esaltato e predicato il Rosario? Ovvero narrare i mille stupendissimi prodigi e di guarigione d’infermi e di risurrezione di morti operati con il semplice toccare della corona e da un S. Francesco Saverio, e da un S. Ludovico Bertrando, e da un B. Francesco Posadas a ciò fare invitato dalla stessa B. Vergine apparsagli in sogno?
 
Come fareste voi a spiegare con l’eloquenza dei fatti che il Rosario ha salvato la fede e la civiltà in Europa, a Corfù, a Lepanto, a Buda, a Vienna fiaccando la mezzaluna; liberando la Spagna dai Saraceni dopo secoli di guerre; la Polonia dai Moscoviti nella grande giornata di Osran; due volte la Francia e dalla rabbia albigese e dalla protervia ugonotta? Ed a numerar le tante conquiste del Rosario in Africa, in Asia, e nelle Americhe, coll’aprire a quei poveri selvaggi un’era novella di fede e di civiltà, da aver fatto dire ad uno storico, che il Rosario ha dati più servi a Maria nel nuovo mondo, che il protestantesimo non le aveva rapiti figlioli nella vecchia Europa.
 
Sì, certo, con il solo additar quei dipinti voi ricorderete quelle parole carissime, tante volte dette a Maria, e a S. Domenico moribondo ripetute: L’Ordine tuo è l’Ordine mio: i figli tuoi son figli miei – E se i fedeli, guardando quegli angeli che spargono rose attorno a S. Domenico, correranno con il pensiero alle mistiche rose, di che tanto si piace a Maria; comprenderanno pure perché la predilezione di Maria per questa ha meritato anche alle rose materiali benedette dai P. Domenicani la doppia virtù di guarire gli infermi e liberare gli ossessi.
 
Andate ora a dar torto a S.ª Teresa, quando diceva: Io son domenicana per passione. – Né crediate che s. Domenico si lasciasse vincere in cortesia da questa suo figliola adottiva: che un giorno non aveva ancora finito queste parole, e apparve tutto benigno il santo Patriarca, e come a figliola carissima ogni suo aiuto e favore le promise.
 
Oh, il bel guadagno che hanno fatto gli eretici!
 
È vero, de’ soli domenicani han bruciate sette brave centinaia di conventi; ma con il Rosario tra le mani il solo S. Domenico ha debellata in Francia l’eresia albigese, in sola Lombardia ha convertite cento belle migliaia di eretici, e di peccatori tornati a coscienza c’è da contare le stelle.
 
Ma sapete che mi frulla per il capo?
 
Se stesse a me, su quel pilastro lì di fronte farei dipingere un S. Domenico che esorcizza l’ossesso, ed accanto un bel gruppetto di neri demoni, i quali con quelle loro granfe unghiate tenessero spiegato un ampio cartellone. E su questo si leggesse a grossi caratteri quel rabbioso discorso, che il demonio una volta, così obbligato dal santo, faceva per bocca di un povero ossesso:
 
“Maledetta sia, o Domenico, la tua divozione alla Vergine Maria! Maledetti i tuoi frati! Maledetto il tuo Ordine! Vorrei soffrire il doppio le pene infernali e non pubblicare le tue lodi! – Io vi dico che Domenico è il più intimo amico di Maria. E tu, gran Dio, mi costringi a lodare costui, il più grande dei miei nemici, perché tu vuoi che tutti sappiano quanto sia buono e salutare amare tua Madre ed a lei servire devotamente. Domenico, io sento per te un odio più profondo che gli uomini non han per la peste. No! Le tenebre dell’inferno non mi affliggerebbero tanto, quanto mi cruccia il discorso che sono costretto a fare in tua lode. Oh quanta devozione avesti tu per Maria! Chi vuol quindi essere amico di Maria deve a Domenico ubbidire con fervore”.
 
Ove mai per sorte mi venisse fatto d’imbattermi in qualche sciolotto volterianello, che fosse qui venuto per solamente portare in giro l’occhialino, me gli vorrei curvar pienamente all’orecchio, e sì vorrei dirgli: Signorino! Voi non ascoltate prediche né di preti, né di frati; venite qua! c’è una casetta che fa per voi, Un bocconcino di predica vel fo sentire di bocca stessa del diavolo; e vi dico io che il vostro compare non ha predicato mai meglio.
 
Sì, andate a far dispute con costoro: andate a sciolinare conferenze! E non sapete voi che cosa disse a S. Domenico la Madonna? Non perdesse tempo a far dispute, predicasse il Rosario; al resto penserebbe Lei.
 
E che altro, se non appunto il Rosario, stanno qui predicando non solo le pitture, ma le mura stesse di questo tempio, e l’accorrere di tanti devoti, e il racconto degli splendidi prodigi? Oh vengano! Vengano, non vuol dire i nuovi albigesi, vengano tutti; chiunque ha bisogno di Maria. Vedendo sì largo popolo di eletti raccolto sotto il celeste manto di Maria, avranno un lampo al cuore, e, a somiglianza del giovane Alfonso Ratisbonne in S. Andrea della Valle a Roma, grideranno: Io sono cristiano, io sono cattolico, io sono figlio di Maria! – E se il B. Claver, votandosi per la missione dei negri sottoscrisse il foglio: Pietro schiavo de’ negri sempre – questi singolari neofiti non usciranno da questa chiesa senza prima aver deposto ai piedi della prodigiosa Immagine un foglio di loro pugno sottoscritto: N. N. schiavo di Maria per sempre! Di questa chiesa usciranno commossi, dicendo come S. Stanislao Kostka: Io voglio amare Maria! Iop voglio amare Maria!
 
Torneranno a casa riprotestando, come il ve, D. Martinez della C. di G.: Vorrei avere tutti i cuori degli angeli e dei santi per amare Maria, come essi l’amano. Vorrei tutte le vite degli uomini per spenderle tutte in onore di Maria. Brameranno, come il B. Rodriguez, dar la vita in protesta d’amore a Maria.
 
Per professarsi incatenati d’amore a Maria porteranno al collo giorno e notte la corona, come facevano S. Alfonso e B. Labre, e come ai suoi novizi prescrisse nelle “Regole” il B. Alano; ed, ove il caso si desse, crediamo imiterebbero quel neofito indiano, il quale, dagli idolatri parenti tentato a torsi giù dal collo la corona, rispose: Per togliermi questa corona dal collo bisogna prima tagliarmi il capo dal busto.
 
Né sembri esagerato il nostro dire quando sappiamo che un Francesco Bisanzio religioso, ed una Radegonda consorte di re Clotario portarono tanto innanzi l’amore a Maria da scolpirsi con un ferro sul petto l’amabile nome di Lei.
 
Uscir matti di Maria! Ecco il voto supremo di tutti i zelanti l’onor della gran Signora; - ecco l’augurio che mandiamo di cuore ai nostri cari fratelli separati; - ecco la bella impressione che si riporta dalla grandiosa dipintura di quella cupola.
 
È l’apoteosi del Rosario! Un bravissimo pittore!
 
(Sac. Nicola Borgia)

L’impegno dell’Arcivescovo, Mons. Carlo Liberati, perché il tesoro d’arte e di fede tornasse all’antico splendore
Oggi questo capolavoro di arte è ritornato ad aprire il suo squarcio di paradiso per innalzare lo spirito di ogni pellegrino che giunge a Pompei verso la visione della gloria dei santi.
Grazie all’interessamento e allo zelo del nostro Pastore, S. Ecc.za Mons. Carlo Liberati, che da quando ha iniziato il suo ministero pastorale in questa Valle di Pompei continua attraverso la predicazione e l’esempio ad indicarci la strada per il cielo, il tesoro d’arte di questo tempio è
ritornato a parlare con i suoi colori, con i suoi simboli, con le sue immagini della gloria di Maria e del Cristo suo Figlio e Signore.
(Autore: Riccardo Pecchia)

Una posa gentile, un gesto gentile
In un giorno di fine settembre 2013, fu notata una signora che, in Santuario, rivolto il viso verso la cupola, osservava le figure rappresentate da Angelo Landi nel suo affresco "Sogno o visione di San Domenico".
Aveva una foto tra le mani e indicava alla figlia questa o quell’immagine. Incuriositi, fu avvicinata e raccontò una storia sorprendente.
Nel 1939, ancora undicenne, Giovanna Vecchioni posò per il pittore, che la immortalò nella sua opera, conclusa nel 1941.
A ricordo di quell’incontro, la signora ha una dedica di Landi dietro la foto che la ritrae: "A ricordo di una posa gentile, un gesto gentile".

*Maria Assunta nella gloria del Paradiso

Santuario di Pompei. Maria Assunta nella gloria del Paradiso, affresco di Arzuffi

*La Maestra

È il di questo pannello bronzeo (cm 200 x 110) ideato dal Comm. Gian Paolo Quinto e modellato da Cesarino Vincenzi. Ma è anche la sintesi della vita di Rosina Quinto Bergonzoni. Il Comm. Gian Paolo, con pensiero gentile, ha voluto donare quest’opera come ex voto ed in ricordo dell’attività di insegnante della propria consorte, con l’augurio che essa rappresenti l’ideale della classe per i nostri alunni.
Scrive Mario Nebbiai: "È merito dell’Artista che ha saputo infondere nei protagonisti, immagini di pace interiore come le montagne <<sorgenti dalle acque>>!
E questa pace è in ognuno dei presenti, anche se per un attimo appena distolta dall’ingresso dalla <<comune>> di due allieve giunte in ritardo e accompagnate dalla severa, ma materna, figura del custode.
Ma, su tutti si taglia, ed è giusto che sia così, la figura della <<maestra>>, pacata e sicura: quel libro aperto, ma abbassato, alludendo al momento della riflessione, sintetizza l’afflato con gli allievi, quasi una sintesi di pensiero che aleggia sull’Opera".
Un’Opera figurativa veramente notevole che sarebbe bene restasse nel tempo, posta ad un’altezza dal suolo ben studiata, e trovasse degna parete a riceverla.
Perciò abbiamo pensato alla nostra scuola presso l’Istituto Sacro Cuore con i suoi 400 alunni; frequentano ancora le elementari, ma forse non è male presentare certe immagini fin dalla tenera età.

(Autore: Pietro Caggiano)

*Nuova porta di bronzo dedicata a B.L. e alla Contessa

La nuova Porta di bronzo dell’ingresso della navata laterale destra del Santuario, opera di don Battista Marello, sacerdote e artista, è dedicata al Beato Bartolo Longo, alla consorte Contessa Marianna Farnararo De Fusco e alla loro opera fondatrice, evangelizzatrice e caritativa. Si compone di otto pannelli a rilievo, realizzati a “fusione a cera persa”, della dimensione di cm 60 x 60, adagiati su di un fondo bronzeo delicatamente istoriato, raffiguranti scene che raccontano momenti salienti della vita e delle opere del Beato realizzate insieme alla consorte.
Nella parte superiore della Porta, sezione fissa, sono raffigurati in due pannelli i ritratti affrontati, a grandezza reale, di Bartolo Longo, colto nel gesto di porgere il modello del Santuario col campanile, e della Contessa De Fusco, raffigurata in preghiera nell’atto di sostenerne la realizzazione.
La parte inferiore del Portale reca la frase che ha segnato l’Anno Longhiano, espressione che, percepita quel giorno lontano nel cuore di Bartolo Longo e poi giunta sino a noi, invita alla preghiera del Santo Rosario quanti varcano la nuova porta d’ingresso: «Se cerchi salvezza, propaga il Rosario».
La solenne conclusione dell’Anno Longhiano
Nella ricorrenza, celebrata giovedì 26 ottobre, i fedeli sono giunti in processione accompagnando la statua e la reliquia del Beato fino al sagrato del Santuario, dove l’Arcivescovo Tommaso Caputo ha benedetto la nuova Porta di bronzo, all’ingresso della navata laterale di destra della Basilica, opera di don Battista Marello, sacerdote e scultore.
Al termine della Santa Messa, il Prelato ha consegnato ad alcuni rappresentanti della comunità civile ed ecclesiale una corona del Santo Rosario, radice stessa del Santuario, e la sua Lettera alla Città e ai fedeli, intitolata “Pompei, modello di fede e di carità. La profezia compiuta di un laico innamorato di Maria” e pubblicata proprio in questo giorno specialissimo, in cui tra l’altro si fa memoria della beatificazione di Longo, avvenuta nel 1980.
L’inaugurazione della nuova Porta di bronzo (26.10.2023)
In obbedienza al Beato, aggiungiamo un altro tassello a questo Tempio che genera in tutti il senso dello stupore. L’opera è dedicata al Beato Bartolo Longo e alla consorte Contessa Marianna Farnararo De Fusco e alla loro missione fondatrice ed evangelizzatrice. A creare l’opera è stato Don Battista Marello, sacerdote e artista, già autore del Portale centrale della Basilica, inaugurato il 5 maggio 2021».
La realizzazione della Porta, potente simbolo evangelico, è stata resa possibile grazie alla generosità della famiglia Canciello, che ha partecipato all’inaugurazione insieme all’autore, don Battista, che ha espresso riconoscenza per avere avuto la gioia di realizzare quest’ulteriore tassello che rende sempre più bella la Basilica mariana. Le porte del Santuario, ha affermato l’Arcivescovo, «varcate ogni giorno da migliaia di pellegrini, sono braccia aperte, rifugio sicuro per gli uomini e le donne del nostro tempo. Tutti sono accolti dalla Madre, Ianua Coeli-Porta del Cielo, che li accompagna all’incontro con Gesù.
Tutti entrano in chiesa, ma poi ne escono, ricchi dell’incontro col Signore Risorto e con la Sua e nostra Madre, e tornano a vivere nella quotidianità, da missionari, capaci di gesti che cambiano e fanno nuova la storia dell’umanità».
(Da: Il Rosario e la Nuova Pompei – n° 5 Ottobre-Novembre 2023

*Statua di Francesca Saverio Cabrini

Francesca saverio Cabrini e la Madonna di Pompei

Dal porto di Le Havre, in Francia, a New York e, poi, in Nicaragua, a New Orleans, a Panama, a Buenos Aires, nella capitale inglese Londra e a Liverpool.
Sono solo alcune delle tappe dei viaggi missionari di Santa Francesca Saverio Cabrini, canonizzata da Papa Pio XII nel 1946 e riconosciuta, nel 1950, "celeste patrona di tutti gli emigranti". Una santa attualissima, cui tanti guardano in un tempo, com’è quello d’oggi, in cui le statistiche rilevano interi popoli in movimento.
Qualcuno parla di 240 milioni di persone che, nel mondo, a causa delle guerre, della miseria, dell’assenza di lavoro, abbandonano il proprio Paese per trasferirsi in quell’altrove dove costruire una vita diversa. E Santa Francesca non viaggiava nella prima classe dei transatlantici, ma su umili navi che percorrevano l’Oceano impiegando decine di giorni per raggiungere la meta.
Lei, con alcune compagne, Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, la congregazione di religiose che aveva fondato nel 1880. E viaggiava insieme agli emigranti.
Per usare un’espressione che Papa Francesco ha spesso pronunciato con riferimento ai sacerdoti: era una suora con "addosso l’odore delle pecore". La sua terra di missione era il cuore spezzato da chi partiva lasciando a casa ogni cosa se non i propri averi che riusciva a chiudere in una valigia stipata di abiti e ricordi.
Il 22 dicembre ricorrono i cento anni dalla morte di santa Francesca, che il Signore chiamò a sé mentre era in viaggio verso Chicago, nel 1917. Era già ammalata, minata nella salute dai luoghi
attraversati, spesso malsani e paludosi, eppure indomita serva di Dio e degli uomini.

La religiosa aveva una particolare devozione per la Madonna di Pompei. Non a caso, in una nicchia prima dell’ingresso nella Basilica, il 7 maggio 1970 fu collocata una statua, opera dello scultore Domenico Ponzi, che la raffigura con una lampada tra le mani, simbolo della fede che arde.
Al suo fianco è un giovanissimo emigrante che scioglie la corda che tiene ormeggiata la nave nella colonna del molo, ultimo legame con la terraferma e la patria, in basso è l’iscrizione: "Santa Francesca Saverio Cabrini visitò il Santuario l’11 marzo 1893 per sciogliere il voto fatto durante la terribile traversata da New York al Nicaragua.
Tornò nel luglio 1898". E poi la frase finale, tratta dagli scritti di Madre Cabrini: "A Pompei trovasi la Madonna tanto buona": Dall’epistolario della Santa si evince che i viaggi nella città mariana erano anche motivati da altre grazie ottenute. L’8 febbraio 1893, scrive a Suor Cherubina Ciceri, direttrice della Casa di Granada, in Nicaragua: "Per la metà di marzo, io sarò già stata a Pompei a ringraziare la Madonna del miracolo della tua guarigione avendole promesso che entro un anno vin sarei andata. Sì, figlia mia, tu sei viva per la Madonna, vedi quindi di essere sua vera e fedele figlia".
Santa Francesca chiede e la Madonna risponde in modo concreto, proteggendo Granada, sempre in Nicaragua, dalla guerra: "Io confido – scriverà il 7 luglio 1893 alla stessa consorella – nella gran Madre e già promisi in nome vostro che tornerò a visitarla a Pompei e le faremo presto la cappellina in giardino per ottenere che si distenda la pace in tutta codesta Repubblica".
Alla Vergine che – come dice ancora Madre Cabrini – "par mi abbia promesso larghi aiuti per sempre all’Istituto", la Santa affida le sue suore: "Pregate sempre di cuore la Madonna di Pompei – le esorta – vi aiuterà in modo meraviglioso".

(Autore: Giuseppe Pecorelli)

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