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Amici di Bartolo Longo

Bartolo Longo

Ecco alcuni degli Amici di Bartolo Longo. La loro compagnia e il loro esempio, ci sollecitino ad amare di più i bisognosi. È stato difficile scegliere alcuni nomi, considerando la vastità del numero dei collaboratori che hanno avuto un ruolo importante nella storia di Pompei. Il filo sottile che unisce i tanti personaggi a Bartolo Longo è sempre, per ognuno, rappresentato dalla dimensione ricorrente nella loro vita, di tre componenti essenziali: carità, amore, amicizia! Rileggendo qualche passo degli scritti di Bartolo Longo si può, più facilmente, riaffermare la convinzione che per la realizzazione di ogni opera, il primo segno della Provvidenza si manifesta con l’incontro degli amici. Da ciò si scopre il beneficio della solidarietà e della compagnia nel lungo andare per le strade della missionari età.


*Amici, collaboratori e santi compagni di viaggio di Bartolo Longo

Una miriade di persone, più o meno note, a partire dagli umili trasportatori delle pietre per la costruzione del Santuario, sono da annoverarsi nello straordinario "Progetto Pompei", per il quale l’avvocato pugliese fu capofila d’eccezione e attento esecutore della volontà di Dio.
"14 maggio 1876… Era un tenero spettacolo a vedere tante persone di ogni età tornarsi, per la via principale che da Napoli mena a Salerno, tutte curve sotto il peso dei sassi che si portavano addosso con una fede umile e sincera, ma ad un tempo forte e sprezzatrice di ogni umano rispetto. Anche io, del numero degli avventurati, portai sulle spalle il mio sasso…",
È Bartolo Longo, il Fondatore della nuova Pompei, che racconta nella "Storia del Santuario di Pompei" (pp. 169-182) gli inizi della costruzione del Tempio, oggi Basilica Pontificia.
Questo fatto storico è anche "il simbolo" di tutta l’Opera pompeiana. Ognuno potrebbe o dovrebbe dire "c’ero anch’io".
Tra le prime iniziative del Longo si annovera la fondazione della Confraternita del Rosario, che è per sua natura un fatto collettivo.
Di qua passò all’associazione di coloro che sottoscrivevano un’offerta mensile di "un soldo". È lo spirito confraternale che emerge e che guida gli inizi della storia pompeiana. Ma egli non si accontentò di questi angusti limiti, che mal si accompagnavano allo sviluppo provvidenziale del "progetto Pompei".
Perciò egli, che "aveva portato sulle spalle il suo sasso", per amore di Maria percorre l’Italia salendo "le altrui scale"; diviene scrittore e pubblicista; inventa un nuovo modulo di impegno sociale; organizza, infine, una rete di amici dell’opera che ne garantiranno la continuità.
Si può affermare che, in 125 anni, oltre cento milioni di persone – forse duecento – abbiano concorso a tale edificazione e vitalità.
Molti di questi avvicinarono a familiarizzare con il Beato, che nei cinquant’anni di presenza a Pompei, nulla trascurò per coinvolgerli, in vario modo, nella nascente istituzione.
Ma tutti, anche se appaiono marginali ed anonimi per gli uomini mai per Dio, sono e debbono sentirsi membra vive della grande famiglia pompeiana.
Solo Dio conosce, in realtà, quante persone sono state "toccate" da questa "Presenza Mariana" in Pompei. Va subito detto che, accanto a questa schiera di Amici, Don Bartolo incontrò degli autentici nemici che gli diedero "fil da torcere" accusandolo di errori, malversazioni ed altre ignominie, solo per invidia.
Oggi sembra naturale il fervore dei movimenti ecclesiali ed il coinvolgimento dei laici nella vita della Chiesa. Esso è il frutto di un lungo cammino, non privo di difficoltà ed incomprensioni. Basti qui ricordare che i santuari mariani di Lourdes, Pompei e Fatima sono sorti nel dialogo della Madonna con dei laici (Bernadette, Bartolo Longo, Lucia, Giacinta e Francesco), che trovarono la
naturale e prudente resistenza delle autorità ecclesiastiche.
Ma la volontà di Dio si compì, secondo i programmi, ed i protagonisti si santificarono nella risposta alla propria vocazione. Altri santi fiorirono o si incontrarono attorno a questi cenacoli dello spirito. E sono proprio loro, anche se pochi, che hanno caratterizzato, con la propria opera, la nascente istituzione. Di essi c’è un ricordo visibile nel pronao della Basilica o nei giardini circostanti o in quadri diffusi nei corridoi.
Ne ricordiamo alcuni, rinviando per notizie più approfondite alla Storia del Santuario ed alla vita del Longo (A. Illibato, voll. I e II, pp. 257-302 e 429-467).
Il Beato Ludovico da Casoria (ispiratore della carità verso tutti e dell’attività tipografica), la Caterina Volpicelli (grande promotrice della devozione al Sacro Cuore, che ospitò la contessa De Fusco nella vedovanza e Bartolo Longo dopo la conversione), S. Giuseppe Moscati (il medico dei poveri a Napoli e degli alunni negli Istituti di Pompei).
E poi P. Leone, P. Ribera, Don Bosco, Don Rua, Don V. Sarnelli, Sisto Riario Sforza, A. Capecelatro, Padre Pio.
I santi cercano altri santi. Infatti un santuario, per la sua specifica natura di rappresentare la presenza particolare di Dio, non può essere frutto esclusivo della volontà umana. E perciò il nostro Fondatore sentì il bisogno di consigliarsi e confrontarsi con uomini di santa vita per meglio realizzare il progetto che gli "cresceva tra le mani".
Né mancarono significativi incontri e collaborazioni con personaggi istituzionali: in primo luogo i Papi da Leone XIII a Pio XI; i vescovi della diocesi di Nola cui apparteneva la Valle di Pompei, i sindaci di Scafati o Torre Annunziata ed in particolare Nicola Amore, sindaco di Napoli e collaboratore del Beato nella stesura del regolamento per l’opera dei figli dei carcerati. Il registro delle firme, iniziato nel 1890, testimonia il passaggio di illustri personalità civili, militari e religiose. Una cura particolare fu posta dal Fondatore nell’avvicinare all’opera pompeiana anche "i lontani", in senso religioso o culturale, memore del consiglio di P. Ludovico da Casoria: la via della Carità porta a quella della fede.
Una parola particolare va detta sulla collaborazione del Fondatore con i religiosi. Egli era stato educato dai padri Scopoli a Francavilla Fontana ed aiutato da P. Alberto Radente, domenicano, nel momento della conversione.
Era logico che queste due famiglie religiose entrassero a far parte della direzione delle nascenti opere pompeiane. Altri religiosi e missionari prestarono la loro opera per la promozione della devozione al Rosario nel mondo (costruzione di chiese ed altari e traduzioni degli scritti del Beato in altre lingue).
Ma le idee ed i progetti – a dir poco geniali del Fondatore – dovettero confrontarsi con le regole istituzionali dei gruppi da tempo costituiti.
Non fu facile conciliare il nuovo carisma del Beato con quello preesistente delle famiglie religiose. In tutto questo influì non poco la novità che una famiglia di laici volesse guidare, in qualche modo, un’istituzione religiosa. Bartolo passò da una paziente e sofferta attesa, in alcuni casi, fino all’allontanamento delle persone e delle comunità, in altri.
Il fallimento iniziale di coinvolgere le monache domenicane nell’educazione delle ragazze e
gestione della segreteria della Basilica, lo convinse a fondare una Congregazione di Suore che avessero la precisa missione di sviluppare il carisma di Pompei. La Congregazione delle "Figlie del Rosario" ha superato i cento anni ed anche i confini della città, espandendosi in Italia, Filippine, India, Camerun.
Nella storia più recente si è presentato questo stesso dilemma: come è possibile conciliare la tradizione con le esigenze attuali? Fu il tempo in cui si pensò ad un gruppo di "Oblati" che meglio incarnassero le mutate esigenze della società, e quindi del santuario: si trattava di una quasi "rifondazione" dell’Opera. L’iniziativa non ebbe fortuna.
Oggi la presenza di una nutrita comunità sacerdotale "secolare" e diocesana rende più aperta e costruttiva la collaborazione con altre istituzioni e movimenti ecclesiali.
Il Testamento del Fondatore ha trasferito tale patrimonio ai suoi successori ed ai benefattori futuri. L’Opera, infatti, si sostiene con la carità dei fedeli, che vedono Pompei come parte della propria casa e famiglia. Attualmente (siamo nel 1999) circa300 mila persone, che rappresentano altrettante famiglie sparse in tutto il mondo, sostengono le iniziative proposte dal Santuario.
Sull’esempio del Fondatore è da ricordare che il necessario aspetto organizzativo ed istituzionale è solo l’involucro di una realtà palpitante la cui anima è la carità di cristo.
Prima foto: Pompei, i fedeli costruiscono la casa di Maria, olio su tela di 64x47 cm. -  opera di Umberto Genini.
Seconda foto: particolare dell’opera di Franco Gracco "Pompei, una singolare storia di Fede e di Amore".
Terza foto: "Pompei: pietre per il tempio", olio su tela di 77 x 57 cm. – Opera di Luciano Clerici.


*Alberto Radente O.P. (Michele Maria Salvatore)

Era nato a Napoli il 30 marzo 1817, nella domenica  delle Palme, da Giuseppe, impiegato della Zecca e da Michelina Mascia, che morì dando alla luce il figlio.
Entrò nel noviziato di S. Domenico Maggiore dove espresse subito la sua vocazione convinta attraverso le sue qualità intellettuali e morali.
A circa 17 anni, l’ 8 dicembre del 1833, vestì l’ abito di religioso domenicano e prese il nome di Alberto.
Il 9 dicembre dell’ anno dopo emise i voti in S. Domenico Maggiore.
Dal 1835 al 1842 seguì i corsi filosofici-teologici nello Studium generale “S. Tommaso d’Aquino” nel convento suddetto.
Nell’ ottobre 1843 si trasferì a Penne, in Abruzzo, con l’ incarico di “lector philosophiae”; in quel convento ebbe un seguito di studenti che fece storia per la bravura.
Lì, anzi tempo, potè “amministrare il sacramento di penitenza alle donne” ancor prima dei prescritti trent’ anni e divenne priore, anche questa fu un’ eccezione, a 28 anni, il 4 marzo 1844.

Dal 1845 al ’47 fu insegnante di teologia nel Seminario di Troia in provincia di Foggia.
Foto a destra: Il domenicano Padre Alberto Radente fu la guida provvidenziale per Bartolo Longo nel suo ritorno a Dio e, successivamente, nel suo impegno di vita apostolica a favore degli abitanti di Pompei. L'Opera è del Maestro Nicola Iuppariello. Nasce a Barra (Napoli) il 3 ottobre 1917, si diploma al R. Istituto d’Arte di Napoli seguendo gli insegnamenti del maestro Eugenio Viti. Muore il 6 luglio 1997.
Nel 1849, il 10 giugno, superò con ottimo esito l’esame “ad gradus” e “ciò nel 1855 gli permise di raggiungere il magistero in teologia anche se non fu subito incluso nell’elenco già nutrito, dei “maestri” della provincia Napoletana”.
Intanto tra il “1850 ed il 1852, tenne la cattedra di teologia nello “studium generale” di Bologna.  
È nominato segretario del consiglio conventuale.
Esaminatore dei candidati “ad gradus”, 1853 – 1855 insegna nel seminario di Larino (Campobasso).
Nel 1856 fu eletto priore in S. Domenico Maggiore a Napoli e riconfermato nel 1858, nell’elezione del 1860 e nel 1862.
Bartolo Longo conobbe Padre Radente perchè, gli fu presentato da Vincenzo Pepe la sera del 29 maggio 1865; da quel giorno gli incontri furono sempre più frequenti fino alla conversione totale dallo spiritismo.
Il padre domenicano ammise Bartolo Longo alla “nuova prima comunione” amministrandogli egli stesso l’ Eucaristia nell’ insigne Collegiata della Pietrasanta il giorno della festa del sacro Cuore di Gesù, che in quell’ anno 1865, cadeva il 23 giugno ed era di venerdì.
Il 15 gennaio del 1866 fu eletto priore del Convento di Barra, carica a cui rinunziò.
Nel 1868 “esaminatore dei vestiendi e delle opere da dare alla stampa.
Infine, nel 1872, il 21 novembre fu eletto priore del Monastero di Nocera Inferiore (Sa).
Morì a S. Domenico Maggiore il 5 gennaio 1885 e le sue spoglie, per volontà del Prelato  Mons. Anastasio Rossi, furono traslate nella cripta del Santuario di Pompei accanto a quel suo amico: il Beato Bartolo Longo che gli aveva dato ascolto e credito fin da quando passò dalla vita di spiritistica a quella di Terziario domenicano.


Un apostolo del Rosario nella Valle di Pompei
P. Radente a cento anni dalla morte

La ricorrenza centenaria della morte del p. maestro Alberto Radente OP, avvenuta nel convento di S. Domenico Maggiore, situato nel centro storico di Napoli. Il 5 gennaio 1885, merita di essere rievocata non certo per motivi di vuote celebrazioni o enfatiche esaltazioni, quanto invece per riscattare dall’oblìo una figura di studioso, di asceta, e di instancabile promotore del Rosario nel Mezzogiorno.
Egli nacque a Napoli il 30 marzo 1817. A soli quindici anni vestì l’abito domenicano nel convento di S. Pietro M., assumendo il nome del grande confratello tedesco del quale si propose di seguire le orme tanto nella ricerca scientifico-teologica, quanto nella santità della vita.
Gran parte della vita giovanile e formativa la trascorse in S. Domenico Maggiore, sede prestigiosa, fin dai tempi di Tommaso d’Aquino, dello "Studium generale". Fra quelle mura si manifestarono ben presto le sue doti intellettuali per cui poté lodevolmente completare l’"iter" degli studi prescritti per accedere ai gradi accademici conseguiti intorno agli anni 1840-45.
Giovanissimo salì la cattedra di filosofia scolastica del suddetto convento partenopeo, per poi andare, docente di teologia, nel 1846, nel seminario diocesano di Foggia. Ivi rimase per poco tempo, perché richiesto nell’ex capitale del Regno ove i figli di S. Domenico, ad opera del solerte provinciale, Tommaso Michele Salzano, davano nuovo impulso agli studi tomistici.
Nel biennio 1850-52 passò a Bologna facendo parte dell’équipe professorale di quell’antico e glorioso Studium dell’Ordine.
Nell’inverno del 1852 approdò al seminario di Benevento, sempre per l’insegnamento della teologia dommatica. Ultimo traguardo, per poi sottoporsi all’esame finale e fregiarsi del titolo di maestro fu il seminario di Larino. Qui tenne memorabili lezioni di diritto canonico e di teologia. Il persistente silenzio delle fonti documentarie dell’epoca, non consentono, purtroppo, di dare una valutazione complessiva dell’impegno didattico, svolto dentro e fuori dei limiti conventuali.
Vi è tuttavia una testimonianza significativa e autorevole: è del vicario generale e rettore del citato seminario abruzzese, can. M. Pescatore, che in data 23 giugno 1885 scrisse al capo dell’Ordine dicendo che il Radente aveva "letto teologia dommatica, morale e diritto canonico, con nostra piena soddisfazione e del pubblico, meritandosi la benevolenza, amore e gratitudine di tutti per lo bene apportato alla studiosa gioventù".
Ai candidati al sacerdozio, il Radente aveva infatti trasmesso non arida dottrina, né puri concetti legali ecclesiastici, ma si era fatto trasmettitore di pietà mariana, organizzando gruppi di preghiera tra i discenti e suscitando devozione particolare per l’Aquinante, attraverso il sodalizio della "Milizia Angelica". Anche a servizio della chiesa locale foggiana e larinese, fu assiduo nel ministero della confessione nelle rispettive chiese cattedrali; ascrisse, inoltre, al Terz’Ordine non pochi seminaristi e sacerdoti, per cui – stando alle affermazioni del citato rettore – fu sempre "di somma edificazione" a quella città e diocesi.
Un tratto saliente della sua personalità è, senza dubbio, la ricerca scientifica, coniugata ed equilibrata con lo zelo per le anime: un autentico domenicano che prima contemplava e poi predicava.
Ne è prova – per fare solo qualche esempio – la pubblicazione nel 1884, de "Lo studio letterario archeologico istorico fatto sul problema dei primi abitatori di America", edito a Napoli; alcuni "libretti ascetici", dati in luce in quegli anni, frutto di attento esame di princìpi generali, ma vagliati alla luce della dottrina tomistica, che devono guidare le anime nella vita spirituale e verso le alte mete della mistica.
Alcune lettere autografe, indirizzate a nobildonne della media borghesia napoletana come a claustrali domenicane e tuttora inedite, confermano la sua perizia nel guidare le coscienze inesperte alla vita interiore e all’unione con Dio, con forti incitamenti a vincere le manovre diaboliche di cui era divenuto, in molti anni di direzione spirituale nei monasteri domenicani di Napoli, di S. Giorgio a Cremano e di Sorrento, accorto scopritore, quanto frequente bersaglio, come egli stesso conferma a più riprese.
Il tramite però più esplicito e persuasivo per raggiungere e convertire le anime fu la corona dei misteri rosariani.
Devotissimo della Vergine, il Radente, rinverdendo la memoria di innumerevoli suoi confratelli dei secoli XVI-XVIII "promotores Rosarii" nell’area campana, trasmise l’amore per il Rosario per ogni dove: nelle parrocchie e nei chiostri, tra i ceti nobili e rurali (ignari delle verità
fondamentali della salvezza), nei sodalizi dei Terziari e nelle Confraternite omonime, disseminate nelle zone vesuviane, nei rioni delle città, nelle isole del Golfo. Ebbe, soprattutto, nel 1865, la ventura di conoscere l’avv. Bartolo Longo, cui trasmise non solo la grazia di ritornare a Dio dopo le terribili vicende seguite in Napoli per i legami avuti con lo spiritismo ed altri traviamenti interiori, collegati al clima di rottura fra Chiesa e Stato della capitale borbonica, ma per averne fatto il propagatore più convinto, culturalmente e spiritualmente, del Rosario, a Pompei e in molti centri del Sud.
Al giovane ed ardente avvocato pugliese, il domenicano seppe infondere la devozione secolare mariana che divenne dal 1871, ossia dalla sua iscrizione al Terz’Ordine con il nome di fr, Rosario, idea guida non solo per la sua ascesi personale, ma forza concreta, sorgente inesauribile di iniziative memorabili, tutte tese al bene di quella landa deserta di Pompei. Nell’antica città degli idoli pagani, il figlio di S. Domenico svolse un arduo e costante apostolato. Al sopraggiungere del Longo e dei gruppi secolari di uomini e donne, uniti nella Regola del Terz’Ordine, sotto la guida di un tale direttore e maestro di spirito, tutto rinacque a nuova vita cristiana. Le opere sociali sorte via via accanto al Santuario, possono ben dirsi fiorite – almeno alcune – all’ombra del primo Rettore, ossia il Radente.
Il 15 gennaio 1885, Bartolo Longo dando la notizia dell’avvenuto decesso del suo "dolce, benigno e caritatevole Direttore e Padre", pubblicata nel Bollettino de "Il Rosario e la Nuova Pompei" (anno II, p. 88), non poté trattenersi nella commossa rievocazione, dal presentarlo come "il primo Apostolo del Rosario in questa Valle di Pompei"; e aggiunse, rivolgendosi ai Terziari: "Ricordiamoci che il P. Maestro Radente, fu il nostro primo Direttore, il quale ai 22 di gennaio del 1874 ci raccolse per la prima volta in santa e mensuale adunanza… e per 11 anni continui, egli non ha mai lasciato una sola volta d’innaffiare con i suoi sudori e con le fatiche del suo apostolato questa pianta benefica del Terz’Ordine che S. Domenico pose in mezzo alla civile società".
In questa ottica, è utile seguirlo – attraverso l’epistolario, custodito nell’archivio del vetusto convento di S. Domenico;, di cui fu anche due volte priore in circostanze di alta drammaticità storica-politica, specialmente in coincidenza con i fatti travagliati del processo unitario (1860-62) – in questa dichiarazione, posso assicurare di me che se faccio qualche poco di bene, lo debbo tutto alla devozione del Rosario; e per l’esperienza che tengo, vi accerto che il mio spirito migliore o deteriore a seconda il fervore o meno fervore del Rosario".
Come dire che tutta la sua attività di predicatore, di confessore, di saggista, ebbe come idea generatrice e stimolante il bruciante amore alla Regina del Rosario, sino alla morte.
Un documentato profilo bio-bibliografico di questo infaticabile figlio di S. Domenico, ricercata guida spirituale di innumerevoli anime della Napoli del secondo Ottocento, sarà tracciato quanto prima dallo scrivente, dopo il primo approccio, con note inedite, proposto agli studiosi, presenti al Convegno storico promosso dalla Delegazione pontificia per il Santuario di Pompei, ivi svoltosi nel maggio del 1982.
Bastino, per ora, queste poche note, per decifrare i tratti salienti di un personaggio non trascurabile di uno dei numerosi conventi domenicani di Napoli, ricco di storia e di arte, e divenuto, nonostante la forzata chiusura durata venti anni (1865-85), centro propulsore di
iniziative culturali e religiose che lasciarono tracce profonde nella società partenopea del XIX secolo.
Le spoglie mortali del piissimo e e dinamico religioso furono trasferite dal cimitero di Napoli-Poggioreale a Pompei, per essere inumate nella cripta del Santuario mariano, accanto a quella di B. Longo e di Sr. M. Concetta De Litola O.P. (t1913), nel 1938. Fu una decisione, saggia e tempestiva, del Prelato, Mons. Anastasio Rossi, che intese così, una volta per tutte, evitare incombenti pericoli di obliare la memoria storica di un frate domenicano, benemerito, tra l’altro, di aver consigliato alla suddetta monaca consorella di consegnare al terziario Longo la "malandata" tela, raffigurante la Regina del Rosario, con le immagini di S. Caterina e che sovrasta sul trono dell’altare centrale del tempio.
La breve distanza che oggi separa il maestro e il discepolo, dopo l’erezione del nuovo altare per il Beato Bartolo Longo, non diminuisce, ma esalta ulteriormente le due grandi anime, inscindibilmente legate ad un unico, immenso amore per Maria, invocata da secoli "Regina Ss. Rosarii".
(Autore: L. Guglielmo Esposito)

Padre Alberto Radente, l’artefice della conversione del Beato Bartolo Longo

Il responsabile dell’Archivio storico e della Biblioteca della diocesi di Termoli-Larino pubblica, sul sito che la Conferenza Episcopale Italiana ha creato nei mesi di chiusura di marzo e aprile scorso per raccontare le esperienze delle diocesi del Paese nel tempo della pandemia, un testo per raccontare i legami del direttore spirituale del Fondatore del Santuario con la diocesi molisana.
Il Rosario trasmesso in diretta televisiva, il 15 aprile, dal Santuario Pontificio della Beata Vergine di Pompei, che anch’io ho seguito con particolare interesse, mi ha consentito di rammentare un argomento, mai trattato finora pubblicamente, che lega, in qualche modo, quel luogo famoso nella cristianità con Larino (Campobasso).
Bartolo Longo, beatificato il 26 ottobre 1980, fondatore del grandioso luogo di culto pompeiano ed amico intimo anche dell’insigne medico e professore San Giuseppe Moscati (1880-1927), fu avviato alla conversione da un personaggio che, dal 1852 al
1855, dimorò nella città frentana. Si tratta del napoletano, appartenente all’Ordine dei domenicani, Padre Alberto Radente (1817-1885) che, nella prima metà degli anni Cinquanta, ovviamente dell’Ottocento, insegnò dommatica morale e diritto naturale nel prestigioso seminario vescovile di Larino, noto non solo per essere giunto primo in assoluto nel mondo cattolico a norma del Concilio di Trento, ma soprattutto perché, durante il XVIII e XIX secolo, in particolare, fioriva "in qualunque ranco di scienza". L’istituto larinese fu per lui l’ultimo traguardo, per poi sottoporsi all’esame finale e fregiarsi del titolo di "Maestro". Proprio a Larino tenne memorabili lezioni di diritto canonico e di teologia. L’avvocato Bartolo Longo, che da giovane aderì alla contestazione anticlericale avvicinandosi molto ad un movimento spiritista, fu avviato alla conversione proprio da Padre Alberto Radente a cui fu presentato il 29 maggio del 1865. Da quel giorno gli incontri si intensificarono tanto da consentire, in breve tempo, la radicale "trasformazione" del futuro Beato. Padre Alberto Radente riuscì anche ad aggregare Bartolo Longo al Terzo Ordine di San Domenico e ad ammetterlo alla "nuova prima comunione" amministrandogli egli stesso l’Eucaristia, il 23 giugno successivo (1865). I resti mortali di Padre Radente sono custoditi nella cripta del Santuario della Vergine del Rosario a Pompei, di cui fu il primo Rettore. L’urna con le spoglie del Beato Bartolo Longo oggi è posta sotto l’altare della cappella a lui dedicata, adiacente alla stessa Basilica Pontificia, realizzata durante i lavori del Giubileo del 2000.

di Giuseppe Mammarella
(Il testo è stato pubblicato il 17 aprile, sul sito: chiciseparera.chiesacattolica.it)

Foto n° 1: Il raro disegno mostra un Padre Radente sprizzante intelligenza e profondità di spirito.
Foto n° 3: Le spoglie mortali di Padre Radente riposano nella cripta del Santuario "ai piedi" di Maria che aveva servito con tanto amore e zelo.

Ultima foto: Padre Radente raffigurato in una tela custodità nella casa natale del Beato, a Latiano.


*Alberto Lepidi
Biografia

Nato a Popoli in Abruzzo il 20 febbraio 1838 da nobile famiglia, gli fu imposto il nome di Alfonso, ricevette la formazione letteraria e di cultura dai Padri Gesuiti. Cambiò il nome in Alberto quando a 17 anni il 21 ottobre 1855 entrò nell'Ordine di S. Domenico nel Convento di S. Sabina in Roma, Frà Alberto fu successivamente, a 18 anni, presso il Convento di S. Maria della Quercia a Viterbo, ove si dedicò allo studio della filosofia e della teologia laureandosi precocemente a solo 22 anni.
Fu così destinato ad insegnare nella Provincia di S. Rosa in Belgio come Professore di Filosofia nel Collegio di Lovanio (Belgio) dal 1862 al 1868; nell'insegnamento emerse con tale eccellenza che trascorsi pochi anni fu Reggente degli Studi nel Convento di Flavigny nello Studio Generale della Provincia di Francia; Richiamato dalla Francia in Belgio, divenne Reggente del Collegio di Lovanio e Maestro di tanta fama che diverse Province Domenicane mandarono presso di lui i loro studenti affinché fossero formati alla scienza filosofica e teologica.
Il Collegio di Lovanio, centro degli studi teologici, diede ospitalità a religiosi Domenicani di ogni paese: francesi inglesi irlandesi tedeschi americani del nord e del sud, desiderosi di istruirsi e conoscere la dottrina di S. Tommaso D'Aquino seguendo le dotte e approfondite lezioni di P. Alberto Lepidi. Nel 1885 il Rev.mo P. Larocca, Generale dell'Ordine, constatate le grandi qualità e capacità del P. Lepidi, lo chiama a Roma come Reggente del Collegio Pontificio di San Tommaso alla Minerva, dove per dodici anni continui insegna e tratta la Somma Teologica dell'Aquinate. Grande fu il successo del suo insegnamento per il quale talmente crebbe il numero degli studenti da raggiungere oltre trecento presenze, mai raggiunto prima.
La Sala Gialla del Convento della Minerva, in cui si tenevano abitualmente le lezioni, divenne insufficiente ed allora fu restaurata al sala vicina alla Sacrestia e di lì gli studenti passarono alla Accademia dei Nobili in P.zza della Minerva e poi a Palazzo Sinibaldi in P.zza dell'Argentina e; e non erano soltanto gli studenti che andavano ad ascoltare il Maestro chiarissimo ma Vescovi, celebri professori, sociologi, uomini di cultura.
Sempre sotto P. Lepidi, per sua volontà e iniziativa furono allargati gli studi ed aggiunta la Facoltà di Diritto Canonico.
Manifestò tali doti e tali virtù, tale dottrina che gli meritarono la stima generale e soprattutto la piena fiducia del Sommo Pontefice Leone XIII che lo volle in Vaticano come Maestro del Sacro Palazzo Apostolico. Fu così per ventotto anni Teologo e Canonista del Papa sotto ben quattro Pontefici: Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI.
Morì il 31 luglio 1925 in Vaticano all'età di 87 anni e 69 di professione religiosa.
Padre Alberto Lepidi è stato protagonista di un movimento rinnovatore della filosofia cristiana iniziata nella prima metà del XIX secolo. Si adoperò con grande impegno in Italia ed in Europa per riprendere lo studio ed il pensiero di San Tommaso in un contesto culturale caratterizzato da razionalismo ed empirismo: il Neotomismo.
Fu filosofo, neotomista, teologo.
Il funerale fu celebrato nella Basilica di S. Maria sopra Minerva il Lunedì 3 agosto. La salma fu trasportata dal Palazzo Apostolico Vaticano e ricevuta dai PP. Predicatori con a capo il P. Zucchi, Priore della Minerva e deposta, dopo l'assoluzione sul letto funebre proprio dei Prelati Palatini, circondato da quaranta ceri. Giace in Roma al Verano nella Cripta dei Padri Predicatori dell'Ordine dei Domenicani.
Lettera del Rev.mo P. M. Fr. Alberto Lepidi 0. P. (Maestro del Sacro Palazzo Apostolico in Roma) al Commendatore Bartolo Longo.
Ill.mo Sig. Comm. Bartolo Longo
Ho letto il suo libretto sopra S. Michele Arcangelo e gli altri Santi Spiriti: io nulla v’ ho trovato, che possa riprendersi quanto alla dottrina. Quanto alla pubblicazione dell'argomento, se sia opportuna  per i tempi che corrono, né anche ho io nulla a dire in contrario; perché il suo scritto è sobrio, e si pubblica per illustrare la grande immagine degli angelici Spiriti nel Santuario di Pompei.
Coi sensi di vera stima e grande affetto, facendo auguri per la sua opera, mi professo.
Vaticano, 10 Febbraio 1907.

                                                                     Suo umilissimo servo
                                                                     fr. alberto lepidi O.P.

L’Arcangelo Michele, Custode del Santuario e della Nuova Pompei.
Perché scegliemmo S. Michele a Difensore e Custode del Santuario di Pompei?
Non senza ragione sin dal cominciamento del Tempio tra tutti i beati Comprensori del cielo , noi prescegliemmo S. Michele Arcangelo a singolar Custode e Difensore delle opere di Dio nella Valle Pompeiana. E scegliemmo il giorno 8 di Maggio, dedicato a San Michele, per porre la prima pietra del Santuario di Maria in Valle di Pompei.
Si legge nelle Scritture che Iddio ha annunziato per mezzo di questo eccelso Spirito il suo augusto Nome, quando sul Sinai per bocca di Michele dettò la legge e disse: Io sono il Signore Dio tuo. Ed inoltre Dio ha comunicato a questo Principe la sua suprema autorità, a lui affidando la difesa delle città, dei regni e dei popoli.
Michele per fermo protesse il popolo ebreo e quando viveva felice nella patria, e quando si pose in cammino verso la terra promessa.
Apparve vestito in abito bianco, armato di corazza d'oro, con una lancia in mano, per capitanare l'esercito di Giuda Maccabeo.
Venne Egli deputato da Dio a distruggere le schiere di Sennacheribbo, a liberare il popolo ebreo dalla schiavitù babilonese, ad occultare il sepolcro di Mosè, acciocché il popolo ebreo non rendesse un culto d'idolatria al corpo di quel famoso ispirato Condottiero.
Apparve Egli a Giosuè sul Giordano, e gli disse: « Io sono il Principe dell'esercito del Signore: Sum princeps exercitus Domini; e vengo in tuo soccorso: sarò ai tuoi fianchi, né ti lascerò. Gerico e le altre città, benché forti, saranno una parte delle tue conquiste; e molti re, che vedrai ai piedi tuoi, faranno il più bel trionfo delle tue vittorie ».      
Michele fu sempre il difensore della Chiesa contro tutti gli assalti del demonio. Si fece vedere all'Imperatore Costantino, e gli disse: - Io sono il Principe delle milizie celesti ed il Protettore dei Cristiani: io ti ho soccorso contro i tiranni nemici della Chiesa: prosegui a sostenere le ragioni di Cristo, ed io sosterrò le tue. –
Apparve a Carlomagno, come afferma il Baronio, in una famosa guerra contro i Sassoni. Egli fece riportare a Ramire, re delle Spagne, una strepitosa vittoria sopra i Mori, uccidendone ben settantamila, e prendendo prigioniero il re Abenaja.
Onde la Chiesa, dopo mille e mille altri prodigi ottenuti, chiama S. Michele Protettore e Difensore dei Cristiani. Eum custodem et patromun Dei veneratùr Ecclesia.
Ultimamente, il Sommo Pontefice Leone XIII a San Michele affidava la custodia di tutta la Chiesa, e a tutti i sacerdoti imponeva di recitare, dopo il Sacrificio divino, quella preghiera bellissima: S. Michele Arcangelo, difendici nella battaglia, contro la nequizia e le insidie del diavolo sii di soccorso. E tu, Principe della milizia celeste, con divina possanza ricaccia nell' inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che a perdizione delle anime si aggirano pel mondo.
Se dunque S. Michele è il custode di tutta la Chiesa e il difensore di tutte le grandi Opere divine, non era conveniente che a Lui fosse affidata la difesa di questa grande Opera di Dio nell'epoca moderna, che è il Santuario di Pompei?
L'apparizione di San Michele sul Gauro e l'èra di misericordia mariana a Valle di Pompei.
Ma un'altra ragione, diremo, storica e provvidenziale ci spinse a introdurre il culto del possente Arcangelo nella Basilica Pompeiana, la memoria cioè di una celebre apparizione.
Non è insolita l'apparizione di San Michele sulla terra.
Si è degnato per lo più di apparire sulle alte vette dei monti. Sceglie i monti, quasi per mostrarsi librato fra la terra e il cielo, sfolgorando con lo sguardo fulmineo ogni esercito nemico.
Or di rincontro al Santuario di Pompei si eleva, sopra di Castellammare di Stabia, il monte Gauro, il quale, rannodandosi cogli estremi della catena degli Appennini, segna l'ultima chiusura di questa Valle del Vesuvio.
La sua cima termina in una vetta acuta, e questa vetta è ripartita in tre punte, a somiglianza delle prime tre dita della nostra mano.
Era il secolo settimo della Chiesa. A Vescovo di Castellammare era un Santo, S. Catello, il quale usava sovente di notte raccogliersi sui dirupi di quel monte insieme coll'Abate di Sorrento, S. Antonino, a pregare. Una notte, mentre era immerso nell'orazione, in una gran luce gli apparve l'Arcangelo S. Michele, e, con voce maestosa insieme e soave, gl’ impose che edificasse un tempio in suo onore là dove avrebbe dato segnale con una fiamma. E la fiamma apparve subito sulla più alta delle tre punte che sormontano il Gauro.
Il Santo Vescovo immantinente, col cuore ardente dell'entusiasmo dei Santi, si accinse all'opera. La compì dopo molte contrarietà sostenute, e ingiurie e calunnie, onde soffrì anche il carcere. (Vedi Lezioni dell'Uffizio di S. Catello nel di della sua festa, 19 di Gennaio).
Qual era il fine dell'apparizione del grandioso Arcangelo?
Vi è tutta ragione di credere che il Signore abbia fatto apparire il suo fedele Ministro per preparare tanti secoli innanzi il regno di Maria in questi luoghi, abbandonati nei tempi antichi all'impero del Demonio e della colpa.
Il portentoso Arcangelo venne a scacciare Satana dalla terra dei pagani, sulla quale doveva sorgere un giorno, e propriamente ai dì nostri, una novella èra di grazia , una luce nuova di misericordia.
Per tale ragione sin dal 1876 proponemmo al santo Vescovo di Nola, Monsignor Formisano, che la prima pietra
per le fondamenta di questo nuovo tempio di Maria si ponesse proprio il giorno 8 di Maggio, perché quel giorno ricordava l'apparizione in queste contrade dell'eccelso Arcangelo S. Michele.
Pel volgere incessante di trentun anno, sempre, nel giorno 8 di Maggio, abbiamo invocato con fede il primo Angelo del Cielo, perché si unisse insieme con noi per festeggiare la comune Regina.
Ed in ciascun anno, in quel giorno 8 di Maggio, noi ricordiamo due solenni epifanie. Il maggior Principe del cielo, che ha nome meraviglioso, si manifestava alla terra, scegliendo a spettacolo dei suoi prodigi la vetta di un monte.
La più grande Regina che mai abbia avuto e cielo e terra , si manifestava anch'Essa ai gementi figliuoli di Eva, scegliendo a centro dei suoi portenti un'umile Valle, la Valle di una sepolta città pagana.
Segnerà adunque per noi quel giorno due solenni trionfi : Il trionfo del più maestoso Angelo del Cielo, di quel Principe grande, come lo chiama Daniele, il quale, prima della creazione dell'uomo, con l'invitta spada della sua fede, della sua umiltà e della sua mansuetudine, difese l'onore dell'Altissimo e dell'Immacolata Donna che doveva nel tempo essere la Madre del Verbo di Dio fatto uomo. Ed insieme il trionfo di Colei che è la Regina della Misericordia, e che nell'epoca moderna doveva nella Valle di Pompei riportare su Satana nuove e stupende vittorie.
Inno all’Arcangelo S. Michele
Del prof. D. Giuseppe De Bonis Arciprete di Vallecorsa (La cantavano le Orfanelle l’ 8 Maggio nel Santuario di Pompei)
Nunzio del Nume e vindice
Dèll’immortal sua gloria,
Tu che le schiere angeliche
Guidasti alla vittoria,
II tuo fulmineo brando
Sul capo roteando;
Del dèmone infedel;
Vieni a posar sull'inclito

Tempio, o Michel, di Lei
Che a sé rapisce i popoli
In Valle di Pompei;
Come sul Gauro monte,
Cinto di raggi il fronte,
Scendesti un dì dal ciel.
Pace ed amor sorridono
In queste verdi aiuole,
Dove lo stuol dell'orfane
Scherza tranquillo al sole;
E cento bimbi in festa
Levan la bionda testa
Fra nuvole di fior.
O invitto Prence, a reggere
Questa gentil dimora
Deh! vieni, e teco unanimi
Noi pugneremo ancora;
Tu con lo stral sovrano,
Noi col rosario in mano
E col desìo nel cor.
Vita di Fr. Alberto Lepidi
Nacque a Popoli (Abruzzo) il 20 febbraio del 1838.
Fu un grande docente, filosofo e tomista dell’ Ordine Domenicano e reggente di vari collegi fra i quali San Tommaso d’Aquino in Roma.
Il Papa Leone XIII lo teneva in grande considerazione e stima e, dal 1897 fino alla sua morte, lo volle Maestro dei Sacri Palazzi Apostolici.
Fu direttore spirituale di Madre Antonia Lalìa e, stando al suo fianco nell’opera di fondazione della Congregazione, dimostrò di avere per la suora una profonda stima.
Morì a Roma il 31 luglio del 1925.


*Alfonso Maria Fusco

Si infoltisce la schiera dei Beati e dei Santi che hanno conosciuto il Beato Bartolo Longo. La Chiesa ne ha proclamato la chiara ed eroica esemplarità della vita e li ha additati come modelli di santità perché ciascuno possa imitarne la preziosa testimonianza, tra questi vi è il Beato Alfonso Maria Fusco.
La Città Mariana crocevia di Santità
Ho sentito parlare per la prima volta del Beato Alfonso Maria Fusco circa 20 anni fa, quando le sue "Figlie, le Suore di San Giovanni Battista (Battistine)" accolsero generosamente gli orfani del Santuario nelle due colonie marine di Misano Adriatico a Cetraro. Notai da subito quella carità gioiosa che rende gradita ogni accoglienza dell’altro.
Ma conviene, ora, dare altre brevi notizie sulla Congregazione, che, attraverso le altre cento case in Italia ed all’Estero, gode di una larga visibilità e rappresenta l’Opera maggiore ed ancora viva, dal 1878, del Beato Alfonso Maria Fusco.
Il carisma, o la finalità specifica, della Congregazione si può sintetizzare in queste poche parole:
educare specialmente la gioventù povera ed abbandonata.
Non una mera assistenza, ma piuttosto un’adeguata preparazione artigianale per prepararsi alle difficoltà della vita.
Con questo programma, non senza momenti bui, il Fondatore si poneva tra i grandi benefattori della gente del Sud, meritando il titolo di "Don Bosco della Campania".
L’evoluzione dei e le mutate esigenze hanno portato a "rivisitare" (fedeltà dinamica) l’iniziale impegno caritativo estendendolo ad altre attività.
Ma chi è Alfonso Maria Fusco?
La bibliografia sul Beato, tra libri ed articoli, è composta da una cinquantina di contributi, con un
crescendo di pubblicazioni parallelo all’evoluzione del processo canonico di beatificazione.
Alfonso nasce ad Angri (Salerno) il 23 marzo 1839 e vi muore il 6 febbraio 1910. Ordinato sacerdote nel 1863, fonda la Congregazione il 26 settembre 1878.
Il Papa lo beatifica il sette ottobre 2001.
Fu un tempo molto particolare per gli eventi politici nazionali ed i riflessi sul territorio, che aggravarono la povertà della gente fino alla miseria più nera.
E fu proprio questa l’occasione a far risvegliare le coscienze più attente e generose nel promuovere significativi interventi di carità.
È il caso di Napoli e di Pompei insieme a questo dell’Agro Nocerino.
Scrive sinteticamente Mario Vassalluzzo in "Provvidenza, provvedi!", ed. Il Cammino, 2001, pp. 121-122: "Egli si sentiva fortemente chiamato a condividere le situazioni scabrose degli uomini che gli camminavano accanto nella società e si sforzava di vivere, quanto più possibile, nell’ascolto attento ai loro bisogni, scegliendo perfino la strada per mostrarsi loro compagno di viaggio, come il Risorto con i due di Emmaus (Lc 24, 12-35) o il buon samaritano che scende da Gerusalemme a Gerico (Lc 10, 29-37)".
Lo sostengono in questo arduo cammino di sacerdote amante dei poveri, l’Eucarestia, la Vergine della Provvidenza e dei sette dolori, S. Giovanni Battista e l’Angelo Custode.
Ma suo "angelo terreno" è il padre redentorista Giuseppe M. Leone, direttore spirituale di alcuni "santi" dell’epoca, ivi compreso il nostro Beato Bartolo Longo. Gli è facile perciò conoscere il
Beato, frequentare il Santuario ed entusiasmarsi per la carità qui vissuta sotto la guida della Madonna del Rosario.
Un pensiero, tratto dal suo volume "Maria tesoriera di tutte le grazie", Roma 2001, esprime bene il legame di profonda carità tra Maria, il suo Figlio Gesù e l’umanità.
"Or ditemi di grazia, è mai possibile trovare un cuore che più ci ama al di là del cuore di Maria, se Essa è giunta a dare la vita del Figlio, per la nostra salvezza?
Che se dunque Maria è giunta a dare alla morte per noi il proprio Figlio, se nel di lei cuore si ritrovano tutte le perfezioni degli Angeli e dei Santi, non vi sembra troppo giusto donare a Lei il nostro povero cuore, sapendo che il di lei cuore è ripieno di ogni virtù?
Essa certamente avvicinerà il nostro al suo virtuoso ed amante cuore, e non solo infonderà nei nostri cuori parte di quelle virtù di cui il suo fu tanto ripieno, ma, principalmente lo accenderà di quell’amore Divino di cui Ella è tanto ripieno" (pp 63-64).

(Autore: Pietro Caggiano)


*Alessandro Maria Carcani
Nacque a Roma il 2 maggio del 1827 conseguì, ventenne, la laurea in “utroque iure” ed a 26 anni ebbe il Diploma di Avvocato e esercitò la professione fino a quarant’anni quando lasciò la toga per vestire l’abito di religioso.
Era molto stimato dal Card. Raffaele Monaco La Valletta, Penitenziere Maggiore, venne a Pompei nel
1887 per il grande evento della collocazione della Madonna sul nuovo trono a Lei innalzato.
Il Card. La Valletta, Vicario Pontificio per il Santuario di Pompei, lo nominò suo Vicario.
Successivamente alla morte di La Valletta, subentrò il Card. Camillo Mazzella, gesuita e Mons. Carcani venne riconfermato come Vicario, incarico riconfermato anche dal Card. Giuseppe Prisco.
Fu uno zelatore ammirabile del Santuario e delle Opere di Beneficenza del Santuario di Valle di Pompei, d’altra parte dimostrò di esserlo fin dal suo primo incontro con il Beato che avvenne a Roma nel 1884 in occasione della presentazione al Papa, Leone XIII de – “Il Rosario e la Nuova Pompei”.
Mons. Carcani morì a Roma nei primi mesi del 1908.


*Antonia Maria Lalìa  
Bartolo Longo e Madre Antonia Maria Lalìa

1893, si affaccia sulla scena della storia pompeiana un personaggio di primo piano nella grande famiglia di San Domenico: Madre Antonia Lalìa.  
L’ incontro con la Suora Domenicana avvenne a Roma i primi di dicembre del 1893; lì Bartolo Longo e la Contessa convennero sulla venuta della Madre a Valle di Pompei. Le furono esposti i progetti che, da tempo, erano stati redatti per l'apertura del noviziato.  Il 26 dicembre di quell’ anno 1893, Madre Lalìa venne tra le Opere di Bartolo Longo per prendere visione dell'incarico di
Superiora al Personale femminile del Santuario che le doveva essere assegnato qualora avesse accettato di lasciare S. Sisto.
Tuttavia, Madre Lalìa “parlò chiaro", disse che non voleva abbandonare la poverissima nascente fondazione di San Sisto a Roma, ma a Pompei poteva lasciare la propria compagna Calderato” soluzione che non fu accettata.  
Intanto in questo rapporto e della iniziativa di unire le due fondazioni veniva coinvolto Padre Alberto Lepidi, al quale Bartolo Longo confessò il suo desiderio di unire le due case, quella di S. Sisto con Pompei. Madre Lalìa certamente non avrebbe però lasciato la sua novella istituzione, anzi esprimeva il desiderio che Mons. Vincenzo Leone Sallua avesse mandato a Pompei Suor Maria Agnese Gambigliani che avrebbe ricoperto l'incarico di Superiora, mentre lei sarebbe restata a S. Sisto. Lì avrebbe potuto preparare le otto postulanti da inviare, come ottime religiose, a Pompei. Ne parlò e si consigliò con Padre Vincenzo Giuseppe Lombardo anzi, a lui si raccomandò "perchè scriva all'Avvocato perchè le mandi solo otto postulanti, e non tutte perchè Agnese era il sostegno del Monastero di Fabriano". Insomma, il progetto di unire Pompei a S. Sisto aveva ambiziose prospettive. Si riparlò di noviziato da aprire a Pompei e di preparare "ottime religiose e maestre per le scuole e la casa di Pompei".
L'abito sarebbe stato uniforme nelle due case e all'estero, di colore bianco come S. Domenico e con il mantello color viola. Vi era anche il progetto di preparare frati missionari destinati a Pompei e all'estero, da formare ad Acireale e che avrebbero potuto continuare l'opera dei Fondatori pompeiani anche nel fututo. Tutto il disegno andò sfumando e fallì ogni impresa anche a causa del concretizzarsi del progetto di una casa ad Asti dipendente da S. Sisto. Tuttavia, tra Madre Lalìa e Bartolo Longo non mancò la stima reciproca tant'è che a lei il Beato si rivolse per l'assistenza, nel 1896, nell'Ospizio di mendicità che il Longo aveva aperto a Latiano suo paese natio. Alle stesse suore di S. Sisto chiese aiuto per quasi otto mesi per la cura e la medicazione di circa trenta Figli dei Carcerati affetti da tigna.
In una lettera del 7 settembre del 1904, Bartolo Longo faceva esplicita richiesta al Card. Monaco La Valletta, di Suor Maria Gambigliani Zoccoli, Domenicana di Fabriano, per averla come Maestra delle novizie onde aprire un Noviziato a Valle di Pompei, avendo oltre quaranta giovanette che intendevano consacrarsi al Signore e restare a servizio del Santuario pompeiano.  La figura di questa suora è sempre presente in Bartolo Longo che fece molti voti per averla a Pompei.  
Madre Maria Antonia Lalia, sulla scia di Santa Caterina da Siena.
La Madre Suor Maria Antonia Lalìa nacque il 20 maggio 1839 a Misilmeri, in quella meravigliosa Conca d'Oro che circonda Palermo.
Era il tempo in cui l'Italia si preparava alla sua unità nazionale con il Risorgimento, che doveva in seguito snaturarsi con la lotta tra la Chiesa e lo Stato e la conseguente soppressione degli Ordini Religiosi, causa della distruzione di tanti valori culturali, morali, spirituali. Mentre si demoliva tutto un passato, la Provvidenza preparava una nuova primavera, una nuova stupenda fioritura.
Più è duro l'inverno, più è bella la primavera; più satanica l'offensiva del male, più divina la controffensiva del bene; più dura la persecuzione, più radiosa la rinascita della Chiesa. Don Bosco, il Cottolengo, Bartolo Longo, Pio X, P. Ludovico da Casoria, e uno stuolo di eroine di varie parti d'Italia risposero all'appello del Magistero. Poteva mancare la Sicilia? La piccola Lalìa al battesimo ricevette un bel nome: Rachele; ebbe la prima educazione in casa, quando le case delle famiglie cristiane erano santuari; fece la prima comunione a sei anni, caso rarissimo se non unico; all'altarino di casa ebbe i primi colloqui con la Vergine Santa e con Gesù; nel monastero delle Domenicane di Misilmeri fece gli studi e sentì richiami misteriosi verso Roma, verso San Sisto e verso l'Ordine Domenicano, di cui prese l'abito nel novembre 1859, consacrandosi tutta e per sempre al Signore.
Furono gli anni più belli, ricchi di sogni e di "pazzie", come essa avrebbe in seguito chiamato le
visioni e le profezie. Le autorità ecclesiastiche compresero le promesse del domani in quella creatura eccezionale. A loro volta le suore le regalarono la croce del superiorato per 24 anni. In quegli anni, mentre il governo della nuova Italia si ostinava nell'opposizione agli istituti religiosi, Madre Lalìa, rivelando una magnifica tempra di lottatrice, contrattaccava e teneva a bada gli untorelli di Misilmeri; contro quelli più grossi ricorreva al Consiglio di Stato a Roma e riusciva a far rispettare la libertà d'insegnamento del suo collegio e il suo diritto a sussistere.
Ma quella piccola siciliana guardava ben oltre le mura del suo monastero e i confini della sua terra: si può dire che si interessò degli avvenimenti europei e delle necessità del mondo intero con spirito ecclesiale e missionario. Alla vigilia del 1870, Roma sta per essere occupata, il papato stesso sembra in pericolo, la Francia vive un'ora tremenda. Madre Lalìa arditamente scrive e riscrive all'imperatore Napoleone III ammonendolo a non tradire il Papa perché un tal tradimento sarebbe fatale per l'imperatore e la Francia. Si direbbe che essa veda profilarsi minacciosa all'orizzonte la sconfitta di Sédan. Un altro problema, sentito da Madre Lalìa per tutta la vita, fino ai suoi ultimi giorni, fu la conversione della Russia. Si può dire che lo spirito missionario ferveva nell'umile suora siciliana come in San Domenico, che desiderava andare a convertire i popoli non ancora cristiani e aspirava a morire martire per la fede.
 Proprio durante la guerra del 1877 tra Russia e Turchia, che vede coalizzate contro la prima tutte le potenze europee, Madre Lalìa scrive allo Zar chiedendogli di concederle di aprire a Pietroburgo un collegio missionario per l'educazione delle fanciulle, come forma di apostolato. Può sembrare il sogno di una fantasia eccitata, ma Suor Antonia sente che quella è la sua missione, alla quale aspira e lavora sino alla fine della sua vita
. Non essendovi potuta riuscire in vita, lascerà quel progetto alle sue figlie, come scopo della Congregazione di San Sisto. Varie generazioni di suore si trasmetteranno quel sogno, che finalmente sarà realizzato un secolo dopo, nel 1993, Altri sogni di dilatazione oltre Misimeri:
entrata in contatto con il cardinale Lavigerie, apostolo dell'Africa, si dice pronta a partire per aprire una casa di missione a Tripoli. Non vi riesce. In contatto con il domenicano monsignor Del Corona, vescovo di San Miniato, vorrebbe persuaderlo a una fondazione missionaria in Toscana, dove però quel vescovo ha bisogno di suore per le sue opere locali, e ancora una volta Madre Lalìa deve rinunciare, ma non si arrende. Venuta a conoscere un altro domenicano, il P. Vannutelli, viaggiatore instancabile dell'Oriente, ne chiede la protezione. Nell'ardore della sua fede, sente il bisogno di consacrare se stessa e la sua famiglia spirituale alla riunione delle Chiese "dissidenti"- come si diceva in quel tempo - alla Chiesa di Roma.
Essa va ascritta nel novero dei pionieri in questo apostolato, che lasciò come ideale alle sue figlie. Per questo ottenne dall'Autorità Ecclesiastica di salire a Roma per fondarvi una nuova congregazione di finalità missionaria e, come si direbbe oggi, ecumenica. E anche su questa via si sarebbero mosse le sue figlie. A Roma fu consigliata e diretta da religiosi domenicani, tra i quali primeggia il P. Lepidi, Maestro del Sacro Palazzo, che la guidò nella  fondazione della Congregazione, nella preparazione delle suore per i tempi nuovi, nella accettazione dei sacrifici che le condizioni del momento imponevano a chi voleva operare per i santi ideali che la Provvidenza avrebbe fatto diventare realtà nel futuro.
Intanto Madre Lalìa riuniva e formava le suore, apriva le case in Italia (e una per l'apostolato tra gli insegnanti a Berna), pregava e soffriva conformandosi sempre più al Crocifisso. Dalla sua partecipazione alla Passione di Cristo nacque la Congregazione di San Sisto, che fin da bambina aveva sentito nominare da una voce misteriosa; nacquero le varie case; nacque tutta l'opera delle sue figlie in Italia, nell'America Latina, in Russia; nacque tutto quello che essa potè realizzare in vita, e anche dopo la morte, come in un momento di intuizione profetica aveva preannunciato: "Quando non ci sarò più, le mie opere fioriranno". Il prezzo, che essa dovette pagare per il futuro successo apostolico, fu molto alto.
Verso il 1909 cominciò a sentire o   presentire l'approssimarsi di un ciclone che poteva far crollare l'edificio da lei innalzato pietra su pietra. Venne infatti l'ora terribile vissuta anche da molti altri fondatori e fondatrici: l'ora del Calvario, che completa la conformazione a Cristo e porta all'eroismo della santità. Madre Lalìa lo sa, capisce ciò che la Provvidenza ha disposto: lei deve sparire, perché la Congregazione, opera di Dio, frutto di preghiere e di lacrime, viva. Con l'aiuto dei suoi direttori spirituali e specialmente, negli ultimi anni, del canonico Annibale di Francia, oggi Beato, si offre a Dio quale ostia sacrificale.
Deposta da Superiora Generale della sua fondazione, prende la via dell'esilio, benedicendo e baciando la mano che la colpisce. Come madre, è lei che deve soffrire, morire, per salvare i figli.
Come Gesù! Essa dice: "morte a me, vita alla congregazione!" In una lettera al canonico Di Francia del 7 marzo 1913, scrive: "Mio dolce esilio, mia cara prigione, mio delizioso paradiso! Gesù è solo in questo sacro ciborio, io sono sola in questa amata cella, Lui forma ed è il mio paradiso; spero da questo paradiso di santa rassegnazione passare all'eterno riposo."
La Tomba posta nell'Aula del Capitolo a san Sisto Vecchio -Roma- che raccoglie le spoglie venerabili di Madre Lalia, visitata da molte persone come dimostra il Libro delle firme.  
E lo raggiunge il 9 aprile 1914 in Ceglie Messapico, dove si era ritirata tra le consorelle, e dove venne sepolta. Ma il 22 luglio 1939 la sua salma torna trionfalmente a San Sisto Vecchio, nella tomba preparata per lei nel Capitolo dove San Domenico riuniva le monache da lui fondate e dirette.
Ě un fatto significativo: "la meschinella Lalìa", come essa si autodefiniva, così amante della povertà da affermare: "la povertà è la mia ricchezza", ora è onorata come Madre da tante Suore che a lei si ispirano e da lei imparano la via del Vangelo.
Lei, che tanto rispetto e affetto ebbe per i rappresentanti dell'Autorità ecclesiastica, ora li vede spesso riuniti intorno alla sua tomba, mentre nelle sedi competenti della Santa Sede si lavora per preparare il riconoscimento delle Sue virtù eroiche.
Nell'atmosfera di silenzio e di pietà del Capitolo, a tutti è reso più facile afferrare qualche raggio del mistero dei santi. (Mario Rosario Avellino)
Suor Maria Antonia Lalìa
Nacque a Misilmeri (Pa) il 20 maggio del 1839 e a battesimo le fu dato il nome di Rachele.
Suo padre, magistrato, era costretto a stare di frequente lontano da casa e perciò Rachele, che aveva problemi di salute, fu affidata nel 1854 al collegio di Maria di Misilmeri diretto da suore
Domenicane.
Qui nacque la vocazione e nel 1856 indossò l’abito di S. Domenico scegliendo come nome da religiosa Maria Antonia, il nome della madre defunta, aggiungendovi “del Sacro Cuore”.
A 18 anni, nell’ottobre del ’57, fu ammessa alla professione dei Voti. A soli 26 anni, nel 1865, fu eletta Superiora del Collegio, dopo essere stata per alcuni anni maestra delle novizie.
Il 17 gennaio del 1893 proveniente dalla Sicilia si stabilì a Roma nel convento di S. Sisto sull’ Appia, con lei vi erano due suore di Misilmeri, e qui fondò la Congregazione.
Nel 1895 fondò ad Asti la prima casa filiale e, cinque anni dopo, fondò un’altra casa a Sassari.
Ritornò a Ceglie Messapico (Br) il 10 aprile del 1910 dove morì il 9 aprile del 1914.
Tra gli anni 1985-1986 si svolse, presso la Curia di Oria, il processo diocesano per la beatificazione.
Il 9 aprile del 1986, con solenne cerimonia nella Chiesa Madre di Ceglie Messapico, Mons. Armando Franco, chiuse il Processo Diocesano.


*Antonio Cua  

Bartolo Longo ci narra nella sua Storia del Santuario come il professore dell’Università di Napoli Ing.Antonio Cua (1818-1889) si offrì a dirigere gratuitamente i lavori del Tempio. Riportiamo il racconto operando qualche taglio (doloroso) impostoci dalla tirannia dello spazio. Siamo nell’anno 1886.
"Mi recai a casa di un intimo e cordiale mio amico, il Cav. Tarquinio Fuortes (1848-1927), professore di matematica. Quel mattino lo trovai circondato dai suoi di famiglia che facevano accoglienze ad alcune signore ed a un signore grave di aspetto e di età. Senza preamboli entrai a discorrere dei fatti occorsi a Pompei.
Quello sconosciuto, poi che mi ebbe udito alquanto, interruppe: "Chi è l’architetto che dirige i vostri lavori? – Non abbiamo architetti – risposi - . – Avete almeno un disegno? Ed io pronto, misi la mano in seno e ne trassi quel foglio istoriato che i lettori sanno. Quel signore non seppe
ritenere un sorriso di compassione e soggiunse: - Ma perché in un’opera d’arte non valersi dell’uomo dell’arte? – Il compenso di un architetto assorbirebbe metà della somma che raccogliamo con stenti e disagi. – Vi potrebbero essere anche degli architetti che si offrissero gratuitamente. Date a me quel disegno ed io ve lo farò secondo l’arte.
Mi volesse costui fare un tiro, pensai malignamente fra me medesimo, dicendo offrirsi gratuito e poi richiedermi la ricompensa? E guardai negli occhi il mio amico Tarquinio.
Costui mi lesse nell’animo ed esclamò: - Bartolo, questo signore è il cavalier Antonio Cua, illustre professore della Regia Università di Napoli, ed è uno degli uomini più buoni di questo mondo. Egli si offre gratuitamente. Balbettai alcune parole di ringraziamento; quindi, quel nobile cuore concluse: - Poiché fate una chiesa a poveri contadini ed a furia di soldi elemosinati, io non solo vi darò il disegno gratis ma ancora verrò ad assistere senza ricompense di sorta alla costruzione e ci rimetterò le spese dei viaggi ogni volta che occorrerà recarmi a Pompei".
Il professore Cua tenne fede alle promesse, donò il disegno e, per sette anni, dal 1876, diresse di persona e gratuitamente i lavori per la costruzione del Tempio.

Biografia

Nel 1840 si laureò in matematica all'Università di Napoli. Dopo un periodo di insegnamento di base alla scuola militare, nel 1851 divenne assistente alla cattedra di matematiche superiori, per iniziare poi a insegnare geometria analitica nel 1854 sempre all'Università di Napoli, e Geometria descrittiva nel 1889, dove rimase fino alla morte avvenuta nello stesso anno. Insegnò contemporaneamente la stessa materia anche nel Collegio Militare. Essendo anche ingegnere, si occupò di lavori idraulici e perizie per conto del Ministero dei Lavori Pubblici.
Nel 1864 venne nominato cavaliere dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro; fu nominato socio corrispondente del R. Istituto d'incoraggiamento di Napoli nel 1853, accademico della Pontaniana di Napoli nel 1854, e, nel 1859, socio corrispondente della Società economica della Seconda Calabria Ulteriore.
Probabilmente per mancanza di tempo dovuta a diversi incarichi, non si dedicò a pubblicazioni di rilievo; per questo motivo poco del suo lavoro nel campo della matematica è giunto fino a noi.


*Antonio Losito  

Il Beato Bartolo Longo conobbe la Congregazione dei Redentorista attraverso tre dei suoi figli migliori, tutti da tempo avviati agli onori degli altari: il Ven. Emanuele Ribera (81811 – 1874) e i Servi di Dio Giuseppe Leone (1829 – 1902), Antonio Losito (1838 – 1917). Li scelse, uno dopo l’altro, per suoi direttori e confessori.
Il Servo di Dio Padre Antonio Losito
Il Padre Losito, successe al Padre Leone come confessore e direttore di Bartolo Longo e vi rimase fino al 1917, anno della sua morte, ma egli non ebbe nel suo penitente lo storico illustre dei suoi quindici anni di guida spirituale.

Quando infatti il 30 settembre 1937 si aprivano i processi ordinari sulla sua vita, virtù e miracoli, il Beato, già da undici anni riposava nel Signore.
Dobbiamo perciò contentarci di quando ci dice nel suo libro: Don Bartolo Longo (Alba 1941) Pier Marino Fiasconi, che, ai primi del secolo, frequentò l’ospizio di Pompei e, nel 1912, divenne segretario negli uffici della Delegazione Pontificia e, come tale, fu in frequente contatto col Beato fino alla sua morte.
Ora racconta il Fiasconi nella sua biografia, fu proprio il P. Losito uno dei principali artefici della conciliazione tra il Beato e il Pontefice nel gennaio-febbraio 1906, dopo i malintesi e gli equivoci suscitati da odiosi mestatori; fu ancora il P. Losito l’incaricato dal Papa stesso a placare le ansie del Beato. Nell’udienza infatti del 22 ottobre 1908, il Papa tra l’altro gli disse: “Pel presente e per l’avvenire, fate carità, e per qualunque difficoltà andate dal P. Losito, e tutto ciò che lui vi dirà è la stessa bocca del Santo Padre…”.
La bocca del Papa è la bocca del P. Losito”.  Fu ancora il Padre Losito che si servì dell’ascendente che godeva presso il Papa per spianare la strada all’ultima opera escogitata dal cuore del Beato: un ospizio per le figlie dei carcerati.
Fu nell’udienza del 22 giugno 1910: “Salvando quelle sventurate creature, per mezzo della carità, perorò allora il Servo di Dio, si farebbe veramente una vera opera santa, perché intesa
direttamente a impedire il peccato nel mondo”. E il Papa “Sì, io voglio la salvezza di queste anime, e non bisogna farle perdere. Dite a Bartolo Longo che si metta al lavoro, e che io benedico la sua novella opera”.
I sentimenti del Beato per la lieta notizia sono espressi in una lettera a Mons. Silj, in Roma: “Dopo la benedizione del santo Padre e  gli incoraggiamenti e consigli del Padre Losito,  nel quale io riconosco la volontà di Dio, io già mi sono  posto all’opera con ardore quasi giovanile, e il Signore e la SS. Vergine mi danno prove evidenti della loro benedizione”.
Sorgeranno ancora difficoltà nel cammino dell’opera, ma il Padre Losito  continuerà a sostenere il Beato nel suo generoso proposito “assicurandolo cento e mille volte che l’opera era voluta da Dio… e concludendo solennemente: “Sta tranquillo,: tu non morrai senza prima vedere stabilita l’opera per le figlie dei carcerati.
E la profezia si avverò in pieno.


*Carlo Giuseppe Cecchini 

Domenicano, proveniente da Ancona, conobbe Bartolo Longo mentre si trovava a Napoli per disbrigare pratiche della Curia Generalizia.
Alla morte del Padre Rossi, Bartolo Longo fu lieto della nomina che il Maestro Generale, Padre Frühwirth, fece a lui come confessore e vice – Rettore del Santuario e direttore delle Suore.
Si legge che:
“rimasero al Santuario padre Umberto Lorenzetti e due fratelli laici , fra Giacinto e fra Cristoforo.
Non erano certo sufficienti. IL 27 settembre 1898, il Maestro Generale comunicò a Bartolo Longo la costituzione di una comunità domenicana in un convento a sé
nell’ambito del Santuario.
Con Padre Giuseppe Cecchini superiore.
Più tardi Bartolo Longo scrive: “Dopo sette anni di lavoro in Valle di Pompei quale Rettore di questa mondiale Basilica, il P. Cecchini era nominato Vescovo titolare di Alicarnasso (Halicarnassos = Bodrum, in Turchia) e insieme era investito del titolo e della giurisdizione di Abate di Abate mitrato Ordinario delle Regie Chiese Palatine di Altamura (Ba) ed Acquaviva delle Fonti (Ba)”.
La cerimonia della ordinazione Episcopale avvenne nella Basilica di Pompei, il 25 febbraio del 1904.
Nel 1910 divenne Arcivescovo di Taranto.
Morì a Taranto il 10 dicembre del 1916, a seguito di “una fiera polmonite, che appena in tre giorni lo sopraffece”.


*Caterina Volpicelli  

Napoli, 21 gennaio 1839 - Napoli, 28 dicembre 1894
Caterina Volpicelli, fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, incarna l’ itinerario, umano e spirituale di una donna, per l’opera d’ avanguardia, realizzata attraverso un travagliato cammino di crescita personale, si pone al centro della storia della Chiesa e della vita cattolica Napoletana come persona di grande fascino mistico e originalità carismatica.
Nasce a Napoli il 21 gennaio 1839, da una famiglia dell’alta borghesia. Educata in casa, secondo i sani valori della tradizione del Meridione d’ Italia, passa poi a completare la sua formazione nel
Real Collegio di San Marcellino, avendo così un alto grado di cultura, cosa non comune per una donna del suo tempo.
Desiderando di poter raggiungere “ l'intima unione con Dio” entra a 20 anni nel Monastero delle Adoratrici Perpetue, ma deve lasciare dopo sei mesi per la salute cagionevole, il beato Ludovico da Casoria “amico dell’anima sua” glielo aveva predetto ripetendogli: “Il Cuore di Gesù, o Caterina, questa è l’ opera tua”.
Nel 1864 viene a conoscenza dell’esistenza dell’Associazione ‘Apostolato della Preghiera’ e qui la sua vita ha una svolta decisiva.
Scrive al padre Enrico Ramière, che incontrerà anche personalmente e da lui riceverà tutte le notizie riguardo la nascente Associazione, di cui avrà il diploma di zelatrice (il primo a Napoli), ne diventerà il vero Centro per l’espandersi del Movimento.
Le prime zelatrici saranno anche le prime compagne di Caterina nell’apostolato e nella fondazione dell’Istituto delle Ancelle del Sacro Cuore.
Napoli è la patria di S. Tommaso e di S. Alfonso, i teologi dell’ Eucaristia, che hanno segnato la pietà popolare e nel cui solco si colloca anche l’amore di Caterina Volpicelli per il SS. Sacramento.
É l’ Eucaristia la sorgente del suo convinto servizio alla Chiesa, articolato in un apostolato vario ed ispiratore di una famiglia religiosa.
Considera la Chiesa il Corpo Mistico di Cristo e venera i Pastori con devozione filiale e eroica umiltà, accettando da loro ogni sorta di prova che richiedono.
Dalla sua casa partirà il Beato Bartolo Longo, guarito in salute, convertito alla fede cattolica, diventato anch’esso zelatore dell’Apostolato della Preghiera, per cominciare la grande opera del Santuario di Pompei.
Lasciata la casa paterna, fissa la sua dimora e la sede delle sue opere in Largo Petrone alla Salute ove in seguito, auspice il cardinale arcivescovo Sisto Riario Sforza, per la presenza di gesuiti insigni, di P. Ludovico, per la predicazione quasi ininterrotta di esercizi spirituali, diventerà un vivissimo Centro di spiritualità.
Dietro l’invito del cardinale, Caterina fonda l’ Istituto delle Ancelle del S. Cuore che contrariamente agli Ordini religiosi femminili dell’epoca, dediti soprattutto alla contemplazione e alle opere assistenziali, sorge per l’apostolato e la santificazione delle anime.
Non c’è un abito religioso, l’ Istituto ha tre rami, uno religioso e due laicali, lo studio della teologia, il servizio della Chiesa sono tutte specifiche che anticipano quasi un secolo prima le novità del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Il 14 maggio 1884, il nuovo Arcivescovo di Napoli Guglielmo Sanfelice consacra il Santuario dedicato al Sacro Cuore eretto in adiacenza alla Casa Madre.
Il 21 novembre 1891 si celebra a Napoli il 1° Congresso Eucaristico Nazionale, alla Volpicelli e alle sue figlie viene dato l’ incarico dell’ organizzazione delle Adorazioni in Cattedrale, la preparazione alla confessione e Comunione generale, la gestione degli arredi sacri.
Il 28 dicembre 1894, Caterina Volpicelli, muore a soli 55 anni, a Napoli.
All’alba del III millennio, il papa Giovanni Paolo II, la proclama beata in Piazza S. Pietro il 29 aprile 2001, avverandosi così l’auspicio del suo primo biografo M. Jetti “Napoli abbia presto, al pari delle fortunate città di Alessandria, Siena, Genova e Bologna, la sua Santa Caterina”.

Bartolo Longo e Caterina Volpicelli

I profondi rapporti intercorsi tra il Beato Bartolo Longo e la Beata Caterina Volpicelli hanno un posto
 rilevante nel tormentato processo di conversione dell’ apostolo del Rosario.
La incontrò per la prima volta in casa del marchese Imperiali D’Afflitto di Latiano, cognato di Caterina, e rimase colpito dalla figura della giovane donna: elegante, aristocratica, ma nello stesso tempo, semplice, umile, non legata alle stravaganze della moda del tempo.
Il Beato si chiese il perché di una tale scelta, "nell' abbigliamento, di Donna Caterina". Informatosi, gli fu risposto che la giovane donna era una “Santa”.
"(...) La mia impressione fu motivata dal fatto che in quel tempo, verso il 1864, a Napoli le donne vestivano con lusso e con moda straordinaria, cioè abiti con gonne gonfie e tutti fioriti, pieghe ed altro; e invece la giovane scendeva le scale, indossava un abito molto attaccato alla vita senza strascico nè fiori" (dagli scritti di Bartolo Longo).
Da allora cominciarono i loro incontri e la Volpicelli, attraverso il dialogo, cercava di aiutarlo ad aprirsi al dono della fede.
In seguito la Volpicelli l’accolse nell’abitazione in cui risiedeva la comunità, ancora in germe, che aveva cominciata a riunire. Gli permetteva anche di partecipare ai momenti di preghiera comunitaria.
Fu qui che conobbe la contessa Marianna De Fusco, che diventò col tempo sua collaboratrice e consorte.
Nonostante la diversità del loro servizio la Volpicelli continuò ad offrire la sua collaborazione, anche finanziaria, al Beato.
Fu, infatti, tra i primi ad offrire il suo contributo per la costruzione del Santuario.
Bartolo Longo e la Volpicelli sono stati in diverso modo “testimoni della carità”, due figure significative della Chiesa del Sud alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo secolo.

Il culto

Venne dichiarata venerabile il 25 marzo 1945 da Pio XII.
Il 28 giugno 1999 Giovanni Paolo II promulgò il Decreto sul miracolo ottenuto per sua intercessione.
Il 29 aprile 2001 lo stesso Papa l'ha proclamata Beata.
La nobildonna napoletana, grande devota della Madonna di Pompei e amica del Beato Bartolo Longo, è proclamata Santa da Papa Benedetto XVI il 26 aprile 2009, in Piazza San pietro.
Memoria liturgica il 28 dicembre.
Lodovico da Casoria e Caterina Volpicelli: due anime orientate al Cuore di Cristo
Tra Lodovico da Casoria e Caterina Volpicelli vi fu comunanza d'ideali, provvidenziale corrispondenza di operosità e, pur marciando - come le diceva il Beato - "Tu per una via, io per un'altra"  - stretta collaborazione soprattutto per la diffusione del culto al Cuore di Gesù.
Nella loro vita persone e luoghi lasciano pensare a un piano divino per far risaltare in ambedue l'azione della grazia e la complementarietà della loro specifica missione.
La chiesa delle Sacramentine, dove un "lavacro" inspiegabile ha fatto di un ordinario francescano l'apostolo della carità pronto a lenire ogni miseria e dolore, ha costituito anche per Caterina un polo di attrazione.
La giovane ventenne, che ha già suggellato il suo amore a Cristo con un voto temporaneo di castità, è in preda a dubbi angosciosi sull'avvenire da seguire.
L'amore all'Eucarestia la porta spesso con la mamma alla chiesa di S. Giuseppe dei Ruffi, dove il SS. Sacramento è perennemente esposto. La vista delle grate della più stretta clausura le dà il senso dell'assoluto, a cui era da sempre portata. Si vede già nella solitudine del chiostro tutta dedita all'adorazione e alla riparazione, e l'osservanza delle regole le sembra una garanzia contro la propria volubilità e il fascino del mondo.
In un periodo di crisi ha immaginato le dolcezze di amore divino che, specie nelle ore notturne, le religiose sacramentine avrebbero gustato ai piedi del loro Sposo sacramentato.
Si sente chiamata a quell'Istituto e ne parla ai genitori che, senza opporsi apertamente, giudicano la figlia troppo giovane e fragile di salute. Per desiderio dei suoi cari, Caterina visita vari conventi, ne esamina la vita e ne studia le costituzioni, ma la scelta delle Sacramentine resta senza alternativa. Intanto contraddizioni, dubbi e rimandi ne minano la salute, che peggiora ancor di più quando si insiste che non debba più pensare alle Adoratrici. Il dott. Capobianco, convinto che queste opposizioni influiscano pesantemente su di lei, prega suo padre di lasciarla libera di seguire la propria vocazione.
Lo stesso P. Lodovico, pur convinto che Caterina sia idonea non per il chiostro ma per l'apostolato nel mondo dove sarebbe diventata "pescatrice di anime", per liberare il suo spirito da tante lotte non esita a dire al padre: "lasciate pure che vada dalle Sacramentine, ma non ci resterà". Questi se ne persuade e dà il suo assenso; la gioia torna sul volto di Caterina e la sua salute migliora.
La convalescenza è lenta e l'attesa sarebbe stata ancora più lunga se un episodio imprevedibile non fosse intervenuto a rompere ogni indugio. Il 13 maggio 1859, durante una gita fatta con dei cugini a Massalubrense, Caterina visita le monache Carmelitane. Il chiostro la suggestiona, la superiora parla della vita contemplativa delle religiose e apre la porta della clausura per permettere ai visitatori incuriositi di dare almeno un'occhiata all'interno. Caterina sente una spinta interiore, salta dentro e non ne vuole più uscire, nonostante le vive istanze dei cugini. Per loro tramite, invia alla sorella Clementina una lettera pregandola di persuadere i genitori e nello stesso tempo promette che, col permesso della Superiora, sarebbe rimasta in prova al massimo un mese e poi avrebbe preso la decisione definitiva.
I cugini, sorpresi e imbarazzati, avvertono subito i parenti e lo stesso arcivescovo di Sorrento, Francesco Saverio Apuzzo, che manda prima il suo segretario, poi va lui stesso per convincerla a tornare in famiglia, ma invano. Pietro Volpicelli, impedito, invia a Massalubrense il figlio Vincenzo con il barnabita Leonardo Matera, confessore di Caterina. Questa, fortemente agitata, dopo non poca resistenza, cede e affettando aria di disinvoltura, afferma: "Ho provato almeno per un giorno come si sta in monastero.
I genitori, per farla finita, affrettano le pratiche per il suo ingresso tra le Perpetue Adoratrici di S. Giuseppe dei Ruffi. Per consiglio del prudente P. Matera, ad evitare emozione e pianti, il 28 maggio 1859, senza preavvisare i familiari, Caterina esce come di consueto per andare con due signore amiche alla messa e "col cuore spezzato per il distacco" entra nel Chiostro, ma vi rimarrà poco meno di sette mesi.
Dopo i dirottissimi pianti dei primi giorni, nella festa di Pentecoste si rasserena e prova l'impressione di aver trovato la sua strada. In una lettera molto affettuosa ai suoi apre uno spiraglio sulle sue disposizioni più intime e più aderenti alla realtà: "Sia intanto tranquillo l'animo vostro, conoscendo che io sono entrata in religione, perché sento e vedo che questa sia la volontà di Dio e che, null'altro più ardentemente desiderando quanto il conoscere l'eseguire i Divini Voleri, io sarei pronta anche a ritornare in casa se conoscessi che Iddio voglia da me il solo sacrificio di cuore e non reale. Pregate adunque il Signore che manifesti la sua volontà in questi anni di esperimenti".
I primi mesi maturano in Caterina le disposizioni di una donazione a Dio totalitaria, definitiva e incondizionata. Ella è convinta di aver "trovato il tutto e solo desiderabile in Gesù Sacramentato". Appare un modello di esattezza, carità e serenità. Raccolta e solerte, vola felice appena i tocchi della campana l'invitano all'adorazione del Cristo Eucaristico, sia di giorno che di notte. Però dopo pochi mesi comincia a star male e deve passare a letto quasi tutto il tempo. Le consorelle, edificate della sua condotta, fanno di tutto per curarla e sono disposte a chiedere per lei alla S. Sede la dispensa dal coro e dall'adorazione notturna. Caterina però dichiara che non avrebbe mai accettato di fare "la monaca a metà" e il 23 dicembre 1859, dopo essersi consigliata col P. Cercià che già l'aveva guidata per l'ingresso, è di nuovo a casa. L'esperimento, durato sei mesi e ventiquattro giorni, non è stato inutile, perché l'ha portata alla maturità umana e cristiana che a ventun'anni ancora le mancava.
Il silenzio, le lunghe adorazioni eucaristiche l'hanno aiutata a riflettere con libertà interiore, senza i contrasti che avevano provocato tante reazioni. Le giornate, trascorse nella solitudine della cella, con la privazione anche della presenza del SS. Sacramento, le richiamavano alla mente le ammonizioni del P. Matera, del P. Lodovico e dei suoi parenti, che lei non aveva voluto ascoltare. Si rendeva conto che, oltre alla retta intenzione, si richiede la prudenza e la docilità. Lei stessa riconosce: "Il Signore... mi fece apprezzare il valore della santa obbedienza, facendomi intendere come, anche negli esercizi di pietà ed opere di carità, mi voleva più sottomessa".
Caterina, umiliata perché nonostante la sua puntigliosa costanza è costretta dalle sue condizioni di salute a tornare in famiglia, trova pace nella consapevolezza della propria rettitudine. "La breve dimora nel monastero fu pure grazia speciale del Signore, perché mi fu chiara la divina volontà e fui esente da ogni timore di non aver corrisposto alla vocazione, sicché la mia coscienza ne fu tranquillizzata".
Il Padre Lodovico, che non è né il confessore di Caterina né il suo padre spirituale, ma si considera soltanto "il primo amico della sua famiglia", le addita ora la via della piena adesione alla Croce, perché "noi non ameremo mai il Cuore di Gesù se non porteremo le piaghe di Cristo nell'anima e nel corpo nostro... E meglio stare nella piaga di Cristo sempre che nel santo Paradiso, perocché l'amore sommo non cerca riposo, il suo riposo è Cristo Crocifisso.
Finché l'anima... non si trasforma nel Crocifisso Gesù, non trova pace; il suo godere non è godere; il godere suo è l'abbandono, il dispregio, la povertà... Il Cuore di Gesù è dolcezza per le anime giovanili deboli, per i principianti nella via del Signore. Ma quei che vogliono salire e grandemente salire debbono crocifiggere la carne e lo spirito".
Padre Lodovico, pur stando sempre al suo posto con la massima discrezione, si sentirà sempre unito a Caterina per studiare "l'amore del Cuore di Gesù, l'amore alla persona di Cristo, l'amore dell'amore di Cristo" e per realizzare quella che chiama "l'opera tua e mia": propagare il culto al Sacro Cuore.
Biografia sul sito del Vaticano
Caterina Volpicelli (1839 - 1894)   Fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore
Caterina Volpicelli, Fondatrice delle Ancelle del S. Cuore, appartiene alla schiera degli "apostoli dei poveri e degli emarginati" che nel secolo XIX, furono per Napoli un luminoso segno della presenza del Cristo "buon Samaritano" che viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito, per versare sulle sue ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza (cfr. Messale Romano, 2 ed. Italiana, Roma 1983, Prefazio comune VIII, pag. 375).
Nata a Napoli il 21 gennaio 1839, Caterina ebbe nella sua famiglia, appartenente all'alta borghesia, una solida formazione umana e religiosa.
Nel Reale Educandato di S. Marcellino, sotto la guida sapiente di Margherita Salatino (futura fondatrice, con il Beato Ludovico da Casoria, delle Suore Francescane Elisabettine Bigie), apprese le lettere, le lingue e la musica, cosa non frequente per una donna del suo tempo.
Guidata poi dallo Spirito del Signore, che le rivelava il progetto di Dio attraverso la voce di sapienti e santi Direttori spirituali, Caterina che intanto si accaniva a rivaleggiare con la sorella e a brillare nella società, frequentando teatri e spettacoli di danze, rinunciò con prontezza agli effimeri valori di una vita elegante e spensierata, per aderire con generosa decisione ad una vocazione di perfezione e di santità.
L'incontro occasionale con il Beato Ludovico da Casoria, il 19 settembre 1854, a "La Palma" in Napoli, fu, come affermò la stessa Beata "un tratto singolare di grazia preveniente, di carità e di predilezione del S. Cuore innamorato delle miserie della sua Serva". Il Beato l'associò all'Ordine Francescano Secolare e le indicò, come unico scopo della sua vita, il culto del S. Cuore di Gesù, invitandola a restare in mezzo alla società, nella quale doveva essere "pescatrice di anime".
Guidata poi dal suo confessore, il barnabita P. Leonardo Matera, il 28 maggio 1859 Caterina entrò tra le Adoratrici perpetue di Gesù Sacramentato, uscendone però ben presto, per gravi motivi di salute.
Altro era il disegno di Dio su Caterina. Lo aveva ben intuito il Beato Ludovico che spesso le ripeteva: "Il Cuore di Gesù, o Caterina, questa è l'opera tua!"
Su indicazione del suo confessore, la Volpicelli, conosce il foglio mensile dell'Apostolato della Preghiera in Francia, ricevendo da lui notizie dettagliate della nascente Associazione, con il diploma di Zelatrice, il primo giunto a Napoli. Nel luglio del 1867, P. Ramiere visita il palazzo di Largo Petrone alla salute, in Napoli, dove Caterina sta meditando di stabilire la sede delle sue attività apostoliche "per far rinascere nei cuori, nelle famiglie e nella società l'amore per Gesù Cristo".
L'Apostolato della Preghiera sarà il cardine dell'intero edificio spirituale di Caterina, che le consentirà di coltivare il suo ardente amore per l'Eucaristia e diventerà lo strumento di un'azione pastorale avente le dimensioni del Cuore di Cristo e perciò aperta ad ogni uomo, sempre a servizio della Chiesa, degli ultimi e dei sofferenti.
Con le prime zelatrici, il 1° luglio 1874 Caterina fonda il nuovo Istituto delle "Ancelle del S. Cuore", approvato in primo tempo dal Cardinale Arcivescovo di Napoli, il Servo di Dio Sisto Riario Sforza, e in seguito, il 13 giugno 1890, da Papa Leone XIII che accorda alla nuova Famiglia religiosa il "Decreto di lode".
Premurosa delle sorti della gioventù, aprì poi l'orfanotrofio delle "Margherite", fondò una biblioteca circolante e istituì l'Associazione delle Figlie di Maria, con la saggia guida della Venerabile M. Rosa Carafa Traetto (+ 1890).
In breve tempo aprì altre case: a Napoli nel Palazzo Sansevero e poi presso la Chiesa della Sapienza, a Ponticelli, dove le Ancelle si distinsero nell'assistenza alle vittime del colera del
1884, a Minturno, a Meta di Sorrento e a Roma.
Il 14 Maggio 1884, il nuovo Arcivescovo di Napoli, Cardinale Guglielmo Sanfelice, OSB, consacrò il Santuario dedicato al Sacro Cuore di Gesù, che la Volpicelli aveva fatto erigere accanto alla Casa Madre delle sue opere, destinandolo particolarmente all'adorazione riparatrice chiesta dal Papa per il sostegno della Chiesa, in un'epoca difficile per la libertà religiosa e per l'annunzio del Vangelo.
La partecipazione della Caterina al primo Congresso Eucaristico Nazionale celebratosi a Napoli nel 1891 (19-22 novembre), fu l'atto culminante dell'apostolato della Fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore: in quell'occasione allestì una ricca esposizione di arredi sacri, destinati alle chiese povere, organizzò l'adorazione Eucaristica nella cattedrale e fu l'animatrice di quel gran movimento di anime che sfociò nell'impressionante "Confessione e Comunione generale".
Caterina Volpicelli si spense a Napoli il 28 Dicembre 1894 offrendo la sua vita per la Chiesa e per il Santo Padre.
La causa di Beatificazione e Canonizzazione dell'insigne testimone della carità del Cuore di Cristo, dopo l'istruzione del Processo Ordinario negli anni 1896-1902 nella Curia ecclesiastica di Napoli, fu ufficialmente introdotta presso l'allora S. Congregazione dei Riti l'11 Gennaio 1911.
Il 25 Marzo 1945 il Santo Padre Pio XII ne dichiarava l'eroicità delle virtù, attribuendole il titolo di Venerabile.
Il 28 Giugno 1999 Sua Santità, Giovanni Paolo II, approvava la lettura del decreto di Beatificazione.
Giuseppe Moscati "fa abiura degli affetti impuri terreni" nella Chiesa delle Sacramentine
Quando il 28 marzo 1885 spirava sulla collina di Posillipo P. Lodovico, Peppino Moscati aveva meno di 5 anni e solo da pochi mesi suo padre Francesco, promosso alla Corte d'Appello di Napoli, vi si era trasferito con la famiglia da Ancona.
Il fanciullo non ha forse neppure conosciuto l'Apostolo della carità, ma ne avrà certamente
sentito parlare molto dai suoi genitori e nell'ambito dell'Istituto delle Ancelle del S. Cuore, fondato da Caterina Volpicelli, a cui i Moscati erano molto legati per affinità di sentimenti religiosi e di spirito apostolico.
Nel Santuario del Sacro Cuore alla Salute Peppino riceve l'8 dicembre 1888 la prima Comunione dalle mani di Don Enrico Marano, che fu uno dei sacerdoti diocesani più intimi di P. Lodovico, tanto da deporre di "essersi consacrato quasi interamente" alle sue opere e di "avere per lui un affetto e una stima indescrivibile"
Alla morte di Caterina Volpicelli, avvenuta un secolo fa il 28 dicembre 1894, Moscati era già quattordicenne e quindi ha avuto occasione di conoscerla, perché i coniugi Moscati che, nel primo periodo dopo il loro rientro a Napoli, abitarono a via S. Teresa al Museo, 83, solevano portare spesso i figliuoli a pregare nel vicino Santuario del S. Cuore alla Salute e trattenersi con la Fondatrice delle Ancelle. In queste frequenti visite Peppino non solo gioca animatamente nell'ampio giardino dell'Istituto, ma accoglie anche i sentimenti di fede suggeriti occasionalmente dalla Volpicelli, che l'attira al Cuore di Cristo. Apprende molti vivi ricordi di Lodovico da Casoria, che gli ispirano l'amore ai più poveri, e incontra Bartolo Longo, l'apostolo della Vergine del Rosario di Pompei, che aveva abitato presso l'Istituto delle Ancelle per qualche tempo dal 1872 e dove tornava spesso anche dopo che era passato con la Contessa Marianna Farnarano De Fusco al Palazzo Passero di Largo Salvator Rosa.
Sono germi che si andranno evolvendo in piena corrispondenza alla grazia, tocchi quasi impercettibili, che muoveranno il fanciullo all'amore al Cristo eucaristico e ne plasmeranno la figura di "medico santo"; amicizie che incideranno fermamente sul suo animo. Allorché il 25 novembre del 1914 Rosa De Luca Moscati "vola al cielo con una morte di santa, quale era stata sempre in vita". Il Prof. Moscati vuole che sia celebrata nel Santuario del S. Cuore alla Salute la liturgia esequiale e quella del trigesimo. Dopo l'improvvisa scomparsa dell'insigne clinico compare sulla rivista La carità e l'Orfanello del Ven. P. Lodovico da Casoria (maggio-giugno 1927) una nota non firmata, in cui si afferma che il Prof. G. Moscati "era uno dei benefattori delle opere del nostro venerabile P. Lodovico, uno dei suoi più grandi devoti, e la sua scomparsa fu pianta come quella di un padre buono e santo dai nostri bambini... La sua vita fu un continuo sacrificio, odorante santità e consumantesi sull'altare dell'Amore di Dio e del prossimo. Cominciava la sua giornata con la S. Comunione sacramentale, la finiva col S. Rosario della Vergine e tutte le ore della giornata erano spese nel lavoro della beneficienza, della pietà, dell'apostolato".
Ora la Chiesa delle Sacramentine legò al Beato Lodovico e alla Venerabile Volpicelli [Caterina Volpicelli è stata beatificata da Giovanni Paolo II il 25 aprile 2001] anche S. Giuseppe Moscati. Ce lo dice egli stesso in un autografo non datato, col quale c'informa: "Per evitare distrazioni o per recitare con maggior trasporto e fervore l'Ave Maria, voglio riportarmi col pensiero ad una immagine o meglio, al significato di una immagine della Beatissima Vergine, mentre pronuncio i vari versetti della preghiera... [Alle parole] "Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus", ho uno slancio di tenerezza per la Madonna sotto il titolo del Buon Consiglio, che mi sorride così come è effigiata nella Chiesa delle Sacramentine. Innanzi a questa immagine di Lei ed in questa Chiesa io feci abiura degli affetti impuri terreni: "benedicta tu in mulieribus". E se sono innanzi alla sacra Custodia mi rivolgo al SS. Sacramento: "benedictus fructus ventris tui, Jesus".
Abbiamo in questa affermazione un'ulteriore prova della devozione di Giuseppe Moscati per la Vergine e per l'Eucaristia, da cui attinge forza e luce, tanto da poter rispondere alla sig.na Emilia Pavese, sorpresa e preoccupata del suo assiduo e sfibrante lavoro: "lo posso tutto in Colui che mi conforta" . Moscati nel ripetere spesso durante il giorno il saluto alla Vergine ritorna col pensiero alla Madonna del Buon Consiglio esposta nella prima Cappella a sinistra della Chiesa di S. Giuseppe dei Ruffi, dove egli si reca non soltanto quando è richiesta per le Sacramentine inferme la sua opera professionale, che egli presta sempre gratuitamente, ma tutte le volte che si trova occasionalmente o anche appositamente a passare di là, per trattenersi in profonda adorazione dell'Eucaristia ivi esposta.
In quel tempio si è verificato per lui, come per Lodovico da Casoria e Caterina Volpicelli, un evento decisivo. Suo fratello Eugenio depose nel Processo ordinario: "Mio fratello Peppino non è passato al matrimonio perché egli, laureatosi, fece il voto di castità e propriamente nella Chiesa delle Sacramentine in Napoli davanti all'immagine del Buon Consiglio, che si venera in detta Chiesa. Per quanto a momento ricordo, in uno scritto da lui lasciato si legge: "Innanzi a questa immagine io feci abiura degli impuri affetti terreni!" Considerando io tante circostanze della vita di mio fratello in ordine alla virtù della santa purità, ritengo e sono pienamente convinto che queste parole del Servo di Dio hanno tutto il valore di un voto da Lui emesso in tale occasione".
Il tempo in cui sarebbe stato emesso dal Santo tale voto, stando alle testimonianze dei testi, oscilla dagli anni dell'adolescenza a quelli della maturità. Infatti secondo Emma Picchillo sarebbe stato fatto "fin dalla piccola età", secondo il prof. Guido Piccinino, "da giovinetto"; secondo il presidente di Corte di Appello, Alberto Sorrentino, "all'età di 24 anni "secondo il dott. Giovanni Ponsigliore, "all'età di 25 o 26 anni "; secondo il dott. Enrico Sica "poco dopo il trentesimo anno" o all'età di 34 anni"; secondo il prof. Gaetano Quagliariello "nel 1914", data accettata dal primo biografo Ercolano Marini". Il fratello Eugenio, mentre in un momento del Processo ordinario afferma di aver appreso da sua sorella Nina che Peppino "spontaneamente forse verso l'anno diciassettesimo di sua età ha emesso il voto di castità", in un altro punto dice che l'avrebbe fatto dopo che si era "laureato ".
II Promotore Generale della fede, p. Raffaele Pérez, date queste testimonianze discordanti sulla data del voto in questione, ritiene "più probabile che sia stato emesso dal Servo di Dio in età matura".
Chi tiene presente il carattere così ponderato del Santo, si rende conto che egli non avrebbe emesso un atto tanto impegnativo se non nella sua piena maturità. Sappiamo inoltre da Moscati stesso un particolare occorsogli durante la sua attività professionale: "Ho dovuto osservare le carni fidiache di una signora, che nei primi anni miei giovanili aveva riempito i miei sogni; ed ella non lo sapeva. Chi avrebbe mai pensato che un giorno costei sarebbe ricorsa a me? Sempre impressionante quella bellezza! Ed io ho compiuto il mio dovere umanitario tranquillamente, nobilmente, senza che vibrasse al cuore corda dentro di me. Mi ha domandato, perché io potessi paragonare il suo stato attuale con l'antica floridezza, se l'avessi mai vista prima. Ho risposto di no. E non era una bugia. Era un'altra quella dei primi anni, scomparsa senza rammarico e senza rimpianto, purificato il cuore" .
Inoltre Emma Picchillo depose nel Processo Apostolico che sua sorella Nina le avrebbe rivelato che Peppino "prima dei 30 anni chiese la mano di una bella e pia giovane. Siccome questa... gli rispose che era consacrata a Dio, il Servo di Dio restò come umiliato, chiese perdono alla giovane di averla disturbata". Anche il prof. Raffaele Piazza accenna al progetto di matrimonio di Moscati con "la figliuola del Senatore Calabria, Presidente della Corte di Cassazione".
Certamente Moscati ha intravisto le gioie di una eventuale propria famiglia ed ha forse anche dovuto lottare per resistere a "impuri affetti terreni", senza mai consentirvi e assecondarvi. Nello scritto sul modo di recitare I'Ave Maria, che non porta data ma ha la sua intestazione di "assistente universitario, Cisterna dell'Olio, 10" mostra chiaramente che egli, in piena maturità e prima del 15 luglio 1911 quando conseguì la libera docenza che l'avrebbe autorizzato a firmarsi come professore, nella chiesa delle Sacramentine visse, come scrissero gli avvocati della S. Congregazione dei Riti, Giulio ed Enrico Dante, il 1 gennaio 1971, "un momento particolare", nel quale puntualizzò "il proprio impegno cristiano con maggior decisione e volontà" e rinunciò col voto "anche ad una vita matrimoniale per mantenersi puro [celibe] lottando energicamente e decisamente contro le tentazioni sì da offrire la piena purezza di mente, di volontà, di sensi al Signore".
Entrando oggi nella Chiesa delle Sacramentine, ammiriamo pure le opere d'arte in essa racchiuse, ma prostrandoci in adorazione davanti al Sacramento insieme alle Suore invisibili dietro le grate e in venerazione davanti alla Madonna del Buon Consiglio, ricordiamo gli eventi che determinarono la via della perfezione per il Beato Lodovico, S. Giuseppe Moscati e Caterina Volpicelli. Prendiamo però anche noi coscienza degli impegni assunti nel "lavacro battesimale" e sforziamoci di rispondervi con fedeltà seguendo il loro esempio.
Quinto anniversario della beatificazione di Caterina Volpicelli
Il quinto anniversario della beatificazione di Caterina Volpicelli, fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore, è stato ricordato con una solenne concelebrazione eucaristica, presieduta dal Cardinale Michele Giordano, Arcivescovo di Napoli nella Basilica Incoronata Madre Dio del Buon Consiglio a Capodimonte.
Celebrazione iniziata alle ore 18.00 di sabato 29 aprile, festa di Santa Caterina da Siena, Dottore della Chiesa, patrona d’ Italia e d’ Europa.
Alla solenne celebrazione in onore della grande “Santa” napoletana del XIX secolo, apprezzata per il suo impegno nel campo caritativo e sociale, diversi sacerdoti, tutte le suore dell’ Istituto, le Ancelle e le Aggregate, numerosi fedeli provenienti da varie parti ove le Ancelle del Sacro Cuore sono presenti con comunità ed attività. Tra le autorità presenti, Monsignor Tommaso
Caputo della Segreteria dello Stato Vaticano, padre Antonio Rungi, Superiore provinciale dei passionisti di Napoli, Mons. Franco, ex-segretario del Cardinale Ursi, di v.m., il parroco delle Ancelle del Sacro Cuore di Napoli, il parroco della Basilica della Madonna del Buon Consiglio e padre Carmelo Contiguglia Buona la rappresentanza dei diaconi permanenti che hanno assistito il Cardinale Giordano durante la celebrazione eucaristica insieme ad un folto gruppo di giovani ministranti.
La celebrazione eucaristica, dopo l’introduzione del Cardinale Giordano, è iniziata con il saluto della superiora generale delle Ancelle del Sacro Cuore, Madre Concetta Liguori, che ha richiamato all’attenzione dei presenti i motivi principali del ritrovarsi insieme nella Basilica dell’ Incoronata a Capodimonte, e c' è il quinto centenario e lo scoprimento di due dipinti, uno, con l’icona del volto della Beata e, l’altro, con lo stemma dell’Istituto, disegnati nella cappella del Sacro Cuore di Gesù, al lato sinistro dell’altare maggiore.
“È questa un’occasione particolare – ha detto Madre Liguori- per impetrare insieme l’intercessione della Beata Caterina Volpicelli su Napoli e l’umanità intera. Lei che ha amato in modo singolare il Cristo Crocifisso e Risorto ci guidi a questo amore vero verso Dio e verso i nostri fratelli, soprattutto più poveri ed indigenti”.
La Santa Messa animata da una corale, è proseguita regolarmente, fino all’omelia, quando il Cardinale Giordano, in un lungo ed apprezzato discorso, ha presentato ai presenti l’opera e la figura di Caterina Volpicelli nella città di Napoli, ma anche nel mettere in risalto soprattutto il tema della santità e la chiamata universale alla santità, citando testi e brani del Vaticano II, a partire della Costituzione dogmatica Lumen Gentium. “Sull’esempio di Caterina Volpicelli tutti siamo chiamati a percorre la strada e a raggiungere la meta della santità lasciandoci guidare da una fede adulta, da una speranza incrollabile, da una carità vissuta e testimoniata”. Il gradimento dell’assemblea per le splendide riflessioni dettate dal Cardinale Giordano è stato espresso al presule mediante un lungo e caloroso applauso
La celebrazione è proseguita con l’offertorio. All’altare, oltre al pane ed al vino, sono stati portati i simboli dell’istituto, particolarmente una stola per richiamare il positivo avvio del ramo maschile dell’Istituto, che già conta alcuni sacerdoti e religiosi nel Brasile. Un sacerdote era, infatti, presente alla cerimonia ed ha concelebrato con il Cardinale di Napoli.
La partecipazione alla santa messa è stata molto sentita da tutti i presenti, molti dei quali devoti della santa, estimatori, collaboratori, amici e aggregati dell’Istituto fondato dalla Beata Volpicelli e che oltre a spandersi in varie parti d’Italia, soprattutto nelle Regioni Meridionali, oggi è presente con varie comunità all’estero, soprattutto nell’America Latina.
Tutti i presenti hanno partecipato alla mensa eucaristica a conferma di una spiritualità, quella di Caterina Volpicelli, incentrata sulla devozione al Cuore di Gesù, i cui pilastri fondamentali sono appunta i sacramenti della confessione e della comunione.
La cerimonia religiosa, dopo la solenne benedizione impartita dal Cardinale Giordano a tutti i presenti, è proseguita nella cappella laterale del Sacro Cuore ove sono stati scoperti i due dipinti e benedetti dallo stesso Arcivescovo di Napoli nella gioia e soddisfazione di tutti i presenti.
Tali dipinti “resteranno a memoria perenne – aveva detto il Cardinale nell’ Omelia - in questa Basilica dedicata alla Madonna del Buon Consiglio, verso al quale la Beata Volpicelli aveva una speciale devozione che ha trasmesso a tutte le sue figlie spirituali.
Da qui il motivo di ritrovarci tutti qui, questa sera, per ricordare sì il quinto anniversario della Beatificazione di Caterina Volpicelli, ma anche e soprattutto per venerare la Madonna del Buon Consiglio, la cui festa annuale ricorre il 26 aprile di ogni anno.
Alla Madonna del Buon Consiglio affidiamo il cammino della famiglia delle Ancelle del Sacro Cuore e specialmente il cammino della Chiesa di Napoli e dell’intera umanità”.
Una celebrazione, in altri termini, per richiamare all’attenzione di tutti i napoletani e dei devoti della Volpicelli, come sottolineava la gigantografia esposta sulla loggia della Basilica dell’Incoronata a Capodimonte, conosciuta da tutti come la piccola San Pietro, per la somiglianza alla Basilica Vaticana, e che tutti coloro che passavano davanti al rinomato tempio mariano potevano ammirare e fermarsi un attimo per pregare. (Padre Antonio Rungi)
Al Santuario del S. Cuore di Napoli una reliquia del Beato
Il 29 gennaio 1980 Monsignor Domenico Vacchiano ha presieduto una solenne concelebrazione nel Santuario del S. Cuore (Napoli), presso la Casa Madre delle Ancelle del S. Cuore, fondato da Santa Caterina Volpicelli.
Per la circostanza il Prelato di Pompei ha donato al Santuario una reliquia del Beato Bartolo Longo.
I profondi rapporti intercorsi tra il Beato e la Volpicelli hanno, infatti, un posto rilevante nel tormentato processo di conversione dell’Apostolo del Rosario.
La incontrò per la prima volta in casa del marchese Imperiali D’Afflitto di Latiano, cognato di Caterina, e rimase colpito dalla figura della giovane donna: elegante, aristocratica, ma nello stesso tempo, semplice, umile, non legata alle stravaganze della moda del tempo.
Il Beato si chiese il perché di una tale scelta, nell’abbigliamento, di Donna Caterina. Informatosi, gli fu risposto che la giovane donna era una "santa".
Da allora cominciarono i loro incontri e la Volpicelli, attraverso il dialogo, cercava di aiutarlo ad aprirsi al dono della fede.
In seguito la Volpicelli l’accolse nell’abitazione in cui risiedeva la comunità, ancora in germe, che aveva cominciata a riunire. Gli permetteva anche di partecipare ai momenti di preghiera comunitaria.
Fu qui che conobbe la contessa Marianna De Fusco, che diventò con il tempo sua collaboratrice e consorte.
Nonostante la diversità del loro servizio la Volpicelli continuò ad offrire la sua collaborazione, anche finanziaria, al Beato. Fu, infatti, tra i
le prime ad offrire il suo contributo per la costruzione del Santuario. Il Longo e la Volpicelli sono stati in diverso modo "testimoni della carità". (Da il Rosario e la Nuova Pompei –Marzo 1981)
Prima foto: Caterina Volpicelli all'età di 25 anni

Seconda foto: Caterina Volpicelli all'età di 18 anni


*Filippo Smaldone  

Filippo Smaldone: un amico del Beato Bartolo Longo e un Santo della carità
Verona li ha voluti in “platea”: i volti dei Santi italiani hanno fatto da suggestiva cornice al IV Convegno Nazionale della Chiesa italiana, svoltosi dal 16 al 20 ottobre scorsi.
Le foto dei Santi, infatti, sono state poste nell’immensa platea dell’Arena scaligera, sede della cerimonia inaugurale dell’incontro. E due sono gli italiani, tra i quattro nuovi santi “missionari” proclamati, il giorno precedente, 15 ottobre, in Piazza San Pietro, da Papa Benedetto XVI: Raffaele Guízar Valencia, Rosa Venerini, Anne-Thérèse Guérin e don Filippo Smaldone.
Di essi Papa Ratzinger ha sottolineato l’impegno terreno nel seguire Gesù e non le ricchezze terrene che rischiano di allontanare da Dio. In particolare di don Filippo Smaldone, primo Santo
nato a Napoli, Benedetto XVI ha detto: «Fu soprattutto testimone e servo della carità, che manifestava in modo eminente nel servizio ai poveri, in particolare ai sordomuti, ai quali dedicò tutto se stesso».
San Filippo Smaldone nacque il 27 luglio 1848, a Napoli, in un periodo particolarmente denso di tensioni e contrasti nella vita della società italiana, specialmente nella sua patria d’origine e nella stessa Chiesa.
Fu proprio questo a spingerlo a legarsi indissolubilmente alla vita della Chiesa, che vedeva osteggiata e perseguitata. Così, nel 1871, fu ordinato sacerdote. Più che agli studi, Filippo Smaldone si dedicò alla vita apostolica e per dare un’espressione più diretta e concreta al suo sacerdozio, pensò di dedicarsi alle missioni estere. Ma il suo confessore, che l’aveva guidato costantemente fin dall’infanzia, gli fece capire che la sua «missione» era fra i sordomuti di Napoli. Da allora si tuffò interamente in questo tipo di apostolato e, ben presto, cominciò a farsi strada, allora, nella sua mente, l’idea di progettare un’istituzione che potesse essere dedicata alla cura e all’istruzione dei sordomuti e l’occasione gli si presentò quando, trasferitosi a Lecce nel 1885, fondò la Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori, grazie anche al sostegno del Vescovo Gennaro Trama.
Il Santo fu, inoltre, profondamente amico del Beato Bartolo Longo, fondatore di Pompei, e molto
devoto della Madonna del Rosario che ritenne sua salvatrice durante la pestilenza che lo mise in serio pericolo di vita.
Egli, infatti, si recò a Pompei per celebrare una messa di ringraziamento alla Vergine del Rosario, suscitando la gioia del Fondatore di Pompei che, ancora una volta, vide avverarsi la promessa fatta dalla Vergine del Rosario a San Domenico e al Beato Alano de la Roche “che chiunque reciterà il Santo Rosario non sarà oppresso da disgrazie, non verrà castigato dalla giustizia di Dio e non perirà di morte improvvisa”.
Filippo Smaldone finì i suoi giorni a Lecce, spegnendosi il 4 giugno 1923, all’età di 75 anni, dopo aver sopportato con ammirata serenità una diuturna malattia diabetica complicata da disturbi cardiocircolatori e da generale sclerosi.
Fu beatificato da Giovanni Paolo II, il 12 maggio 1996. (Autore: Sandra Franceschi)
Le testimonianze dei nostri Delegati all’Assise Ecclesiale di Verona
La delegazione di Pompei, presieduta dal Vescovo, Mons. Carlo Liberati, e formata da don Sebastiano Bifulco, delegato diocesano, Rosario Alfano, Regina D’Amora, Giusy Di Martino e Assunta Schettino, ha partecipato attivamente ai lavori assembleari ed a quelli di ambito, offrendo il proprio contributo alla discussione ed acquisendo informazioni, esperienze e testimonianze da trasmettere alla comunità ecclesiale pompeiana.
Ecco le impressioni che ci hanno fatto pervenire: «Una bella esperienza di Chiesa, della sua
vitalità nelle sue varie componenti.
Tutto è stato interessante e fortemente stimolante per la crescita personale e per le indicazioni offerte per il cammino futuro delle nostre chiese.
Siamo tornati arricchiti e desiderosi di intensificare il nostro impegno a servizio della nostra Chiesa perché possa crescere nella fedeltà al Risorto.
Proprio la forte presenza laicale è l’elemento che ci ha impressionato a Verona a partire dai 16 “testimoni” della Chiesa in Italia, scelti dai Vescovi italiani quali modelli concreti di laici chiamati alla santità nel proprio ambito di vita.
A questo proposito, vogliamo segnalare un passo del discorso del Papa a Verona, nel quale Benedetto XVI evidenzia tutta la forza della risurrezione di Cristo: “Essa (la risurrezione) - dice il Pontefice - non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande ‘mutazione’ mai accaduta, il salto decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio alla fine dei tempi”.
Poi, indicando che è l’amore la "cifra di questo mistero", continua così: “Egli (il Risorto) era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la vita proprio lasciandosi uccidere,
ma non poteva soccombere definitivamente alla morte (...) La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte.
Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé”.
L’esperienza positiva riportata da Verona ci permette di poter affermare che in questa Chiesa italiana il laicato è protagonista in una maniera forse non sempre eclatante, ma indubbiamente efficace e tutto ha contribuito a rafforzare in noi tale convinzione: dalle relazioni ai momenti di preghiera, dal discorso del Papa alla condivisione con i partecipanti al Convegno.


*Giovanni Bovio  

Un posto per tutti nella casa della Madonna, anche per un non credente incorruttibile
L'amicizia e la stima di Giovanni Bovio, il maggior rappresentante dell'anticlericalismo meridionale del XIX secolo, per il Beato Bartolo Longo e le Opere di beneficenza.
La vocazione del Santuario di Pompei nei confronti dei "lontani".

Giovanni Bovio, nato a Trani (BA) nel 1841, morì a Napoli nel 1903. Per un buon quarantennio riempì le cronache della cultura e del giornalismo, fu deputato per parecchie legislature, insegnò filosofia del diritto all’Università di Napoli.
Esercitava sui giovani un fascino incredibile: dopo le focose lezioni o i comizi entusiastici, in cui egli tuonava contro il governo e contro la Chiesa, gruppi foltissimi di giovani lo accompagnavano in trionfo fino alla sua casa, in Via Duomo.
Militava nella Massoneria, coprendo per una legislatura anche la carica di Grande Oratore: tutti lo sapevano, egli non lo nascose mai a nessuno. In tutte le sue cariche, in tutti gli ambienti in cui visse portò l’intransigenza civile e morale, l’incorruttibilità che ne fece un grande santo laico e anticlericale. Della Chiesa rigettava tutto, ma quando si trovava di fronte ad emergenze in cui doveva trionfare la carità, passava sopra alle sue idiosincrasie.
Così quando nel 1884 a Napoli scoppiò un terribile colera, egli con i suoi seguaci Laicisti s’impegnò nel soccorrere i contagiati. In un tugurio del Rione Loreto s’imbatté nel Card. Guglielmo Sanfelice, Arcivescovo di Napoli, che compiva il medesimo pellegrinaggio caritativo. Gli disse: "Come filosofo non condivido le vostre idee, ma mi unisco a voi nella carità, e vi stringo la mano". Il gesto destò ammirazione ed edificazione ovunque.
Allorché una ditta francese voleva investire i suoi capitali in Italia, per avere cammino facile gli domandò sostegno, promettendogli una somma incredibile, circa 10 milioni di lire, soggiungendo: "Nessuno saprà mai nulla". "E non lo saprà la mia coscienza?" egli rispose. E rifiutò l’offerta. Morì povero. Per pagargli i funerali la moglie, donna Bianca, dovette ricorrere a dei parenti.
Bovio a Pompei
L’impresa caritativa pompeiana non poteva lasciare indifferente il filosofo, ed infatti, egli venne in visita al Santuario; anzi, secondo la testimonianza che raccolsi qualche anno fa a Latiano, ci venne parecchie volte. Ignoriamo le circostanze cronologiche della visita, ma ne conosciamo parecchi dettagli. Nel processo di beatificazione di Bartolo Longo, Mons. Fabozzi così ne parlò: "Di tutto si serviva per accendere anche negli animi più ribelli la fede. Un giorno venne a Pompei il maggiore rappresentante dell’anticlericalismo meridionale, Giovanni Bovio, Bartolo Longo lo accompagnò a visitare le Opere di Beneficenza. Poi disse: "Entriamo un momento nel Santuario voglio farvi sentire come cantano le Orfanelle". Era stato già da lui disposto per un canto dolcissimo, ad un tratto Giovanni Bovio si alzò in piedi e disse: "Qui in questo Santuario non voglio rimanere un altro istante solo. Mi sono accorto che voi Don Bartolo la sapete lunga, troppo lunga".
Il Frasconi offre qualche dettaglio che con ogni probabilità apprese direttamente dal Beato o da persone che erano state testimoni della visita del Bovio: "Dopo essersi trattenuto nelle sale del lavoro tra gli orfani della legge, si soffermava davanti al Quadro prodigioso ed è investito delle voci delle orfanelle che provengono da lassù dalla cantoria, trema, sta per piegarsi, reagisce precipitoso, esige: "Don Bartolo, usciamo, usciamo subito, se no devo inginocchiarmi".
L’Auletta annota che, seduti nella chiesa, Bovio accavallò le gambe come si fa in teatro, allorché il canto delle orfanelle cominciò, ma poi la commozione lo vinse, e pregò don Bartolo di condurlo fuori. Sull’album dei visitatori scrisse: "Venni per studiare ed ammirare – Giovanni Bovio". Sembra a noi che il dialogo fra Bartolo Longo e Bovio raggiunga qui una vetta veramente molto elevata. I valori comuni al Cristianesimo ed al laicismo, messi in opera dal Beato, sono di altissima classe: il lavoro, la redenzione degli infelici e tanto più dei carcerati, l’educazione degli orfani, l’alfabetizzazione e l’incivilimento delle popolazioni rurali costituiscono una delle strutture portanti del massonismo, e persino la Massoneria italiana, che in quei decenni è particolarmente lontana dall’autenticità, perché impegnata in polemiche politiche e religiose, è estremamente sensibile a tali valori, e li porta innanzi con frequenza e con successo. È nostra opinione che la stessa dirittura morale e un iperbolico senso della coerenza abbiano impedito a Bovio di arrendersi all’ Eterno femminino goethiano, che a Pompei si manifestava in termini tanto gloriosi e tanto pietosi verso l’umanità meno fortunata. Ma là dove non giunse il segno esteriore, non è forse possibile che sia giunta l’illuminazione interiore, e l’accettazione del richiamo mariano dell’intimità?
Due lettere del 1903
Nel 1903 Giovanni Bovio si ammalò gravemente. Don Bartolo seguiva con affetto e con premura pastorale le vicende dei suoi amici, particolarmente di quelli più lontani dalla pratica cristiana. Apprendendo perciò le notizie allarmanti circa la salute del filosofo tranese, tornò alla carica. Due lettere, che il conservatore dell’archivio Bartolo Longo a Pompei, Aniello Cicalese, ha messo cortesemente a mia disposizione, documentano in maniera eloquente la sollecitudine amichevole e pastorale del B. Longo.
Questi, come è noto, dettava le lettere ai diversi segretari e si limitava a firmarle. La minuta della lettera che egli rivolse a donna Bianca Bovio è chiara nel testo, ma è stata poi scarabocchiata molto abbondantemente. La riproduciamo integralmente (Arch. B. Longo, 1, fasc. 132 busta "Bovio"):
(Minuta senza data né firma)
Gentilissima Signora,
Ho conosciuto con pena l’infermità dell’illustre suo marito, il carissimo Prof. Bovio. Memore di quanti incoraggiamenti egli mi fece quella sera che venne a Pompei insieme con lei, io sento il desiderio e il dovere di stringergli la mano augurando che possa presto ristabilirsi.
Quindi io prego la sua cortesia, se non le è grave, a volermi far conoscere se posso in giornata per un momento solo io visitarlo, dovendo io partire per le ore due p. m. per Valle di Pompei.
Nel rinnovarle gli auguri di guarigione e di bene, mi confermo pel
Dev.mo suo.
A nome della signora rispose il figlio Corso (l’altro, Libero, fu poeta e di lui ci restano parecchie canzoni napoletane).
Purtroppo il rifiuto fu cortese, ma deciso: Camera dei Deputati Di casa, 16 – 3 – 03
Preg.mo Sig. Longo,
La ringrazio, anche per conto di mia madre, della Sua cortesia. Mi duole, però, comunicarle che gl’illustri clinici che curano mio padre hanno nel modo più assoluto vietato che s’introducano persone presso mio padre, per le condizioni in cui si trova. La ringrazio di nuovo per la premura dimostrata, e la saluto distintamente.
Obbl. mo
Corso Bovio
Vocazione di Pompei
Fallimento per la seconda volta? Secondo la logica del visibile, certamente sì. Ma i santi non si fermano a questo tipo di ragionamenti; essi agiscono sui tempi lunghi, soprattutto sui ritmi della misericordia di Dio e dell’intercessione della Madonna. Chi può dire che cosa sia accaduto nel cuore di Giovanni Bovio, allorché i suoi familiari gli comunicarono l’intenzione del B. Longo?
Esteriormente ci fu il rifiuto, ma i segreti dell’intimità li conosce solo Dio.
Questo episodio comunque, unito ai tanti altri analoghi, afferma la vocazione del Santuario di Pompei nei confronti dei "lontani" Qui non esistono lontani, perché tutti sono chiamati a rifugiarsi sotto il manto della Madonna. Ai tempi del B. Longo proprio come oggi, a Pompei tutti sono di casa, anche se militano in gruppi contestatori, o professano esteriormente miscredenza e anche non-credenza.
Altri condanneranno; gli eredi di Bartolo Longo no. Egli accoglieva politici e pensatori, giornalisti e artisti, qualunque fosse il loro credo politico e religioso. Se erano disponibili a impegnarsi a favore dei poveri e degli infelici, erano accettati con ogni cordialità. Infatti occupandosi dei carcerati e degli orfani, degli "ultimi", di fatto si occupavano di Gesù che è nascosto nei più piccoli tra i suoi fratelli.
(Autore: Rosario F. Esposito)


*Giuseppe Ambrosio  
*Vent’anni d’amicizia e sostegno reciproco

Il fondatore del Santuario di San Giuseppe Vesuviano, dedicato allo sposo di Maria, fu ispirato dall’opera pompeiana. Il Beato consigliava, confortava, sosteneva con la sua fede profetica. E come nella città mariana, anche nel vicino comune del napoletano, insieme al tempio di pietra, s’inauguravano opere di carità per i bisognosi.
Il rapporto tra il beato Bartolo Longo e Don Peppino Ambrosio, fondatore del Santuario di San Giuseppe Vesuviano è durato oltre vent’anni ed è sostanziato di sostegno reciproco, morale, spirituale, economico. A pochi chilometri di distanza, in terra vesuviana, hanno innalzato santuari dedicati ai due santi sposi, Maria e Giuseppe, dei quali sono stati entrambi devotissimi. Questo rapporto profondo si evidenzia nel momento del "gemellaggio" tra le opere di carità e misericordia, realizzate da entrambi. Conserviamo una bella lettera del Beato Bartolo Longo, datata nel maggio 1909, in cui l’Avvocato di Latiano rievoca la sua presenza all’inaugurazione dell’accoglienza degli orfani a San Giuseppe Vesuviano e rende lode a Monsignor Giuseppe Ambrosio (chiamato popolarmente Don Peppino) per le iniziative intraprese. Questo rapporto viene poi materialmente suggellato quando Longo dona la statua marmorea di san Bernardino da porre in cima alla facciata monumentale di San Giuseppe.
Era il giugno del 1926, il Beato era alla fine della sua vita.
Negli anni precedenti sono documentate offerte che l’Avvocato riconosceva al suo amico prete di San Giuseppe. Nel numero di marzo-aprile del periodico bimestrale "La voce di san Giuseppe", fondato da don Ambrosio sulla scia de "Il Rosario e la Nuova Pompei", il sacerdote scrive del suo rapporto con Bartolo Longo. Lo definisce in quelle righe "genio cattolico" e ci rivela come fin dai primi tempi dell’edificazione del santuario giuseppino, agli albori del Novecento, anzi prima ancora che ci fosse anche solo l’idea di innalzarlo, sia stata per lui ispiratrice e animatrice l’opera avviata a Pompei. Quell’articolo viene da lui intitolato "per la storia". Scrive don Peppino: "Non eravamo lungi dal pensare a quello che abbiamo fatto in vent’anni, animati dal cittadino fervore, soccorsi dalle migliaia di devoti. Il Commendatore ci pose in cuore un nuovo raggio di speranza, un conforto, una fede potentissima e nuova". Già si sapeva e si immaginava che il Santuario di San Giuseppe era sorto sull’esempio di quello di Pompei. Ma ora questa dichiarazione ritrovata appare rivelatrice di questo connubio nella storia tra i due fondatori.
L’incertezza degli inizi e il buio del futuro sono rischiarati da una luce. C’è un fatto misterioso e confortante, tenuto a lungo segreto, che viene svelato. Scrive ancora don Ambrosio: "Un giorno, ci diceva il Commendatore, si presentò a me un uomo sulla cinquantina. Guardò la nascente fabbrica e sulle labbra ispirate gli suonarono queste parole: Maria del Rosario presto avrà qui il suo tempio magnifico e santo, ma non passerà molto tempo, e poco lontano di qui lo avrà anche il
suo Sposo… viva San Giuseppe! Ci ponemmo all’opera ed il Commendatore Bartolo Longo ci fu largo di consigli, di preziosi incoraggiamenti, ci venne raccontando questa storia.
Noi esultammo ed abbiamo più volte pensato, e detto fra noi, chi era quel personaggio? Se uomo certo da chi l’aveva appresa? Fu visione, fu sogno, fu profezia, non sappiamo dirlo. Qualcuno a cui l’abbiamo narrata ci ha detto: era san Giuseppe, che era venuto a vedere la casa della sua Sposa, e vagheggiava anche la sua: sarebbe temerità l’affermato?". Questa confidenza, con la scienza del poi, appare profetica e incoraggiante. D’altronde solo credendo nei sogni questi si possono realizzare, e solo con la fede si superano gli ostacoli e si possono portare avanti. Ad ogni modo è bello riconoscere lo spirito che unisce fin dai primi tempi la nuova Pompei e san Giuseppe Vesuviano. È da condividere quanto afferma Don Peppino: "Come si affratellano dunque queste due opere, due templi che a poca distanza sorgono a glorificare la Madre di Gesù ed il Padre putativo di lui! Accettiamo l’augurio e nell’animo nostro ne desideriamo il compimento. I giorni affannosi di Bartolo Longo furono parecchi, poi vennero i giorni gloriosi che saranno eterni: sia così anche per noi". È un augurio che vale tuttora. L’opera di San Giuseppe Vesuviano è da ritenere quindi come una creatura e un frutto di quella pompeiana. Si auspica che cresca questo legame tra i due Santuari nati con una medesima ispirazione ideale e che ha unito in maniera così significativa i due fondatori.

(Autore: Padre Angelo Catapano)

*Biografia
Monsignor Giuseppe Ambrosio (San Giuseppe Vesuviano, Napoli, 24/03/1871 - 16/01/1957)
Don Giuseppe Ambrosio, fondatore del Santuario di San Giuseppe Vesuviano, è da annoverare nella storia tra i più insigni apostoli di San Giuseppe.
Chiaramente della devozione verso il santo, che è il Patrono universale della Chiesa, ma anche di quel paese che ai piedi del Vesuvio ne porta il nome dal Seicento, in particolare di quel Santuario ivi innalzato grazie alla sua dedizione tenace per oltre cinquant’ anni.
Nacque a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) il 24 marzo 1871 e morì ivi il 16 gennaio 1957.
Le tappe della sua vita, dopo la consacrazione sacerdotale nel 1895 a Nola e l’ assunzione della direzione dei lavori per la chiesa parrocchiale del paese natio nel 1899, vengono scandite dalle successive inaugurazioni: le colonne (1905), la cupola (1908), la facciata (1926), l’ interno (1935), l’ organo (1948), l’ altare maggiore (1955). Azione che si estende pure alla realizzazione di un centro per i minori nel 1909 ed uno per gli anziani nel 1935, nonché della “casa del pellegrino” nel 1937.  
Fonda il periodico "La voce di san Giuseppe" per la diffusione nel mondo del culto verso lo Sposo di Maria (1902). Innumerevoli i suoi viaggi, specialmente per la Campania e la Puglia, ma un po’ in tutte le regioni d’ Italia e all’ estero, nell’ America del Nord (1929) e del Sud (1934). La sua
missione è coinvolgere i benefattori nella costruzione del Santuario, che deve essere “monumentale”, degno del Custode del Redentore, sulla scia di quello elevato alla sua Sposa nella vicina Pompei. Indubbiamente però il suo compito più profondo è quello di trasmettere l’ amore per San Giuseppe, la fiducia agli ammalati, il conforto ai tribolati, la fede ai lontani. Non si contano le grazie e le guarigioni ottenute tramite il suo intervento nel nome del Patrono. Cresce dunque attorno a lui una “famiglia spirituale”, una vasta cerchia di amici, devoti e ammiratori. Conta sulla fede, sull’ aiuto di tanti piccoli offerenti, sull’ appoggio della povera gente e degli emigrati; tra i suoi grandi sostenitori si segnalano San Pio X e il beato Bartolo Longo. Questi i titoli, che già da soli tratteggiano la figura di Don Ambrosio: L’uomo giusto al posto giusto – Personaggio carismatico e coinvolgente – Nunzio del santuario di San Giuseppe – Sacerdote con un voto in più – Amico degli orfani e dei sofferenti – Angelo con le ali al cuore e ai piedi – Un secondo Bartolo Longo – Padre e pastore del suo popolo – Pellegrino in mezzo mondo – L’ ombra di San Giuseppe – Ospite graditissimo e desideratissimo – Un’ anima ardente e ardita – Operatore instancabile di carità – Insigne apostolo di San Giuseppe.
*L’uomo giusto al momento giusto
Il nostro fondatore don Giuseppe Ambrosio - popolarmente chiamato don Peppino - ha lasciato un’ impronta memorabile nella storia, in generale del culto a San Giuseppe e in particolare della sua terra d’origine. Nasce il 24 marzo del 1871 da Luigi e Luisa Ambrosio a San Gennarello, vicino a San Giuseppe Vesuviano che all’epoca è frazione di Ottaviano, in provincia di Napoli.
Viene chiamato Nunzio Giuseppe, come è confermato anche dal registro del battesimo, che avviene il giorno stesso nella parrocchia di San Gennaro.
Nel 1877 si trasferisce in una nuova casa poco distante, che viene a trovarsi nel territorio di San Giuseppe, in fondo a via Roma all’ angolo con via Lavinaio.
Frequenta la scuola elementare con i coetanei in paese. Per gli studi medi e ginnasiali va al seminario di Nola dal 1882 al 1887. A vent’ anni è dichiarato abile al servizio militare, e il 28 novembre del 1891 è chiamato alle armi dal distretto militare di Nola come soldato di leva. Presta servizio a Napoli e a Caserta fino al 22 settembre 1893. Dopo l’ esperienza militare, Giuseppe Ambrosio è pronto per la sua scelta definitiva e abbraccia la via del sacerdozio.
Frequenta il corso teologico per tre anni a Napoli nell’ Ospizio Ecclesiastico interdiocesano. L’8 giugno del 1895, a 24 anni, è ordinato sacerdote nella cattedrale di Nola dal Vescovo Mons. Agnello Renzullo. Conclude infine gli studi conseguendo la laurea in Teologia presso la curia di Napoli l’ anno seguente. Il Vescovo diocesano lo invia per il suo primo ministero pastorale proprio a San Giuseppe Vesuviano, novello Comune da appena tre anni. Così don Giuseppe dal 1896 esercita il suo ministero sacerdotale presso la chiesa del rione Rossilli.
In quel tempo si era in fermento per restaurare e possibilmente ampliare la chiesa parrocchiale sei-settecentesca, ubicata nella piazza centrale, bisognosa da decenni di radicali interventi, ma concretamente non se ne faceva niente. Ora nell’ anno in cui don Ambrosio comincia il suo ministero sacerdotale nel paese, si sblocca finalmente la situazione: l’ 8 novembre si passa ufficialmente alla posa della prima pietra.
Ma i soldi raccolti sono ben pochi e finiscono presto. Passano quindi ben due anni con un nulla di fatto, finché viene invitato come tesoriere e sovrintendente ai lavori il giovane don Giuseppe, allora ventottenne. Ed ecco che arriva l’uomo giusto al momento giusto.
Si riprende l’ impresa con tutta una nuova determinazione: siamo al 15 aprile del 1899. Con gli occhi della fede si vede come l’ opera venga suggellata dal Cielo. Confortato dal susseguirsi delle grazie, cresce in don Peppino, insieme all’ ardore, l’ ardire di un sogno da realizzare: non più un adattamento o un ampliamento della vecchia chiesa, ma un Tempio ex novo degno di San Giuseppe. L’ingegnere Francesco Foschini, che aveva già predisposto un primo disegno, è chiamato a studiare un nuovo progetto più consistente, su di una superficie di 1500 metri quadrati, a croce latina, suddivisa in tre navate, con una lunghezza di 46 metri, una larghezza del prospetto frontale di 30 metri e un’ altezza della cupola fino a 50 metri.
A questo punto si comincia a demolire la vecchia chiesa, non senza una certa temerarietà, trattandosi dell’ unico ambiente parrocchiale, che pure deve continuare a funzionare per le celebrazioni dei fedeli. Don Giuseppe si dà subito da fare per raccogliere i fondi necessari perché i lavori procedano, possano essere pagati i materiali e gli operai. Appena assume il suo compito, o meglio la sua missione, comincia sulla destra l'antica chiesa, sulla sinistra la costruzione del santuario a segnare entrate e uscite sui registri.
Le prime note sono del mese di marzo del 1899;  poi proseguiranno per decenni e alla fine comporranno una ventina di grossi volumi, che ancora si conservano in archivio.
Ci sono le date, le persone che hanno dato l’ offerta, la cifra ricevuta, tutto di suo pugno.
Alla fine di ogni pagina il riporto e al termine dell’ anno la somma raggiunta. È come un calendario interessante dei benefattori coinvolti, della spesa occorrente e dello sviluppo dell’ opera. Si va dalla raccolta dei centesimi alle offerte di una o poche lire, fino alle 100 lire e talvolta anche di più, cifra considerevole per quei tempi. Al 31 dicembre del 1901 scrive: “in questo anno si è notato un risveglio di fervorosa devozione verso S. Giuseppe; vantiamo moltissime notturne visioni susseguite da grazie insperate”.
Per arrivare anche in luoghi lontani, raggiungere un più ampio numero di devoti, cui far conoscere la chiesa in costruzione e coinvolgere nell’ impresa, Don Giuseppe nel 1902 fonda appositamente
un periodico intitolato “La voce di san Giuseppe”.
Vuol essere la sua una voce intima ma forte, in modo da arrivare lontano e oltrepassare gli oceani. Ed ecco che fin dal primo numero Don Peppino lancia un vibrante appello a quanti sono emigrati all’estero, dal titolo “Ai miei carissimi concittadini residenti nelle Americhe”.
Il vescovo di Nola Mons. Agnello Renzullo il 25 marzo scrive a Don Giuseppe un attestato di compiacimento per la riedificazione della chiesa e per la pubblicazione del periodico. “La voce di san Giuseppe” si propone certo di coinvolgere i lettori nella costruzione della nuova chiesa, che vuol essere bella in onore del Patrono, un suo “Santuario”, ma desidera farsi “voce del Santo”, portavoce delle sue virtù e del suo modello di santità, mezzo di comunicazione e di promozione della sua devozione. Un’ idea da lui lanciata, a partire da quest’anno, è la commemorazione dell’ 8 novembre, data fatidica della posa della prima pietra.
La commemorazione del sesto anniversario si svolge effettivamente con solennità. Arriva per l’ occasione il telegramma con la benedizione del Papa Leone XIII. La cerimonia è animata dalla musica del maestro Pietro Magri e presieduta dall’ arcivescovo di Bari Mons. Giulio Vaccaro.
Tirando le somme delle offerte raccolte, ci si avvede che si è raggiunta la bella cifra di oltre 21.000 lire. Don Giuseppe annota nei suoi registri: “In questo anno S. Giuseppe ha spiegata una predilezione a pro dei benefattori del Santuario. La somma raccolta è davvero consolante. Ci auguriamo lo svolgimento di Valle di Pompei”. Confortato dall’ esempio del vicino santuario di Pompei e dalla rilevante somma raccolta, Don Ambrosio dunque va avanti. Le grazie del Patrono si moltiplicano e sembrano confermare l’ opera intrapresa. Davvero San Giuseppe si manifesta “taumaturgo” e per sua intercessione avvengono tante guarigioni.
L’ intervento di Don Peppino, che si reca a casa dei malati, con la sua fede e “quel dolce sorriso che sa ispirargli il Patrono”, diventa ricercato e premessa di benedizione celeste. Non per niente don Ambrosio, puntualmente in tutti i numeri de “La voce di San Giuseppe”, cura personalmente la rubrica delle grazie, quella da lui sentita e presentata come la più preziosa, quella che racconta dell’ aiuto del Cielo.
*Persona carismata
L’ opera più delicata per Don Ambrosio non è tanto quella della ricerca delle offerte, quanto quella di incontrare le persone e toccare il loro animo, in modo da trasmettere la fede e far crescere l’ amore verso San Giuseppe. Senza questa opera, tutto diventa inutile e anzi incomprensibile. Solo chi vede le cose superficialmente si ferma davanti alla scorza della materiale e magari affannosa ricerca dei fondi, nella quale Don Peppino affina la sua abilità.
Egli è un sacerdote ed è ricco di spiritualità, è un uomo di Dio e si muove con zelo sacerdotale portando Dio. È innamorato di San Giuseppe ed è animato dalla passione di comunicare il suo amore. Perciò appare come un personaggio carismatico e coinvolgente, un uomo forte e ricco di interiorità, determinato e comunicativo.
Non è un semplice questuante o un prete devoto, “fissato” per la costruzione di una chiesa.
È provvidenzialmente l’uomo giusto al posto giusto.
*Amico degli orfani e dei sofferenti
Oltre i viaggi a Napoli e in Campania, Don Ambrosio si è già recato a Roma, più volte in Puglia, Basilicata e Calabria. Ora è giunto il momento di portare la “buona novella” di San Giuseppe e del suo Santuario per tutta l’ Italia, e anche oltre frontiera, e precisamente in Istria, a quel tempo soggetta all’ Austria. È l’ ora di estendere la cerchia dei devoti e dei benefattori, dando all’ opera un respiro non solo locale ma nazionale.
Don Peppino parte da San Giuseppe il 5 maggio per Roma, e il giorno dopo per Firenze. Il 9 è a Ferrara; dall’ 11 al 13 va a Venezia, San Giorgio Locaro, Montefalcone e a Cormons.
Si reca poi a Gorizia, dove è ospite di una famiglia devota, si sparge la voce e parecchie signore vanno a trovarlo; anche l’ Arcivescovo gli dà la sua benedizione e ovviamente la sua offerta. Parte per Mestre e da lì si mette in pellegrinaggio per il Santuario di Loreto, dove ripensa alla casa di Nazaret.
Infine si dirige in Puglia e va prima a San Severo, dove lo accolgono diversi concittadini. La sera del 23 maggio ritorna finalmente a San Giuseppe, felice e contento. Non ha avuto paura di nulla, nonostante le avventure e i rischi del viaggio.
Come il Custode del Redentore ha il Figlio con sé e coraggioso lo salva in Egitto, così Don Peppino, con l’ immagine del suo Patrono al petto, affronta ogni traversia. Ed è proprio così: basta ricorrere con fede a Lui e arrivano le grazie, le guarigioni, la pace del cuore. Almeno questo accade puntualmente con la presenza di Don Ambrosio, che diventa sempre più desiderata, specie dove si soffre per i propri cari nella malattia.
Potremmo dire a questo punto che diventa “taumaturgo” anche lui, nel nome del Taumaturgo San Giuseppe. È quanto viene dichiarato ormai con chiarezza in molte testimonianze. Gli scrivono infatti testualmente: “le vostre preghiere influirono moltissimo, e di ciò dovete esserne contento, potendo affermare che il vostro intervento ad implorare grazie è efficacissimo”.
Si arriva così alla festa dell’ 8 novembre 1908, in cui si inaugura la cupola che, con ben 48 metri d’ altezza e 12 metri di diametro, domina il panorama vesuviano. Finalmente con questa tappa si conclude la necessaria copertura del Santuario che invece, a cielo aperto o con tettoie provvisorie, era esposto alle intemperie.
Intanto matura nella mente di Don Peppino l’ idea di un’ altra avventura, espressione dell’ amore che arde nel suo cuore. Una volta sistemata l’ impellente copertura della chiesa, urge pensare a chi è senza tetto, ai più piccoli e indifesi. Completata la parte grezza in muratura della casa del Signore, occorre procurare una casa a chi non ce l’ ha.
Il pensiero va in particolare ai “figli degli operai vittime del lavoro” e al Patrono degli operai, il falegname di Nazaret. L’ immagine di San Giuseppe che stringe il Bimbo tra le sue braccia è l’ icona perfetta della missione a favore dei bimbi più bisognosi, che non hanno un padre e una famiglia, qualcuno che lavori per loro e gli insegni un mestiere.
Il Custode del Redentore può ben essere l’emblema di chi accoglie e custodisce Gesù stesso negli orfani e nei fratelli in necessità. Il terremoto catastrofico che il 28 dicembre distrugge Messina e Reggio Calabria porta ad affrettare la realizzazione del progetto. L’ urgenza di tante famiglie disastrate e dei bimbi che a migliaia sono rimasti senza nessuno interpella e scuote la carità dei buoni.
Si era programmato per altri destinatari, colpiti dalla disgrazia sul lavoro, certamente con più calma, ma non importa, ora gli eventi esprimono una diversa volontà di Dio. Don Ambrosio allora cerca una sistemazione almeno provvisoria per l’ accoglienza degli orfani.
Affitta una palazzina nel rione Bartoli con un po’ di giardino attorno e ne adatta alla meglio gli ambienti: al pianoterra la parte giorno e al piano superiore le camere per la notte. Ed è così che nel giro di qualche giorno, il 3 gennaio del 1909, già possono essere ospitati una ventina di orfanelli: per l’esattezza 19, non a caso numero augurale nel nome del Patrono.
Il primo a venire in aiuto è proprio il Papa Pio X che, dopo aver donato gli arredi liturgici in seguito all’ eruzione, ora fa altrettanto per la cappellina dell’ ospizio: invia dai regali ricevuti per il suo giubileo sacerdotale una pianeta bianca, ricamata artisticamente, un turibolo d’ argento, una
cotta, una stola, camici e cingoli, tovaglie e biancheria varia.
Non manca di mandare anche una bella offerta di 1000 lire. Bisogna dire che il Santo Padre prende a cuor l’ opera vesuviana e la sostiene ripetutamente negli anni che seguono; in particolare si impegna a mantenere egli stesso sette orfanelli, per i quali manda periodicamente il suo contributo, ordinariamente 225 lire al mese.
Per la conduzione quotidiana, Don Peppino si era già rivolto fin dall’ inizio ai Fratelli delle Scuole Cristiane, ora si reca a Roma per sollecitare la loro presenza.  Ed ecco che quattro religiosi, con a capo fratel Corrado, vengono destinati all’ opera. In men che non si dica trasformano la casa come si deve e si impegnano nella formazione dei ragazzi accolti. Sebbene la sede sia ancora provvisoria, il 2 maggio, festa del Patrocinio di San Giuseppe, avviene la solenne inaugurazione. Arrivati i forestieri col treno da Napoli, la processione parte alle 11 dal Santuario per giungere poco dopo all’ ospizio.
Nel cortile antistante, adornato di palme e addobbato per l’ occasione, viene celebrata la Messa all’ aperto dal Vescovo diocesano Mons. Renzullo. Il discorso è tenuto dal vicedirettore don Andrea Viggiano che racconta con commozione il momento straziante in cui ha raccolto i piccoli che gli sono stati affidati. Un’ emergenza che dalla disgrazia ha fatto fiorire la carità. Si può vedere anche in questo il disegno di Dio e l’intervento del Patrono.
Dopo la Messa viene offerto un abbondante buffet nel giardino adiacente.
La cerimonia è rallegrata dalla musica della banda dei “Figli dei carcerati” venuti da Pompei. All’ inaugurazione interviene personalmente anche Bartolo Longo, che si era fatto presente già 15 giorni prima con una sua visita all’ ospizio. La sua presenza risulta quanto mai opportuna, a suggello visibile del provvidenziale “gemellaggio” sorto spontaneamente ai piedi del Vesuvio.
Ora comincia un rapporto più stretto tra i due fondatori, che non terminerà più: si incontreranno spesso, condivideranno i progetti, si sosterranno moralmente e si aiuteranno praticamente per parecchi anni, fino alla morte del Longo che avverrà nel 1926. A dir la verità, Don Peppino offre all’ Avv. Longo maggiormente un sostegno morale, in qualità di sacerdote, ed essendo più giovane e con minori disponibilità economiche, riceve da lui piuttosto un sostegno pecuniario, che diventa sempre più costante e consistente col passar del tempo.
Invitato dallo stesso Don Peppino a raccontare le sue impressioni dell’ inaugurazione a cui ha assistito, Bartolo Longo parla del gruppo degli orfani da lui accolti a Pompei: Don Ambrosio è al centro invia una lettera interessante, che viene pubblicata sulla “Voce di S. Giuseppe”.
Confida che rimane ammirato dell’ opera, sia del Santuario che dell’ ospizio. Anch’ egli appena due anni prima aveva chiamato i Fratelli delle Scuole Cristiane a dirigere il suo Istituto dei Figli dei carcerati e probabilmente li aveva consigliati a Don Peppino, da lui considerato “ottimo e caro amico”, come scrive nella lettera.
Le sue parole si concludono con un aperto incoraggiamento che denota la sua personale devozione allo Sposo di Maria. Incoraggiato dunque non solo dall’ esempio del Longo e dalle sue parole, ma da molte adesioni favorevoli, Don Giuseppe Ambrosio lancia l’ appello per l’ acquisto del terreno (ben 20.000 metri quadrati) da destinare alla costruzione del nuovo e più capiente Ospizio, prospiciente la strada in direzione di Ottaviano e di Napoli. La sua idea è di raccogliere 300 persone che possano dare 100 lire ognuna. Nel primo elenco che pubblica sul periodico si trovano già 24 offerenti, tra questi c’è chiaramente segnalato il Comm. Avv. Bartolo Longo.
Nel medesimo tempo, non si possono lasciare a metà i lavori del Santuario, ed ecco che l’ 8 novembre, dodicesimo anniversario della prima pietra, ad un anno dall’ inaugurazione della cupola, diventa l’ occasione per la posa ufficiale della prima pietra della facciata, che viene calata alla destra dell’ ingresso principale. Si tratta di un blocco di travertino di ben due tonnellate, in cui viene cementata la pergamena-ricordo di una giornata memorabile. Mons. Giovanni Minichini della curia di Napoli celebra il pontificale.
I “Figli dei carcerati” di Pompei animano la cerimonia con la banda musicale. L’ospizio educativo di San Giuseppe ospita gli invitati al pranzo. Interviene anche il generale Gustavo Durelli. L’avvocato Gennaro De Simone, appositamente richiesto, pronuncia un elevato discorso.
Non una persona soltanto, ma tutto un popolo è stato coinvolto e ha dato del suo: fedeli e devoti, malati guariti e tribolati consolati, dal paese e da lontano.
Raramente hanno contribuito grandi offerte, ma pian piano, dalle monete di un soldo o di pochi centesimi alle banconote, dalle donazioni per grazia ricevuta agli oggetti votivi, tutto è servito a raggiungere lo scopo, tappa dopo tappa. Certo, questa tappa della facciata che ora si intraprende è da far spavento. Si parla di un’ opera di 30 metri di larghezza e altrettanti di altezza, in puro stile neoclassico, tutta in travertino del monte Tifata (la stessa pietra della reggia di Caserta e della facciata di Pompei), con una spesa preventivata di mezzo milione di lire, cifra che lieviterà col passar del tempo.
*Un secondo Bartolo Longo
Gemellaggio materiale e spirituale tra i due fondatori
Incoraggiato da molte adesioni favorevoli, don Giuseppe Ambrosio nel 1909 lancia l’ appello per l’ acquisto del terreno (ben 20.000 metri quadrati) da destinare alla costruzione del nuovo e più capiente Ospizio, prospiciente la strada in direzione di Ottaviano e di Napoli. La sua idea è di
raccogliere 300 persone che possano dare 100 lire ognuna. Nell’elenco che pubblica sul periodico si trovano già 24 offerenti, tra questi c’ è chiaramente segnalato il Comm. Avv. Bartolo Longo.
Una volta avviata l’ accoglienza dei minori, Don Peppino (come è chiamato popolarmente) è presentato simpaticamente dai ragazzi come il papà che cura e provvede ad ogni cosa: “Ě per noi l’ immagine del padre quella di lui, del padre al quale generosamente si è sostituito. Che vi manca? Che volete? Come state? Ci viene a dire sorridendo ogni giorno e noi gli apriamo il cuore come il più affettuoso figlio al più tenero dei padri. Come ci suona dolce agli orecchi la sua parola! Come ci conforta il suo sorriso! Come ci fa lieti la sua carezza. S. Giuseppe è il Santo Protettore, Babbo Giuseppe è il nostro padre secondo”. Ě bello vedere Don Ambrosio, come già  Bartolo Longo a Pompei, dedito non solo all’ edificazione del Santuario, ma anche in questa veste di padre e educatore, stare volentieri in mezzo ai suoi ragazzi ed essere da loro chiamato “babbo Giuseppe”. A ricordo speciale del suo sempre caro amico e benefattore sulla “Voce di San Giuseppe” scrive: “ci piace annunziare che il nostro glorioso S. Giuseppe ha voluto sperimentare il suo valido patrocinio anche sull’ illustre cavaliere della Vergine del Rosario di Pompei, il Comm. Avv. Bartolo Longo, che per la singolare grazia ricevuta ci ha consegnata una vistosa offerta”. Teniamo presente che anche nel fondatore di Pompei è viva la devozione a San Giuseppe, in onore del quale fa erigere nel Santuario Mariano un ricco altare dedicato al Santo, scrive e pubblica il “Mese di marzo”, il triduo e la novena per il Transito. In più occasioni non manca chi critica ritenendo sprecata la spesa per il tempio quando magari ci sono cose più necessarie, o giudicando i preti che ammassano soldi sui sacrifici degli altri. Anche in questo don Ambrosio è somigliante a Bartolo Longo, provato egli pure in diversi momenti, e in particolare sull’ amministrazione dei beni, dalla croce della critica e della calunnia.
Un incontro interessante capita un giorno con un visitatore proveniente da Pompei, un certo Giuseppe Prevete, che racconta: “Come se ci fossimo dato l’ appuntamento, mi venne incontro alla stazione un semplice e sconosciuto sacerdote che, scendendo da un vicino ospizio di carità, mi si offrì per guida. Per via ci demmo a conoscere l’ un l’ altro, ed io fui felice di scoprire in lui D. Giuseppe Ambrosio, un secondo D. Bartolo Longo, sebbene avrei dovuto accorgermene dai suoi grandi occhi, limpidi e modesti in un viso precocemente solcato da lunghe cure e gravi pensieri”. Questo primo impatto che porta a vedere in Don Peppino “un secondo Bartolo Longo” evidenzia la stima che suscita il personaggio. Ma davanti alla grandezza del Santuario, la sua impressione è piuttosto negativa: “Tanto spreco di denaro, di marmi e di bronzi sotto il minaccioso Vesuvio! Tanto sciupo in un piccolo paese così vicino al Santuario di Pompei che assorbe tutta la pietà dei fedeli! Un lusso inutile quel monumento in campagna che non ricorda niente!”… A un certo punto però gli viene un’ idea luminosa: “Perché del Santuario di S. Giuseppe non fate un centro di convegno politico cristiano della federazione delle società operaie cattoliche della Campania? Lasciate che le pie donne e gli uomini illustri vadano alla chiesa di Pompei; voi attirate al Santuario di S. Giuseppe i pellegrinaggi degli operai!”.
Ě una proposta questa che non appare per nulla peregrina e che anzi risulta profetica: raccogliere i lavoratori attorno al Patrono dei lavoratori, cosa che in seguito si farà ufficialmente con la festa di San Giuseppe artigiano il primo maggio.
In archivio si trova un bel registro dal titolo a caratteri d’ oro “benefattori memorabili del santuario”, in cui vengono segnalati via via 5279 oblatori. Tra questi sono registrati ad esempio: Bartolo Longo (al numero 393) e Marianna De Fusco (705).
Nel 1925, anno dell’ inaugurazione del campanile di Pompei, il nuovo vescovo di Nola Mons. Egisto Melchiori dona la statua di San Paolino e Bartolo Longo quella di San Bernardino. Dirà più tardi Mons. Binni: “S’ incontrarono più di una volta Bartolo Longo e D. Peppino, si conobbero, si vollero bene, pregarono insieme, sorrisero nei momenti di dolcezza, si rattristarono insieme nei momenti di disillusioni, che non mancano mai, specie quando si lavora per il Signore. Misero insieme le braccia e l’ intelligenza e come pegno di affetto che Bartolo Longo aveva verso D. Peppino gli volle regalare una statua di S. Bernardino che fu messa su questa facciata perché tutti ricordassero  che questi due templi, quello di S. Giuseppe e quello della Madonna di Pompei, su questa plaga vesuviana, costituivano come i pilastri di un grande arco, l’arcobaleno della pace”.
Il dono del Longo in effetti è il suggello finale di un costante sostegno offerto a Don Ambrosio in onore di San Giuseppe: a conti fatti, Bartolo ha contribuito almeno una quarantina di volte, con una somma che ammonta ad oltre 10.000 lire e che è andata sensibilmente aumentando; la cifra infatti dev’ essere stata senz’ altro superiore dato che manca il registro di qualche anno. Suor Augusta, delle Figlie del SS. Rosario di Pompei, era contenta di vedere che Don Peppino, con l’ aiuto di Longo andava avanti nell’ ideale che li univa: “come la Madonna ha il suo trono a Pompei, così il suo Sposo S. Giuseppe ne avrà uno a Lei vicino”; lei quando poteva gli mandava la sua offerta “ed era felice quando alla fine di ogni mese vedeva Bartolo Longo consegnare a D. Peppino una bustarella per S. Giuseppe”.
Ě bello considerare questo gemellaggio materiale e spirituale tra i due fondatori e vedere le due facciate gemelle ai piedi del Vesuvio unite da un arcobaleno di pace.
Se realisticamente alla fin dei conti il Santuario di San Giuseppe Vesuviano rimane in tono minore rispetto a quello di Pompei, l’ uno piuttosto all’ ombra dell’ altro, non è che una conferma in terra del modello della Santa Famiglia, in cui lo Sposo Giuseppe si presenta umilmente all’ ombra della Sposa Maria e del Figlio Gesù. Ad ogni modo, con l’aiuto più o meno consistente dei benefattori, suddividendo le opere e le relative spese, don Ambrosio riesce a completare l’ opera. Deve essere stato uno spettacolo stupefacente l’ innalzarsi graduale del prospetto frontale del Santuario ed il suo svelarsi smontando il fitto intreccio delle impalcature di legno, con la bella pietra di travertino bianco-avorio – la stessa della facciata di Pompei - proveniente dalle cave del Tifata (Bellona-Caserta), con il collocamento (tramite corde e cavi) delle grosse statue fino in cima alla balaustra che svetta verso il cielo.
Finalmente nel mese di giugno del 1926 la facciata di San Giuseppe viene solennemente inaugurata. Mons. Michele Minichini la benedice, alla presenza di autorità religiose, civili e militari. Fa a tempo ad intervenire anche l’ amico Bartolo Longo, che terminerà la sua esistenza terrena appena qualche mese dopo.
Nel periodico “Lettere giuseppine” si fa una bella illustrazione del Santuario e del fondatore, corredata da varie fotografie, in cui si dice: “Un pio sacerdote del luogo, Mons. Giuseppe Ambrosio, ha eretto – ormai si può parlare del fatto come di cosa compiuta – ha eretto in onore del glorioso Patriarca S. Giuseppe un tempio veramente superbo, che gareggia in grandiosità e
bellezza con quello innalzato alla sua Vergine Sposa nella vicina Pompei: come la Vergine Santa approvò lo zelo di Bartolo Longo a Pompei con grazie e miracoli, così San Giuseppe approvò e premiò il suo devoto Mons. Ambrosio in S. Giuseppe Vesuviano”.
Il vescovo Binni, alla morte di mons. Ambrosio cinquant’ anni fa, riprende il parallelismo con Pompei: “Era il tempo in cui nella vicina Pompei Bartolo Longo costruiva la città di Maria. Con Bartolo Longo D. Peppino ebbe stretti legami di santa amicizia e le due anime gemelle si entusiasmarono scambievolmente e si infervorarono con ricambiata preghiera per portare a termine le opere suggerite dallo Spirito Santo. Nella valle desolata di Pompei D. Bartolo innalzerà il trono a Maria, Regina del SS. Rosario e delle Vittorie; in S. Giuseppe Vesuviano Mons. Ambrosio costruirà il tempio in onore di S. Giuseppe e creerà la città delle anime devote del purissimo Sposo di Maria Santissima”. Si afferma dunque che Don Peppino, “in fraterna gara di pietà e di apostolato con il servo di Dio Bartolo Longo, realizzatore della Città di Maria, alla città natale, che già ne portava il nome, diede il crisma e l’ aureola religiosa di Città di San Giuseppe”. Il giuseppino p. Angelo Cuomo (ora Servo di Dio) dichiara: “Egli si inserisce nella schiera dei grandi devoti di S. Giuseppe e il suo nome resterà in benedizione vicino a quello del servo di Dio Bartolo Longo. Essi hanno dato alla plaga vesuviana e al mondo due fari che indicano ai poveri mortali due punti di riferimento per orientarsi verso il Cristo: la Madonna e S. Giuseppe”. Giustamente è stato detto: “Come parlando di Pompei subito ci viene alla mente il nome di Bartolo Longo, così parlando di S. Giuseppe Vesuviano si dovrebbe subito ricordare il nome di Don Peppino”.


*Don Giuseppe De Bonis  

La scrittura al servizio dell'Evangelizzazione
Ricordiamo uno dei primi Redattori de "Il Rosario e la Nuova Pompei". Sacerdote, giornalista, poeta, grande oratore, il sacerdote di Vallecorsa fu amico intimo di Bartolo Longo, che aveva pensato a lui come successore dell'opera pompeiana.
"Dal 1885 a tutto il 1890, la collaborazione di Don Giuseppe De Bonis fu mirabile e senza interruzione. Egli stesso si è innalzato con i suoi scritti un monumento imperituro. Dovremmo troppo dilungarci se dovessimo parlare del suo sapere e dell’arte onde ornavano i suoi innumerevoli i suoi innumerevoli scritti, pubblicati ne’ "Il Rosario e la Nuova Pompei".
Era grande la stima di Bartolo Longo per il sacerdote e l’amico Don Giuseppe De Bonis, nato a Vallecorsa, in provincia di Frosinone il 28 aprile 1859.
Sacerdote, scrittore, giornalista e poeta, grande oratore, era un uomo dalla vita tutta dedicata all’evangelizzazione, addirittura quasi profetico in alcuni suoi scritti tanto che le note biografiche e le numerose attestazioni di stima dell’Avvocato di Latiano fanno pensare che
possedesse i tratti essenziali che Papa Francesco attribuisce al buon comunicatore contemporaneo.
Bartolo Longo arrivò a scrivere al Vescovo di Gaeta – allora Vallecorsa faceva parte di quella diocesi – per chiedere il suo consenso al trasferimento del sacerdote a Pompei: "La Madonna – scriveva in quella lettera – mi ha messo in cuore che l’unico mio compagno e forse successore dell’opera di Pompei è il sacerdote Giuseppe De Bonis". Il Presule non accolse la richiesta non volendo privare la sua Chiesa particolare di un così prezioso collaboratore, ma l’avvocato insistette e chiese l’intervento del Cardinale La Valletta, che a sua volta ne parlò con il Papa Leone XIII.
Il Santo Padre suggerì al porporato d’inviare una sua lettera e questo avvenne, ma ancora una volta il Vescovo di Gaeta non diede il suo assenso, ma stabilì che Don Giuseppe collaborasse alla redazione del bollettino da Vallecorsa.
Il sacerdote fu però soprattutto uomo di fede profonda e appassionata, infocata, utilizzando un termine comune all’arte retorica di quel tempo.
Il giornalismo, la poesia, la parola orale erano invece strumenti al servizio dell’uomo e dell’evangelizzazione. Prima apostolo di Cristo, dunque, e poi tutto il resto. Bartolo Longo lo ritiene capace e degno di guidare l’opera di Pompei. Non avverrà perché De Bonis morirà prima, ma il fondatore ha visto in lui non solo l’uomo della penna e della parola, ma prima ancora l’uomo della carità e della fede. Nel suo inno ufficiale alla Regina delle Vittorie, il sacerdote comporrà questi versi, forse oggi un po’ desueti, ma certamente prova di un legame indissolubile tra un figlio e Maria Santissima: "Stella del mare ai naufraghi / Vampa immortal d’amore, / rapita al tuo fulgore. / La terra esulta in Te".
E, più avanti: "Reggi, o Maria, col vincolo / Del tuo Rosario il mondo; / Diffondi il dolce palpito / Dell’amor tuo giocondo; / E dal tuo soglio a’ popoli / Oggi ti degna, o pia, / Schiuder l’amica via / Infra la terra e il ciel".
Sono parole di Don De Bonis, ma a ben vedere hanno toni e stile molto vicini a quelli di Bartolo Longo a temi che richiamano la straordinaria preghiera della Supplica.
(Autore: Giuseppe Pecorelli)


*Giuseppe Marello

Si infoltisce la schiera dei Beati e dei Santi che hanno conosciuto il Beato Bartolo Longo. La Chiesa ne ha proclamato la chiara ed eroica esemplarità della vita e li ha additati come modelli di santità perché ciascuno possa imitarne la preziosa testimonianza, tra questi vi è Giuseppe Marello.
La Città Mariana crocevia di Santità
Da ricordare il santo vescovo Giuseppe Marello, canonizzato il 25 novembre 2001 per la corrispondenza con Bartolo Longo ed almeno una visita al Santuario il 23 febbraio 1893.
Di lui, fondatore degli Oblati di San Giuseppe e vescovo di Acqui, trascrivo il testo della lettera spedita il 2 marzo 1885: "Faccio seguito alla lettera del 20 febbraio e le spedisco la piccola offerta di un’altra devota persona riconoscente ai favori della Madonna di Pompei.
Godo con la S.V. del mirabile flusso di oblazioni a codesto santuario e del più mirabile riflusso di grazie ai devoti oblatari e mi rallegro eziandio che a lei sia toccata la bella missione di essere lo storiografo.
Con rispettosa considerazione mi ripeto della S.V. Ill.ma, devot.mo servo C.G. Marello, Canonico Vesc.".
I suoi figli posero, a ricordo del pellegrinaggio, un busto nei giardini annessi alla Basilica.

(Autore: Pietro Caggiano)
Giuseppe Marello (Torino, 26 dicembre 1844 – Savona, 30 maggio 1895) è stato un vescovo cattolico italiano, fondatore della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica ed è considerato uno dei santi sociali torinesi.
Biografia
Figlio di Vincenzo Marello - originario di San Martino Alfieri - e di Anna Maria Viale - di Venaria-Reale -, nacque a Torino il 26 dicembre 1844 nella parrocchia del Corpus Domini dove lo stesso giorno fu battezzato. All'età di tre anni rimase orfano di madre e a sette anni, con il padre e il fratello Vittorio, traslocò da Torino a San Martino Alfieri dove frequentò le scuole elementari.
La vocazione
A 11 anni il padre e il piccolo Giuseppe, che aveva terminato le elementari, si recarono a Savona e visitarono il santuario della Madonna della Misericordia. Al ritorno dal viaggio Giuseppe comunicò al padre il desiderio di farsi sacerdote e il 31 ottobre 1856 entrò nel seminario diocesano di Asti. Nel giugno 1862, al termine degli studi di filosofia lasciò il seminario e con il padre si trasferì a Torino dove intraprese gli studi con indirizzo tecnico-commerciale. Nel dicembre 1863, gravemente ammalato di tifo, riferì di avvertire l'invito della Madonna Consolata a ritornare in seminario, le chiese la grazia della guarigione e prontamente guarì. Nel febbraio 1864 ritornò nel seminario di Asti. Il periodo giovanile trascorso a Torino fu utile per la comprensione della società e delle idee del tempo e favorì la linea educativa e sociale che impresse alla sua attività di sacerdote e vescovo così come alla sua fondazione religiosa.
Sacerdote della diocesi di Asti
Il 19 settembre 1868 fu ordinato sacerdote nella cattedrale di Asti e dall'ottobre dello stesso anno il vescovo Carlo Savio lo volle come suo segretario. Nel novembre 1869 accompagnò il vescovo a Roma in occasione del Concilio Vaticano I e l'allora cardinale Gioacchino Pecci ebbe modo di apprezzarne le doti e le virtù. Alla fine di luglio 1870, per la definitiva sospensione del Concilio Vaticano I ritornò con il vescovo ad Asti. Ricoprì anche contemporaneamente vari incarichi: responsabile della buona stampa, direttore della Dottrina cristiana, direttore spirituale nel seminario dal 1880 al 1882 e nell'Istituto di Suore Milliavacca. Il 2 marzo 1880 fu nominato canonico della cattedrale e il 5 luglio 1881, in seguito alla morte del vescovo Carlo Savio, fu nominato cancelliere vescovile capitolare e dal 30 giugno 1882 cancelliere vescovile per nomina del nuovo vescovo monsignor Giuseppe Ronco.
La fondazione degli Oblati di San Giuseppe
Negli ultimi mesi del 1872 fondò in Asti la "Compagnia di San Giuseppe promotrice degli interessi di Gesù", di laici che si riunivano presso la Chiesa del SS.mo Nome di Gesù, con ruoli di apostolato e preghiera. Il 14 marzo 1878 fondò la "Compagnia di San Giuseppe" - detta poi Congregazione di San Giuseppe, Oblati di San Giuseppe o Giuseppini d'Asti - un gruppo di giovani a servizio di un orfanotrofio presso l'Opera Pia Michelerio, in fraterna vita comune formati a una spiritualità cristocentrica di consacrazione e umile operosità nell'imitazione di San Giuseppe, per farsi veri discepoli di Gesù Maestro. Le prime regole, scritte nel 1892 insieme a lui dai primi membri, definirono che la Congregazione di San Giuseppe "ha per scopo l'educazione cristiana della gioventù", i sacerdoti inoltre offrono aiuto in varie forme al clero locale, e attraverso la predicazione e la disponibilità.
Un santo sociale
Il 6 ottobre 1882, per mandato del vescovo, insieme a don Giovanni Maria Sardi futuro vescovo di Pinerolo - rilevò l'amministrazione dell'Ospizio dei Cronici fondato in Asti da Francesco Cerrato. Dall'ottobre 1885 visse nell'istituzione caritativa, trasferitasi nei locali dell'ex-convento di Santa Chiara, dove aprì anche una scuola media. A motivo delle opere da lui promosse nella città di Asti, per la sensibilità sociale da lui manifestata da sacerdote, fondatore e vescovo, è annoverato tra i Santi Sociali dell'Ottocento piemontese. I santi sociali con cui ha avuto relazioni di amicizia furono: Don Bosco, - si conserva il certificato con cui San Giovanni Bosco di suo pugno lo iscrive tra i cooperatori salesiani, amicizia poi continuata con la famiglia salesiana quando invitarono lui, novello vescovo, a presiedere a Torino il pontificale della messa il giorno di Maria Ausiliatrice, 24 maggio 1889 nella Basilica omonima -;
non San Giuseppe Benedetto Cottolengo, che non gli era contemporaneo, ma il suo primo successore padre Luigi Anglesio, e il secondo successore padre Domenico Bosso verso il quale San Giuseppe Marello espresse venerazione e profondissima stima. San Leonardo Murialdo: la nascente congregazione in Asti, mentre il fondatore era vivo, ebbe relazioni di conoscenza con il fondatore dei Giuseppini di Torino il quale annotò negli Scritti di aver visitato i Giuseppini di Asti, e con don Eugenio Reffo, secondo successore di San Leonardo Murialdo, che più volte si recò a predicare presso di loro in Asti e contribuì alla redazione delle prime regole del 1892.
Amici torinesi di San Giuseppe Marello furono monsignor Giovanni Battista Bertagna, vescovo ausiliare di Torino dal 1884: ebbe un'amicizia rispettosa verso il professore di morale venuto nel 1878 da Torino ad insegnare nel seminario di Asti, insieme a lui canonico poi vicario generale della diocesi. Soprattutto, fu fondamentale la sua relazione con il torinese vescovo di Asti monsignor Carlo Savio, già professore della Facoltà Teologica di Torino, inoltre istitutore del futuro Re Umberto I di Savoia: egli coltivò con il vescovo Savio un'amicizia filiale facendogli da segretario e una condivisione di interessi e ideali pastorali comuni, tra i quali - alcuni ritengono - la stessa fondazione degli Oblati di San Giuseppe.
Vescovo di Acqui e morte
Il 17 febbraio 1889 nella chiesa dell'Immacolata in via Veneto a Roma fu consacrato vescovo dal cardinale Raffaele Monaco La Valletta. Il 31 maggio 1889 inoltrò la prima lettera pastorale alla diocesi di Acqui, sulla pace. Il 16 giugno 1889 fece il suo ingresso ad Acqui.
Il 2 febbraio 1890 inviò la seconda lettera alla diocesi sull'imminente visita pastorale. Il 13 aprile dello stesso anno diede inizio alla visita alle 143 parrocchie della diocesi, che concluse nel 1895: in soli sei anni di episcopato riuscì a visitare tutti i paesi della sua vasta diocesi, alcuni dei quali molto difficili da raggiungere. Il 16 dicembre 1890 ricevette la laurea honoris causa in Sacra Teologia dal Collegio teologico di S. Tommaso di Genova.
Del 13 gennaio 1891 la terza lettera pastorale Sulla penitenza. Il 26 settembre 1891 partecipò a Roma al pellegrinaggio in occasione del III centenario della morte di San Luigi Gonzaga.
Del 4 febbraio 1892 la quarta lettera pastorale Sull'istruzione e l'educazione in famiglia della gioventù. Dal 4 all'8 ottobre 1892 partecipò a Genova al X Congresso dei Cattolici Italiani.
Il 25 gennaio 1893 trasmise la quinta lettera pastorale Sulla professione della fede e il rispetto umano. Dal 14 al 28 febbraio 1893 si recò a Roma in occasione del cinquantesimo di episcopato di Leone XIII e il 23 febbraio a Napoli al Santuario di Pompei.
Il 20 gennaio 1894 inviò la sesta lettera pastorale sul Catechismo. Dal 2 al 6 settembre dello stesso anno partecipò al secondo Congresso Eucaristico nazionale a Torino.
L'8 febbraio 1895 scrisse la settima lettera pastorale che ebbe per argomento Le Missioni e la propagazione della fede. Il 26 maggio 1895 era a Savona, per invito degli Scolopi, a presiedere i festeggiamenti in onore del terzo centenario della morte di San Filippo Neri. Il 27 maggio, nel Santuario di Nostra Signora della Misericordia a Savona celebrò la sua ultima messa. Il 30 maggio morì nell'episcopio di Savona. La sua scomparsa improvvisa e discreta, a 50 anni e 5 mesi di età, avvenne in un momento difficile e doloroso della sua vita, suscitato dalle sofferenze a motivo dell'incerto futuro degli Oblati di San Giuseppe, la famiglia religiosa da lui fondata.
È sepolto ad Asti in una cappella del Santuario di San Giuseppe, situato in pieno centro cittadino.
Canonizzazione
Morto in fama di santità, dovuta anche alle numerose testimonianze di grazie ottenute, a partire dal 1924 furono avviati i processi informativi. Il 28 maggio 1948 fu introdotta la causa di beatificazione e il 12 giugno 1978, alla presenza di papa Paolo VI, veniva letto il decreto sull'eroicità delle virtù. Papa Giovanni Paolo II lo proclamò beato in Asti il 26 settembre 1993, come esempio e modello di carità verso tutti e di instancabile e silenziosa operosità a favore dei giovani e degli abbandonati.
Con solenne decreto del 18 dicembre 2000, papa Giovanni Paolo II dichiarò:
«...è stato accertato il miracolo operato da Dio per l'intercessione del Beato Giuseppe Marello, Vescovo di Acqui, Fondatore della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe d'Asti: cioè, la guarigione improvvisa, completa e duratura dei fanciulli Alfredo e Isila Chávez León, ristabiliti entrambi nello stesso tempo da broncopolmonite con febbre alta, dispnea e cianosi in pazienti con denutrizione cronica"»
Riconosciuto il miracolo, nel corso del concistoro ordinario del 2001 per la canonizzazione di alcuni beati, Giovanni Paolo II pronunciò la sua volontà: "Per l'autorità di Dio Onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, decretiamo che ... il Beato Giuseppe Marello ... sia iscritto nell'Albo dei Santi il giorno 25 novembre 2001".


*Giuseppe Maria Leone

Il Beato Bartolo Longo conobbe la Congregazione dei Redentorista attraverso tre dei suoi figli migliori, tutti da tempo avviati agli onori degli altari: il Ven. Emanuele Ribera (81811 – 1874) e i Servi di Dio Giuseppe Leone (1829 – 1902), Antonio Losito (1838 – 1917). Li scelse, uno dopo l’altro, per suoi direttori e confessori.

Padre Giuseppe Maria Leone (Un po' di storia)

Redentorista, consigliere spirituale dei coniugi Longo dal marzo del 1885 all’anno della sua morte, che avvenne ad Angri (Sa), il 9 agosto 1902. Nacque a Casaltrinità, ora Trinitapoli (Fg), il 23 maggio del 1829 da Nicola e Rosa De Biase. Entrò nel seminario di Trani a 14 anni ed a 20 nella Congregazione dei Redentoristi (Liguorini), il 31 dicembre del 1850 fu ordinato sacerdote. Venne a Valle di Pompei nel 1885, il 10 marzo, per la novena di S. Giuseppe.
Scrisse le prime costituzioni della Congregazione “a lui dettate dalla sua Madonna delle Grazie”, come annota Bartolo Longo sul libretto.
Il 10 novembre del 1971, per volontà di Mons. Aurelio Signora, Prelato di Pompei, le sue spoglie furono traslate qui per essere collocate al fianco di Bartolo Longo e della Contessa. Poi, il 17 dicembre del 1983, il Servi di Dio tornò a Trinitapoli tra i suoi concittadini.

Il Servo di Dio Padre Giuseppe Maria Leone

Quando gli fu presentato, nel novembre 1884, dal Vescovo dei Marsi, il Beato ne ebbe un’impressione negativa.. Lo deporrà lui stesso al processo investigativo sul P. Leone, il 15 giugno 1923: “Nel vedere quel Liquorino, che pareva un asceta, che faceva paura, pensai che questo Liquorino fosse uno di quegli imbroglioni di cui mi metteva in guardia la Contessa, tanto più che, appena vedutomi, disse: “Eccomi!... Qualunque cosa volete da me, io sono pronto”. Ma già il 10 marzo seguente fu proprio il Beato ad andare in cerca di lui per fargli predicare la novena di S. Giuseppe e da allora, per diciotto anni di seguito, cioè fino al 1902 in cui morì, il Servo di Dio divenne confessore, direttore predicatore e anche suo intercessore presso il trono di Dio. Infatti, parecchie volte il Beato aveva ottenuto prodigi e miracoli per intercessione di P. Leone. Memorabile specialmente la guarigione del P. Ma scalchi, amico intimo di Leone XIII, guarigione che attirò sul Beato la speciale benedizione del Papa. Anzi anche il Beato fu guarito per intercessione del Servo di Dio. Nel 1889, “per tanti e tanti strapazzi morali e fisici, mi ammalai gravemente. In questo stato non potevo recarmi dal P. Leone, e perciò lo mandai a pregare, che si fosse recato a me, e venne. Appena che io lo vidi al mio capezzale, gli dissi: Ho bisogno di voi… Egli mi rispose: Prima di venire da te, sono andato a pregare Gesù Sacramentato per la tua guarigione, e Gesù mi ha risposto così: Se egli (Bartolo Longo) erigerà nel Santuario di Pompei un altare in onore del mio Cuore, io gli farò vedere compiuto il Santuario”. Preso alla sprovvista, egli dapprima tergiversò: poi promise, ma continuò a procrastinare di giorno in giorno tra improvvise guarigioni e subitanee ricadute nel male. Poi finalmente si decise e promise. “Fatta questa promessa di vero cuore, egli continua a deporre, stetti bene e l’altare ecc. surse e fu consacrato il 7 maggio 1891 assieme a tutto il Santuario.
Questo fatto mi confermò che il P. Leone era un gran Servo di Dio e che la Madonna nel Novembre 1884, lo aveva mandato a me come aiuto e salvezza dell’anima e del corpo, e come efficace ispiratore delle opere sorte in questa Valle”.
“Aggiungo che da Novembre 1889 a Maggio 1891, io feci e compii più opere in questa Valle, che non aveva fatto fino allora in molti anni precedenti. Io stesso, ripensandoci, mi meraviglio, e non posso che attribuire tale energia fattiva, se non ai consigli e alle preghiere vivissime del Servo di Dio… Elenco le opere che si mandarono a compimento nel tempo dinanzi citato, per i consigli e l’influsso e le preghiere del P. Leone.
1) Costruzione e Regolamento dell’Orfanotrofio delle Orfanelle della Vergine di Pompei di cui il Padre Leone fu il primo direttore spirituale.
2) Istituzione in Valle di Pompei del Terzo Ordine Femminile Domenicano, sotto il titolo speciale di “Figlie del Rosario della Vergine di Pompei”…
3) Nell’anno 1890, 28 Marzo, il S. Padre Leone XIII si degnò di accettare la donazione del Santuario, di staccarlo dalla giurisdizione del Vescovo di Nola.
4) Nel medesimo tempo… (Leone XIII) dette fuori un solenne Rescritto, col quale rese universale il culto della SS.ma Vergine di Pompei.
5) Nello stesso anno 1890, fu consacrato l’altare al Patriarca S. Giuseppe con l’inaugurazione del grande organo plurifonico e dell’Osservatorio meteorologico-vulcanologico coll’intervento di 4.000 scienziati italiani e stranieri, sotto la presidenza del Padre Denza.
E il Beato prosegue a deporre come quando doveva pagare le migliaia di lire che non aveva, ricorreva all’aiuto del P. Leone. “Allora egli diceva: Fino a che vivrà il Padre Leone, non devi aver paura che ti manchi il denaro.
Qualche tempo prima della morte, poiché occorreva un milione e mezzo per la facciata del Santuario, io confidai a lui e miei timori; ed egli con molta sicurezza e semplicità, mi rispose: Dovete finire la vita vostra, la facciata, senza pensare all’occorrente…, il danaro verrà. Difatti, poco dopo, l’opera fu compiuta”.
Come conclusione, riferiamo l’episodio narrato dallo stesso Beato. Il P. Leone si era recato a confessare per l’ultima volta un monastero di Suore molto fervoroso e le Suore erano discese a dargli il commiato. Vi si era trascinata anche la Superiora nonostante l’età decrepita. “Questa santa religiosa, fra l’altro, gli disse: Padre, vi debbo baciare i piedi e ringraziarvi in nome di Gesù Sacramentato di tutto il bene che avete fatto a D. Bartolo ed alla Contessa.
Il Beato non dice il nome del monastero, ma è lecito supporre che sia stato proprio quello delle “Figlie del Rosario della Valle di Pompei”.
Padre Giuseppe Maria Leone, maestro di spirito del Beato Bartolo Longo
Il Servo di Dio, Padre Giusepe Maria Leone, un Redentorista che sarà presente nella vita e nelle opere del Beato Bartolo Longo per ben diciotto anni, con un tratto personale che, si muove all’insegna dell’amore, del consiglio, dell’esempio.
Nella esistenza di quest’uomo di fede e di preghiera, messi ambedue al servizio degli altri (nato a Casaltrinità – oggi Trinitapoli – nel Tavoliere delle Puglie, verso l’Ofanto), vi sono, ed evidenti, i
segni della sofferenza morale negli anni della sua prima giovinezza, quando deve lottare per affermare e far accettare la sua vocazione sacerdotale e della sofferenza fisica sempre in agguato. Sia alla prima che alla seconda il futuro Servo di Dio risponderà con un “fiat” che “all’amore abbandona tutte le conseguenze e l’esito”.
Il tempo in cui vive è per noi tempo tormentato, sotto il profilo sociale, religioso, economico: Padre Leone sembra assommare nella sua personalità la miseria atavica del Sud, con il suo analfabetismo strumentale e spirituale e la forza e l’esigenza, nello stesso Sud, di trasformare l’anélito sociale in realtà sociale, attraverso la lettura del messaggio evangelico in chiave mariana.
Di lui si deve dire proprio questo: appartiene alla schiera degli umili “la cui vita è semplice come un filo d’erba”. Sembra povertà e non è, perché un filo d’erba permette di disegnare tutte le piante, poi gli alberi, poi i paesaggi, poi gli animali e infine la figura umana… La vita risulta troppo breve per far tutto ciò”.
Nella vita e nel pensiero di Padre Leone gli eventi sono numerosi e la strada da percorrere irta di difficoltà; ma il filo conduttore rimane quello di confermarsi e confermare nel colloquio con il Cristo, nel riprendere, peregrino fra la gente, la parola dello stesso Cristo, in uno sforzo continuamente proteso ad affermare la verità, a conquistare per essa la gioia dell’esistenza.
Questa esperienza, ad un certo punto si colloca nella storia mariana di Pompei e vi esercita una influenza specifica. Partito da una visione del proprio esercizio sacerdotale, che intende come presa di coscienza della propria dignità di uomo rappresentante del Cristo, Padre Leone svolge il suo quotidiano apostolato e lo manifesta nella amorevole, sapiente, paziente apertura ai più poveri, ai braccianti della sua terra di Puglia, in uno con la parola che guida, che frena, che persino rimprovera se necessario.
Diviene direttore spirituale di Bartolo Longo ed è quotidianamente presente nelle opere sociali, fra i giovani. Ě presente a Pompei nel periodo delle lotte più intense intorno all’avvocato della Madonna, e al Santuario di Pompei nel periodo delle polemiche positiviste, lombrosiane; è presente a Pompei ed “è il primo” scriverà Bartolo Longo, “”che mi dette l’idea del movimento per la Dommativa Definizione dell’assunzione di Maria Vergine, me l’impose con l’autorità che aveva sull’animo mio qual direttore di spirito…”.
Il 10 novembre del 1971, su iniziativa del Prelato di Pompei, vigorosamente condivisa dal Padre Provinciale in carica, il Redentorista Salvatore Meschino, le spoglie mortali del Padre Giuseppe Maria Leone venivano traslate da Pagani a Pompei, per affiancarle, nella Cripta del Santuario, a quelle di Bartolo Longo, al quale il Redentorista fu vicino per tanto tempo.
Si tratta di un ritorno che suona riconoscimento e presenza per Padre Leone, come persona, e per il Redentorista il quale, parte dalle “orme” di S. Alfonso contribuendo a spezzare una spiritualità chiusa verso una religiosità sociale, che vede il “cristianesimo all’opera”. Nel Santuario Mariano di Pompei, quindi, sembra procedere ancora oggi il dialogo aperto da P. Giuseppe Maria Leone con il Beato Bartolo Longo: il discorso insiste eroicamente sulla funzione che la parola e il sacrificio del Cristo hanno rappresentato nella esistenza di Padre Leone e costituisce motivo di riflessione per il cristiano di oggi, nel lavoro, nell’esercizio quotidiano del suo apostolato, sia esso religioso, sia esso laico.
Dagli scritti del Beato Bartolo Longo
“Egli ha avuto una parte segreta, ma efficacissima nel compimento del Santuario e nella fondazione dei nostri istituti di beneficenza, come pure in avvenimenti che sono stati come le pietre miliari nello svolgimento storico dell’opera cristiano-sociale della Valle di Pompei.
Egli col consiglio di uomo retto, con la preghiera e con l’esempio della sua vita di carità, di zelo, di sacrificio ci ha illuminato nelle difficoltà, ci ha sostenuto nelle lotte, ci ha spinti ad iniziare opere o movimenti anche contro le vedute dell’umana prudenza, ed ha potentemente trasfusa in noi quella umile ma incrollabile fiducia nella Provvidenza, che è sì necessaria in chi deve fondare e dirigere opere nuove superiori alle facoltà umane”.
Il primo incontro di P. Leone con B. Longo avvenne nel novembre del 1884, egli afferma che: “Per diciotto anni egli ha diretto l’anima mia e quella della compagna datami dal Signore, cioè dal 10 marzo 1885 al 6 agosto 1902” (Bartolo Longo)
Testimonianza del Beato Bartolo Longo
Le Vie meravigliose della Provvidenza
La testimonianza del Beato Bartolo Longo sulla discreta ma incoraggiante presenza del P. Giuseppe M. Leone nell’opera di Pompei.
Tutto ciò che accade nel mondo non può essere frutto del caso. Nulla avviene fortuitamente: ogni cosa, anche i fatti che all’apparenza risultano più assurdi, ha una sua funzione ed un suo significato ed è parte insostituibile di un disegno sconfinato che soverchia gli orizzonti dell’umana ragione.
È una «strana cosa» la Provvidenza, un concetto che può essere colto solamente da chi si avvicina ad esso con sufficiente dose di umiltà e senza la presunzione di volere racchiudere tutto entro gli spazi ristretti di un’indagine che non sappia tendere al di là e oltre i confini stessi della realtà.
La Provvidenza c’è ed è visibile nei fatti concreti, nei segni marcati che lascia, in certi avvenimenti che sul piano razionale non potrebbero trovare alcuna risposta immediata…
E fu proprio per volere della Divina Provvidenza che il Beato Bartolo Longo, in una mattina di novembre del 1884, ebbe la ventura di imbattersi in Padre Leone, un Liguorino, giunto a Pompei in un momento particolarmente burrascoso per l’Avvocato Santo. In quell’epoca, infatti, Bartolo Longo faceva veramente fatica a farsi comprendere da tutti coloro che gli stavano accanto: in poco tempo aveva realizzato mete addirittura esaltanti, ma aveva anche incontrato ostacoli insormontabili, soprattutto per l’invidia di quanti non riuscivano a cogliere il senso e la portata del suo straordinario disegno.
Erano anni difficili: il Positivismo imperante rifiutava in modo categorico ogni proposta di fede, demandando alla scienza e alla tecnica il compito di costruire un mondo a misura dei soli bisogni terreni dell’uomo. La cultura era impregnata di laicismo e la Chiesa, spesso, veniva identificata con la gretta e retriva reazione: era la nemica da combattere in nome di una libertà che, a ben considerarla, si rivelava vocabolo vuoto ed astratto.
E come se non bastasse, Bartolo Longo veniva attaccato anche da alcuni giornalisti cattolici che calunniavano il suo operato e che cercavano di farlo passare per un ciarlatano che tentava più o meno losche speculazioni sfruttando, in maniera spudorata, le sofferenze, la pietà e l’ignoranza della povera gente. Probabilmente il Beato, da solo, non sarebbe stato capace di sostenere il peso delle accuse che gli venivano mosse contro in modo così spietato, né avrebbe saputo continuare e percorrere quelle “Vie meravigliose della Provvidenza” per le quali si era incamminato, quasi senza rendersene conto, nell’ottobre del lontano 1872, quando per la prima volta conobbe la Valle di Pompei.
La Provvidenza, nella quale egli ebbe sempre una fede incrollabile, non lo abbandonò mai. Mise infatti, sul suo cammino, le persone giuste al momento giusto; tra queste, tre Redentoristi: Ribera, Leone e Losito che seppero sostenerlo con la loro sapienza e infondergli un’adeguata dose di coraggio, proprio quando il mondo pareva volesse «crollargli addosso».
Padre Giuseppe Maria leone del SS. Redentore era un uomo esile, dall’aspetto ascetico, già minato dal terribile male che lo avrebbe accompagnato sino alla morte. Si presentò, «quel giorno», a Bartolo
Longo e, senza esserne richiesto, disse: «Eccomi: qualunque cosa volete da me, io sono pronto!»; e Bartolo fu molto freddo con lui: era stato messo in guardia da sua moglie contro eventuali «imbroglioni» che avrebbero potuto creare seri ostacoli al suo apostolato.
Dopo tutto, in quegli anni, aveva già, nel domenicano Padre Radente, una efficace guida spirituale e riteneva di non avere assolutamente bisogno di altro aiuto. Ma Padre Radente morì, «quasi improvvisamente», circa un mese e mezzo dopo. Fu allora che Bartolo Longo decise di recarsi ad Angri: qualcosa lo spingeva misteriosamente verso quel Liguorino che «pareva un asceta»; e quando fu alla sua presenza, nonostante le raccomandazioni della Contessa, sua moglie, espresse il desiderio di essere confessato da lui.
Il Beato stesso, ricordando l’avvenimento, racconta: «Perdetti il mio confessore e S. Giuseppe nella sua novena mi fece la grazia di trovare il confessore nella persona del Padre Giuseppe M. Leone, che la Contessa ed io, a questo fine, frequentammo per ben 18 anni, recandoci in Angri ogni mercoledì e sabato. Aggiungo che in questi 18 anni, sotto la direzione del Padre Leone si svolsero e si attuarono i disegni di Dio intorno all’opera di Pompei. Questi fatti mi convinsero che il P. Leone era veramente un grande Servo di Dio, e che la Madonna nel novembre 1884 lo aveva mandato a me come aiuto dell’anima e del corpo, e come efficace ispiratore delle opere sorte in questa Valle. Aggiungo che dal novembre 1889 al maggio 1891 io feci e compii più opere che non avevo fatto fino allora in molti anni precedenti. Io stesso ripensandovi mi meraviglio».
Padre Leone morì ad Angri il 19 agosto del 1902. Al processo informativo, il Beato Bartolo Longo deponeva: «Elenco le opere che si mandarono a compimento per i consigli, l’influsso e le preghiere del Padre Leone: Costituzione e Regole dell’Orfanotrofio, Istituzione della Congregazione delle Figlie del S.S. Rosario, di cui dettò le Regole, Donazione del Santuario a Leone XIII, Consacrazione dell’Altare al Patriarca San Giuseppe, Erezione di un altare al S.S. Cuore di Gesù, la facciata monumentale del Santuario, l'organo plurifonico, l’osservatorio meteorologico-vulcanologico… Fu, inoltre, il primo che mi dette l’idea del movimento per la definizione dogmatica dell’Assunzione di Maria Vergine».
La testimonianza diretta, che ci viene offerta dalle stesse parole del Beato, è prova inconfutabile e concreta del ruolo che l’umile «Cenciaiolo di Dio», nato a Casaltrinità il 23 maggio del 1829, ebbe nella storia del Santuario e delle Opere sorte a Pompei. Un ruolo senza dubbio importantissimo; eppure era un uomo malato, esile, dall’apparenza debole e dimessa… Ma la provvidenza opera nel mondo nei modi e nelle forme più strane; interviene nei momenti più impensati; spalanca le sue porte e inonda l’universo di luce e di speranza, proprio quando nei fragili cuori degli uomini sta per insinuarsi il cancro mostruoso della disperazione. È Dio stesso che si rivela alle sue creature, che tende le sue braccia possenti agli ultimi, che accoglie con dolcezza i poveri, i sofferenti, gli emarginati, che difende la vita contro ogni proposta di morte, che ci insegna ad avere coraggio e avere fiducia sempre nella possibilità di ricominciare e cioè di ricostruire tutto quello che l’egoismo ha cercato di distruggere… Dio, che nella sua infinita e «assurda» bontà, ha voluto donare ai suoi figli una Madre dolcissima, sempre sorridente, tenera, pronta a perdonare e a comprendere. Una sola Madre per tutti, affinchè tutti siano fratelli, sempre.
Quella Pace universale che non può assolutamente essere considerata un’utopia – che non è affatto un sogno impossibile, ma che invece rappresenta una meta verso la quale ciascun vivente può e deve proiettarsi, con un atto di fede e di speranza. Con un cuore sempre disponibile alla Carità. E soprattutto con la mente perennemente orientata a cogliere l’esempio luminoso di quegli uomini semplici e stupendi che, senza mai «presentare il conto», con umiltà e con coraggio, in silenzio e con discrezione, si sono posti al servizio della Discrezione, si sono posti al servizio della Divina Provvidenza, pronti in ogni momento ad eseguire fedelmente gli ordini del Padre e a spendere tutta la loro vita per i propri fratelli.
(Autore: Pasquale Matrone) 
Padre Leone unisce Pompei e Trinitapoli (R.n.P. giugno 1985)
Comune di Trinitapoli - il Sindaco - lì, 27 marzo 1985

Eccellenza Reverendissima, La ringrazio innanzitutto per i saluti ed i graditi omaggi librari, fattimi pervenire tramite il mio Segretario, che è anche addetto stampa del Comune. Mi auguro, in un prossimo futuro, incontrarla e ricambiare tante gentilezze. L’occasione sarà data dall’apposizione di una lapide ricordo nella cripta della Basilica, in onore del nostro eccelso concittadino, P. Giuseppe Maria Leone, avviato alla Gloria dei Santi, anche per il Suo autorevole contributo, accanto a quello di S. E. Mons. Giuseppe Carata, che a dire il vero è stato l’ispiratore dell’articolo che Le compiego a firma di Savino Reggio.
Nel caso lo stesso venga pubblicato, La prego di far tenere al Comune n: 300 copie del Bollettino, in contrassegno.
È una spinta in favore di Padre Leone e sono certo troverà sul Bollettino lo spazio necessario per inserirlo. S. E. Mons. Giuseppe Carata, che segue per la nostra Diocesi la questione, né rimarrà certamente contento. Gradisca per l’occasione i miei cordiali saluti.
Tale è il testo della lettera indirizzata a "S. E. Rev.ma Mons. Domenico Vacchiano, Vescovo Prelato di Pompei", da Arcangelo Sannicandro, Sindaco di Trinitapoli, paese natale di P. Giuseppe Maria Leone, il Redentorista, le cui spoglie furono traslate il 10 novembre del 1971 da Pagani a Pompei, perché avesse un seguito perenne il sodalizio spirituale, che lo aveva legato in vita a Bartolo Longo.
La lettera costituisce una testimonianza civile ed umana; diventa, sulla bocca di un laico, oggettiva testimonianza di verità e trova la giusta eco nel Bollettino del Santuario; eco dovuta a chi, indipendentemente dal proprio credo religioso o politico, avverte nell’esercizio personale del suo
mandato di Primo Cittadino di Trinitapoli, l’esigenza ed il dovere di farsi carico e portavoce delle legittime attese dei suoi concittadini.
Il rapporto con Pompei, gli abitanti di Trinitapoli lo hanno esplicitamente avviato nel lontano 1972 quando, "per iniziativa del loro Comune" essi fecero giungere una lampada votiva perenne in onore della Beata Vergine del Rosario e del Venerabile Padre Leone, per consolidare "il senso della collaborazione provvidenziale di Padre Giuseppe Leone" (da il Mattino dell’8 marzo 1972, a firma Luigi Leone di Pompei). Questa traslazione delle spoglie rappresenta nella storia di Pompei e di Trinitapoli il primo anello di una catena, che ci porta ora dinanzi alla prossima deposizione della lapide ricordo, di cui ci parla il Sindaco di Trinitapoli. Ed in questo complesso disegno si inserisce quanto ci viene dicendo Savino Reggio, capogabinetto del Sindaco di Trinitapoli, nello scritto che riportiamo:
La vita di P. Giuseppe M. Leone, nato a Casaltrinità, (oggi Trinitapoli) il 23 maggio 1829, richiama quella del suo Maestro S. Alfonso M. de’ Liguori, che fondò nel 1732 la Congregazione dei Redentoristi per contrastare i pericolosi errori che minacciavano la Chiesa: l’illuminismo, il giansenismo, il regalismo. Giuseppe M. Leone era figlio di un "cafone" pugliese, "preoccupato soprattutto di allevare la numerosa figliolanza e impaziente di poter contare sulle braccia produttive dei figli", come scrive Domenico Lamura, nel suo "Cenciaiolo Pagatore", che è la biografia del P. Leone.
Dopo sette anni di intensi studi vissuti nel Seminario Diocesano di Trani, volle imitare il nobile avvocato napoletano, conosciuto attraverso le sue opere ascetiche, e vestire l’abito redentorista e farsi missionario nelle regioni depresse del Sud… L’ingresso in Congregazione fu per Giuseppe Maria Leone molto contrastato per l’ostinazione dei superiori ad ammetterlo a causa della salute cagionevole… Dal 1848 al 1871 Napoli e con essa tutto il territorio dell’Italia meridionale vivono problemi politici, religiosi e civili di particolare gravità, che vedono sconvolti e capovolti i canoni di una società in via di radicale trasformazione ed impreparata ad affrontarla, con ripercussioni nel campo religioso di tipo anticlericale, in uno con la cosiddetta "opposizione meridionale". Erano tempi duri in cui venivano soppressi i monasteri, i conventi, le congregazioni, esiliati i Vescovi, chiusi i seminari. In questa bufera si trovò coinvolto P, Giuseppe M. Leone, il quale dal giugno 1865 all’aprile 1880, per la chiusura della Casa di Vallo della Lucania, dovette subire l’onta dell’esilio anche se nella sua "amata, diletta e mai dimenticata Trinitapoli". Esercitò i sacri ministeri nella settecentesca chiesetta di S. Giuseppe e il colera del 1867 e l’invasione del territorio dalle cavallette, lo videro straordinario difensore del popolo. La statua di Nostra Signora del S. Cuore di Gesù è ancora oggi chiamata a Trinitapoli la Madonna di P. Leone o del colera. Rientrato in Congregazione nel 1880, al ministero della preghiera unì quello della riconciliazione e della direzione spirituale. Il popolo seppe ben presto conoscerlo ed apprezzarlo tramite Bartolo Longo, suo conterraneo e fondatore delle opere cristiano- sociali della valle di Pompei. Bartolo Longo lo ebbe dal 10 marzo 1885 e per ben diciotto anni suo consigliere… Per i poveri coltivava particolare predilezione e per questo volentieri si affiancò al Beato Bartolo Longo in quel "cristianesimo in opera", come lo chiama Lorenzo Bedeschi, di evidente ispirazione alfonsiana… Affetto e stima gli tributavano i confratelli per i quali era modello di perfezione e che lo elessero a Superiore della casa di Angri…
A ridestare l’attenzione sulla figura e l’opera del Servo di Dio, P. Giuseppe M. Leone, hanno contribuito la traslazione delle spoglie a Trinitapoli e la visita compiuta sempre a Trinitapoli del cardinale Pietro Palazzini, con la sapiente sensibilizzazione promossa da S. E. Mons. Carata, Arcivescovo di Trani- Nazareth, da S. E. Mons. Vacchiano, da S. E. Mons. Jolando Nuzzi, Vescovo di Nocera e Pagani, dal Postulatore generale della Congregazione dei PP. Redentoristi, P. Nicola Ferrante, coadiuvati dall’avv. Arcangelo Sannicandro, Sindaco del Comune di Trinitapoli.
L’autore dell’articolo qui riprodotto chiude auspicando il proseguimento della causa di Beatificazione del generoso figlio di Trinitapoli: le voci sulla sua forza miracolosa si fanno sempre più insistenti (si parla almeno di tre persone miracolate dal Suo intervento). Certo è che questo movimento di iniziative e di interesse per P. Giuseppe M. Leone, che parte dalla sua città natale e giunge a Pompei, diventa oltremodo significativo ai fini stessi della causa di beatificazione; tanto più che esso si lega più intimamente al rapporto fra Bartolo Longo, già beato, ed il suo consigliere. Nella identità degli intenti, nella affinità dei loro sentimenti, nella mutua ansia che spesso li accomunò, ci sono i segni reciproci di certe virtù: l’uno che consigliava, l’altro che ascoltando eseguiva, esprimono ambedue una assonanza di santità, che dovrebbe vedere entrambi attraversare la stessa soglia.
(La redazione)
Un modello di Cristianesimo sociale

L’opera del Padre Giuseppe Maria Leone, Redentorista, e del Beato Bartolo Longo

La figura del padre redentorista pugliese Giuseppe Maria Leone, al contrario del più celebre conterraneo Bartolo Longo, è stata poco studiato: i contributi finora apparsi sono di carattere prevalentemente religioso e folkloristico. Sarebbe giusto chiarire quanto lo stesso B. Longo lascia intuire quando accenna alla parte segreta, ma efficacissima, avuta nel seguace di S. Alfonso "in alcuni avvenimenti che sono state le pietre miliari nello svolgimento storico dell’opera cristiano-sociale della Valle di Pompei"; soffermandosi sia sul pensiero di P. Leone, sia sulla complessa figura di B. Longo e sul particolare legame che si stabilì fra i due.
Bisogna chiedersi di che natura fu il cristianesimo sociale di un umile figlio di piccoli contadini pugliesi entrato nell’ordine di S. Alfonso contro la volontà del padre e per farsi missionario nelle regioni depresse del Sud; in che cosa ebbe a consistere il riformismo proposto da questo asceta, se fosse un semplice e comune forma di operatività cristiana, o se si trattasse di un metodo di predicazione sostenuto da una chiara prospettiva sociale.
Certo esiste una connessione tra il periodo maturo (1884-1902) durante il quale P. Leone fu consigliere di Bartolo Longo nella edificazione delle opere sociali attorno al Santuario mariano di Pompei e il periodo della formazione intellettuale di un giovane dotato di profondo spirito ascetico, ma assai sensibile ai problemi sociali della sua regione; nel corso di un’esperienza complessiva che si colloca nella seconda metà del secolo XIX all’interno di vicende che interessano la storia sociale d’Italia in quella parte del mezzogiorno, dove più aspre  e dure furono le condizioni del bracciantato e più dirompenti le diverse forme dell’ineguaglianza, paradossalmente accresciute, anziché eliminate e attutite dalla rivoluzione risorgimentale.  Si tratta di un contesto storico assai complesso, nel quale è da chiedersi se il cristianesimo sociale sia stato nel sud d’Italia, un riflesso dell’arretratezza socio-culturale o non piuttosto una proposta particolarmente coraggiosa da parte di un movimento religioso capillarmente impegnato sul terreno
sociale, di ampio respiro e disposto a confrontarsi con altre forze e correnti di pensiero, che pure, nella seconda metà del secolo, cercavano di mettere a fuoco la cosiddetta "questione meridionale" nell’ambito dell’ideologia cristiana.
Formatosi alla regola alfonsiana dei redentoristi, aperta al processo di redenzione individuale, piuttosto che al "sociale, P. Leone interpretò il ruolo di redentorista non solo nel senso ascetico, ma anche sul terreno della religione militante, che diffonde un messaggio di emancipazione insieme individuale e collettiva. Il cristianesimo doveva essere restituito alla sua base popolare, mentre il motivo mariano apriva orizzonti di salvezza per una comunità originata dall’unico principio materno.
Si trattava di una trasformazione della pratica e della filosofia religiosa: meno princìpi e più evangelizzazione, meno potere e maggiore presenza in mezzo al popolo.
Contro lo Stato materialista e la dominante filosofia positiva, che incoraggiava il disprezzo dei deboli, misconoscendo la solidarietà, si viene affermando la carità cristiana come forma di solidarietà sociale, più efficace e vera del filantropismo laico.
Vi è tutto un capitolo dedicato al Padre Leone a questo tema della distinzione tra filantropia e carità: … la carità è amore verso Dio e verso il prossimo, la filontropia è amore solo verso l’uomo. La filontropia è naturalistica e materialistica…
Padre Leone capì che la redenzione non passava solo attraverso l’espiazione e la preghiera; occorreva impegnarsi per l’emancipazione delle classi più povere. Che significato dare, altrimenti, alla sua insistenza perché Bartolo Longo donasse al pontefice le opere sociali di Pompei? Il capo della Chiesa doveva assumere un diverso ruolo sociale facendosi sostenitore della pace universale fondata sulla fratellanza; e alla pace "pace universale", non a caso, è dedicata, su consiglio di Leone a Longo, la facciata del Santuario pompeiano.
Per Bartolo Longo, "anticipatore dell’intelligenza laicale del cristiano moderno", (come scrive Gabriele De Rosa in un saggio presentato al convegno storico tenutosi a Pompei nel maggio 1982), il fatto religioso è un momento aggregativo di tipo sociale e ricostruire significava edificare, attorno alla chiesetta, una struttura amministrativa, ma anche diffondere l’apostolato sociale in contrasto con la storica "assenza" delle stesse confraternite religiose.
In lui confluirono pietà cattolica e spirito riformatore della migliore tradizione risorgimentale. Progetto religioso, progetto urbano e progetto civile si fusero ecletticamente ed è da credere che l’influenza di Padre Leone non si limitò alla pratica e alla mobilitazione religiosa. L’incontro tra i due
mise in chiaro che l’uno e l’altro avevano in comune numerosi elementi, fra cui il rifiuto del cattolicesimo papale intransigente organizzato per comitati parrocchiali e l’adesione a forme non esteriori di religiosità, raccomandate ai poveri e ai diseredati e ai bisognosi di riscatto.
La stessa predicazione di Padre Leone in terra di Puglia e nel Cilento rappresenta un contributo e una esperienza che avrà notevoli riflessi sul ruolo che il redentorista, passato dalle Puglie alla comunità di Angri nell’aprile del 1880 e divenuto famoso per santità di vita, ebbe nella costruzione teorico- pratica del modello sociale cristiano contenuto nel progetto urbano religioso di Pompei.
In questa singolare costruzione realizzata da Bartolo Longo nell’ultimo quindicennio del secolo, decisivo è il contributo di P. Leone; il quale dettò a B. Longo lo schema della regola per le Suore di carità, indicando nell’assistenza del popolo e nell’educazione degli orfani il fine principale della Congregazione, così come sempre su indicazione di Leone, l’assistenza ai moribondi si trasformava in un ampio progetto caritativo finalizzato al riscatto sociale tramite il lavoro. "La Civiltà Cattolica" del 1899 ravvisò in Bartolo Longo "l’archetipo del democratico veramente cristiano" edificatore di una "città novella" in cui è assicurato "il pane materiale per la numerosa colonia dei beneficiati e dei manifattori" e, insieme, il pane spirituale: "Colà si mostra cristianamente sciolto il problema sociale… colà le relazioni tra padrone e operante, tra capitale e lavoro, tra carità e giustizia, tra fatica e mercede, sono fuori litigio…". Ma anche qui, se il personaggio centrale è Longo, non bisogna trascurare il ruolo di P. Leone, del suo continuo incoraggiamento e consiglio nell’opera di rieducazione dei figli dei carcerati…
Merita, infine, di essere ricordato un grosso volume dal titolo: S. Alfonso redivivo nel secolo XIX, che il redentorista pubblicò a Napoli nel 1887. Numerosi gli spunti e i temi poi sviluppati da Bartolo Longo. Secondo l’autore… le cognizioni scientifiche non potevano essere disgiunte dalle morali, perché sulla legge terrena sta sempre quella divina… la società moderna doveva essere fondata sul "codice legale cristiano" e sull’ordine armonico delle sue varie componenti.
L’opera di evangelizzazione dei popoli, inoltre, non doveva restare fine a se stessa o chiudersi in astratto formalismo, ma divenire, sempre secondo l’indicazione alfonsiana, legge di amore e di
sapienza, trasmessa al popolo da quanti si sentivano predestinati a dettare le "regole" ai loro discepoli e agli istituti da essi fondati.
Sempre in questo interessantissimo libro P. Leone dedicava tutto un capitolo all’importanza della diffusione della fede per mezzo della stampa. "La stampa cattolica è di una utilità incalcolabile, si in ordine alle verità intellettuali, sì in ordine alle dottrine pratiche e morali, e si ancora quanto alla parte materiale.
Sarebbe opportuno, al di là del problema della sua "santità". Rileggere gli scritti del redentorista Giuseppe Maria Leone, pubblicare i suoi numerosi manoscritti e meditare sul suo apostolato, così ricco di spunti eucaristici e operativi. Padre Leone non si limitò a confutare puntigliosamente la "vana scienza" del suo tempo. Egli fu un esempio di cristianesimo sociale e di cattolicesimo militante, sacrificando la sua gracile salute in mezzo ai poveri e agli emarginati.
(Autore: Carlo Carini)


*Giuseppe Moscati (1880 - 1927) - Laico
Giuseppe Moscati nacque il 25 luglio 1880 a Benevento, settimo tra i nove figli del magistrato Francesco Moscati e di Rosa De Luca, dei marchesi di Roseto.
Fu battezzato il 31 luglio 1880.
Nel 1881 la famiglia Moscati si trasferì ad Ancona e poi a Napoli, ove Giuseppe fece la sua prima comunione nella festa dell'Immacolata del 1888.
Dal 1889 al 1894 Giuseppe compì i suoi studi ginnasiali e poi quelli liceali al " Vittorio Emanuele ", conseguendovi con voti brillanti la licenza liceale nel 1897, all'età di appena 17 anni. Pochi mesi dopo, cominciò gli studi universitari presso la facoltà di medicina dell'Ateneo partenopeo.

E' possibile che la decisione di scegliere la professione medica sia stata in parte influenzata dal fatto che negli anni dell'adolescenza Giuseppe si era confrontato, in modo diretto e personale, con il dramma della sofferenza umana.
Nel 1893, infatti, suo fratello Alberto, tenente di artiglieria, fu portato a casa dopo aver subito un trauma inguaribile in seguito ad una caduta da cavallo.
Per anni Giuseppe prodigò le sue cure premurose al fratello tanto amato, e allora dovette sperimentare la relativa impotenza dei rimedi umani e l'efficacia dei conforti religiosi, che soli possono darci la vera pace e serenità.
È comunque un fatto che, fin dalla più giovane età, Giuseppe Moscati dimostra una sensibilità acuta per le sofferenze fisiche altrui; ma il suo sguardo non si ferma ad esse: penetra fino agli ultimi recessi del cuore umano. Vuole guarire o lenire le piaghe del corpo, ma è, al tempo stesso, profondamente convinto che anima e corpo sono tutt'uno e desidera ardentemente di preparare i suoi fratelli sofferenti all'opera salvifica del Medico Divino.
Il 4 agosto 1903, Giuseppe Moscati conseguì la laurea in medicina con pieni voti e diritto alla stampa, coronando così in modo degno il " curriculum " dei suoi studi universitari.
A distanza di cinque mesi dalla laurea, il dottor Moscati prende parte al concorso pubblico indetto per l'ufficio di assistente ordinario negli Ospedali Riuniti di Napoli; quasi contemporaneamente sostiene un altro concorso per coadiutore straordinario negli stessi ospedali, a base di prove e titoli.
Nel primo dei concorsi, su ventun classificati, riesce secondo; nell'altro riesce primo assoluto, e ciò in modo così trionfale che - come si legge in un giudizio qualificato - " fece sbalordire esaminatori e compagni ".
Dal 1904 il Moscati presta servizio di coadiutore all'ospedale degl'Incurabili, a Napoli, e fra l'altro organizza l'ospedalizzazione dei colpiti di rabbia e, mediante un intervento personale molto coraggioso, salva i ricoverati nell'ospedale di Torre del Greco, durante l'eruzione del Vesuvio nel 1906.
Negli anni successivi Giuseppe Moscati consegue l'idoneità, in un concorso per esami, al servizio di laboratorio presso l'ospedale di malattie infettive " Domenico Cotugno ".
Nel 1911 prende parte al concorso pubblico per sei posti di aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti e lo vince in modo clamoroso.
Si succedono le nomine a coadiutore ordinario, negli ospedali e poi, in seguito al concorso per medico ordinario, la nomina a direttore di sala, cioè a primario.
Durante la prima guerra mondiale è direttore dei reparti militari negli Ospedali Riuniti.
A questo " curriculum " ospedaliero si affiancano le diverse tappe di quello universitario e scientifico: dagli anni universitari fino al 1908, il Moscati è assistente volontario nel laboratorio di fisiologia; dal 1908 in poi è assistente ordinario nell'Istituto di Chimica fisiologica. Consegue per concorso un posto di studio nella stazione zoologica. In seguito a concorso viene nominato preparatore volontario della III Clinica Medica, e preposto al reparto chimico fino al 1911. Contemporaneamente, percorre i diversi gradi dell'insegnamento.
Nel 1911 ottiene, per titoli, la Libera Docenza in Chimica fisiologica; ha l'incarico di guidare le ricerche scientifiche e sperimentali nell'Istituto di Chimica biologica.
Dal 1911 insegna, senza interruzioni, " Indagini di laboratorio applicate alla clinica " e " Chimica applicata alla medicina ", con esercitazioni e dimostrazioni pratiche. A titolo privato, durante alcuni anni scolastici, insegna a numerosi laureati e studenti semeiologia e casuistica ospedaliera, clinica e anatomo-patologica.
Per vari anni accademici espleta la supplenza nei corsi ufficiali di Chimica fisiologica e Fisiologia.
Nel 1922, consegue la Libera Docenza in Clinica Medica generale, con dispensa dalla lezione o dalla prova pratica ad unanimità di voti della commissione.
Celebre e ricercatissimo nell'ambiente partenopeo quando è ancora giovanissimo, il professor Moscati conquista ben presto una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere. Queste ricerche di pioniere, che si concentrano specialmente sul glicogeno ed argomenti collegati, assicurano al Moscati un posto d'onore fra i medici ricercatori della prima metà del nostro secolo.
Non sono tuttavia unicamente e neppure principalmente le doti geniali ed i successi clamorosi del Moscati - la sua sicura metodologia innovatrice nel campo della ricerca scientifica, il suo colpo d'occhio diagnostico fuori del comune - che suscitano la meraviglia di chi lo avvicina.
Più di ogni altra cosa è la sua stessa personalità che lascia un' impressione profonda in coloro che lo incontrano, la sua vita limpida e coerente, tutta impregnata di fede e di carità verso Dio e verso gli uomini.
Il Moscati è uno scienziato di prim'ordine; ma per lui non esistono contrasti tra la fede e la scienza: come ricercatore è al servizio della verità e la verità non è mai in contraddizione con se stessa né, tanto meno, con ciò che la Verità eterna ci ha rivelato.
L'accettazione della Parola di Dio non è, d'altronde, per il Moscati un semplice atto intellettuale, astratto e teorico: per lui la fede è, invece, la sorgente di tutta la sua vita, l'accettazione incondizionata, calda ed entusiasta della realtà del Dio personale e dei nostri rapporti con lui.
Il Moscati vede nei suoi pazienti il Cristo sofferente, lo ama e lo serve in essi.
È questo slancio di amore generoso che lo spinge a prodigarsi senza sosta per chi soffre, a non attendere che i malati vadano a lui, ma a cercarli nei quartieri più poveri ed abbandonati della città, a curarli gratuitamente, anzi, a soccorrerli con i suoi propri guadagni.
E tutti, ma in modo speciale coloro che vivono nella miseria, intuiscono ammirati la forza divina che anima il loro benefattore.
Così il Moscati diventa l'apostolo di Gesù: senza mai predicare, annuncia, con la sua carità e con il modo in cui vive la sua professione di medico, il Divino Pastore e conduce a lui gli uomini oppressi e assetati di verità e di bontà. Mentre gli anni progrediscono, il fuoco dell'amore sembra divorare Giuseppe Moscati.
L'attività esterna cresce costantemente, ma si prolungano pure le sue ore di preghiera e si interiorizzano progressivamente i suoi incontri con Gesù sacramentato.
Quando, il 12 aprile 1927, il Moscati muore improvvisamente, stroncato in piena attività, a soli 46 anni, la notizia del suo decesso viene annunciata e propagata di bocca in bocca con le parole: "È morto il medico santo ".
Queste parole, che riassumono tutta la vita del Moscati, ricevono oggi il suggello ufficiale della Chiesa.
Il Prof. Giuseppe Moscati è stato beatificato da S. S. Paolo VI nel corso dell'Anno Santo, il 16 novembre 1975.
Chi è San Giuseppe Moscati?
Un medico santo nostro contemporaneo
S. Giuseppe Moscati è un nostro contemporaneo.
Di lui possediamo scritti autografi, foto e testimonianze di persone che hanno lavorato con lui o ne hanno sperimentato gli interventi. Lo si sente uno di noi, ma subito si avverte il fascino della sua personalità.
E' dotto, saggio, sensibile, umano
Le doti naturali sono modellate dalla santità e sono messe a disposizione di tutti, particolarmente dei più bisognosi. La sua vita è ricca di episodi di carità cristiana.
Tutti lo hanno amato da vivo, ma dopo la morte questo affetto è cresciuto a dismisura.
Si ricorre a lui come ad una persona carissima, ed egli risponde, spesso si manifesta e innumerevoli sono gli interventi di grazia.
Dio si serve di lui per dare serenità a moltissime persone.
I genitori
La famiglia Moscati proviene da S. Lucia di Serino, piccolo paese in provincia di Avellino, distante pochi chilometri dal capoluogo.
In S. Lucia di Serino, nel 1836, nacque Francesco, il padre del futuro Santo, che si laureò in giurisprudenza e percorse brillantemente la carriera della magistratura.
Fu giudice al Tribunale di Cassino, Presidente del Tribunale di Benevento, Consigliere di Corte d'Appello, prima ad Ancona e poi a Napoli, dove morì il 21 dicembre 1897.
A Cassino Francesco Moscati conobbe e sposò Rosa de Luca, dei marchesi di Roseto.
Dal matrimonio nacquero nove figli: Giuseppe fu il settimo.
Finché visse, il padre del Santo ogni anno conduceva la moglie e i figli al paese natale, per un periodo di riposo e per stare a contatto con la natura.
Si recavano insieme nella chiesa delle Clarisse, per partecipare alla Messa, che spesso Francesco stesso serviva.
In due lettere S. Giuseppe Moscati fa cenno al paese natale. La prima è del 20 luglio 1923, scritta durante il suo viaggio in Francia e Inghilterra: "Alle ore 14.20 partenza per Modane, per la Francia. Attraversiamo delle valli chiuse da monti ricoperti di castagni (Borgone).
Qua e là il nastro argenteo dei fiumi: come è simile questo paesaggio a quello indimenticabile di Serino, l'unico posto al mondo, l'Irpinia, ove volentieri trascorrerei i miei giorni, perché rinserra le più care, le più dolci memorie di mia infanzia, e le ossa dei mie cari!"
La seconda lettera fu scritta il 19 gennaio 1924, dopo aver appreso la morte di un suo zio:
"La fine di zio Carmelo è il crollo di tanti ricordi cari legati alla sua persona. Oh, le dolci memorie della infanzia, dei monti di Serino!
Cose e persone del paese di mio padre mi sono fitte nel cuore indelebili; e la dipartita d’ ogni testimone della mia passata spensieratezza è una disillusione di più: precipita la parte romantica della mia personalità. E più mi sento solo, solo e vicino a Dio!"
A S. Lucia di Serino Moscati dedicò anche una breve poesia, che conferma la sua particolare sensibilità. La scrisse il 10 aprile 1900, quando aveva venti anni ed era studente di medicina.
Paolo VI, il Papa che lo ha beatificato
"Chi è colui che viene proposto oggi all'imitazione e alla venerazione di tutti?
É un laico, che ha fatto della sua vita una missione percorsa con autenticità evangelica...
É un Medico, che ha fatto della professione una palestra di apostolato, una missione di carità...
É un Professore d'università, che ha lasciato tra i suoi alunni una scia di profonda ammirazione...
É uno Scienziato d'alta scuola, noto per i suoi contributi scientifici di livello internazionale...
La sua esistenza è tutta qui..."
Beatificazione (Paolo VI)
La stima e la venerazione che avevano circondato il Prof. Moscati durante la vita, esplosero dopo la sua morte, e presto il dolore e il pianto di coloro che lo avevano conosciuto si tramutò in commozione, entusiasmo, preghiera.
Si ricorreva a lui in ogni circostanza, e molti affermavano di ricevere grazie fisiche e spirituali per sua intercessione.
Il 16 luglio 1931 iniziarono i Processi informativi presso la Curia di Napoli, primo atto ufficiale nel cammino verso la canonizzazione.
Il 10 maggio 1973 la Congregazione per le Cause dei Santi, a Roma, emanò il Decreto sulle virtù eroiche, per cui Giuseppe Moscati viene dichiarato Venerabile.
Nel frattempo venivano istruiti i processi per l'esame di due miracoli: due guarigioni improvvise attribuite a Moscati.
Un maresciallo degli agenti di custodia, Costantino Nazzaro, nato ad Avellino il 22/05/1902 e vissuto in perfetta salute fino al 1933, quando cominciò ad avvertire i primi sintomi di una malattia che avrebbe potuto stroncargli la vita.
Era affetto dal morbo di Addisone aveva avuto prognosi sicura di morte, poiché non si conoscevano casi di guarigione e le terapie servivano solo a prolungare la resistenza del malato. Infatti, nonostante le cure, il Nazzaro non migliorava ed i medici non gli davano alcuna speranza. Conosciuto nella chiesa del Gesù Nuovo il Servo di Dio Giuseppe Moscati, lo pregò insieme alla sua famiglia e vi ritornò ogni quindici giorni.
Una notte vide in sogno che Moscati lo operava, e svegliatosi si trovò perfettamente guarito.
Il secondo miracolo approvato dalla Congregazione per le Cause dei Santi è quello di Raffaele Perrotta, di Calvi Risorta (CE), guarito da meningite cerebrospinale meningococcica.
Quando già i familiari avevano preparato per lui l'abito per la sepoltura, ecco che tra il 7 e l'8 febbraio 1941 si ebbe una instantanea e definitiva guarigione.
Il 16 novembre 1975, il Papa Paolo VI dichiarò Beato Giuseppe Moscati, durante una solenne celebrazione in Piazza San Pietro.
Quel giorno la pioggia si presentò varie volte durante la funzione, ma la folla che gremiva la piazza seguì con commozione il sacro rito fino alla conclusione, riparandosi sotto gli ombrelli.
Benevento, città natale del Santo
Giuseppe Moscati nacque a Benevento il 25 luglio 1880, festa liturgica di S. Giacomo Maggiore Apostolo.
La famiglia vi si era trasferita da Cassino nel 1877, quando Francesco Moscati fu promosso Presidente di Tribunale, prendendo alloggio in Via S. Diodato, nei pressi dell'ospedale dei Fatebenefratelli.
Dopo pochi mesi andò ad abitare in un appartamento di Via Porta Aurea, vicino all'Arco di Traiano, costruito in onore dell'imperatore nel 114 d.C.
Nel palazzo Andreotti, acquistato poi dalla famiglia Leo, nacque Giuseppe, nell'ultima stanza a sinistra. Si accede all'appartamento attraverso un ampio portale che immette in un cortile da cui parte uno scalone di pietra.
Una lapide accanto al portone d'ingresso ricorda l'avvenimento.
Nella Cattedrale di Benevento, nella cappella del SS. Sacramento, si può ammirare la statua marmorea di S. Giuseppe Moscati, opera di P. Mazzei di Pietrasanta.
"Perseverate con Dio nel cuore... con amore e pietà per i derelitti, con fede e con entusiasmo... disposto solo al bene". [Da una lettera del Dott. Giuseppe Biondi, del 4 settembre 1921]
Benevento alla nascita di Moscati
Il  3 settembre del 1860, dopo circa otto secoli di governo pontificio, Benevento veniva annessa al Regno d'Italia.
L'ultimo Delegato Apostolico, Mons. Eduardo Agnelli, nel lasciare la città aveva ricevuto l'onore delle armi dai soldati del nuovo regime.
La città mutava vita ed entrava nell'ordine territoriale della nazione italiana.
"Secondo lo schema politico piemontese furono espropriati i conventi, cacciati i religiosi, manomessi gli archivi, deturpate o distrutte linee architettoniche di antichi edifici.
Alcuni si aspettavano cose nuove e travolgenti, altri le temevano...
Il clan massonico, importato da zone limitrofe, ebbe anch'esso il suo tempo favorevole.
Alla venuta della famiglia Moscati, in Benevento i bollori erano in buona parte sopiti".
(Lauro Maio, S. Giuseppe Moscati e Benevento sua città natale, Benevento 1987, p.13).
Giovanni Paolo II, il Papa che lo ha canonizzato
"L'uomo che da oggi invocheremo come Santo della Chiesa universale, si presenta a noi come un'attuazione concreta dell'ideale del cristiano laico. Giuseppe Moscati, medico Primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica, visse i suoi molteplici compiti con tutto l'impegno e la serietà che l'esercizio di queste delicate professioni laicali richiede. Da questo punto di vista il Moscati costituisce un esempio non soltanto da ammirare, ma da imitare soprattutto da parte degli operatori sanitari...
Egli si pone come esempio anche per chi non condivide la sua fede".
Canonizzazione (Giovanni Paolo II)
Nel 1977, due anni dopo la Beatificazione, ci fu la ricognizione canonica del corpo: le ossa furono ricomposte, e il corpo di Moscati fu collocato nell’urna di bronzo, opera del Prof. Amedeo Garufi, sotto l’altare della Visitazione.
La devozione per Moscati cresceva sempre più.  In vista della canonizzazione, fu scelta ed esaminata la guarigione da leucemia, o mielosi acuta mieloblastica, del giovane Giuseppe Montefusco, avvenuta nel 1979.
Quest'uomo era considerato ormai spacciato. La madre, Rosaria Rumieri, avvilita per la diagnosi infausta, vide una notte in sogno la foto di un medico in camice bianco.
Raccontò il sogno al suo Parroco, che le parlò del Beato medico Giuseppe Moscati. La signora
venne al Gesù Nuovo, e subito riconobbe il volto della foto vista in sogno.
Da allora iniziò a pregare Moscati, coinvolgendo anche parenti e amici.
Il figlio Giuseppe dopo poco tempo guarì perfettamente. Non ha più fatto alcuna cura e ha ripreso il suo pesante lavoro di fabbro. Poi si è felicemente sposato, e vive ora felicemente con moglie e figli.
Dopo lunghi esami, finalmente nel concistoro del 28 aprile 1987 il Papa Giovanni Paolo II fissò la data della canonizzazione al 25 ottobre dello stesso anno. Dall' 1 al 30 ottobre era in corso a Roma la VII assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, che trattava della "Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, a 20 anni dal Concilio Vaticano II". Non poteva aversi una coincidenza migliore: Giuseppe Moscati era un laico, che aveva svolto la sua missione nella Chiesa e nel mondo. La sua canonizzazione era auspicata da studiosi, medici e studenti universitari, che ricordavano la sua figura di scienziato e di uomo di fede, impegnato a lenire le sofferenze e a condurre gli ammalati a Cristo. Alle 10 del 25 ottobre 1987, in Piazza San Pietro, il Papa Giovanni Paolo II, dinanzi a circa 100.000 persone, dichiarava Santo Giuseppe Moscati, a 60 anni dalla morte. Alla Messa di Canonizzazione era presente il miracolato Giuseppe Fusco, di 29 anni, con la madre, che offrì al Papa un volto di Cristo in ferro battuto, da lui stesso realizzato nella sua officina di Somma Vesuviana (Napoli). La festa liturgica di San Giuseppe Moscati fu fissata, in seguito, al 16 novembre di ogni anno.
Il miracolato Giuseppe Montefusco
Giuseppe Montefusco, nato a Somma Vesuviana (NA) il 15/2/1958, agli inizi del 1978 cominciò ad accusare pallore, stancabilità, vertigini, inappetenza.
Poiché i globuli rossi e le piastrine erano fortemente diminuiti, il 13 aprile del1978 fu ricoverato all'Ospedale Cardarelli.
Qui tutti i sanitari furono concordi nella diagnosi: leucemia acuta mieloblastica: che, prima dei chemioterapici e dei citostatici, portava in breve termine alla morte.
Dalla letteratura medica risulta che solo una piccola parte dei pazienti, affetti da leucemie acute non linfatiche, sopravvive oltre i cinque anni, sempre che vengano eseguiti cicli di chemioterapia superintensiva. Però dal giugno 1979 il Montefusco smise ogni cura e riprese il pesante lavoro di fabbro. Racconta la mamma, Rosaria Rumieri, che una notte in sogno vide la foto di un medico in camice bianco, al quale tutti portavano offerte. Lo fece anche lei, offrendo 2.000 lire. Raccontando il sogno, il parroco le disse che si trattava di Moscati, il cui corpo era nel Gesù Nuovo. La signora vi andò e riconobbe la foto vista in sogno. Volle acquistare un quadro e le chiesero un'offerta di 2.000 lire. Da allora parenti ed amici pregavano Moscati e ritornavano spesso al Gesù Nuovo. Giuseppe intanto cominciò a star meglio e dopo un mese guarì.
Esame del miracolo
Esame del miracolo Avvenuta la guarigione di Giuseppe Montefusco nel 1979, fu istruito un processo presso il Tribunale Ecclesiastico Campano di Napoli; gli atti furono inviati alla Congregazione per le Cause dei Santi; il Consiglio Medico, il 3 dicembre 1986, confermò la diagnosi letale di "leucemia acuta non linfoide", e confermò «la modalità della guarigione relativamente rapida, completa e duratura... non spiegabile secondo le conoscenze mediche». Il 27 marzo 1987 il Congresso dei Teologi riconobbe la validità delle prove giuridiche e teologiche. I Cardinali della Congregazione per le Cause dei Santi espressero parere favorevole, e il Papa Giovanni Paolo II decise la Canonizzazione, fissandone la data al 25 ottobre 1987.
L'Angelus del Papa del 25 ottobre 1987
Il 25 ottobre 1987 Giovanni Paolo II, dopo aver canonizzato Giuseppe Moscati, rivolgeva prima della recita dell’Angelus Domini, tra le altre, queste parole all’ immensa folla che gremiva Piazza S. Pietro: "Il nostro pensiero si volge oggi al Santuario della Beata Vergine del Rosario in Pompei, Santuario molto caro al Dottor Moscati, che stamane ho avuto la gioia di proclamare Santo... Il Santuario di Pompei con la sua vasta risonanza a livello internazionale, con le moltitudini di pellegrini che vi confluiscono, col grande complesso di opere che lo attorniano, sta a testimoniare le potenti energie che il culto a Maria è in grado di suscitare, energie che si traducono, in definitiva, in un amore appassionato per l’uomo, tutto l’uomo, nella sua dimensione spirituale come in quella sociale e temporale" (Insegnamenti X, 3, Libreria Ed. Vaticana 1987, p. 927).
La signorina Emma Picchillo, orfanella, che fu curata da Giuseppe Moscati e per qualche tempo fu ospite nella sua casa a Napoli, nel Processo di beatificazione dell’ insigne Scienziato, parlando della sua pietà eucaristica, depose: "Il Servo di Dio aveva un culto speciale per Gesù Sacramentato.
Si comunicava, per quanto io sappia, tutti i giorni, e molte volte con grande sacrificio. Difatti, siccome egli visitava infermi anche fuori Napoli, di ritorno da siffatte visite, in un’ ora avanzata, entrava in Chiesa e si comunicava.
E questo l’ ho constatato per quattro volte nel Santuario di Pompei, di ritorno da Amalfi, Salerno, Campobasso, dove s’ era recato per visitare infermi.
In proposito mi ha detto: "Quanta dolcezza provo nel comunicarmi nel Santuario di Pompei ai piedi della Madonna; mi sembra di diventare più piccolo e Gli [a Gesù] dico le cose come sono".
Il Santo Padre, dopo aver riportato questa testimonianza, proseguì:
"Alle origini dell’ opera di Bartolo Longo c’ è l’ amore per l’ uomo, l’ uomo sofferente della Valle di Pompei di fine Ottocento, degradato da una vita di stenti e di ignoranza.
Bartolo Longo capì che ciò di cui quella povera gente aveva sommamente bisogno era la Catechesi e la presenza materna e misericordiosa di Maria, resa più sensibile attraverso un
umile quadro della Madonna del Rosario, collocato nella chiesetta di Valle di Pompei il 13 novembre del 1875.
Questo stesso quadro diventerà ben presto come il fulcro del movimento di culto e di carità a livello internazionale.
Secondo l’ illuminata intuizione di Bartolo Longo, la devozione mariana e il pio esercizio del Rosario dovevano essere, non soltanto per i poveri contadini della Valle di Pompei, ma per tutta la società, mezzi straordinariamente efficaci di promozione dell’ uomo e di pacificazione universale.
Vogliamo oggi raccogliere l’ invito, che ci viene dal beato Bartolo Longo e dal novello santo, il Dottor Giuseppe Moscati, a un rinnovato impegno di devozione a Maria.
La Madonna di Pompei, venerata sotto il titolo di "Vergine del Rosario", ci indica un mezzo privilegiato per progredire nella devozione verso di lei e per approfondire il nostro rapporto di fede e di amore verso il Figlio suo Gesù: la corona del Rosario.
La contemplazione dei misteri in cui si snoda la storia della nostra, salvezza, l’ invocazione a Dio con le parole stesse che Gesù ci ha insegnato, il fluire ritmico delle Ave Maria quasi ghirlanda di rose intrecciata intorno alla più pura, alla più bella, alla più santa di tutte le donne, la finale dossologia a glorificazione della Trinità divina, fanno del Rosario una preghiera straordinariamente ricca di contenuto, pur nella semplicità di una struttura che ne consente la recita nelle circostanze più diverse. Riprendiamo in mano, carissimi Fratelli e Sorelle, la Corona del Rosario, per esprimere la nostra venerazione a Maria, per apprendere da lei ad essere discepoli diligenti del Maestro divino, per implorare la sua celeste assistenza tanto nelle quotidiane nostre necessità quanto nei grandi problemi che angustiano la Chiesa e l’intera umanità". A conclusione della preghiera mariana Giovanni Paolo II, con parole improvvisate, ricordava il messaggio che Giuseppe Moscati consegnava, in particolare, alle istituzioni e agli operatori sanitari dell’ Italia e del mondo. "Abbracciamo in questa preghiera tutti gli operatori sanitari, medici, infermieri, infermiere e tutti gli altri che assistono i nostri carissimi fratelli e sorelle ammalati. Ci portiamo in spirito in tutti i luoghi privilegiati della carità, del servizio dell’ uomo sofferente, del servizio alla vita, dall’ inizio del suo concepimento nel grembo materno.
E così ci troviamo di nuovo davanti al nostro carissimo Santo, Giuseppe Moscati, per pregare con lui come lui pregava il suo rosario, il suo Angelus Domini nel Santuario di Pompei, nella città di Napoli e dappertutto in Italia e fuori Italia".
Moscati incontra Bartolo Longo
Nella casa a fianco della chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, dove il piccolo Giuseppe Moscati, all'età di otto anni, ricevette la Prima Comunione, abitava la Ven. Caterina Volpicelli, alla quale i genitori del Santo erano particolarmente legati per affinità di sentimenti spirituali.
Qui incontravano anche il futuro Beato Bartolo Longo, il fondatore del Santuario della Madonna di Pompei, che fino al 1872 aveva abitato presso la chiesa delle Ancelle del Sacro Cuore, frequentandola ogni giorno anche per la recita del Santo Rosario.
In seguito, quando Bartolo Longo abiterà a Pompei, il Prof. Moscati sarà il suo medico curante.
Prima conoscenza
Giovanni Paolo II, alla conclusione della cerimonia di canonizzazione di Giuseppe Moscati, prima della recita dell’Angelus, ricordava, tra l’altro, le parole confidate dal nuovo Santo alla signorina Anna Picchillo, che ha trascorso quasi tutta la sua vita all’ ombra del Santuario di Pompei ed è
stata per vari anni segretaria di Bartolo Longo: "Quanta dolcezza provo nel comunicarmi nel Santuario di Pompei, ai piedi della Madonna mi sembra di diventare più piccolo e Gli [a Gesù] dico le cose come sono".
Il Santo attinse una particolare devozione alla Regina del Rosario dallo stesso Beato Bartolo Longo, che conobbe quando, passata a Napoli la famiglia per il trasferimento del padre, Francesco, dalla corte di appello di Ancona a quella partenopea, veniva molto spesso condotto all’ Istituto fondato dalla Ven. Caterina Volpicelli nel palazzo Petrone alla Salute.
Quivi l’ avvocato di Latiano – Bartolo Longo - aveva abitato per qualche tempo dal 1872 e frequentemente tornava, anche dopo che era passato con la contessa Marianna Fornararo De Fusco al palazzo Passero di Largo Salvator Rosa.
La signora Rosa De Luca e il Comm. Francesco Moscati (genitori di S. Giuseppe Moscati) frequentavano la Volpicelli e le persone che, sotto la guida del Card. Sisto Riario Sforza, si univano a lei nell’ apostolato religioso e sociale, tra cui i futuri Beati Ludovico da Casoria e Bartolo Longo, Rosa Carafa, Giulia Salzano e Isabella De Rosis.
I signori Moscati vollero che il loro figlio Giuseppe ricevesse, l’ 8 dicembre 1888, la Prima Comunione nella cappella delle Ancelle del Sacro Cuore.
Quando il 25 novembre 1914 la signora Rosa, madre del Santo, volò "al cielo con una morte di santa, quale era stata sempre in vita", Giuseppe volle che fossero celebrate nella stessa chiesa la liturgia esequiale (26 novembre) e quella del trigesimo, anticipata di qualche giorno (22 dicembre).
Moscati rimase da fanciullo attratto da Bartolo Longo, che aveva ben 39 anni più di lui e, incontrandolo, spesso si infervorava ancor di più nella devozione alla Madonna di Pompei e nell’ amore ai poveri e ai malati, inoculati in lui soprattutto dalla mamma e dalla sorella Nina, che "ebbe per complice nel fare il bene al prossimo".
Dopo la laurea in Medicina, conseguita il 4 agosto 1903, divenne medico personale di Bartolo Longo fino alla morte di questi, visitò spesso il Santuario da lui fondato, portando con sé talvolta qualche Assistente per farlo accostare ai sacramenti, aiutò con frequenti e generosi oboli le opere pompeiane e curò sempre gratuitamente gli orfani e gl’ infermi che Bartolo Longo aveva raccolto.
Si stabilì così tra Moscati e Bartolo Longo uno stretto rapporto di amicizia e di collaborazione apostolica, facendo spesso da tramite la signorina Nina, sorella del Santo Medico.
Corrispondenza significativa
Lo storico Rosario Esposito, insieme ad un ampio articolo su Giuseppe Moscati e Bartolo Longo dal titolo "Ecco come un santo cura un altro santo", ha edito il carteggio fra i due, ritrovato nell’ Archivio di Bartolo Longo.
Sono 16 lettere inviate dal Moscati a Bartolo Longo e 3 trasmesse da costui al Moscati.
Esse ci permettono di conoscere meglio i rapporti tra i due, così distanti per età, formazione ed esperienza religiosa, ma intimamente collegati da un’ ansia di "giustizia e carità" sorretta da
fede viva.
Questa corrispondenza - a giudizio dell’ Esposito - è "estremamente importante" già per la storia dell’ arte medica, "in quanto siamo di fronte ad uno dei grandi della medicina...
Ma l’ aspetto più importante è quello che ci si permetta di definire pedagogico.
La profonda venerazione [di Moscati] nei confronti del venerando paziente [Bartolo Longo] non si eclissa in nessun istante.
L’amabilità e la pazienza, non prive di qualche punta di arguzia, rendono questi messaggi, a volta tanto brevi da sembrare telegrafici, straordinariamente cari...
Infine queste brevi pagine costituiscono l’ incantevole veicolo che rende agevole la ricostruzione di un panorama religioso e spirituale che fa da cornice a una grande amicizia.
Storie parallele di personaggi della scienza e della religione che in qualche modo entrano nella biografia dell’ uno e dell’ altro; e infine ricordi e prospettive circa la promozione spirituale di se stessi e delle popolazioni meridionali" .
Lo sguardo e il cuore di Moscati ai piedi della Vergine
Prestando Moscati sempre gratuitamente la sua opera non solo a Bartolo Longo, alle suore, agli orfanelli da esse educati, ma anche agli infermi dal loro segnalati, il fondatore del Santuario di Pompei lo ringraziava personalmente o per mezzo del proprio segretario Giovanni Battista Allaria, inviandogli anche in dono qualche rosario o delle pubblicazioni.
In una delle risposte sempre puntuali di ringraziamento abbiamo la più bella espressione della devozione di Moscati per la Regina del Rosario.
Così egli scriveva il 20 luglio 1926:
"Lei mi ha lusingato ed onorato altamente con la sua lettera e con i suoi ringraziamenti, che proprio non meritavo, avendo ritenuto mio dovere profondermi al servizio d’ una persona, che mi veniva raccomandata da Lei.
E ancora la ringrazio, insieme con il Signor Allaria, dei magnifici doni, ricordi della sublime opera di Pompei, inviatimi.
Dalla mia infanzia mi sono inteso trasportato verso la terra, ove la Regina del Rosario ha attratto tanti cuori e operato tanti prodigi.
E voglia Ella, Madre benigna, proteggere il mio spirito e il mio cuore in mezzo ai mille pericoli in cui navigo, in questo orribile mondo!
Sempre che posso, faccio una scappata a Pompei - cosa oramai moltissime volte proibitami dalla assillante mia professione.
Ma sempre che col treno passo fuggendo, in vista del Santuario, per recarmi lontano, in consulti, cosa frequentissima, il mio sguardo e il mio cuore è lì, ove tra gli alberi si intravede il campanile in costruzione, ai piedi del ciborio, su cui s’ innalza l’ immagine della Vergine!
Mi perdoni se, scrivendo a Lei, vado col pensiero a tanti ricordi cari... Mi creda sempre ai suoi ordini..."
Di particolare interesse sono due lettere del 1925, da cui traspaiono l’ ardore apostolico dei due amici, il loro rispetto per gli altri, la loro delicatezza di coscienza, il disinteresse per la propria stima e le eventuali incomprensioni.
Il 7 settembre 1925 Moscati scriveva a Bartolo Longo:
"L’altro ieri venne a visitarsi da me l’ ing. Gustavo D’ Agostino, accompagnato dal fratello S.E. il Presidente del Consiglio di Stato.
Egli ha una gravissima malattia (un cancro); ma non è detto che non possa guarire con un’ opportuna operazione chirurgica.
Anzi speriamo che un lontano filo di speranza (che la malattia anziché un cancro sia un granuloma) si realizzi: il che si vedrà subito, tra 10-12 giorni, perché se si tratta di un granuloma, guarirà come per incanto sotto l’ azione di alcune iniezioni (cura probatoria).
Ma il guaio grosso è che l’ ing. De Agostino è lontanissimo dalla frequenza dei SS. Sacramenti!
Afferma di essere un uomo senza peccati!
E S.E. D’ Agostino ritiene che ogni fratello deve pensare a sé, e non può pensare all’ altro.
Io rimproverai dolcemente l’ ingegnere, mostrandomi sorpreso che egli appartenesse all’ entourage di Bartolo Longo...
Come volete che si possa abbandonare quell’ anima fra i pericoli che corre?
Io sono sicuro che egli avrà salva la vita umana; ma è un grande avviso che ha avuto; e sapete che queste malattie, anche guarite, si riproducono con estrema facilità, cosa che cercheremo di impedire con una cura di raggi X, dopo l’ operazione chirurgica.
Ma vi ho voluto scrivere, perché la S. Vergine di Pompei reclami per sé quest’ anima buona, ma tiepida". Bartolo Longo aveva ringraziato Moscati ma, essendosene dimenticato, gli aveva riscritto chiedendogli consigli per la propria salute e forse manifestandogli qualche perplessità circa frasi attribuite a Moscati. Questo così gli rispose con un biglietto non datato:
"Domani mattina verrò a Valle [di Pompei], andrò in chiesa, e mi accosterò alla S. Comunione, e poi verrò a vedervi; e tengo a dichiararvi che per voi lascerei tutto tutto, mettendovi in prima linea rispetto agli altri... Vi scrissi per il Sig. D’Agostino: questi è andato a Parigi.
Voi mi rispondeste; ringraziandovi vi avevo dato sue notizie, libero da legami di precetti di S. Chiesa. Io non seppi interpretare la frase. Vi assicuro che non avevo svelato un segreto di confessione pregandovi di mettere in opera tutto, per far ravvicinare quel bravo Sig. D’Agostino, persona eccellente, ai SS. Sacramenti, perché minato da un male inesorabile".
Al capezzale di Bartolo Longo
Più frequente è stato lo scambio epistolare durante l’ ultima malattia di Bartolo Longo.
Il 24 marzo 1926 l’ illustre clinico tracciava l’ indirizzo terapeutico da seguire.
Il 29 dello stesso mese ribadiva all’ amico:
"Io credo di aver tracciato dei binari da cui... non bisogna deragliare!  Ossia economia di farmaci, e con cangiare le abitudini quanto più è possibile.  A noi abituati all’ acqua dell’ Aosino e del Serino, è bene non far cambiare tipo di acqua potabile.  Attenetevi a quei pochi precetti dettativi. Avete fatto bene a ricevere l’ olio santo, non perché il Signore vi voglia con sé, perché non è scoccata la vostra ora, ma perché vi siete uniformato al consiglio della lettera cattolica di S. Giacomo (4, 14 - 15) il quale, allorché vedeva una malattia insistere, ordinava l’ unzione, come rimedio oltre che dell’ anima, del corpo".
Moscati, che non era un teologo, ma un credente assiduo alla lettura della Sacra Scrittura, aveva bene inteso e praticato come il cristianesimo, inculcando la rassegnazione nella malattia, non distoglie da una giusta e dovuta lotta contro tutto ciò che è di ostacolo alla vita, alla salute e ai beni connessi.
Il 12 aprile 1926 Moscati, lieto delle buone notizie ricevute sulla salute di Bartolo Longo, chiede ulteriori precisazioni sull’ulcus rodens di cui era afflitto, in vista di una eventuale più lunga applicazione di radium, di cui assicura la carenza di fastidio, e ne prende occasione per elevare un inno al Creatore:
"Solleviamo dunque la mente a Dio, e alla cui conoscenza ammesso l’ uomo; e ha permesso che gli uomini godessero per un poco di tempo dei suoi doni terreni, ma li ha incitati poi a sapersene distaccare, perché molto di più Egli ci darà in una vita migliore. Il Radium è una delle cose mirabili di Dio conosciuta in questi ultimi anni (e quante altre cose ancora ignorate!). Se è necessario ricorreremo perciò ancora al Radium".
Abbiamo qui lo scienziato contemplativo che invita il giurista Longo, animato da pari fede, ad elevare il pensiero al Creatore, che ha posto l’ universo, in tutta la immensità, varietà e bellezza, a disposizione dell’ uomo, perché se ne serva, senza però dimenticarne la caducità.
Voleva Moscati preparare Bartolo Longo al transito, che sarebbe avvenuto di lì a pochi mesi? L’età avanzata e l’ infermità ormai cronica lo aveva in qualche modo fatto prevedere.
Ma chi avrebbe potuto pensare che proprio alla distanza di un anno dalla data di questa lettera Moscati, a soli 47 anni, sarebbe all’ improvviso passato alla "vita migliore" additata all’ amico?.
Egli era sempre pronto e si era abituato a risalire da ogni creatura, soprattutto dai fiori, che la sorella Nina gli faceva sempre trovare "sullo scrittoio, nello studio, nei salotti, in camera da pranzo", alla bellezza e grandezza di Dio e a tener presente la caducità delle cose e la fugacità della vita.
5 ottobre 1926: morte di Bartolo Longo
Il 7 maggio 1926 Moscati fa pervenire all’ amico una lettera, in cui tra l’ altro scrive:
"Voi siete stato l’ Araldo della Vergine SS. ma e dovete, rimanendo ancora a lungo all’ ombra del Santuario, esser testimone di tante e tante grazie e dei trionfi del Rosario.
Io vi ho presente, e pur nel mare di vincoli in cui giaccio, vi penso e… dal quel gran peccatore che sono, prego Iddio per voi.
Ma le mie preghiere, sebbene siano come i gas pesanti che scendono sulla terra, e non guadagnano il Cielo, pure sono ispirate alla buona volontà.
Vivete dunque bene e a lungo, e dite come San Martino longevo fra i suoi monaci oranti: non recuso laborem.
E San Martino rimase a tribolare, sì, sulla terra, ancora, ma a consolare con la sua presenza i suoi fratelli, i suoi figli in Cristo, e a stimolarli nel lavoro della Vigna del Signore".
Bartolo Longo subito risponde: "La mattina dell’ 8 maggio ho avuto la vostra affettuosa lettera.
Le vostre parole sono un grande conforto alle mie sofferenze e, pieno di riconoscenza ho invocato nell’ ora della Supplica e invoco ogni giorno su di voi la benedizione e la protezione della nostra Vergine di Pompei.
Accetto l’ augurio, e, come San Martino ripeto: non recuso laborem.
Ma ho bisogno delle forze!
L’esaurimento mi impedisce di parlare, di sentir parlare e di pensare".
Il venerando Vegliardo, forse sfinito dal caldo, rifiuta quasi del tutto il cibo.
Moscati l’ incoraggia adducendo un altissimo motivo apostolico:
"Godo tanto sentirvi bene! Ma io non posso approvare la vostra determinazione di privarvi del cibo! Alimentatevi, si capisce, nei limiti; ma alimentatevi!…
Il Signore e la Vergine SS.ma vi conservino a lungo su questa terra, ch’é davvero divenuta covo di belve e spelonca di ladri. Sacrifichiamoci, ed io per primo, che merito più degli altri di essere annoverato fra le belve, perché trionfino i principi cristiani nel mondo, e solo per questo dobbiamo domandare di vivere".
I pochi brani citati del carteggio tra Giuseppe Moscati e Bartolo Longo sono tanto significativi da invitare a leggere tutte le lettere.
La sera del 3 ottobre alle ore 22, Moscati visitò per l’ ultima volta il suo amico infermo e, dopo aver costatato il sopraggiungere di una polmonite doppia, uscendo con gli occhi pieni di lacrime, esclamò:
"Non c’è più nulla da fare! Don Bartolo ci lascerà fra qualche giorno".
Il 5 ottobre 1926 Bartolo Longo spirava.
Ma dopo appena sei mesi, il 12 aprile 1927, il suo amico Giuseppe Moscati, stroncato da un attacco cardiaco, lo raggiungeva in Cielo.
Il clinico Moscati e l’ avvocato Longo al loro tempo, oltre ad essere amici fra loro, furono un polo di attrazione per credenti e increduli, scienziati, professionisti, categorie di ogni estrazione sociale, ma soprattutto per poveri, infermi e diseredati.
Nel mondo d’ oggi il loro messaggio conserva tutta la sua freschezza ed efficacia, perché proviene dall’ unica fonte perenne, Cristo, e risponde in pieno alle attuali esigenze socioculturali.

Ecco come un Santo cura un altro Santo
In un articolo monografico della "Palestra del Clero" vengono pubblicate tutte le lettere di san Giuseppe Moscati al Beato Bartolo Longo. Esse costituiscono un suggestivo esemplare di storia clinica e farmaceutica.
Giovanni Paolo II, alla conclusione della cerimonia di canonizzazione di Giuseppe Moscati, prima della recita dell’Angelus, ricordava, tra l’altro, le parole confidate dal nuovo santo alla signorina Anna Picchillo, che ha trascorso quasi tutta la sua vita all’ombra del Santuario di Pompei ed è stata per vari anni segretaria di Bartolo Longo: "Quanta dolcezza provo nel comunicarmi nel Santuario di Pompei: ai piedi della Madonna mi sembra di diventare più piccolo e dico a Gesù le cose come sono" (Neapolitana beatificationis et canonizationis servi Dei Josephi Moscati positio super virtutibua, Roma 1972, Summarium. P. 145).
Il santo attinse una particolare devozione alla regina del Rosario dallo stesso beato B. Longo, che conobbe quando, passata a Napoli la famiglia per il trasferimento del padre, Francesco, dalla corte di appello di Ancona a quella partenopea, veniva molto spesso condotto all’Istituto fondato da Caterina Volpicelli nel palazzo Petrone alla Salute. Quivi l’avvocato di Latiano aveva abitato per qualche tempo dal 1872 e frequentemente tornava anche dopo che era passato con la contessa Marianna Farnararo De Fusco al palazzo Passero di Largo Salvator Rosa.
La signora Rosa De Luca e il comm. Francesco Moscati frequentavano la Volpicelli e le persone che, sotto la guida del Card. Sisto Riario Sforza, si univano a lei nell’apostolato religioso e sociale, tra cui Ludovico da Casoria, B. Longo, Rosa Carafa, Giulia Salzano e Isabella De Rosis (cf. la lapide inaugurata il 29 gennaio 1981 nell’atrio dell’Istituto Volpicelli). I signori Moscati vollero che il loro figliuolo Peppino ricevesse, l’8 dicembre 1888, la prima comunione nella cappella delle Ancelle del S. Cuore. Quando il 25 novembre 1914 la signora Rosa "volò al cielo con una morte di santa, quale era stata sempre in vita" (in A. Marranzini, Giuseppe Moscati un esponente della Scuola Medica Napoletana, Roma 1980, p. 27), Peppino volle che fossero celebrate nella stessa chiesa la liturgia esequiale (26 novembre) e quella del trigesimo anticipata di qualche giorno (22 dicembre).
Moscati rimase da fanciullo attratto da B. Longo di ben 39 anni più vecchio di lui e, incontrandolo spesso s’infervorava ancor di più nella devozione alla Madonna di Pompei e nell’amore ai poveri e ai malati, inoculati in lui soprattutto dalla mamma e dalla sorella Nina, che "ebbe per complice nel fare il bene al prossimo" (Deposizione di Eugenio Moscati, in Positio super virtutibua, cit. Summarium, p. 15).
Dopo la laurea, conseguita il 4 agosto 1903, divenne medico personale di B. Longo fino alla morte di questi, visitò spesso il Santuario da lui fondato portando con sé talvolta anche qualche assistente per farlo accostare ai sacramenti, aiutò con frequenti e generosi oboli le opere pompeiane e curò sempre gratuitamente gli orfani e gli infermi della Delegazione pontificia.
Si stabilì così uno stretto rapporto di amicizia e di collaborazione apostolica tra Moscati e B. Longo, facendo spesso da tramite la signorina Nina.
Carteggio significativo
Ho avuto occasione di pubblicare alcune lettere scambiate fra i due (cfr. A. Marranzini, G. Moscati modello del laico cristiano di oggi, Roma 1989, pp. 311-318; id., G.M. un esponente della scuola Medica Napoletana, cit., pp. 41-46); ora però lo storico Rosario F. Esposito, insieme ad un ampio articolo su G. Moscati e B. Longo dal titolo "Ecco come un santo cura un altro santo" (in "Palestra del clero" 69 [1991] 19-33).
Sono 16 lettere inviate dal Moscati a B. Longo e 3 trasmesse da costui al Moscati. Esse ci permettono di conoscere meglio i rapporti tra i due personaggi, così distanti per età, formazione ed esperienza religiosa, ma intimamente collegati da un’ansia di "giustizia e carità" sorretta da fede viva. Questo carteggio a giudizio dell’Esposito, è estremamente importante "già per la storia dell’arte medica, in quanto siamo di fronte ad uno dei grandi della medicina… Ma l’aspetto più importante è quello che ci si permetta di definire pedagogico. La profonda venerazione di Moscati) nei confronti del venerando paziente (B. Longo) non si eclissa in nessuno istante. L’amabilità e la pazienza, non prive di qualche punta di arguzia, rendono questi messaggi, a volte tanto brevi da sembrare telegrafici, straordinariamente cari… Infine queste brevi pagine costituiscono l’incantevole veicolo che rende agevole la ricostruzione di un panorama religioso e spirituale che fa da cornice a una grande amicizia che impasta: la pietà popolare in cui i corrispondenti sono leaders e consumatori; storie parallele di personaggi della scienza e della religione che in qualche modo entrano nella biografia dell’uno e dell’altro; e infine ricordi e prospettive circa la promozione spirituale di se stessi e delle popolazioni meridionali" (R.F. Esposito, Come un santo cura un altro santo, in "Palestra del clero" 69 (1990) 966-967).
Lo sguardo e il cuore del Moscati ai piedi della Vergine
Prestando Moscati sempre gratuitamente la sua opera non solo a B. Longo, alle suore e agli orfanelli da esse educati, ma anche agl’infermi da loro segnalati, il fondatore del Santuario lo ringraziava personalmente o per mezzo del proprio segretario Giovanni Battista Allaria inviandogli anche in dono qualche rosario o delle pubblicazioni. In una delle risposte sempre puntuali di ringraziamento abbiamo la più bella espressione della devozione di Moscati per la Regina del Rosario. Così egli scriveva il 20 luglio 1926: "Lei mi ha lusingato ed onorato altamente con la sua lettera e con i suoi ringraziamenti, che proprio non meritavo, avendo ritenuto mio dovere profondermi al servizio d’una persona, che mi veniva raccomandata da Lei. E ancora la ringrazio, insieme con il Signor Allaria, dei magnifici doni, ricordi della sublime opera di Pompei, inviatimi. Dalla mia infanzia mi sono inteso trasportato verso la terra, ove la Regina del Rosario ha attratto tanti cuori e operato tanti prodigi. E voglia Ella, madre benigna, proteggere il mio spirito e il mio cuore in mezzo ai mille pericoli, in cui navigo, in questo orribile mondo! Sempre che posso, faccio una scappata a Pompei – cosa oramai moltissime volte proibitami dalla assillante mia professione. Ma sempre che col treno passo fuggendo, in visita al Santuario, per recarmi lontano, in consulti, cosa frequentissima, il mio sguardo e il mio cuore è lì, ove tra gli alberi si intravede il campanile in costruzione, ai piedi del ciborio su cui s’innalza l’immagine della Vergine! Mi perdoni, se scrivendo a Lei, vado col pensiero a tanti ricordi cari… Mi creda sempre ai suoi ordini…" (in "Palestra del clero" 70 [1991] 19-20).
Di particolare interesse sono due lettere del 1925, da cui traspaiono l’ardore apostolico dei due amici, il loro rispetto per gli altri, la loro delicatezza di coscienza, il disinteresse per la propria stima e le eventuali incomprensioni.
Il 7 settembre Moscati scriveva a B. Longo: "L’altro ieri venne a visitarsi da me l’ing. Gustavo D’Agostino, accompagnato dal fratello S.E. il Presidente del Consiglio di Stato. (un cancro); ma non è detto che non possa guarire con un’opportuna operazione chirurgica. Anzi speriamo che un lontano filo di speranza (che la malattia anziché un cancro sia un granuloma) si realizzi: il che si vedrà subito, tra 10-12 giorni, perché se si tratta d’un granuloma, guarirà come per incanto sotto l’azione di alcune iniezioni (cura probatoria).
Ma il guaio grosso è che l’ing. D’Agostino è lontanissimo dalla frequenza dei SS. Sacramenti! Afferma di essere un uomo senza peccati! E S. E. D’Agostino ritiene che ogni fratello deve pensare a sé, e non può pensare all’altro.
Io rimproverai dolcemente l’ingegnere mostrandomi sorpreso che egli appartenesse all’entourage di Bartolo Longo…
Come volete che si possa abbandonare quell’anima fra i pericoli che corre? Io sono sicuro che egli avrà salva la vita umana; ma è un grande avviso, che ha avuto; e sapete che queste malattie, anche guarite, si riproducono con estrema facilità, cosa che cercheremo di impedire con una cura di raggi X, dopo l’operazione chirurgica. Ma vi ho voluto scrivere, perché la S. Vergine di Pompei reclami per sé quest’anima buona, ma tiepida" (ivi, pp. 22-23).
Bartolo Longo aveva ringraziato chiedendogli consigli per la propria salute e forse manifestandogli qualche perplessità circa frasi attribuite a Moscati. Questi così gli rispose con un biglietto non datato: "Domani mattina verrò a Valle, andrò in chiesa, e mi accosterò alla S. Comunione, e poi verrò a vedervi; e tengo a dichiararvi che per voi lascerei tutto tutto, mettendovi in prima linea rispetto agli altri…
Vi scrissi per il Sig. D’Agostino: questi è andato a Parigi. Voi mi rispondeste; ringraziandovi vi avevo dato sue notizie, libero da legami di precetti di S. Chiesa. Io non seppi interpretare la frase. Vi assicuro che non avevo svelato un segreto di confessione pregandovi di mettere in opera tutto, per far riavvicinare quel bravo Sig. D’Ambrosio, persona eccellente, ai SS. Sacramenti, perché minato da un male inesorabile" (ivi, p. 23).
Al capezzale del venerando Vegliardo
Più frequente è stato lo scambio epistolare durante l’ultima malattia di Bartolo Longo. Il 24 marzo 1926 l’illustre clinico tracciava l’indirizzo terapeutico da seguire. Il 29 dello stesso mese ribadiva all’amico: "Io credo di aver tracciato dei binari da cui… non bisogna deragliare! Ossia economia di farmaci, e non cangiante le abitudini quanto è più possibile. A noi abituati all’acqua dell’Aosino o di Serino, è bene non far cambiare tipo di acqua potabile. Attenetevi a quei pochi precetti dettativi.
Avete fatto bene a ricevere l’olio santo, non perché il Signore vi voglia con sé, perché non è scoccata la vostra ora, ma perché vi siete uniformato al consiglio della lettera cattolica di S. Giacomo (4, 14.15) il quale, allorchè vedeva una malattia insistente, ordinava l’unzione, come rimedio oltre che all’anima, del corpo" (ivi. Pp. 26-27).
Giuseppe Moscati, che non era teologo ma un credente assiduo alla lettura della Sacra Scrittura, aveva bene inteso e praticato come il cristianesimo, inculcando la rassegnazione nella malattia non distoglie da una giusta e dovuta lotta contro tutto ciò che è di ostacolo, alla vita, alla salute e ai beni connessi.
Il 1° aprile 1926 l’insigne clinico, lieto delle buone notizie ricevute sulla salute di Bartolo Longo, chiede ulteriori precisazioni sull’ulcus rodens di cui era afflitto, in vista di una eventuale più lunga applicazione di radium, di cui assicura la carenza di fastidio, e ne prende occasione per elevare un inno al Creatore: "Solleviamo dunque la mente a Dio, lodandolo per le tante cose mirabili che ha fatto, e alla cui conoscenza ha ammesso l’uomo; e ha permesso che gli uomini godessero per un poco di tempo dei suoi doni terreni, ma li ha incitati poi a sapersene distaccare, perché molto di più Egli ci darà in una vita migliore. Il Radium è una delle cose mirabili di Dio, conosciuta in questi ultimi anni (e quante altre cose ancora ignorate!). Se è necessario ricorreremo perciò ancora al Radium" (ivi, p. 27).
Abbiamo qui lo scienziato contemplativo che invita il giurista, animato da pari fede, ad elevare il pensiero al Creatore, che ha posto l’universo, in tutta la sua immensità, varietà e bellezza, a disposizione dell’uomo, perché se ne serva, senza però dimenticarne la caducità. Voleva Moscati preparare B. Longo al transito che sarebbe avvenuto di lì a pochi mesi? L’età avanzata e l’infermità ormai cronica lo aveva in qualche modo fatto prevedere. Ma chi avrebbe potuto pensare che proprio alla distanza di un anno dalla data di questa lettera Moscati, a soli 47 anni, sarebbe all’improvviso passato alla "vita migliore" additata all’amico? Egli era sempre pronto e si era abituato a risalire da ogni creatura, soprattutto dai fiori, che la sorella Nina gli faceva sempre trovare "sullo scrittoio, nello studio, nei salotti, in camera da pranzo" (E. Marini, Il prof. G. Moscati, Napoli 1929, p. 110), alla bellezza e grandezza di Dio e a tener presente la caducità delle cose e la fugacità della vita.
Vigilia della Supplica alla Vergine di Pompei
Il 7 maggio fa pervenire all’amico una lettera, in cui tra l’altro scrive: "Voi siete stato l’Araldo della Vergine SS.ma e dovete, rimanendo ancora a lungo, all’ombra del Santuario, esser testimone di tante e tante grazie e dei trionfi del Rosario. Io vi ho presente, e pur nel mare di vincoli in cui giaccio, vi penso, e… da quel gran peccatore che sono, prego Iddio per voi. Ma le mie preghiere, sebbene siano come i gas pesanti che scendono sulla terra, e non guadagnano il Cielo, pure sono ispirate alla buona volontà. Vivete dunque bene e a lungo, e dite come S. Martino longevo fra i suoi monaci oranti "non recuso laborem". E S. Martino rimase a tribolare, sì, sulla terra, ancora, ma a consolare con la sua presenza i suoi fratelli, i suoi figli in Cristo, e a stimolarli nel lavoro della Vigna del Signore" (In "Palestra del clero" 70 [1991] 30-31).
Bartolo Longo subito risponde: "La mattina dell’8 maggio ho avuto la vostra affettuosa lettera. Le vostre parole sono un grande conforto alle mie sofferenze e, pieno di riconoscenza ho invocato nell’ora della Supplca e invoco ogni giorno su di voi la benedizione e la protezione della nostra Vergine di Pompei.
Accetto l’augurio e, come S. Martino ripeto: "non recuso laborem. Ma ho bisogno delle forze! L’esaurimento mi impedisce di parlare, di sentir parlare e di pensare" (ivi, pp. 29-30).
Il venerando Vegliardo, forse sfinito dal caldo, rifiuta quasi del tutto il cibo. Moscati l’incoraggia adducendo un altissimo motivo apostolico: "Godo tanto sentirvi bene! Ma io non posso approvare la vostra determinazione di privarvi del cibo! Alimentatevi, si capisce, nei limiti; ma alimentatevi! ... Il Signore e la Vergine SS.ma vi conservino a lungo su questa terra, che è davvero divenuta covo di belve e spelonca di ladri. Sacrifichiamoci, ed io per primo, che merito più degli altri di essere annoverato fra le belve, perché trionfino i principi cristiani nel mondo, e solo per questo dobbiamo domandare di vivere" (ivi, p. 32).
I pochi brani citati del carteggio tra G. Moscati e B. Longo sono tanto significativi da invitare a leggere tutte le lettere.
La sera del 3 ottobre alle ore 22 Moscati visitò per l’ultima volta il suo amico infermo, dopo aver costatato il sopraggiungere di una polmonite doppia, uscendo con gli occhi pieni di lacrime, esclamò: "Non c’è più nulla da fare! Don Bartolo ci lascerà fra qualche giorno". Il 5 ottobre B. Longo spirava. Ma dopo appena sei mesi, il 12 aprile, il suo amico G. Moscati, stroncato da un attacco cardiaco, lo raggiungeva in cielo.
Il clinico Moscati e l’avvocato Longo al loro tempo, oltre ad essere amici fra loro, furono un polo di attrazione per credenti e increduli, scienziati, professionisti, categorie di ogni estrazione sociale, ma soprattutto per poveri, infermi e diseredati. Nel mondo d’oggi il loro messaggio conserva tutta la freschezza e l’efficacia, perché proviene dall’unica fonte perenne, Cristo, e risponde in pieno alle attuali esigenze socio-culturali.
(Autore: Alfredo Marranzini)
Prima foto: L’illustre clinico e santo napoletano, Giuseppe Moscati, fu medico personale del beato Bartolo Longo dal 1903 fino alla morte di questi avvenuta il 5 ottobre del 1926.

Seconda foto: L’arazzo, esposto sulla facciata della Basilica di S. Pietro in Roma durante il rito di canonizzazione del 25.10.1987, mostra San G. Moscati tra i suoi miracolati.
Terza foto: Chiesa del Gesù nuovo in Napoli. L’urna contiene i resti mortali del Santo dottore napoletano G. Moscati e presenta alcuni momenti significativi della sua attività medico-scientifica (Opera di Amedeo Garufi).


*Giuseppe Toniolo 

Toniolo fu il maggiore esponente italiano della scuola etico-cristiana, che vedeva l’iniziativa economica dei singoli ordinata al bene comune attraverso istituzioni intermedie liberamente costituite, capaci di contemperare l’interesse individuale con quello collettivo, e regolamentata da una ben disegnata legislazione. Tra gli ispiratori dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), fu l’anima intellettuale del movimento sociale cattolico italiano fino alla Prima guerra mondiale e portò avanti con determinazione il suo programma di reazione alla concezione utilitaristico-individualista dell’economia attraverso un’applicazione in chiave moderna dei dettami della fede cristiana ai problemi economici della sua epoca. Si tenne in costante contatto e scambio di idee con il cattolicesimo sociale europeo, rompendo l’isolamento del mondo cattolico italiano.
La vita
Nato a Treviso il 7 marzo 1845 da famiglia benestante (il padre ingegnere lavorava per le bonifiche), fu allievo di Fedele Lampertico e Angelo Messedaglia e si laureò a Padova in giurisprudenza nel 1867, rimanendo nella stessa Università come assistente fino al 1872, e quindi come incaricato di filosofia del diritto. Da sempre interessato alle questioni economiche, conseguì la libera docenza in economia politica nell’agosto del 1873, inaugurando il suo primo corso il 5 dicembre 1873 con una lezione dal titolo emblematico Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche. Dal 1874 al 1876 insegnò economia politica all’Istituto tecnico di Venezia. Nel 1878 venne nominato professore straordinario di economia politica a Modena, ma già nel gennaio 1879 si trasferì a Pisa, dove divenne ordinario nel 1882 e rimase a insegnare fino al 1917.
Nel 1878 sposò Maria Schiratti, dalla quale ebbe sette figli, tre dei quali morti in tenera età. Vicino all’ispirazione sociale dell’Opera dei congressi (OC, fondata nel 1874), fu l’amicizia con un suo dirigente, il conte bergamasco Stanislao Medolago Albani, a spingerlo a una partecipazione più attiva, con la fondazione nel 1889 dell’Unione cattolica per gli studi sociali, inizialmente pensata come indipendente dall’Opera dei congressi, ma poi in essa confluita per volere delle gerarchie ecclesiastiche. Al primo congresso dell’Unione tenutosi a Genova nel 1892, propose di creare una nuova rivista che vide la luce nel 1893 con il nome di «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» e con il programma di trattare approfonditamente tutte le questioni socioeconomiche a livello nazionale e internazionale da un’angolatura cattolica.
Le sue posizioni di apertura al nuovo lo portarono a rivisitare un’idea già circolata un secolo prima, ossia quella di democrazia cristiana, da lui definita come
ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori (Il concetto cristiano della democrazia, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1897, p. 325).
Le tensioni fra chi si riconosceva nel programma della Democrazia cristiana (soprattutto il giovane sacerdote Romolo Murri) e l’OC divennero molto forti, fino alla condanna papale della DC, che era arrivata ad abbracciare principi ‘modernisti’ inaccettabili dalla Chiesa (Zamagni 2011), e alla chiusura dell’OC (1904).
Toniolo si mantenne distante da tutti gli estremismi e venne incaricato, insieme a Medolago
Albani e Paolo Pericoli, di ricostituire il movimento cattolico, cosa che avvenne con la creazione (1906) di tre Unioni (popolare, economico-sociale ed elettorale). Toniolo fu per quattro anni presidente della seconda e lanciò nel 1907 le Settimane sociali dei cattolici italiani, pur mantenendo vivo l’interesse anche per il versante politico-elettorale del movimento cattolico, che vedrà in don Luigi Sturzo (già vicino alla prima Democrazia cristiana) il suo interprete con la fondazione del Partito popolare italiano. Toniolo continuò anche a mantenersi in contatto con colleghi stranieri, con i quali costituì varie istituzioni transnazionali. Fu tra i fondatori della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e contribuì all’organizzazione delle donne cattoliche d’Italia, compilando il primo statuto della loro Unione, che fu approvato da Pio X nel 1908. Si adoperò per la costituzione di un’università cattolica, che vide la luce dopo la sua morte. Dopo gli anni agitati della Democrazia cristiana, Toniolo con le Settimane sociali si concentrò sulla redazione del suo Trattato di economia sociale, in cui mirava a chiarire a tutto campo i legami dei principi etici con l’attività economica. Morì a Pisa il 7 ottobre 1918. Nel 1971 venne dichiarato Venerabile e il 29 aprile 2012 è stato beatificato.
Il rifiuto dell’homo oeconomicus
Il percorso intellettuale di Toniolo iniziò con un chiaro rifiuto dell’homo oeconomicus di tradizione anglosassone, sulla base della convinzione che l’agire economico deriva da «un fascio di forze componenti», tra cui «sentimenti ed idee», ponendosi sulle tracce del cattolicesimo liberale di Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti e Marco Minghetti e guardando con interesse alla scuola tedesca di Adolph Heinrich Gotthilf Wagner, Friedrich von Hermann, Gustav von Schmoller, Gustav von Schönberg, Heinrich Contzen, Hans von Scheel, Albert Eberhard Friedrich Schäffle, senza tuttavia appiattirsi sugli assunti di fondo della scuola storica tedesca che prediligeva lo Stato a scapito dell’individuo. Per andare alle radici della presenza cattolica in economia, negli anni giovanili precedenti al suo impegno nel movimento cattolico Toniolo redasse numerosi lavori di storia economica sulla Toscana medioevale, con l’obiettivo di mostrare come i principi e le pratiche del cattolicesimo avessero positive ricadute sul benessere dei popoli. Gli ordini democratici che emersero nella Toscana medioevale poggiavano sul rispetto della libertà personale ma anche sul riconoscimento delle libertà locali (autogoverno) e sulla libertà degli organismi intermedi (corporazioni, camere dei mercanti), in cui si armonizzavano e si contemperavano i principi di autorità e di solidarietà.
Con l’emergere del suo impegno diretto nel movimento cattolico, l’attenzione si spostò sulla critica al sistema economico capitalistico dominante, cercando una ‘terza via’ tra socialismo e liberalismo, ambedue ampiamente criticati nelle encicliche papali. In particolare, Toniolo considerava la scienza economica di stampo anglosassone fondata «sull’utilitarismo materialistico» (Trattato di economia sociale, a cura di F. Vito, 2° vol., 1949, p. 485), incapace di proporre soluzioni ai mali dell’industrialismo, perché
vedovata dell’aiuto dell’etica, pur sottigliando i teoremi di una metafisica dell’utile, continua a sperimentare e a confermare la sua impotenza a fornir criteri pratici per risanare que’ vizi sociali che essa stessa ha in gran parte generato (p. 48).
Toniolo arrivò a parlare di una vera e propria «bancarotta della scienza» economica, che si poteva contrastare solo puntando a una
scuola dell’economia etico-giuridica che può chiamarsi anche cristiana, in quanto riunisce la più compiuta esplicazione delle teorie utilitarie e della loro efficacia pratica nel cristianesimo dogmatico e storico (Trattato, cit., 1° vol., 1949, p. 10).
Questa «scuola etico-giuridica» secondo Toniolo, aveva una sua ragion d’essere in quanto cercava l’armonizzazione dell’utile individuale con il bene comune, proponendone un’originale integrazione (p. 11). La denuncia che Toniolo fa dell’impatto del capitalismo non potrebbe essere più radicale:
il sistema di Smith coi suoi logici svolgimenti componeva una teoria, la quale si dimostrava più che mai adatta: ad insinuare profondamente lo spirito di cupidigia materiale, specialmente nelle classi dominanti, abituando a considerare l’uomo come mezzo alla ricchezza e non viceversa […]; a sollevare in una concorrenza sfrenata e universale i potenti e a deprimere i deboli, incrementando così il capitalismo delle classi borghesi e diffondendo il salariato nella classe operaia; a favorire gli interessi cosmopolitici e di ricambio a sacrificare l’autonomia economica delle singole nazioni (Trattato, cit., 1° vol., 1949, pp. 238-39).
[...] gli Stati rinunziarono ad ogni azione positiva delle leggi per equilibrare gli interessi delle industrie nazionali. Fu il trionfo […] dell’individualismo idealista della fisiocrazia francese (laissez-faire, laissez passer), e di quello avaramente utilitarista degli inglesi […], i quali, fusi insieme nel più recente liberalismo europeo, implicavano la negazione in radice di ogni legislazione industriale (Trattato, cit., 3° vol., 1951, pp. 516-17).
È stato scritto che invano si cercherebbe in Toniolo, anche nei suoi scritti di età matura, una capacità teorica di contrapporre ai teoremi della scuola classica e neoclassica, da lui così radicalmente contestati per le loro implicazioni antropologiche e sociali, una sua robusta costruzione teorica alternativa.
Quando Toniolo si cimentò in un’esposizione sistematica della teoria economica, finì con il rifarsi ai più elementari schemi dell’analisi marginalista (Barucci 2009, p. 458), ma questo era dovuto, da un lato, a un suo più marcato interesse per la politica economica e, dall’altro lato, a una preparazione culturale che lo rendeva estraneo ai tecnicismi matematici dei modelli. Ma più alla
radice, era il fatto stesso di legare l’economia all’etica, alla sociologia e alla storia che gli rendeva del tutto impossibile il compito di utilizzare il rigore espositivo proprio degli economisti ‘puri’, mentre la missione che Toniolo si era dato non era quella di identificare nuove ‘leggi’ economiche, quanto di inscrivere quelle rinvenute dalla tradizione precedente in un contesto concettuale completamente diverso.
Ancora, è stato detto che il Toniolo teorico non ha avuto impatto sul dibattito economico né dell’epoca né successivo. Si sottovaluta, però, che la sua opera si colloca all’interno dei critici dell’economia classica e neoclassica, con notevoli punti di convergenza che vanno dal rifiuto della visione utilitaristico-individualista dell’agente economico alla storicità delle leggi economiche, dalla necessaria complementarità dell’economia con altre discipline sociali all’ordinamento dell’economia, scienza dei mezzi, ai fini che si vuole raggiungere.
Ma certamente il più significativo impatto del pensiero di Toniolo è da rinvenirsi in quel corpus di pensiero economico-sociale della Chiesa cattolica, noto come Dottrina sociale della Chiesa (DSC), che Toniolo contribuì grandemente a formulare a partire dalla stessa Rerum novarum. Scrive Riccardo Faucci: «Sotto questo profilo il controverso Toniolo ha lasciato una traccia ben più duratura nella società italiana di tanti economisti di lui più celebrati», perché ha convertito «i cattolici all’economia politica» (2000, p. 208), naturalmente un’economia politica resa compatibile con l’ispirazione cristiana.
Una della accuse di Toniolo al liberismo imperante all’epoca era di avere favorito l’atomizzazione della società, che si voleva formata da individui isolati, in cui inevitabilmente il più forte dominava. I piloni portanti del suo pensiero sono invece, da un lato, il ritorno alla responsabilizzazione dello Stato soprattutto nella regolamentazione dell’impatto sociale dell’industrialismo (con un particolare ruolo degli enti locali) e, dall’altro, il libero associazionismo dal basso, che aiuta i singoli a rappresentare e risolvere i loro problemi in un modo più efficace. Si potrebbe dire che Toniolo fu l’antesignano dei concetti di sussidiarietà verticale e orizzontale, che divennero tanto cari successivamente alla DSC.
Sottostante a tutto, sta l’importanza che Toniolo assegna alla religione cattolica in quanto capace di ispirare comportamenti coerenti con un uso corretto della ricchezza e con quella ‘socialità’ che l’individuo vive nella famiglia e in qualunque forma di lavoro. Riportare la dimensione religiosa a essere significativa per le attività economiche, che ormai venivano ritenute non solo autonome, ma del tutto separate da qualsiasi fondamento etico, implicò una notevole libertà intellettuale, non solo nei confronti del mondo ‘laico’, ma anche di quello cattolico, il quale tendeva a sottovalutare l’importanza di una trasmissione delle verità cristiane in campo economico attraverso lo studio accurato del corpus di dottrine economiche esistenti e la loro critica.
Il riformismo sociale
Sul piano delle proposte di politica economica, Toniolo portò avanti un suo programma innovativo. Già il documento da lui presentato all’assemblea dell’Unione del gennaio 1894 (Programma dei cattolici di fronte al socialismo) rappresentava un superamento del «socialismo cristiano» che circolava all’epoca e che Toniolo rifiutava, perché basato su una concezione dello Stato di stampo hegeliano, «che confisca regolarmente e dirige con mezzi coercitivi l’operosità di tutti nell’adempimento di un ordine sociale stabilito a priori dalla mente dei politici» (Trattato, cit., 2° vol., 1949, p. 401). Per le campagne, dove i contadini erano marginalizzati e sfruttati, Toniolo proponeva la diffusione della piccola proprietà e la ricomposizione di una parte dei patrimoni collettivi di enti, opere pie, corporazioni religiose, comuni, provincie, da sfruttare a beneficio del popolo. Per le città, rilanciava la proposta della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda con l’abolizione del salariato, propugnando una visione dei rapporti all’interno dell’impresa che, incompresa all’epoca, si rivela oggi di grande modernità. Si legga a questo proposito un passo del documento:
Nella proprietà industriale e nelle sue imprese urge ricongiungere direttamente il capitalista sovventore all’imprenditore-industriale e poi l’imprenditore agli operai. E pertanto: - trasformare il capitalista che presta all’industriale in un socio d’industria che con lui condivida i rischi dell’impresa […] restringendo così il premio dei semplici capitalisti mutuanti; - similmente restringere la classe precaria e misera del semplice salariato, e perciò concedere all’operaio una parte di codesta remunerazione piuttosto che in forma fissa, sotto la forma di partecipazione agli utili; e ulteriormente elevare l’operaio stesso alla compartecipazione del capitale dell’impresa, mediante l’impiego del risparmio in azioni nominative dell’impresa stessa («Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1894, p. 171).
La forma cooperativa di impresa che mantiene la proprietà privata, ma ne pratica al meglio la funzione sociale, veniva posta in grande risalto (Toniolo fu anche uno dei promotori della Latteria cooperativa di Soligo nel 1883). La costituzione di sindacati cattolici anche di soli operai veniva ammessa nei casi in cui null’altro si potesse fare, benché, per timore della lotta di classe che da cristiano aborriva, Toniolo preferisse idealmente le «unioni professionali», che univano soggetti operanti nello stesso settore produttivo, sul modello delle corporazioni medioevali, con compiti non solo economici, senza però illudersi che la loro attuazione potesse essere realistica. Nell’articolo Il compito economico più urgente dell’avvenire («Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1900, p. 348), Toniolo scrive che, oltre al patronato cristiano, era urgente realizzare il «fraternato cristiano, che il proletariato rialza ed educa a fare da sé, pareggiandolo fraternamente nell’indipendenza», in ciò dimostrando di comprendere il valore anche etico-politico dei sindacati.
Toniolo affrontò anche il problema del credito, appoggiando la nascita di istituti di credito cattolici, fossero essi cooperativi o sotto forma di società per azioni, per contrastare l’usura e anche lo scivolamento della finanza a strumento di arricchimento piuttosto che di servizio all’attività produttiva. Nel Programma del 1894 si leggeva a questo proposito:
Nel giro complesso e vertiginoso della vita commerciale è d’uopo premunirsi contro il monopolio del credito a profitto di pochi speculatori e colla comune servitù. E perciò urge riprodurre nelle forme ammodernate la repressione legale delle usure, sottoporre le borse ad una legge severa
sopra le sue operazioni, e della dispensazione del credito mediante le banche di emissione fare una funzione sociale non affidata a società di speculatori, bensì ad un istituto autonomo con patrimonio impersonale da amministrarsi con intenti di pubblica utilità («Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1894, p. 171).
Lo sguardo di Toniolo si sollevò successivamente anche sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, a cui chiedeva in primo luogo una maggiore perequazione fiscale e la tutela dei contratti di lavoro, mentre era a favore dell’esercizio di nuove responsabilità da parte delle amministrazioni locali (si pensi all’istruzione tecnica e al municipalismo), che vedeva destinate a rompere il centralismo burocratico dello Stato nazionale.
Di particolare interesse la posizione di Toniolo sul contratto di lavoro, che non veniva in sé criticato, ma doveva essere opportunamente regolamentato. «La parte di mercede che risponde ai fini necessari all’esistenza del lavoratore probo e onesto non può diminuirsi per alcun patto contrattuale», scriveva nell’articolo su La riforma del contratto di lavoro («Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1901, 302), sostenendo che i contratti di lavoro collettivi erano la grande innovazione destinata a sostituire la libertà e la giustizia degli accordi al posto della violenza e della lotta di classe. Il contratto non doveva riguardare solo il salario, ma le condizioni di lavoro e di vita del lavoratore, una questione su cui Toniolo tornò più volte anche in seguito e che all’epoca era fortemente innovativa.
Gli stretti legami di Toniolo con il cattolicesimo sociale europeo vengono testimoniati dalle numerose iniziative congiunte portate avanti, che trovavano eco sulle pagine della «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», dove già nel 1902 Toniolo ebbe a scrivere:
Non vi ha una delle teorie sociali dei cattolici la quale, mercè il loro apostolato, non siasi tradotta in tutta Europa in istituzioni di ogni specie, dalla più umile bancherella alle potenti federazioni di sindacati o di corporazioni; ed anche in multiformi provvedimenti legislativi e politici dovuti alle iniziative dei cattolici nei parlamenti. Essi trionfarono in Germania con la vigorosa azione del Centro (quando ancora il socialismo osteggiava le riforme per mezzo dello Stato); in Belgio con la sistematica legislazione del suo governo; in Francia con le iniziative dei suoi deputati cattolici; e in Italia stessa, coi provvedimenti sociali dei Comuni, ove essi primi ne trattarono fra noi con giustezza di criteri scientifici e pratici (Lo sviluppo del cattolicismo sociale dopo l’enciclica “Rerum Novarum”, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 1902, pp. 8-9).
Si può ben dire che il welfare State europeo nacque prevalentemente dal cattolicesimo sociale, di cui Toniolo fu uno dei più illustri esponenti, piuttosto che dalla socialdemocrazia (si veda su questo Zamagni 2010).
Opere
Tutti gli scritti di Toniolo sono stati raccolti in 20 volumi di Opera omnia, editi da un apposito Comitato, Città del Vaticano, 1947-1952. Il Trattato di economia sociale si trova insieme agli altri saggi economici nella serie II, costituita da cinque volumi, con prefazione di Francesco Vito. Le citazioni del testo provengono dalle pagine di questa edizione.

Due protagonisti del laicato cattolico
Bartolo Longo e Giuseppe Toniolo: a centodieci anni dal loro incontro a Pompei

Toniolo e Longo operarono con forme e approcci diversi nel panorama sociale e religioso del loro tempo. Il loro impegno fu ispirato alla fede e dalla fede, contribuendo alla promozione della dignità umana nell’ambito di una società che doveva coniugare armonicamente i valori dello spirito e quelli dell’esistenza quotidiana.
Il 28 maggio 2003, tavola rotonda in occasione del 110° anniversario dell’incontro tra Bartolo Longo e Giuseppe Toniolo. Un incontro felice e provvidenziale tra due laici che hanno inciso positivamente nella storia sociale e religiosa del nostro Paese.
L’intreccio di questo rapporto non è forse noto a tutti, ma non è certamente sfuggito al nostro Arcivescovo, Mons. Domenico Sorrentino, un vero e apprezzato specialista di Giuseppe Toniolo, sovente invitato come relatore nei convegni organizzati dalle diverse sedi universitarie e brillante autore di testi tra cui "L’economista di Dio, Giuseppe Toniolo", pubblicato dall’AVE.

Un personaggio di primo piano

Quest’articolo non ha altro scopo se non quello di avviare i nostri lettori ad una iniziale conoscenza di un personaggio di primo piano nella storia del cattolicesimo sociale e alla comprensione dei motivi che portarono Bartolo Longo e Toniolo ad incontrarsi. Si tratterrà, allora di accostare queste due figure, le quali seppure diversamente proiettate nel panorama sociale e religioso del loro tempo, si presentano ambedue animati ed impegnati dai loro ideali cristiani.
Conoscere il percorso di Toniolo diventa, quindi, essenziale per comprendere il significato stesso di questi loro contatti, rispetto al pensiero e all’azione che ciascuno di loro svolse. Entrambi, pensiero ed azione, furono ispirati alla fede e dalla fede, rivolti all’affermazione della dignità dell’uomo e nell’ambito di una società giusta ed organizzata, nella quale fossero coniugati armonicamente i valori dello spirito e quelli dell’esistenza quotidiana.
Gli anni della sua formazione sono legati inizialmente alla famiglia, per passare, poi, al collegio di Venezia e all’Università di Padova fino alla cattedra di economia politica a Modena e poi a Pisa.
Vicino all’attività di scienziato, Toniolo affianca l’impegno del movimento cattolico, dall’Opera dei Congressi, all’Unione Popolare, alle settimane sociali, al progetto dell’Università cattolica. La sua dimensione religiosa è costantemente alimentata dal Vangelo e vissuta con altrettanta forza e ciò spiega quel suo persistente pensare da scienziato alle esigenze dei più.
Il prof. Carlo Carini dell’Università di Perugia a tal riguardo afferma: "Convinto dell’utilità di un confronto a livello internazionale, aveva una mentalità scientifica che lo spingeva a considerare la società come un terreno di sperimentazione e di applicazione di dottrine politiche e religiose… La sua idea di democrazia sociale si articolava in una duplice proposta: creazione di una piccola proprietà contadina e possibilità per lavoratori di partecipare agli utili delle aziende; ma il riscatto delle classi subalterne passava anche attraverso la limitazione dell’orario del lavoro, la tutela delle donne e dei fanciulli, il riposo festivo, riforme, insomma, che avrebbero dovuto incidere sulla qualità della vita quotidiana, decisiva per edificare una democrazia fondata su valori cattolici… Un assetto complesso della società intesa come fattore di giustizia e di sintesi fra ordine interiore e ordine esteriore… per comporre in modo non contradditorio aspirazioni etiche dell’individuo ed esigenze materiali della vita associata. (C. Carini, rec. a Domenico Sorrentino, L’economista di Dio, Giuseppe Toniolo; Roma, Editrice AVE, 2001, in "Il Pensiero Politico", XXXV, 2002, pag. 133).
Mentre Giuseppe Toniolo dedicava le sue energie a tali problematiche, offrendo soluzioni, che ancora oggi costituiscono materia di studio e di confronto, Bartolo Longo operava a Pompei.

La carità educatrice

Siamo, così, al 28 Maggio del 1893, primo anniversario della "Istituzione a pro dei figli dei carcerati" in Valle di Pompei. Per quella celebrazione Bartolo Longo aveva invitato Giuseppe Toniolo, che aveva accettato e comunicato il tema che avrebbe trattato: Pisa 9 febbraio, Ill.mo sig. Avvocato! Oh! È doveroso e santo questo omaggio della scienza alla Vergine Benedetta. Non posso resistere dal presentarmi umilmente come l’ultimo fra gli invitati… Parlerò, fra tanti invitati, della necessità di promuovere una Storia della Carità in Italia. Mi sarebbe, però grato di ricevere da V.S. un cenno che mi assicuri della benevola accettazione del mio proposito… Raccomando a lei, alla Contessa, alle Orfanelle e bimbi ricoverati me, i miei… per una preghiera alla Madre del Rosario, dev.mo prof. Giuseppe Toniolo della Università di Pisa".
A tale missiva Bartolo Longo rispondeva il 18 Febbraio: "Ill.mo Professore, la sua lettera, con la quale ella consente di onorare sua presenza l’adunanza del prossimo maggio, mi ha dato ragione di incoraggiamento e di letizia. È bellissimo e utilissimo il tema da lei scelto e sul quale parlerà…".
La scelta dell’argomento si presentava, infatti, molto aderente al disegno formulato da Bartolo Longo, il quale aveva in quel momento già consolidato il suo primo intervento spirituale e materiale dell’ambiente pompeiano, scegliendo, come campo privilegiato l’accoglienza degli orfani della legge, nella sua istituzione educativa e formativa.
Toniolo, nel suo intervento, ripercorrendo la formulazione del concetto di carità, nella sua evoluzione storica, affermerà che essa è l’essenza della stessa civiltà e collegherà la giustizia alla carità: la prima come fondamento del vivere associato civile, la seconda come il suo perfezionamento. Questo collegamento progredisce con lo sviluppo del pensiero etico-sociale e religioso e con quello dell’economia, in un’alternanza continua e sempre più interagente, secondo le diverse visioni politiche, le riforme che si succedono nelle loro luci e nelle loro ombre risentono, comunque, dello sforzo di interpretare i bisogni materiali, tenendo conto delle spinte interiori, che regolano la quotidianità. L’Italia è un testimone secolare ed eloquente del rapporto fra "incivilimento e carità: da noi la carità fu sempre religiosa nella fonte sociale, nelle sue applicazioni, educativa nei suoi risultati… Ed ora Bartolo Longo in Valle di Pompei estende la pietà verso gli ospiti o i liberati del carcere con materna sollecitudine di figli dei carcerati stessi e così compie la serie delle tradizionali provvidenze che in questa, come in ogni altra applicazione della carità si informano ad un alto concetto educativo.

(dal Discorso di Toniolo).

Evidente il richiamo alla "carità educatrice", per eccellenza, fattore del progresso spirituale della nazione.
Bartolo Longo, nel suo intervento introduttivo di quel giorno aveva anticipato il valore che nella sua istituzione assumeva la carità, come essa fosse considerata un mezzo diretto per agevolare la vita morale e materiale della società; come l’intervento educativo precoce ed i risultati ottenuti mettessero in essere i principi della Scienza Sociale e cioè prevenire i delitti – restringere il numero dei delinquenti – rassicurare l’ordine pubblico – a favorire il benessere della classe povera ed abietta".
Così come altri punti di contatto si ritrovano con il Toniolo docente universitario: nel suo regolamento di vita, infatti, egli stabilisce di aver massima sollecitudine dei suoi discepoli, di trattarli come "sacro deposito, come amici del suo cuore da dirigere nelle vie del Signore. Sul suo sarcofago si leggono due scritte emblematiche: "Annuntiavi iustitiam in ecclesia magna", "Iuventuti lumen populi levamen"; gioventù e popolo rappresentano la sintesi del suo coniugare da laico virtuoso, fede personale e senso della Chiesa, proiettati verso il mondo.

L’impegno per la pace

Del Beato Bartolo Longo e di Giuseppe Toniolo possiamo anche richiamare alla mente la profonda aspirazione a dare un contributo significativo all’assetto dei rapporti internazionali in funzione di una pace stabile. Giuseppe Toniolo esprime questa sua aspirazione direttamente a Benedetto XV, nel giugno 1917, mentre si combatteva la grande guerra. Invitandolo a riflettere sulla necessità di un istituto cattolico storico-sociale e di diritto internazionale capace di interpretare, comporre e codificare le aspirazioni dei popoli attraverso la loro stessa storia, alla luce delle loro civiltà.
Un’iniziativa che potrebbe essere riconsiderata e ripresa, oggi, in un momento storico come quello che le società stanno vivendo di fronte alle problematiche connesse alla "globalizzazione" con un diritto internazionale pieno di sfide e fratture molto profonde, sul piano dei diritti umani.
Sulla stessa direttiva della pace, anche se con mezzi e linguaggio diversi, si era mosso Bartolo Longo quando aveva coinvolto, credenti e non credenti, per innalzare, con la facciata del tempio di Pompei un monumento mondiale alla pace.
Toniolo e Longo sono due chiarissimi esempi di laicato cattolico, la cui attualità è davvero disarmante. La loro testimonianza di vita e il loro contributo intellettuale sono tali che quanti, ai nostri giorni, si muovono con intenti simili, non possono prescindere, anche se in forma rinnovata, dalla loro magistrale lezione.
(Autore: Luigi Leone)


*Leonardo Murialdo  

Biografia in cifre
1828 - Il 26 ottobre, Leonardo Murialdo nasce a Torino. Il giorno successivo riceve il battesimo nella chiesa parrocchiale di san Dalmazzo. È l'ottavo figlio dell'agente di cambio Leonardo e di Teresa Rho. Lo hanno preceduto le sorelle Olimpia, Aurelia, Diomira, Emilia, Clementina, morta in tenerissima età, Domitilla e il fratello Ernesto. Nel 1830 nascerà l'ultima sorella Delfina.
Grazie anche alle amicizie della famiglia con sacerdoti impegnati e operanti nell'apostolato, respira il clima del tempo: difficoltà crescenti della Chiesa, della società civile, della vita politica; crisi economica, miseria della gente.
1833 - Il 15 giugno muore il padre.
1836 - Il 27 ottobre Leonardo ed il fratello maggiore Ernesto entrano nel collegio degli Scolopi a Savona. Tra i padri Scolopi (dove compie, tra il 1836 e il 1843, il corso elementare, le scuole medie e iniziò il corso superiore) trova
- educatori preparati, culturalmente aperti, socialmente e politicamente impegnati,
- un clima di religiosità fondato su una seria catechesi,
- pratiche di pietà regolari anche se  in linea con il tempo  non molto nutrite di sacramenti.
Citato a modello dai superiori, ma osteggiato da alcuni compagni  caporioni, vive in età puberale una forte crisi, vero dramma psicologico - morale - religioso, che lo turba nel profondo della personalità e della coscienza.
Arriva infatti ad una consapevole scelta di male, benché capisca che essa è contraria alla educazione ricevuta e alla sua stessa personalità, e come tale dolorosamente sentita e sofferta.
- Il dramma vissuto con angoscia,
- il susseguente anticipato ritorno in famiglia,
- la liberatoria confessione generale
- l'impensata vocazione allo stato sacerdotale (1844) gli fanno scoprire e sperimentare Dio come Amore personale: la conversione.
1843 - I due fratelli ritornano a Torino, anche se a Leonardo mancherebbe un anno per finire gli studi. Egli preferisce però cambiare ambiente, per superare una crisi di carattere psicologico e morale che lo ha portato ad un grave affievolimento nella vita spirituale. A Torino Leonardo frequenta il biennio di filosofia. Sente così il bisogno di rispondere personalmente a questo amore, e ritrova in tal modo la coerenza con il suo temperamento e l'educazione ricevuta.
1845 - Maturata la decisione di farsi sacerdote, egli si iscrive alla facoltà teologica dell'università.
1849 - Il 9 luglio muore la madre.
1850 - Si laurea in teologia. Probabilmente già a quest'epoca inizia a lavorare nell'oratorio dell'Angelo Custode, in Borgo Vanchiglia. E il primo oratorio sorto a Torino: lo ha fondato don Giovanni Cocchi nel 1840.
1851 - Il 20 settembre è ordinato sacerdote. Continua la sua attività di catechista e di assistente all'Oratorio dell'Angelo Custode, diretto da suo cugino, il teologo Roberto Murialdo. La collaborazione col cugino porta Leonardo ad entrare in molteplici iniziative a favore della gioventù abbandonata della periferia torinese: giovani spazzacamini, carcerati, garzoni di bottega, ragazzi di strada ...
1852 - Inizia il ministero pastorale presso il Convitto delle Suore Fedeli Compagne di Gesù in Torino.
1857 - Su richiesta di Don Bosco, accetta la direzione dell'oratorio San Luigi presso la stazione ferroviaria di Porta Nuova: catechesi, scuola, attività ricreative sono gli assi portanti del suo metodo educativo in oratorio. 14 anni di periferia segnano profondamente il suo spirito: conosce i poveri, diventano i suoi formatori, legge la volontà di Dio nei suoi riguardi su di essi: apostolato negli oratori, insegnamento della religione, predicazione (a ragazzi/e degli istituti cittadini, ai fedeli nelle parrocchie e chiese della città e diocesi), iniziative varie (carceri, ospedali, visite familiari).
A cominciare probabilmente dal 1861, vive con il fratello Ernesto avvocato, sposato e padre di due vivaci e affettuosi figlioletti.
1865 - Il 28 settembre parte per Parigi, ove si fermerà un intero anno scolastico, alunno del Seminario di San Sulpizio. Approfondisce i suoi studi, soprattutto nel campo della teologia morale e del diritto canonico.  Ha modo di conoscere le attività educative e sociali dei cattolici francesi.
1866 - Tra agosto e settembre soggiorna per quasi un mese in Inghilterra. Rientrato a Torino, accetta la direzione del Collegio Artigianelli, fondato nel 1849 da don Cocchi per l'accoglienza e la formazione umana, cristiana e professionale dei ragazzi poveri e abbandonati.  Tra gravi difficoltà economiche, sarà questa la sua principale incombenza fino alla morte.
1867 - Il 24 marzo, tra gli educatori che collaborano con lui al Collegio Artigianelli il Murialdo dà inizio alla Confraternita di San Giuseppe, già progettata dal precedente rettore, il can.  Pier Luigi Berizzi.  Si tratta del primo passo verso la fondazione della futura congregazione.
1870 - Assume la direzione ecclesiastica dell'Oratorio San Martino, anch'esso fondato da don Cocchi e dipendente dal Collegio Artigianelli. Proprio attraverso le molteplici attività caritative e sociali del San Martino, il Murialdo entra in una fitta rete di attività che lo mettono in contatto con i laici più impegnati e sensibili della Torino di allora.
1871 - È tra coloro che danno l'avvio alle biblioteche popolari cattoliche. Nello stesso anno nasce a Torino l'Unione degli Operai Cattolici. Fin dall'inizio il Murialdo prende parte alle sue riunioni e alle sue attività. In seguito l'associazione si denominerà Unione Operaia Cattolica ed il Murialdo diventerà membro del Comitato promotore, del quale sarà per lunghi anni (fino al 1891) assistente o vice assistente, ecclesiastico.
1872 - Dall'8 maggio al 4 luglio compie un lungo viaggio attraverso l'Italia centro meridionale allo scopo di visitare istituzioni educative ed assistenziali. Dal 24 agosto all'8 settembre si reca in Francia. Partecipa al congresso dei cattolici francesi, visita istituzioni educative, stringe contatti con istituti religiosi, soprattutto i Frères de St. Joseph di Citeaux, congregazione alla quale egli si ispira, tra le altre, in vista della fondazione di un suo istituto religioso a Torino.
1873 - Il 19 marzo, con il sostegno di alcuni collaboratori (principalmente don Eugenio Reffo e don Giulio Costantino), fonda la Congregazione di San Giuseppe. Il fine apostolico è l'educazione della gioventù specialmente di quella povera e abbandonata. Nel frattempo egli continua nell'impegno del miglioramento qualitativo della formazione professionale del Collegio Artigianelli, potenziando i laboratori ed aumentandone il numero.
1874 - Dall'8 agosto al 3 settembre si reca in Francia, ove partecipa, tra l'altro, al congresso dei cattolici francesi a Lione. Intensifica e approfondisce il suo impegno nelle associazioni laicali: Unione Operai Cattolici, Opera dei Congressi, specialmente nel campo della formazione professionale dei giovani e della buona stampa.
1875 - Dal 22 agosto al 6 settembre è di nuovo in Francia: partecipa al congresso di Reims e visita parecchie istituzioni educative. Dal 22 al 26 settembre interviene al secondo congresso cattolico italiano che si svolge a Firenze.
1876 - In giugno è tra coloro che collaborano alla nascita di un mensile (Unioni Operaie Cattoliche) che si trasformerà poi ne La Voce dell'Operaio, quindicinale dal 1887 e settimanale dal 1895. Dal 19 agosto al 6 settembre compie un altro viaggio in Francia per assistere al congresso di Bordeaux e per visitare varie opere educative, specialmente colonie agricole. Entra nel Comitato regionale piemontese dell'Opera dei Congressi. In seguito (1885-1891) egli sarà membro del Comitato permanente nazionale.
1878 - Il 16 maggio apre la Colonia Agricola di Rivoli, un istituto per la formazione agraria dei giovani. Il 15 luglio dà inizio alla Casa Famiglia per giovani operai, per assicurare ospitalità a coloro che, terminata la formazione presso il Collegio Artigianelli, si trovano ad avere un lavoro ma nessun appoggio familiare in Torino. Dal 22 agosto al 20 settembre percorre la Francia, il Belgio, e l'Inghilterra alla ricerca di sempre nuovi confronti per migliorare le sue istituzioni.
1879 - In Francia partecipa al Congresso di Angers e visita, come al solito, vari collegi, scuole, orfanotrofi, colonie agricole (29 agosto - 18 settembre).
1880 - Il I febbraio apre a Rivoli Torinese l'oratorio del Sacro Cuore. In settembre partecipa al secondo Congresso cattolico piemontese nel Santuario di Vicoforte, presso Mondovì, durante il quale tiene un'importante relazione sulle opere per la gioventù.
1881 - Il 21 maggio dà inizio all'istituto San Giuseppe di Volvera, con l'obiettivo di curare l'educazione dei giovani che desiderano scegliere la vita sacerdotale e religiosa all'interno della Congregazione di San Giuseppe. Il 15 ottobre è invece la data di apertura, nella Colonia agricola di Rivoli, del primo noviziato della Congregazione. Dal 15 al 31 ottobre si reca in Francia e partecipa al Congresso cattolico di Le Mans. A Torino apre una Casa Famiglia per gli studenti, nella stessa sede di quella per gli operai. L’Associazione di carità, alla quale fanno capo le opere assistenziali in cui il Murialdo e la sua congregazione lavorano, ha ormai un ampio spettro d'azione: Collegio Artigianelli, Riformatorio di Bosco Marengo (in provincia di Alessandria, chiuso nel 1883), Colonia Agricola di Rivoli, Casa Famiglia per operai, Casa Famiglia per studenti, Istituto S. Giuseppe di Volvera.
1883 - In febbraio fonda l'associazione per la diffusione della Buona Stampa, con lo scopo di promuovere pubblicazioni e giornali di spirito cristiano, oltre che di accrescere il numero delle «biblioteche circolanti» (cioè delle biblioteche aperte al pubblico). L’8 agosto accompagna i primi Giuseppini al Patronato Pio IX di Venezia. È il primo passo «stabile» della congregazione fuori del Piemonte e indipendente dall' Associazione di Carità. Dal 10 al 14 ottobre il Murialdo partecipa al Congresso cattolico di Napoli, nel quale svolge un ruolo di primo piano nella commissione che si occupa della stampa cattolica.
1884 - Il Comitato permanente nazionale dell'Opera dei Congressi è orientato a costituire a Torino, sotto la guida del Murialdo, la Sezione Stampa. Ma il 31 dicembre il Murialdo è colpito da una grave polmonite, la prima di una lunga serie di malattie che lo costringeranno a ridurre notevolmente la sua presenza nel movimento cattolico italiano e piemontese. Il progetto della Sezione Stampa non può andare in porto. Colpito da gravissimo attacco di broncopolmonite (1885), e successive ricadute, restringe gradualmente il campo del suo impegno apostolico diretto, si dedica prevalentemente alle cure e sviluppo della congregazione da lui fondata e diretta fino alla morte.
1889 - Il 1 ottobre apre il Patronato Sacra Famiglia ad Oderzo (Treviso).
1890 - Il 30 settembre dà inizio al Patronato Leone XIII di Vicenza.
1891 - Il 14 novembre accetta, a nome della congregazione, la direzione del Patronato San Giuseppe di Bassano. Alla fine dell'anno il Murialdo si ritira da ogni incarico ufficiale nel movimento cattolico.
1894 - Il 2 aprile dà inizio ad un orfanotrofio e all'Oratorio festivo San Giuseppe di Rovereto (Trento).
1897 - Il 13 giugno apre un altro oratorio a Correggio (Reggio Emilia).
1899 - Il 18 marzo i Giuseppini entrano nel Collegio Sacro Cuore di Modena.  Il 17 dicembre un confratello di Modena comincia a recarsi ogni festa a Carpi per tenervi aperto l'oratorio. È l'ultima opera fondata dal Murialdo.
1900 - Muore il 30 marzo, a Torino.
1970 - Il 3 maggio è dichiarato «Santo» da Paolo VI.
Spiritualità di San Leonardo Murialdo 
San Leonardo Murialdo crede in Dio - Amore! Lo crede con tutta la mente e tutto il cuore per
averne fatto un'esperienza personale, approfondita nella preghiera. Se Dio è "Colui che ama me", e mi ama in modo gratuito, personale, attuale, infinito, misericordioso, allora anch'io devo amare così.
La vita, la mia vita ha questo solo scopo! La sua fede in Dio-Amore si colora di fiducia nella Provvidenza: una fiducia assoluta e filiale. Lasciamoci amare da Lui, lasciamo che Lui disponga della nostra vita come vuole! Accanto a questo, il Murialdo ha la convinzione, profonda, sofferta, ma gradualmente sempre più serena, dei suoi limiti, della propria miseria.
Sa aspettare, non forzare le mosse della Provvidenza. Una volta capito il progetto di Dio, alla sua realizzazione impegna tutte le proprie energie e capacità, con entusiasmo. Le devozioni all'Eucaristia, alla Passione del Signore e al Sacro Cuore, viste come segni dell'amore misericordioso di Dio, sostengono il suo cammino di santità. Nella Vergine Maria, da lui invocata come mediatrice di grazia e madre della misericordia, San Leonardo trova una madre tenera e generosa, continuamente presente nella sua vita con la sua potente intercessione.
La Spiritualità in 12 frasi
1. Dio mi ama. E' vero! Dio mi ama. Che gioia! Che consolazione! Dio mi ama di amore eterno. personale, gratuito, infinito e misericordioso. Dio mi ama.
Egli non si dimentica mai, mi segue e mi guida sempre. Lasciamoci amare da Dio!
2. I tre miracoli dell'amore di Dio Il Presepio con Gesù bambino: egli ci insegna umiltà, povertà, rassegnazione. Il Calvario con Gesù crocifisso: è cattedra che insegna le grandi verità dell'amore di Dio per gli uomini e dell'amore degli uomini per Dio.
L'Eucarestia con Gesù sacramento: è la perfezione dell'amore; Gesù viene a noi, ci ama, si unisce a noi.
3. Amare Dio è felicità! Decidiamo di essere veramente amanti, ma teneri amanti, generosi amanti.
Amare Dio significa fare, sempre e lietamente, quello che lui vuole e come lo vuole perché la sua volontà è l'unico, l'unicissimo nostro bene.
4. Amare Dio comporta avere un pieno abbandono e un'immensa fiducia nella sua Provvidenza che fa tutto bene per noi. Lasciamo fare a Dio!
Egli ci vuole più bene di quanto non ce ne vogliamo noi, e la nostra vita sta meglio nelle sue mani che nelle nostre.
5. Gesù è il nostro modello: pensare, sentire, giudicare come lui. Lo spirito di Gesù è spirito di amore del Padre, di umiltà e di preghiera; è zelo per la gloria di Dio e il bene del prossimo; è carità operativa.
6. La preghiera è l'anima e la forza dell'uomo.
Sia fatta con umiltà, confidenza, perseveranza. Non basta, però, pregare, bisogna pregare bene, cioè con ilcuore.
7. L'umiltà è la base e il principio della conversione. I nostri difetti non ci avviliscano, ma servano a santificarci. Non dobbiamo stupirci, anzi dobbiamo ringraziare Dio per non aver fatto peggio.
Dio, infinitamente buono e infinitamente misericordioso, è sempre disposto a perdonarci e ad accoglierci. E' padre!
8. Carità è guardare e dire il bello di ognuno, perdonare di cuore, avere serenità di volto, affabilità, dolcezza. Come senza fede non si piace a Dio, così senza dolcezza non si piace al prossimo.
9. L'amore di Dio generi lo zelo per la salvezza dei fratelli. Operiamo non da filantropi o da sociologi, ma da apostoli per diffondere il regno di Cristo sulla terra.
Animiamoci a fare molto e soprattutto a fare bene agendo in unità di azione e di amicizia.
10. Maria, Madre nostra, è la più amante, la più affettuosa delle madri. E' madre di Dio, quindi ottiene tutto. E' madre nostra, quindi ci nega niente.
E' madre di misericordia: gettiamoci nelle sue braccia.
11. San Giuseppe, l'umile artigiano di Nazaret, ci insegna come tener compagnia a Gesù: come amarlo, pregarlo, servirlo.
12. Amiamo la Chiesa, nostra tenera madre, con amore fervido ed operativo.
Bisogna sentire, soffrire, operare con la Chiesa.
Obbediamo ed amiamo il papa perché è vicario di Gesù Cristo, è nostro padre, è nostro maestro. L'amore del papa è la tessera del vero cattolico.
Il Murialdo e la Madonna di Pompei
Il Murialdo nella preghiera del Santo Rosario trovò pace e luce per il suo apostolato a favore degli umili e dei poveri e tanto vicino si sentì in questa attività al Beato Bartolo Longo da cui ebbe stima e incitamenti, ora splende nel pronao del Santuario con una statua in marmo di Carrara, opera egregia del Prof. Domenico Ponzi di Roma.
San Leonardo Murialdo nutriva per la Madonna una singolare devozione e con quale fervore recitasse il Santo Rosario e raccomandasse tale preghiera, nelle sue conferenze e nelle conversazioni.
Quando il Beato Bartolo Longo iniziò la sua Opera, il Murialdo ne fu entusiasta e da Ala di Stura. Al suo massimo collaboratore D. Eugenio Reffo, scriveva: "… In quanto alla devozione di Pompei in Collegio (degli Artigianelli in Torino), non si tratta di cosa nuova, dal momento che si pratica già la devozione del Rosario, comandato dal Papa, e si fa il mese di ottobre: non si tratta che di mettere anche un quadro". E per infervorare i suoi giovani, veniva così esposto un grande quadro della Madonna di Pompei.
Nell’archivio della Casa Generalizia dei Padri Giuseppini, è conservato il Libro-Mastro del Collegio Artigianelli intestato con il titolo: "La Croce del Murialdo": la sua croce erano i debiti. Aveva assunto la direzione del Collegio, quando le condizioni economiche erano già disperate: ed egli si era fatto così, povero con i poveri, condividendo con loro il poco pane quotidiano. Ciò che lo sostenne in tanti anni di tribolazioni, fu un’immensa fiducia nella Provvidenza e nell’intercessione di Maria. Vi fu un momento che egli pensò di vendere quelle poche Opere che aveva aperte e che costituivano il primo passo della nascente Congregazione, distinta dall’Associazione di Carità, da cui dipendeva il Collegio degli Artigianelli.
Scriveva così al Canonico Fresia, membro dell’amministrazione, il 13 novembre 1888: "Per l’avvenire domandiamo lume a Dio se vuol proprio che chiudiamo e la Colonia e la Casa Famiglia e
il Collegio di Volvera. Dico questo, non perché io dubiti se Dio possa aiutarci, ma se Dio voglia questo per i suoi giustissimi motivi. Del resto ricordo quanto diceva P. Anglesio, successore di S. Giuseppe Cottolengo nella Piccola Casa della Divina Provvidenza in Torino: "Quando non c’è più speranza umanamente parlando, allora interviene la Provvidenza. Naturalmente purché si preghi; ed è ciò che facciamo e specialmente faremo con l’intercessione della Madonna di Pompei. Regina Sacratissimi Rosarii, ora pro nobis. Omnia ad maiorem Dei gloriam".
Da questo, come da altri scritti, possiamo vedere quanto spesso egli ricorresse alla Madonna di Pompei.
Dieci anni dopo, raccomanda ancora alla Madonna di Pompei l’esito per la vendita della Casa Famiglia ed aggiunge: "Ho veduto l’articolo della nipote nel periodico del Rosario di Pompei. Speriamo che un giorno possiamo pubblicarne uno anche noi di ringraziamento per un po’ di pioggia d’oro".
Ogni anno era solito fare i 15 sabati della Madonna di Pompei: ne abbiamo una testimonianza in una lettera scritta al succitato canonico, nel giorno di S. Antonio del 1891.
Nella sua camera in uno scaffaletto vicino al lavabo, custodiva gelosamente alcune ampolline di acqua di Pompei che usava con tanta fede, nei momenti di maggiore bisogno.
Nel 1890 si ammalò gravemente di polmonite il fratello Ernesto: In tale circostanza ecco come scrisse D. Reffo: "Mio fratello non migliora. Per guarire ci vorrebbe una grazia miracolosa per non usare la parola miracolo. Mia cognata scrisse a Pompei mandando un’offerta con tanta fiducia, in quanto le grazie che riferisce il Periodico di Pompei sono in gran parte di guarigioni di bronchiti, polmoniti e simili. Avrei intenzione di promettere alla Madonna, sotto il titolo di Pompei, di promuovere la sua devozione in Collegio se ci ottiene questa grazia, la quale credo ormai potrebbe dirsi miracolosa e una prova di gradimento a Dio che si stabilisca e propaghi tale devozione. Le speranze sono in Maria. Faccia pregare la Madonna". E due settimane dopo scriveva a D. Giulio Costantino, primo successore nel governo della Congregazione: "Dal 22 c.m. (agosto 1888), nel quale al Santuario di Pompei si incominciò dalle orfanelle una novena per Ernesto, la febbre verso sera, andò leggermente decrescendo".
Nel 1890, con rinnovata fiducia il Murialdo ricorre alla Madonna e scrive in proposito alla cognata Albertina: "Stamane celebrai all’Altare della Madonna di Pompei in S. Barbara. Promisi di portarle un cuore d’argento se ci ottiene la grazia". Si noti che l’erezione di quell’altare nella Parrocchia di S. Barbara era stata suggerita dal Murialdo e il buon Parroco assecondando l’idea, l’aveva ordinato al prof. Massoglia, confratello laico giuseppino. Il quadro artistico che rappresenta la Madonna di Pompei, contornato da 15 meravigliosi tondini con i 15 misteri del Rosario, è opera del pittore Enrico Reffo, e la pratica dei 15 sabati fu iniziata proprio per volere del Murialdo dal suo collaboratore D. Eugenio Reffo.
Il Murialdo nutriva questa devozione tenera e filiale a Maria nell’amore a Gesù Eucarestia, tanto ardente da passare notti intere in adorazione davanti al Tabernacolo. L’amore a Maria, tabernacolo del Dio vivente, lo aveva naturalmente portato all’amore a Gesù, e fu proprio durante un’adorazione notturna che fu visto in estasi sollevato sui banchi della Chiesa, con le braccia aperte e lo sguardo immobile puntato sulla statua della Vergine Maria. Perché Maria non è solo l’intermediaria, ma l’ostensorio di Gesù. Vi è infatti un accordo così perfetto tra la Madre e il Figlio, che non si può pensare a Maria senza pensare a Gesù, non si può crescere nell’intimità con Maria senza contemporaneamente crescere in Cristo. Il culto di Maria accompagna necessariamente la crescita della nostra incorporazione a Cristo. Il culto di Maria accompagna necessariamente la crescita della nostra incorporazione a Cristo. Da questa incorporazione in Cristo il Murialdo attinse un amore espansivo verso il prossimo, nel quale si studiò in ogni modo di generare Cristo, farlo crescere, resuscitarlo in quanti entravano nella sfera della sua azione, prestando la sua intelligenza e il suo cuore, tutte le sue forze, le sue labbra per parlare, le sue mani per scrivere e soccorrere, il suo cuore per consolare.
Si può così meglio comprendere quanto un giorno egli diceva ai suoi Confratelli e ai suoi giovani: "Sarebbe desiderabile che quelli che fanno la Comunione per praticare la devozione dei 15 sabati, procurino di essere non solo costanti, ma anche ferventi nella S. Comunione; perché di tutti gli esercizi di pietà, Rosario, meditazione sui Misteri della Madonna, il più grato a Maria, come il più vantaggioso alle nostre anime, è la Comunione, perché in essa e per essa, la Madonna ci vede uniti intimamente e quasi immedesimati con Gesù Cristo suo divin Figlio" (Scritti, volume XX, pos. 826). La presenza della statua che lo raffigura, posta recentemente all’entrata della Basilica di Pompei, assume così un più profondo significato: il Murialdo dal Cielo esulterà vedendo le folle entrare nel Santuario sospinte da Maria per incontrarsi con Gesù e rivivere in Cristo con Cristo e per Cristo. Era il suo massimo desiderio, per realizzare il quale, aveva sacrificato una vita intera.

nell’Atrio della Basilica di Pompei la statua di S. Leonardo Murialdo

Il 24 maggio 1970, festa della SS. Trinità e della Madonna Ausiliatrice, fu scoperta e benedetta nell’Atrio della Basilica di Pompei la statua di S. Leonardo Murialdo, fondatore dei Giuseppini. La statua donata al Santuario, in marmo di Carrara, è opera egregia del Prof. Comm. Domenico Ponzi, di Roma. Erano presenti il Padre Generale dei Giuseppini, molti Padri ed una folla di Religiosi, Seminaristi e giovani degli Istituti fondati da S. Leonardo. S. Ecc. Mgr. Binni, Vescovo di Nola, assistendo alla Messa, concelebrata dal Rev.mo Padre Generale, e da numerosi Padri Giuseppini, parlò del nuovo Santo.


*Ludovico da Casoria

Dagli scritti del Beato Bartolo Longo
Padre Ludovico, “l’eroe della beneficenza novissima in Napoli e del Mezzogiorno”, che Bartolo Longo conobbe sette anni prima di cominciare l’opera pompeiana.
“Aveva l’anima accesa di due serafiche vampe, l’amore per i poveri vecchi e l’amore pei poveri fanciulli.
Artista della carità, egli innalzava mistiche chiese che erano poemi, ergeva ospizii sulle cime dei monti e sui lidi del mare, si circondava di letterati che pensavano o scrivevano ritraendo da lui il caldo d’amore (…).
Ora quest’uomo straordinario, questo Povero che ha beneficato più di qualunque ricco, (…)  quest’uomo di Dio che ritraeva nella sua mente Francesco d’Assisi e nel suo cuore S. Vincenzo de’ Paoli, appartiene alla storia di Valle di Pompei, poiché Egli è stato il nostro Maestro nella carità qual è richiesta dai tempi nuovi, cioè nella Beneficenza Educatrice”.
(Bartolo Longo)
Un amico intimo del nostro Santuario

Ludovico da Casoria ispiratore e benefattore di Bartolo Longo tipografo

Non è certo per la retorica delle celebrazioni che noi ricordiamo nell’anno centenario della sua morte, il francescano P. Ludovico da Casoria († 30 marzo 1885), che fu uno dei primi amici del nostro Santuario, sostenendo con il suo illuminato consiglio il suo fondatore il Beato Bartolo Longo e ne intravide le glorie e i trionfi con le sue immense possibilità di bene.
La statua di Padre Ludovico si ammira nell’ambulacro antistante la Basilica tra le persone di santa vita che visitarono il Santuario mariano con una scritta assai significativa del Beato Bartolo Longo.
La vita del P. Ludovico Palmentieri da Casoria è costellata da iniziative inesauribili, da progetti azzardati, da slanci irrefrenabili che ne fecero l’apostolo della carità  del secolo XIX.
Alla sua scuola fece il tirocinio di apostolato sociale il nostro Bartolo Longo, il quale lo chiamava, con quel senso di attenzione riverente e di ammirazione entusiasta che è propria dei discepoli, il suo “Maestro della Carità”, cosa autorevolmente riconosciuta dalla Sacra Congregazione delle Cause dei Santi, la quale, nel dichiarare nel 1907 Venerabile il Servo di Dio, riconosceva: “Ludovica da Casoria, rivolto sempre ad opere di carità, fu incitatore perché al tempio di Pompei, dedicato al Sacratissimo Rosario della Beata Vergine Maria, si aggiungessero Istituti per l’educazione dei poveri fanciulli e di povere fanciulle e fabbricati ed ospizi in cui sparge i suoi profumi la stessa carità cristiana”.
Il Beato Bartolo Longo, fin dal suo primo incontro con il P. Ludovico avvenuto nel 1867, era rimasto affascinato dalla carità viva ed operosa che traspariva da tutta la sua nobile persona.
Il nostro Beato dava una mano al P. Ludovico facendo lezione di catechismo ai fanciulli ricoverati nel convitto “La Carità” di Villanova di Posillipo e s’intratteneva volentieri con lui in intimi colloqui spirituali a “La Palma” di Capodimonte, al “Deserto” di Sorrento e allo stesso convitto di Villanova. Il Beato trasaliva di gioia quando vedeva spuntare da lontano “ansando per l’età salita, chiuso nella sua ruvida tonaca, dritto, alto, con il volto aperto e spesso rivolto al cielo”, il P. Ludovico. Gli fu discepolo nella carità e aveva nel proprio studio bene esposto il ritratto del Padre a lui prestato dal suo fedele amico Mons. Don Enrico Marano.
L’idea dell’Orfanotrofio femminile, primizia delle opere sociali pompeiane, e la stessa idea della beneficenza educatrice si devono far risalire a P. Ludovico. Inoltre il Casoriano consigliò il
Beato ad aprire una tipografia a Pompei dissipandone i dubbi e le perplessità con le parole: “Ed io ti manderò una mia macchina da stampare che ho a Roma e che non serve per le mie opere; ti manderò pure i caratteri”.
La promessa fu mantenuta con l’invio di una “Marinoni” completa di caratteri, la prima della nuova tipografia, l’antenata dei poderosi e prodigiosi macchinari dell’attuale “Tipografia Pompei S.P.A.”.
Fi P. Ludovico da Casoria, reduce da una grave malattia, (per la quale i Frati Bigi emisero un voto alla Madonna di Pompei e il P. Bonaventura Maresca, figlio primogenito dilettissimo del P. Ludovico, fece a piedi la strada tra Napoli e Pompei portando sulle sue spalle la lapide marmorea ricordante il miracolo fatto dalla Madonna), che eresse la Via Crucis della nuova cappella costruita in onore di S. Caterina da Siena nel Santuario del Rosario di Pompei e fu ancora il P. Ludovico ad indurre il nostro Beato a fare donazione al Papa del novello Santuario e di tutte le opere annesse. È vero che tutto ciò avvenne ad una ventina d’anni dalla morte del Venerabile; ma il merito va ascritto tutto a lui che aveva fatto questo ragionamento a don Bartolo: “Bartolo, tu devi lavorare per il Papa. Oggi i figli hanno spogliato il Padre dei suoi domini; ebbene altri figli debbono ridarglieli. Quali sono i domini del Papa? Le chiese e i conventi. Oggi hanno tolto al Papa le chiese e i conventi; ebbene tu in questa terra devi erigere una chiesa monumentale, devi fabbricare un convento, e devi dare tutto al Papa. Bartolo, ricordatelo”. Le raccomandazioni di P. Ludovico non furono dimenticate dal nostro Beato e trovarono la loro realizzazione e compimento più tardi, quando egli donò legalmente al Papa il Tempio di Pompei con tutte le sue opere di beneficenza sorte alla sua ombra.
Inoltre don Bartolo rese un bel servizio alla causa di beatificazione del Servo di Dio con la sua deposizione nel Processo Informativo diocesano a Processo Apostolico, augurandosi che gli associati dell’Opera di Pompei riconoscessero nella Città del Rosario lo spirito del P. Ludovico, il quale fu per lui regola e impulso per quell’abbandono amoroso nella Provvidenza che gli fece realizzare tante insigni opere.
Egli fu felice quando poté scrivere questa nobile “Lettera Postulatoria” in vista dell’introduzione del Processo Apostolico. Sono pensieri e considerazioni ispirati a sensi di apprezzamento e di venerazione per colui che era stato suo maestro e modello di vita, che possono fare del bene a tutti, per cui trascrivo integralmente la Lettera.
“Beatissimo Padre – scriveva il nostro Beato – Alle molte autorevoli Lettere Postulatorie, invocanti la nomina della Commissione, che dovrà esaminare la causa di beatificazione del P. Ludovico da Casoria, aggiungiamo questa modestissima, che io, ultimo degli ammiratori delle virtù di un tanto uomo, oso volgere alla Santità Vostra.
Di Lui, che ebbi la ventura di conoscere da giovine, e che fino agli ultimi giorni di mia vita ebbi costantemente maestro della carità e consigliere nelle opere di religione e di beneficenza in questa Valle di Pompei, ho spesso scritto nel Periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” additando il S. Francesco napoletano dei giorni nostri, suscitando dalla Provvidenza in tempi di rivoluzioni  sociali e religiose (sic), per tenere alta la bandiera della vera Carità, illuminata ai raggi della fede di Gesù Cristo.
Ciò attestano le molte insigni opere da Lui fondate per sovvenire gli orfani, i ciechi, i vecchi marinai, i fanciulli scrofolosi; senza dire della prima geniale opera di Apostolato Cattolico, che Egli istituì a Napoli per educare a religione i moretti, con l’altissimo intento di incivilire l’Africa per mezzo dell’Africa.
E qui sento il dovere di ripetere a Vostra Santità ciò che a voce Le dichiarai nell’udienza benignamente concessami nel febbraio ultimo: e cioè che l’atto di rinunzia da me fatto in favore della Santa Sede, del Santuario e di tutte le opere di beneficenza da me fondate e delle mie proprietà in Valle di Pompei, mi fu consigliato ventidue anni addietro – nel marzo del 1884 – dal P. Ludovico da Casoria. Onde a Lui deve attribuirsi il grandissimo beneficio, la sicurtà, che oggi godono tutte le opere pompeiane sotto l’usbergo del Romano Pontefice.
Per questo beneficio e pel tanto bene fatto all’anima mia dal P. Ludovico da Casoria, io sento vivissima la gratitudine e la devozione, che non saranno paghe se non quando la Santità Vostra, annoverandolo tra i Beati, ne faccia note al mondo le straordinarie virtù e lo dichiari degno della pubblica venerazione.
Nella speranza che questo giorno non sia lontano, prostrato ai piedi della Santità Vostra, con
sentimenti di profonda, filiale obbedienza, Le domando l’Apostolica Benedizione”.
“Valle di Pompei, 17 aprile 1903 – Bartolo Longo”
Queste ed altre cose vennero esposte con slancio e devozione da Bartolo Longo, nel 1907, in occasione della dichiarazione della venerabilità del Servo di Dio, in un forbito e nitido articolo dal titolo “Uomo dei primi nostri amici intimi – il P. Ludovico da Casoria – oggi dichiarato Venerabile”, apparso si Il Rosario e la Nuova Pompei. L’articolo venne riprodotto in seguito altre volte (nel 1910 e nel 1935) come lettura quarantunesima della edificante collanina “Piccole letture edite dai Figli dei Carcerati”.
Ora non ci resta che pregare il Signore affinché affretti il giorno della glorificazione in terra di questo suo servo adornandolo del titolo di Beato, in modo che questo “artista della carità – come lo definiva il Beato Bartolo – possa avere anche lui un altare nel Santuario pompeiano per spronare i fedeli devoti della Madonna ad opere di bene”. (Autore: P. Gioacchino D’Andrea)
“Quest’uomo che non volle neppure maneggiare il danaro, e che appena consentiva di tenerlo sotto i suoi piedi, vide la Provvidenza farsi finanziatrice delle sue carità… Questo povero spese milioni… (Mons. Eduardo Fabozzi)
La Vita
Beato Ludovico da Casoria (Arcangelo Palmentieri)  Francescano  (30 marzo)
Casoria, Napoli, 11 marzo 1814 - Napoli, 30 marzo 1885
Nacque a Casoria l’ 11 marzo 1814 da Vincenzo (vinaio), e da Candida Zenga.
Entrò nell’ordine francescano ed il 17 giugno 1832 ne indossò l’abito compiendo il noviziato nel convento di S. Giovanni del Palco a Lauro di Nola (Na).
Prima di essere ordinato sacerdote, 4 giugno 1837, studiò nel convento di S. Pietro ad Aram di Napoli filosofia, matematica e chimica.
Nel 1854, su suggerimento di un sacerdote genovese, Giovan Battista Olivieri, che si adoperava per il riscatto delle piccole negre, accolse, per educarli, nel suo istituto i primi due negretti; il numero
dei ricoverati crebbe anche perchè di persona, andò a riscattare bambini negri, venduti come schiavi nel Cairo, per riportarli a napoli alla presenza del re Ferdinando II che gli aveva fornito la somma per il riscatto.
L’iniziativa diede corso all’istituzione di missioni indigene. Per sede dell’Opera fu poi scelta la Casa della “Palma” a Napoli.
Nel 1859 con la collaborazione della serva di Dio Anna Maria Fiorelli Lapini, fondatrice delle “Stimmatine”, sorgeva anche il “Collegio delle Morette”.
Un’altra opera di grandissimo rilievo fu l’istituto degli accattoncelli e delle accattoncelle; sorse nel 1862 e si estese oltre che a Napoli, in varie sedi, a Casoria, ad Afragola, a S. Antonio in Nola, nel convento di S. Angelo a Piano di Sorrento, a Eboli, a Santa Maria Capua Vetere, a Picerno e anche fuori regione, a Firenze.
Nel 1864 fondò un’accademia di religione e, a Napoli, poi, il periodico “La Carità”, ed un collegio (1886) denominato “La Carità”. Fondò due congregazioni: i frati della Carità, detti anche Frati Bigi e le francescane Elisabettine, dette Bigie.
“Il 12 novembre 1865, accogliendo con grande allegrezza la decisione di Propaganda Fide, si imbarcava a Trieste per Alessandria d’Egitto, quindi per il Cairo e poi, in barca sul Nilo per Assuan dove giunse il 5 gennaio 1866”.
Tornò a Napoli nello stesso anno 1866 e fu, tra l’altro, arrestato per essere stato ripetutamente accusato di aver sepolto alcuni morti di colera nel giardino della “Casa delle Morette”, ma poi fu scagionato. Tutta la vita la dedicò a questo progetto missionario ben riconosciuto dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide.
Bartolo Longo conobbe P. Ludovico nel 1867, glielo presentò il marchese Francesco Imperiali al Tondo di Capodimonte.
Egli rimase molto attratto dalla figura di quel frate e “da quel giorno io fui tutto suo, e lo seguii dovunque con quel senso di aspettazione riverente e di ammirazione entusiasta, che è propria dei discepoli di grandi maestri”.
Fu grazie a Padre Ludovico che si impiantò a Valle di Pompei la tipografia con una macchina tipografica che egli mandò per stampare “Il Rosario e la Nuova Pompei” ed i libri.
“La spiritualità di Padre Ludovico è decisamente francescana. Visse fondamentalmente il carisma speciale di S. Francesco, ma vi aggiunse il suo: un amore illimitato per i più poveri e la promozione umana della gioventù minorata, dei piccoli negri.
Morì a Napoli il 30 marzo 1885, ove è sepolto nella chiesa dell’ Ospizio di Posillipo; Giovanni Paolo II lo proclamò Beato il 18 aprile 1993.
Eccolo, allora, in giro per l’Italia in quell’anno accompagnato da un zelante sacerdote, Don Michele Gentile, lo stesso a cui fu chiesto di partecipare a Valle di Pompei, insieme a Don Giuseppe Rossi ed al Canonico Alessandro Santarpia, alla prima missione del popolo del 1875.
Siena, Firenze, Torino, Bologna, Genova, Alessandria, Asti, queste le principali città che accolsero Bartolo Longo per ascoltare il suo racconto pompeiano. L’esperienza che maturò in questi lunghi
viaggi fu notevole: scambiò idee e progetti con grandi personaggi tra cui anche San Giovanni Bosco.
Dal viaggio acquisì spunti organizzativi per la nascente Opera Pompeiana, avendo osservato come imperavano gli altri istituti sotto l’aspetto sociale e umano. Conobbe personaggi che successivamente gli furono vicini a Valle di Pompei, tra questi Padre Mariano Angelo Rossi O.P., che fu Rettore del Santuario dal 1892 fino alla morte avvenuta il 10 agosto del 1898.
Fino al 1892, nulla si concluse e proprio in quest’ anno, Bartolo Longo si rivolse ad una zelatrice di Torino, la signorina Giuseppina Astesana, la quale aveva per l’opera pompeiana una speciale devozione. Ella aveva eretto nella sua casa di Piemonte una cappellina in onore alla vergine di Pompei. Vi è qui un collegamento tra i personaggi, il Padre Rossi insieme ad altri due padri benedisse l’ immagine della Vergine nel villino dell’Astesana.
Dunque tra l’Astesana e il futuro Rettore del santuario di Pompei, c’era già una certa amicizia.
L’ Astesana venne a Pompei, si rese conto della dimensione della crescente opera e mise in atto tutta la sua esperienza ed il suo impegno per suggerire a Bartolo Longo proposte che gli consentissero di avviare a soluzioni il problema educativo-assistenziale dei piccoli bisognosi. In questo frattempo un’altra importante opera era stata inaugurata: l’Orfanotrofio femminile che accoglieva le bambine orfane e abbandonate di qualunque città e provincia d’ Italia.

*Padre Ludovico da Casoria "fuoriclasse" della carità di Pompei

lmeno per la prima parte, è stata l’estate dei mondiali di calcio. Riflettori puntati sul
Brasile, com’è accaduto più volte negli ultimi tempi, a consolidare l’immagine di un Paese emergente e lo spostamento dell’asse economico mondiale. Il calcio e il Brasile sono quasi sinonimi, tanto è popolare il gioco della "pelota" nella patria del grande Pelè.
Spettacolo si prometteva e spettacolo è stato, al netto delle delusioni patite da nazionali che hanno trovato la strada sbarrata già al primo turno. L’Italia di Prandelli e Balotelli, per metterla in rima, ha solo confermato che son finiti i tempi belli. Ma gli aspetti tecnici meritano un discorso a parte. Un mondiale di calcio è sempre qualcosa in più e mentre nessuno poteva avere dubbi sul livello tecnico della squadra verde-oro, si attendevano invece conferme sul Brasile quasi al grande esordio tra le nuove potenze dell’economia globalizzata. I segni di questo più alto rango non sono mancati: grattacieli e stadi bomboniera hanno trasmesso al mondo l’immagine di un Paese in costante crescita e tutto proiettato al futuro. Ma non hanno cancellato l’altra realtà che continua a sfidare il verso nuovo di un’economia che fa quadrare i conti dalla parte dei numeri molto più che dalla parte delle persone. Le "favelas", versione latinoamericane delle baraccopoli di ogni forma di miseria, non sono certo insediamenti folcloristici ad uso - e spesso scellerato "consumo" - di benestanti occidentali. Sono l’altra faccia drammaticamente concreta e reale dei quartieri del lusso e dello sfarzo innalzati a beneficio dei nuovi (e vecchi) ricchi. Sul filo di queste contraddizioni interne, è stato anche possibile scorgere, nel tempo pieno e intenso dei mondiali, altre forme di contraddizioni rese più plateali proprio dai riflettori puntati sul massimo evento calcistico. Non si è fermata, nel frattempo, la tragica "partita" ingaggiata dai disperati in cerca di un approdo di libertà e di vita sulle spiagge del nostro Sud, porta d’Italia, ma, come viene spesso vanamente ricordato, anche d’Europa. Nessun nesso, almeno apparente, tra partite così diverse,
anche se lo sfarzo, lo spreco e il gigantismo del mondo del calcio - nel suo complesso - e la disperata "partita" per la vita dei poveri tra i poveri, stipati nelle carrette dei mari, riporta alle contraddizioni tra la facciata e la realtà del Paese dei mondiali. Ma anche a qualcosa, o molto in più; nel fossato che queste contraddizioni aprono, può esserci il baratro del nostro futuro e forse di noi stessi. Non è possibile chiudere gli occhi, e i riflettori puntati così a lungo sul Brasile sono stati, a loro modo, un segno. Ma non è possibile, soprattutto, serrare il cuore. E allora il Brasile è solo un piccolo campo che rimanda ai tanti territori dove la "partita" della carità è stata già giocata ed è tuttora in corso.
Avendo in mente le tragedie dei tanti profughi per i quali il mare è stato sepoltura e non via di salvezza, vengono in mente, e stavolta come consolante contraddizione, i territori dove la carità è come un miracolo che rende possibile camminare anche sulle acque. Viene in mente Pompei, che con le Opere fondate da Bartolo Longo, è uno dei grandi ponti che continua a salvarci dal baratro. Sembra avere poca attinenza con tutto questo, e soprattutto con i mondiali in Brasile, la notizia della canonizzazione di Padre Ludovico da Casoria. Ma anche la carità ha i suoi "fuoriclasse" e Padre Ludovico, nelle sue splendide partite, ha indossato spesso la casacca del Santuario di Pompei. Bartolo Longo arrivò a considerarlo un co-fondatore. Lui sì, ha vinto la sua partita.

(Angelo Scelzo)


*Un amico del Beato Bartolo Longo

La pubblicazione del suo epistolario ripropone all’attenzione la figura di un grande santo napoletano ed un autentico testimone della fede. Con lui è iniziata la significativa presenza del carisma francescano a Pompei.
Le cospicue bibliografie sul Beato Bartolo Longo, i ricorrenti articoli sui quotidiani relativi al suo curriculum cristiano-sociale e mariano, hanno certamente già messo i lettori in contatto con il Venerabile Padre Ludovico da Casoria: una figura importante nella economia del disegno provvidenziale pompeiano. Ma si è trattato quasi sempre di un richiamo sintetico, non di una conoscenza specifica del personaggio. La recente pubblicazione del suo ricco epistolario (P. Ludovico [Palmentieri] da Casoria, Epistolario, a cura di P. Gioacchino [Francesco] D’Andrea, 3 vol., Curia provinciale dei Frati Minori, Napoli 1989) per celebrarne il centenario della morte, ci ha suggerito di riflettere su questo Francescano autentico; per le influenze positive e determinanti esercitate su Bartolo Longo e per l’arricchimento spirituale di quanti seguono il discorso della devozione mariana a Pompei e si interessano del messaggio sociale ancora oggi vivo nella grande famiglia delle opere create intorno al Santuario.

L’apostolo napoletano

Padre Ludovico da Casoria è una personalità complessa, che si ispira alla fede e alla Provvidenza; e che agisce nel vivo di una Napoli sofferente, dove i mali sociali si nascondono e si mascherano, per così dire, nella filosofia del buonumore, del calore umano, del non farci caso.
Ci ritroviamo ad esaminare, quindi, l’azione di un francescano pienamente in sintonia con il saio che
indossa, con i presupposti ed i principi che animano il francescanesimo. Padre Ludovico da Casoria impersona la carità, la povertà, la sollecitudine verso i meno abbienti, l’equità, la parsimonia: le sue trecento lettere parlano chiaro.
Nella Napoli ottocentesca, egli affronta soprattutto i problemi della gioventù senza istruzione, né mestiere; mentre coltiva nel suo cuore l’ideale del missionario. Da queste due linee spirituali nascono le sue iniziative; le quali esprimono un apostolato che si veste di volta in volta di panni diversi, per aderire alle esigenze, altrettanto diversa del mondo del dolore, della disaffezione, dell’abbandono. Co egli assiste agli infermi nel convento di S. Pietro ad Aram di Napoli, fonda la casa della Palma allo Scudillo di Capodimonte, un annesso convento francescano, nel quale alloggia l’opera dei Morettyi (giovani africani riscattati dalla schiavitù, educati in Italia e rimandati in Africa, loro terra d’origine, come apostoli e messaggeri di "civiltà e di cattolicesimo".
Nasce parallelamente l’opera degli "Accattoncelli" che si rivolge a circa 50 mila fanciulli napoletani, che venivano educati sul piano etico-culturale ed avviati all’esercizio di un mestiere. L’iniziativa si estenderà ad altri centri della Campania.
Le lettere di Ludovico da Casoria permettono, al di là delle sue opere di carità, di capirne meglio i tratti spirituali. Siamo, infatti, dinanzi ad una mente che si preoccupa di amministrare i beni terreni con la stessa puntuale solerzia, con la quale dispensa e coltiva la spiritualità di S. Francesco.
Il messaggio francescano è abbracciato nella sua totalità; nella povertà, nell’onestà, nell’accettazione della sofferenza fisica e spirituale come mezzo per avvicinarsi al Cristo, nella fermezza dei propositi e delle azioni, nel culto dell’amicizia, nell’amore che egli nutre per la natura e le sue insostituibili meraviglie, per i consigli che distribuisce ai suoi collaboratori e per l’umiltà con la quale li accetta da questi ultimi.
Un’accettazione particolare egli rivolse anche alla stampa cattolica, che considerava un elemento efficace per avvicinarsi al mondo della cultura e per coinvolgere menti disponibili a diffonderle.

L’attività epistolare

Se si rileggono le lettere del "Casoriano" emerge una vera e propria minuziosità nelle diverse circostanze, sia che lo riguardano direttamente sia, invece, che si verifichino in altre comunità francescane. Ai fratelli della Casa di Assisi, in una circostanza poco chiara, ma certamente problematica per la sua stabilità religiosa e spirituale, P. Ludovico scrive: "Sapete cosa voglio da voi tutti? L’unione, l’amore, il compatimento tra voi. Amatevi l’un l’altro. Se volete amare Gesù Cristo, se volete vivere in Dio, beati voi se vi sapete amare; beati voi se vi sapete sostenere quest’opera di Dio…". È il giorno di Pasqua del 1876 e come sempre P. Ludovico si preoccupa della fede e della provvidenza: "Le opere nostre devono essere opere di sante industrie, che è la povertà bene intesa.
Lavoro e preghiera e amore di Dio debbono essere un di più come provvidenza straordinaria, ma la vita ordinaria delle nostre opere sono il lavoro e l’amore alla fatica".
C’è, ad esempio, una lettera indirizzata ad un Terziario /Enrico Attanasio) datata 1875 la cui attualità è straordinaria. In essa, infatti, egli delinea i tratti del suo tempo, che per certi aspetti sono anche quelli del nostro tempo: "non è la scienza e/o le letture che arricchiscono l’uomo e lo rendono felice, ma il Cristo nella scienza, nelle lettere… Quando il cuore non è caldo, la mente non è feconda". "Nella moderna società domina l’orgoglio della mente; ognuno si crea una scienza e una religione. Il secolo presente si è separato da Dio. Il secolo presente è fuori del suo centro: crede solo quello che vede, tocca e gusta con i sensi e non sa vedere, toccare e gustare altro… L’amore al gusto non consola…".
Vi è poi, ed è del 1850 un alfabeto per educare lo spirito all’amore della croce di Gesù; ed è anche questo un susseguirsi di esortazioni, che esaltano tutto l’amore, la pace dello spirito, l’ubbidienza che è comando, la letizia…

Un modello per Bartolo Longo

Bartolo Longo incontrerà per la prima volta P. Ludovico da Casoria il 29 giugno del 1867 nella cappella al Tondo di Capodimonte, dove egli aveva raccolto delle fanciulle africane ed i moretti che avrebbero dovuto essere i futuri missionari indigeni. Da quel momento nasce una specie di sodalizio spirituale che indurrà B. Longo a seguire le opere del Francescano di Casoria, fino all’ultimo incontro avvenuto a Valle di Pompei il 17 marzo 1884. P. Ludovico veniva a Pompei per "grazia ricevuta". In quell’occasione B. Longo ascoltò dalla viva voce, dal "Figliuolo di S. Francesco d’Assisi" le incitazioni più significative, i suggerimenti più importanti che oggi assumono il valore di una vera e propria predizione; B. Longo avrebbe dovuto affidare tutta l’opera pompeiana al Papa e avrebbe dovuto erigere una chiesa "monumentale", avrebbe dovuto, inoltre, impiantare una tipografia.
L’uomo della carità e della fede, il francescano autentico, cui accennavamo in apertura, rappresenta per B. Longo un punto di riferimento preciso ed inequivocabile.

Foto: Padre Ludovico da Casoria tra le sue Opere di Carità a Napoli.


*Luigi Guanella
Luigi Guanella e Bartolo Longo
Stima e amicizia legarono tra loro il Fondatore del Santuario di Pompei e il Fondatore delle Opere della Divina Provvidenza. Non sarà inutile rievocarle.
Anime gemelle
La santità ha un forte potere di attrazione.
Si direbbe che stabilisce attorno a sé come un campo magnetico, tanto più influente quanto più genuina è la santità.
E Don Guanella e Bartolo Longo si sentivano reciprocamente attratti. Erano due anime gemelle.
Si riconobbero a vicenda e rispettivamente uno ebbe dell’altro l’impressione di uomo santo.
«Don Luigi Guanella era un santo – diceva Bartolo Longo – un Santo della carità. Ce ne vorrebbero tanti di questi santo oggi… Ci parve un nuovo  Don Bosco».
Così Don Bartolo, la sera del 24 febbraio 1925, al Successore del Beato Guanella, Don Leonardo Mazzucchi, accompagnato nella visita al Longo nella sua residenza di Napoli dal giovane Direttore di «La Santa Crociata» Don Pietro Tognini (Cfr. «La Divina Provvidenza» luglio 1925, pp.142-45).
E, a sua volta, il Beato Luigi Guanella, il 3 maggio 1913, così scriveva alla sua collaboratrice Superiora Generale delle Figlie di S. M. della Provvidenza, Sr. Marcellina Bosatta: «Iersera “il santarello” Bartolo Longo ci intrattenne per un’ora e stamane parlò pure alle nostre Suore con un’enfasi rara» (Cfr. «Charitas» n.87 p. 18).
L’uno, dunque, respirava accanto all’altro aria di santità.
Non meraviglia perciò che frequenti volte s’incontrassero. Veramente fu sempre il Beato Guanella che andò a trovare Don Bartolo nei suoi frequenti viaggi e pellegrinaggi a Pompei.
Pellegrino a Pompei
Il Bollettino delle Opere Guanelliane «La Divina Provvidenza» fa cenno espresso di tre visite a Pompei: la prima il 21 novembre 1893, con il pellegrinaggio lombardo-veneto, accompagnatovi da
Sr. Martellina Bosatta e in quell’occasione il Beato (che a Como aveva eretto un Santuario al S. Cuore) celebrò in Basilica a Pompei proprio all’altare del S. Cuore (Cfr. ivi, gennaio 1894, pp. 114-15).
Risulta che una seconda volta Don Guanella si portò a Pompei il 21 ottobre 1902, di ritorno dal suo pellegrinaggio in Terra Santa. (Cfr. ivi. Novembre 1902).
La terza volta il 2 maggio 1913 (Cfr. ivi, giugno 1913 p. 94). Il Beato stesso diffusamente e coloritamente descrive il suo incontro con Bartolo Longo, alla vigilia della partenza del primo stuolo delle sue Suore, per gli Stati Uniti: «la sera, a Pompei, incontrammo i Fratelli Ingg. Leonori, che ci presentarono a Mons. Sili e ai venerandi coniugi il Comm. Bartolo Longo e la Contessa de Fusco L’avvocato si degnò di intrattenersi con noi a lungo, discorrendo della Storia del Santuario, dell’erezione del nuovo campanile in stile della facciata, della costruzione dell’altare di Santa Cecilia.
E non aveva fine nel raccontare delle grazie della Madonna del Rosario, dell’opera zelante di ben 25 confessori, che nelle maggiori solennità vi si presentano a ricevere la confessione sacramentale dei numerosissimi fedeli accorsi.
Si mostrò ben informato delle opere nostre, a cui applaudì con quella esuberanza di entusiasmo che è propria di questa gente meridionale. Vero tipo di Napoletano di fede, il Comm. Bartolo Longo ci tenne attenti per un’ora intera, e nel mattino seguente scese ancora a congratularsi con le nostre Suore che si disponevano alla partenza.
Offrì poi ospitalità e assistenza particolare a Mons. Tommaso Trussoni (cugino del Beato) che seppe si sarebbe soffermato a visitare il Santuario di Pompei e la tomba di S. Alfonso de’ Liguori nella vicina Pagani, nell’andata alla sua sede di Cosenza».
Così il Beato Guanella.
Ma questi non dovettero essere i soli incontri tra i due uomini di Dio, se Don Bartolo nella visita del 24 febbraio 1925 poteva esclamare: «Don Luigi Guanella! Oh sì, sì! Venne più volte a Pompei e
gli parlammo»! Era, dunque, una conoscenza d’amici.
Così almeno la interpreta il primo storico del Beato Guanella in foglio riservato ai Servi della Carità, fondati dal Beato.
Dice di D. Guanella nei riguardi di Bartolo Longo… l’attivissimo «Uomo di Dio, Egli (D. Guanella) lo amò, lo consigliò, lo consolò tanto» (Cfr. «Charitas», n. 70, pagina 34).
E lo stesso Bartolo Longo in lettera del 29 settembre 1918 a D. Leonardo Mazzucchi così parla dei suoi rapporti con D. Guanella: «Io, poi, che ho avuto la fortuna di avvicinare e ammirare il Guanella, sento il desiderio di studiarne la vita e di pubblicare altre cose di lui, quando le circostanze me lo consentiranno» (Cfr. «La Divina Provvidenza» agosto 1941, p. 84). «Pubblicare altre cose di lui». Dunque Don Bartolo ne ha scritto. Sarebbe interessante conoscerne il contenuto e la fonte, anche se in seguito non fosse riuscito a pubblicare altro, come si riprometteva.
Oltre il tramonto
È certo che i rapporti tra i Figli di D. Guanella e Bartolo Longo continuarono circondati di venerazione per il Fondatore del Santuario di Pompei. Lo dimostrano la corrispondenza tra Don Bartolo e D. Leonardo Mazzucchi e le ripetute visite al Venerando Vegliardo che nel febbraio del 1925 si auto presentava come «un povero vecchio, che ormai è vicino al giudizio di Dio».
La visita si ripetè il 27 Ottobre dello stesso anno alla partenza – questa volta – dei primi Servi della Carità di D. Guanella per l’America del Sud.  
«L’Apostolo e il Custode della Vergine, Bartolo Longo, con un sorriso di Paradiso, e con parole incancellabili di fuoco, esuberanti di fede e ardenti di zelo, benediceva ai parenti… ormai partente per la vicinissima eternità» (Cfr, «La Divina Provvidenza» agosto 1941, pagine 84).
Anche la sua lunga giornata, infatti, (aveva un anno più del Beato Guanella e morì 11 anni dopo), volgeva al tramonto.
Poco meno di un anno dopo, il 5 ottobre 1926, Don Bartolo quasi alla vigilia della festa della sua Madonna del Rosario, volava a festeggiarla in Cielo.
Il bollettino Guanelliano del novembre 1926 lo commemorava con compiante espressioni di ammirazione e di venerazione.
Incontro di anime
Questi i fatti esterni che testimoniano dei rapporti dei due Servi di Dio. Ma non sono trascurabili le ragioni che possono aver contribuito a stringere sempre più questi rapporti: le comuni idealità e affinità di intenti e di azioni, e le persone che la Provvidenza aveva posto sul cammino dell’uno e dell’altro, nella realizzazione delle loro opere di bene.
Infatti, oltre alla devozione alla Vergine del Rosario, che ha immortalato Bartolo Longo nella storia della Chiesa e che è uno dei capisaldi della spiritualità mariana del Beato Guanella, passata in eredità ai suoi Figli, si deve aggiungere che è stata la Vergine la comune ispiratrice delle numerose e benefiche opere sociali suscitate dai due Santi.
L’uno e l’altro sentivano, anzi sperimentavano, la verità del richiamo di S. Paolo: «la carità di Cristo ci pungola, non ci lascia pace» (2 Cor. 2, 14).
E difatti nell’ultimo incontro con il Successore del Beato Guanella, Don Bartolo «insisteva a dirci che ogni apostolo di bene deve… importunare, importunare» (Cfr. “La Divina Provvidenza” novembre 1926, p. 222). Importunare!
Quasi… travolgere tutti nell’opera il bene per la salvezza di tutti e la realizzazione del Regno di Dio nel mondo: il programma che Longo e Guanella fecero proprio.
Incontri di persone
Inoltre non è puramente casuale che la Provvidenza, per vie diverse, li abbia condotti a servirsi della capacità ed opera professionale di una stessa persona, di un altro insigne Servo di Dio,
l’Ing. Aristide Leonori.
A lui infatti si deve il disegno e la costruzione del maestoso campanile che s’affianca alla facciata dell’insigne Santuario di Pompei e il Leonori è ancora l’Architetto e costruttore del più grandioso tempio guanelliano, centro mondiale della crociata per i Morenti, la Basilica di san Giuseppe al Trionfale nella città di Roma. Come si è già detto, l’Ing. Leonori introdusse D. Guanella nella familiarità di Bartolo Longo e l’Ing. Leonori accompagnò nell’America del Nord il primo stuolo delle Suore Guanelliane. Trait-d’union tra due Santi, anch’egli non poteva essere che anima tutta di Dio.
Altro personaggio familiare nella vita di Bartolo Longo e della storia del Santuario da lui fondato, è il Card. Augusto Sili, Delegato Pontificio per le Opere di Pompei: e il Card. Sili fu un fervidi ammiratore del Beato. I suoi familiari, poi in seno all'alta Società romana, furono tra i più attivi promotori del Comitato che s'adoperò efficacemente a beneficio del sorgere e affermarsi del Ricovero Guanelliano di S. Giuseppe in Roma, nel periodo tra le due guerre mondiali.
Fu come un'eredità sacra lasciata in famiglia dal card. Sili, il cui nome la Provvidenza legò alle vicende, oltrechè del santuario di Pompei, di un'opera benefica di Amalfi sin dal lontano 1915 e poi di nuovo nel 1921, opera che nel 1938 passò alla Congregazione Guanelliana dei Servi della Carità. Egli infatti fu incaricati come rappresentante della S. Sede e delle Opere di Pompei di ricevere la donazione dell'Istituzione benefica che pie persone avevano ivi contribuito a far sorgere, facendone poi dono in seguito alla S. Sede.
Così, in certo qual modo, la Provvidenza intrecciava le vicende di un'opera guaneillana a quella del Santuario di Pompei, quasi a legare insieme, ai piedi della Madonna, i nomi grandi di Bartolo Longo e di Luigi Guanella.


*Ludovico Giuseppe Luigi Pepe

Ludovico Giuseppe Luigi Pepe nacque a Ostuni il 13 Gennaio 1853.
Lasciò il Comune di Ostuni e venne a Valle di Pompei il 26 Giugno 1884, su richiesta di Bartolo Longo per assumere l’ incarico di direttore della tipografia.
Morì a Monopoli il 29 Novembre 1901.
Dagli scritti del Beato Bartolo Longo
“Ma non basta l’istruzione catechista all’avvenire del fanciullo per diventare laborioso contadino o operoso artigiano: conviene unire all’istruzione religiosa l’educazione alla fatica e l’amore al lavoro, e così, crescendo sotto i precetti della morale cattolica nelle officine o nei campi, il fanciullo diventerà onesto cittadino. (…)
I nostri piccoli tipografi e i legatori di libri han dato, in questo medesimo anno, una fresca prova del loro ammaestramento nell’arte. (…)
I nostri lettori finalmente daranno una giusta lode al Direttore della nostra Tipografia, signor Ludovico Pepe, il quale, alla squisitezza del gusto dell’arte tipografica, congiunge una fine erudizione di letterato e profonda cognizione di archeologo”.

Qualche notizia in più

Ludovico Pepe. (Ostuni 1853 – Monopoli 1901). Studioso e storico, dedicò la miglior parte della sua solida e valida cultura e della sua intelligente pazienza di ricercatore all’illustratore delle memorie della sua città natale.
Si occupò anche di temi di interesse più generale, quale uno studio sulla rivoluzione in terra d’Otranto (1647-1648).
Scrisse su Ignazio Ciaia, glorioso martire della rivoluzione napoletana del 1799: trattò con rara competenza argomenti di archeologia pompeiana pubblicati nel periodico Il Rosario e la Nuova Pompei ed in altre riviste. Nel 1887 videro alla luce le sue Memorie storiche dell’antica Valle di Pompei. Unico lavoro di questo genere e su questo argomento, ad esso ancora oggi bisogna fare riferimento come alla fonte esclusiva più autorevole e veritiera.
L’argomento non era stato toccato che raramente ed in modo frammentario prima che il Pepe ne facesse oggetto di una ricerca condotta con rigore storico e suffragata da documenti originali.
A tale proposito si consideri che molti dei documenti di epoca angioina consultati e riportati nel suo lavoro andarono distrutti (incendiati dai tedeschi!) e pertanto l’opera del Pepe è ancora più preziosa a chi volesse riprendere o continuare questi studi.
In occasione della ricorrenza dei primi cinquant’anni del Comune di Pompei (1928-1987), divenuto raro ed introvabile il volume della storia del Pepe, ne è stata curata una ristampa fedele all’originale al fine di commemorare la ricorrenza e principalmente per stimolare gli studiosi a continuare le ricerche storiche sulla Valle antichissima. A Ludovico Pepe il Comune di Pompei ha intitolato una strada. Più meritatamente la Biblioteca Comunale porta il suo nome.
In occasione dell’inaugurazione di essa, avvenuta nel 1978, fu scoperto nella Fonte Salutare un busto in bronzo dello storico, opera validissima dello scultore pompeiano Domenico Paduano.

Centenario della morte di Ludovico Pepe
Precursore degli studi egnatini

Un secolo fa, il 21 novembre 1901, moriva in Monopoli lo storico Ludovico Pepe, autore della prima biografia dedicata a Ignazio Ciaia e del primo libro sul sito archeologico di Egnazia. Il Pepe era nato a Ostuni nel 1853, ma era fasanese per parte di padre. In occasione del centenario, la "Città Bianca" ne ha onorato la memoria con lo scoprimento di una lapide (22 novembre) e con un convegno svoltosi il 23 nella Biblioteca Comunale "Trinchera". Due le tematiche affrontate: Ludovico Pepe, storico della società pugliese e Ludovico Pepe, editore di documenti. Tra i numerosi e qualificati relatori (Raffaele Licinio, Cosimo Damiano Poso, Francesco Moro, Donato Valli, Angelo Massafra, Franco Magistrale, Anna Stella Caprino, Luigi Greco, Maria Antonietta Moro, Cosimo Damiano Fonseca) c'era anche il nostro Angelo Sante Trisciuzzi, direttore della Biblioteca Comunale "Ciaia", chiamato a illustrare le opere "fasanesi" di Ludovico Pepe. Per sua gentile concessione, ne pubblichiamo integralmente l'intervento.
Sono qui per offrire un modesto contributo di riconoscenza a un uomo, a uno studioso, a un grande storico che tanto ha dato anche alla mia città, Fasano. Ludovico Pepe non poteva non scrivere anche di Fasano. Egli era di origini fasanesi: il padre Francesco Pepe era nato a Fasano e si era trasferito a Ostuni a seguito del matrimonio con Massimina Lofino. L'opera del Pepe è rivolta essenzialmente a Ostuni, ma anche a Fasano per motivi di affetto, come dice Pierfausto Palumbo, perché luogo d'origine del ramo paterno della famiglia e di frequenti ritorni nell'infanzia e nella prima giovinezza. Sono ben noti due volumi che trattano di Fasano: il primo, che è anche il suo primo libro pubblicato, è Notizie storiche ed archeologiche dell'antica Gnathia, del 1882, stampato dalla tipografia Tamborrino di Ostuni; il secondo è Ignazio Ciaia martire del 1799 e le sue poesie, del 1889, stampato da Vecchi di Trani.
Pierfausto Palumbo, parlando del volume su Egnazia, ci dice che esso è «la dimostrazione di come un autodidatta con scarsissimi sussidi eruditi, ma con un profondo amore, potesse, intorno al tema di una città scomparsa, raccogliere e collegare tanta messe di conoscenze, vagliandole col solo aiuto del proprio naturale ingegno» (cfr. P. Palumbo, Pietro Vincenti, Francesco Trinchera seniore, Ludovico Pepe: tre illustri ostunesi del passato, Lecce, 1981, p. 173). E sempre Palumbo ci fa conoscere un dato poco noto, e cioè che la data 1882 sul frontespizio non è esatta. È più giusto parlare del 1883, e dice: «Il libro era già finito di stampare nell'82: furono le difficoltà per le tavole, commissionate a Lecce, a provocare il ritardo dell'uscita e le ultime ansie dell'autore».
Per questo lavoro, che successivamente fu base per i primi scavi sistematici fatti a Egnazia, Fasano deve molto a Ludovico Pepe; d'altronde nell'introduzione lo stesso Pepe dice: «Non scriviamo la Storia di Gnathia; storia a noi non trasmisero gli storici e i geografi antichi; storia non rimane negli archivi e nella tradizione: noi scriviamo semplicemente il primo libro che porti in fronte il nome di Gnathia». Sempre nell'introduzione Pepe ci dà un assaggio anche della sua vis polemica: «La storia di Gnathia è nei monumenti che ancor la terra racchiude. Ricerchiamoli questi monumenti, interroghiamoli, e al posto delle congetture porremo la Storia. Questo lavoro di sostituzione non può essere reso possibile che per opera dei Governi: i privati non possono fare (e ne han fatta fin troppo) che opera di distruzione: e i Governi l'hanno permessa, e la permettono ancora! Permettere la devastazione delle rovine più importanti delle nostre province, permettere la profanazione di tombe... che danno le più belle terrecotte e i più numerosi vasi dipinti... E finché quest'era fortunata di nuovi scavi non sarà venuta, il primo libro che parla di Gnathia riman quindi un povero libro... Di vantaggio col nostro libro abbiamo mirato a porci al sicuro dall'accusa di esser riusciti incompleti, mentre, cogli scarsi mezzi di cui è possibile qui disporre, dopo i libri, abbiamo interrogato i luoghi... Ma rimane, dopo tutto, un povero libro? Dategli lo scopo di affrettare coi voti l'era dei nuovi scavi per Gnathia, e gli darete vanto di utile libro» (cfr. L. Pepe, Notizie storiche ed archeologiche dell'antica Gnathia, Ostuni, 1882, rist. anast. Schena, Fasano, 1980, p. IX).
E il suo dire fu verità: dal suo libro partì la volontà di effettuare scavi sistematici che ancor oggi continuano e danno risultati sorprendenti. Carlo Villani, nella sua monumentale opera Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei (Trani, 1904), parlando del volume di Pepe dice che «l'opera fu molto apprezzata dagli studiosi e venne premiata dal Ministero della P.I. e tenuta in pregio non poco da Ruggero Bonghi» (ivi, p. 768). Un'opera che era stata resa ancor più pregevole dalla realizzazione di 4 tavole che riproducevano, tra l'altro, il grande muro sul mare, la pianta della città e 13 iscrizioni inedite.
Fasano, dicevo, deve molto al Pepe per il lavoro su Egnazia, e ancor più gli deve per il lavoro su Ignazio Ciaia. Nel primo centenario della morte del martire della "Rivoluzione Napoletana", Ludovico Pepe scrisse la sua biografia con dovizia di particolari e con l'amore di un conterraneo. La ricerca era stata chiesta da una commissione formata dai signori: dott. Ottavio Guarini fu Achille (presidente), avv. Annibale Pepe, avv. Giovanni Guarini, avv. Francesco Bari, avv. Giuseppe Guarini, dott. Bartolomeo Guarini, prof. Leonardo Cofano, prof. Leonardo De Mola, avv. Michele Pepe. E nella pagina di introduzione al volume così si legge: «Il Circolo Ciaia di Fasano, ad onorare
degnamente la memoria di quel grande concittadino che fu Ignazio Ciaia, nel primo centenario del suo martirio, veniva nella determinazione di compilare un volume, in cui fossero raccolti documenti, notizie e pensieri diretti ad illustrare il poeta, il cospiratore e il martire della rivoluzione del 1799. Nominata una Commissione con l'incarico di tale compilazione, essa in principio credé di rivolgersi a Municipii e a privati con una circolare a stampa per ottenere ciò che poteva far raggiungere lo scopo. Molti risposero all'appello; ma più con parole che con fatti. E allora la Commissione, anche per dare al libro una unità che non si sarebbe avuta ove il libro fosse stato il risultato dell'opera di molti, si rivolse al chiarissimo prof. Ludovico Pepe, il quale accettò l'incarico di compilare una biografia e curare la nuova raccolta delle poesie del Ciaia. E il libro resti come un cospicuo attestato di venerazione e affetto al grande che perì sul patibolo per un alto ideale, e al quale Fasano sente l'onore di aver dato i natali. La Commissione, nel licenziare al pubblico il lavoro del prof. Pepe, sente il dovere di porgergli sentiti ringraziamenti, a nome del Circolo Ciaia, per l'opera intelligente e cortesemente prestata. Fasano, ottobre 1899».
Con quest'opera Pepe rievocò la figura del cittadino Ciaia e gli episodi cruenti del 1799 che univano Fasano e Ostuni, non solo perché città vicine. Il collegamento veniva soprattutto dal fatto che il Ciaia, membro del Consiglio Provvisorio del Governo, e poi Presidente della Repubblica, aveva voluto l'avv. Giuseppe Ayroldi, anche lui martire, come rappresentante della Repubblica Napoletana a Ostuni.
Ludovico Pepe, comunque, non aveva scritto solo queste due opere che interessano Fasano. Ne esiste una terza che, in ordine cronologico, è invece la prima. È un volumetto di 52 pagine abbastanza raro, scritto da Ludovico Pepe e Cosimo De Giorgi, e pubblicato quasi certamente nel 1880: non è nota la data, né il luogo di stampa. Il motivo lo si deduce da una avvertenza riportata in prima pagina che dice: «Questa pubblicazione era destinata per uno dei periodici di questa provincia (forse il suo giornale che si intitolava L'Osservatorio Ostunese, giornale di forti propositi e che discute gli interessi provinciali senza altro fine). Non ha potuto venire accolta in quelle colonne per non frazionarla in molti numeri. Nondimeno la narrazione conserva la sua indole popolare, e non ha la pretensione di essere una monografia scientifica, nemmeno una contribuzione».
Il volume si intitola Da Salamina ad Egnazia. Sabbie vetrarie presso Fasano. È diviso in due parti perché i contributi dei due autori sono separati. La seconda parte è di Cosimo De Giorgi, dal titolo "Sabbie vetrarie presso Fasano". De Giorgi era un naturalista nato a Lizzanello e, secondo il prof. Cosimo Bertacchi, era il più bravo e attivo tra gli studiosi della geologia e geografia fisica della Puglia. Era docente nel Liceo di Lecce e aveva fondato un osservatorio meteorologico. Inoltre, su incarico del Comitato geologico italiano, aveva studiato vari siti in Puglia e Basilicata. Fu autore di numerosissimi scritti scientifici, tra i quali è da ricordare La carta geologica della Provincia di Lecce. Nell'autunno del 1879 il prof. De Giorgi, insieme ad alcuni amici ostunesi, venne a Fasano, in contrada Salamina, per verificare le condizioni di una cava dalla quale si estraeva sabbia quarzosa. «Il giacimento - scrive De Giorgi - resta sotto i monti di Fasano a poca distanza da questa città. Non fu quindi un viaggio di scoperta ma di semplice riconoscimento. La scoperta data già da un pezzo e la cava di Salamina ha la sua storia che mi fu narrata dall'egregio chimico e farmacista di Fasano sig. Giuseppe Pepe». Il De Giorgi parla di scoperta che, in verità, era avvenuta anni prima, verso il 1868, quando in un fondo coltivato a viti e fichi del sig. Achille Goffredi, situato nella contrada Salamina, nello scavare alcune fosse, venne fuori sotto lo strato coltivabile una sabbia lucente, di colore bianco, che rendeva lucido il ferro a seguito di un piccolo strofinamento. Furono fatte alcune analisi chimiche e risultò che quella sabbia era quarzosa e poteva essere usata nell'industria. Dopo pochi anni venne costruita a Carbonara un'officina per la fabbricazione del vetro; il proprietario chiamò dei vetrai da Murano mentre la sabbia quarzosa, elemento indispensabile per la fabbricazione del vetro, arrivava dall'Ungheria. In Puglia era molto affermata la produzione delle ceramiche per l'abbondanza della materia prima, mentre mancava quasi del tutto l'industria vetraria per mancanza di sabbie quarzose. La notizia che un tale giacimento esisteva presso Fasano illuminò le idee dell'imprenditore, che sperava in una buona qualità dei materiali locali e in un forte risparmio economico: invece che dall'Ungheria la sabbia sarebbe arrivata a Carbonara da Salamina. Le analisi dettero risultati soddisfacenti e a Carbonara venne iniziata la produzione di bottiglie, bicchieri, lumi a petrolio, damigiane con vetri limpidi, tutti prodotti con la sabbia di Salamina. Dal saggio del prof. De Giorgi apprendiamo inoltre che l'industria di Carbonara non andò a buon fine, ma non per colpa delle sabbie vetrarie di Salamina, le quali vennero abbandonate dal punto di vista della produzione ma continuarono ad avere un interesse scientifico notevole, che ben giustificava la visita e lo studio approfondito da parte di uno studioso del calibro del De Giorgi.   
La prima parte del volume è stata scritta invece da Ludovico Pepe, che racconta il viaggio da Salamina a Egnazia. Dodici paginette scritte con taglio giornalistico, un po' ironiche, e che ci presentano un Pepe brioso, allegro, quasi canzonatorio: all'epoca Ludovico aveva 26 anni! Vi leggo
un piccolo dialogo avuto con un contadino che accompagnava gli autori in questo strano viaggio:
«"Che cosa vogliono farne di questa polvere?" mi domandò il contadino con tanto di bocca aperta. "Eh!... la si vuole osservare". "E di quelle pietre?". "Le si devono studiare". "O che studii?". "Molti: si studia una pietra come un libro, e spesso su di una pietra si legge meglio che in un libro". Il povero contadino non ne sapea più di prima; si piegò a zappare sospirando tristemente: volea dire: Dio mio, quanto son mai asino io, se altri legge sulle pietre, quand'io non so leggere sui libri!».
Dopo l'escursione a Salamina e un frugale pasto, il Pepe ci racconta del viaggio in una antica città, Egnazia, come se si andasse in visita a una città fantasma: si andava con una vettura ma il cavallo dopo poco andò adagio attraverso un sentiero che non era fatto per le corse. Ad un tratto la voce di un contadino: «"Dove andate voi? Quella via non ha uscita". "Noi andiamo a Egnazia" gli dicemmo quando, lasciato il veicolo, ci avvicinammo a lui. Non rispose. "Noi andiamo a Egnazia". Si strinse nelle spalle, e niente altro. "Che tu non sappia dove è Egnazia?". "Non lo so, 'gnornò!". Tra lo stupore de' miei compagni, non iniziati al dialetto fasanese, domandai improvvisamente: "E Anazzo, dimmi, lo conosci?". "Anazzo? Quello sì, sissignore". "E per dove dobbiamo andare noi?". "Eh!...  non più per quella vostra via; pigliate per di qua, attraversate questa possessione, e poi... poi sarete ad Anazzo"».
Il Pepe continua a raccontare la visita, insieme ai compagni di viaggio, per Egnazia, e non manca di puntualizzare l'origine del nome Egnazia, Egnatia, Gnathia, origine che poi affronterà con maggiori particolari nel suo volume sull'antica città distrutta; probabilmente proprio questo viaggio, e qualche altro simile a questo, lo sollecitò a scrivere di quel sito archeologico che oggi è il più grande di Puglia.
Questo volumetto è significativo anche per un altro motivo: Ludovico Pepe lo scrive insieme a Cosimo De Giorgi, conosciuto proprio in occasione della visita a Salamina, e col quale stringerà un forte sodalizio. Non a caso la lunga introduzione al volume La storia di Ostuni dalle origini al 1806 fu scritta proprio dal De Giorgi.
Quasi a conclusione della prefazione, il De Giorgi dice: «Non l'amicizia che mi lega all'Autore di questo libro, non la sincera ammirazione che io nutro per questo giovane modesto e pieno di buon volere, mi hanno indotto a scriver queste poche e disadorne parole come prefazione, ma l'affetto che sento per la mia provincia e per tutti coloro che la illustrano, specie per i giovani, i quali applicano a questi studi storici i metodi severi della critica moderna». Anch'io, come il De Giorgi, provo ammirazione per chi ben illustra la nostra terra. E come potevo non testimoniarla, anche dopo più d'un secolo, per un autore che molto ha fatto per la mia terra, la quale grazie a lui può ricordare parte della sua storia?
(Autore: Angelo Sante Trisciuzzi)


*Maddalena Starace  

Castellammare di Stabia, Napoli, 5 settembre 1845 – 13 dicembre 1921
Nacque il 5 settembre 1845 a Castellamare di Stabia, prima di sei figli di una famiglia benestante. Avverte, sin da giovanissima, la chiamata e già a 12 anni entra in convento ma, due anni dopo, viene dimessa perché di salute cagionevole. Entra così a far parte di quella schiera di donne costrette a rimanere in casa a pregare e ad operare nel loro quartiere.
Esse sono per lo più inserite come Terziarie negli Ordini Mendicanti. Anche Costanza diventa Terziaria dei Servi
di Maria; insegna il catechismo e organizza la «Pia unione delle Figlie di Maria» che ospita ragazze in difficoltà. Nel 1869 sono oltre 100 le piccole ospiti e Costanza è coadiuvata da un gruppo di Figlie di Maria di cui alcune vestono l'abito di Terziarie Serve di Maria e che prendono a vivere in comunità.
Così, due anni più tardi, Costanza viene nominata superiora con il nome di Maria Maddalena della Passione. Madre Maria Maddalena muore il 13 dicembre 1921 a Castellammare. È stata beatificata il 15 aprile 2007.  (Avvenire)
Numerose furono le fondatrici che nel diciannovesimo secolo onorarono con le loro numerose realizzazioni le loro città e il loro Paese, esercitando la carità e lasciando una scia luminosa. Fra queste nobili e sante figure annoveriamo madre Maria Maddalena della Passione.
Nacque come Costanza Starace il 5 settembre 1845 a Castellammare di Stabia, prima dei sei figli di una famiglia benestante. Educata cristianamente prima in famiglia, poi in vari convitti, avvertì sin da giovanissima la chiamata di Dio alla vita religiosa; già a 12 anni entrò in convento, ma a 14 anni fu dimessa, perché di salute cagionevole.
Entrò così a far parte di quella grande schiera di donne e giovani che vivevano la consacrazione a Dio pur rimanendo nella loro casa, pregando, soffrendo ed operando nel loro rione o quartiere, irradiando una spiritualità che attirava fedeli in gran numero; il popolo le chiamò “monache di casa”. Esse per lo più erano inserite come Terziarie negli Ordini Mendicanti, ricevendone guida e sostegno spirituale.
Anche nel Meridione d’Italia vi furono esponenti di questo genere, in particolare a Napoli e provincia. Ne citiamo qualcuna: santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe, terziaria alcantarina, la “Santa dei Quartieri Spagnoli”; la serva di Dio Anastasia Ilario, terziaria domenicana, la “santarella di Posillipo”; la serva di Dio Maria di Gesù Landi, terziaria francescana, fondatrice del Tempio e delle Opere dell’Incoronata Madre del Buon Consiglio a Capodimonte; la venerabile Genoveffa De Troia, terziaria francescana a Foggia; la serva di Dio Maria Angela Crocifissa (Maria Giuda), terziaria francescana del Quartiere Mercato a Napoli; la venerabile Serafina di Dio, terziaria carmelitana a Capri.
Anche Costanza Starace aderì ad un Ordine, divenendo Terziaria dei Servi di Maria, ricevendone l’abito dal vescovo diocesano Francesco Saverio Petagna. Insegnò il catechismo e organizzò la Pia
Unione delle Figlie di Maria, poi, sollecitata dal suo vescovo e ottenuta dai genitori una abitazione, l’utilizzò per «ricoverarvi fanciulle pericolanti, facendole assistere da una pia persona, mentre lei si portava spesso in quella casa per istruire le piccole orfane».
Nel 1869, quando le piccole ospiti superavano il numero di 100 unità, Costanza Starace era coadiuvata da un gruppo di Figlie di Maria, di cui alcune vestirono l’abito di Terziarie Serve di Maria e presero a far vita comune con lei. Un paio d’anni dopo, nel 1871, monsignor Petagna nominò Costanza Starace superiora, con il nuovo nome di Maria Maddalena della Passione: nascevano così le Compassioniste Serve di Maria.
La congregazione cominciò a diffondersi, prima nelle Puglie e poi in Campania. Madre Maddalena si dedicò fino alla morte alla formazione spirituale delle sue figlie e alla guida delle attività di apostolato e di assistenza delle case che man mano si moltiplicavano.
Fu assistita e guidata dal nuovo vescovo di Castellammare di Stabia, anch’egli Terziario dei Servi di Maria, il servo di Dio monsignor Vincenzo Maria Sarnelli, che guidò la diocesi dal 1879 al 1897, quando divenne arcivescovo di Napoli.
L’attivismo, la generosità, l’instancabilità del suo operare, subivano nel segreto del suo spirito prove durissime. Dopo la tragedia della Prima Guerra Mondiale, sebbene abbastanza anziana e sfibrata dalle malattie, si dedicò con inalterata generosità all’assistenza dei più deboli e di quanti, specie orfani, malati o reduci, avessero necessità fisiche e spirituali.
La sua autobiografia, la fittissima corrispondenza epistolare, in particolare le lettere circolari alle sue suore e quelle dirette a monsignor Sarnelli, rivelano un’anima di eccezionale ricchezza umana e spirituale; tutti gli scritti sono stati raccolti in sei volumi, stampati in copie limitate e per uso interno. Nel 1893 la congregazione delle Suore Compassioniste Serve di Maria ottenne l’aggregazione ufficiale all’Ordine dei Servi di Maria, come era già avvenuto qualche anno prima per un’altra istituzione napoletana installata a Nocera, le Suore Serve di Maria Addolorata, fondate nello stesso periodo dalla Serva di Dio Maria Consiglia dello Spirito Santo, al secolo Emilia Addatis.
Madre Maria Maddalena della Passione morì il 13 dicembre 1921 a Castellammare.Il perdurare della sua fama di santità ha portato all’apertura del suo processo di beatificazione, svolto nella diocesi di Castellammare di Stabia dal 1939 al 1942. Dichiarata Venerabile con decreto del 7 luglio 2003, è stata beatificata nella Concattedrale di Castellammare di Stabia il 15 aprile 2003. I suoi resti sono conservati nel Santuario del Sacro Cuore e dell’Addolorata a Scanzano.
A conclusione si riportano alcune sue massime: «Quando non potete parlare all’uomo di Dio, parlate a Dio dell’uomo».
«La virtù è come il sole, che anche tenendo le porte chiuse entra per le fessure».
La festa liturgica della Beata Maria Maddalena della Passione, in base al decreto di beatificazione, è stata fissata al 5 settembre, giorno della sua nascita sulla terra.
(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

*Biografia

Nata a Castellammare di Stabia, nel 1845, crebbe subendo le influenze della madre Maria Rosa Cascone, molto religiosa; fu educata al "Convitto per ragazze di buona condotta" gestito dalle Figlie della Carità. Il Convitto era stato fondato nel 1850 a Castellammare di Stabia, ed era legato all'Ospedale San Leonardo.
La salute della ragazza però era instabile, cosa che le impedì di continuare a frequentare il Convitto.
La Starace entrò dunque nel Convento della Santissima Trinità di Vico Equense, un'istituzione gestita dalle suore Teresiane, ma dovette uscirne per via delle cagionevoli condizioni di salute. Soffriva di mali inspiegabili, che le preclusero la vita della suora di clausura. Dopo un breve periodo con i propri familiari, volle ritentare la vita clausura, cosa che però le fu impedita dal
padre. In compenso, tramite il suo prete confessore, poté ricevere a soli 15 anni i voti perpetui, diventando quindi suora.
Ebbe la vestizione dell'ordine il 19 giugno 1865 e l'8 giugno 1867 fece la professione di fede, diventando quindi suora terziaria e scegliendo il nome di suor Maria Maddalena della Passione.
Su incarico del vescovo Francesco Saverio Petagna, diventò direttrice della "Pia Unione delle Figlie di Maria", un istituto di catechesi per bambine.
Maria Maddalena partì, con la benedizione del Vescovo, alla volta di Alezio e vi stabilì la prima casa delle Suore Compassioniste. Il Sig. Starace cedette alle suore una parte del suo palazzo e un bel giardino. A proprie spese fece edificare una graziosa chiesa dedicata alla Vergine "SS. Addolorata "sotto il titolo della Pietà. L'istituto ottenne l'erezione canonica il 27 maggio 1871 ma solo il 10 luglio 1928 venne approvato da papa Pio XI. Dietro al canone che parlava di "compatire il prossimo", l'ordine più prosaicamente si adoperava per aiutare gli orfani e le vittime del colera che in quegli anni funestava la Campania.
Il generale dell'ordine dei Serviti assegnò il decreto di perpetua aggregazione dell'Istituto il 10 novembre 1893.
La Starace attribuì i numerosi problemi di salute avuti lungo la sua vita a "prove divine": era frequentemente soggetta a tremori, attacchi di vomito, assalti di paure paranoiche e malattie. Lei
stessa si sottoponeva volontariamente a digiuni prolungati che la lasciavano allo stremo delle forze.
La donna aveva occasionali momenti di estasi, ed in alcune occasioni manifestò anche delle stigmate. In un'occasione la manifestazione d'isteria fu tanto pronunciata che venne attribuita a possessione diabolica e venne chiamato il vescovo per un esorcismo. Gli attacchi e le crisi epilettiche si succedettero per tutto il corso della vita della donna.
Le vengono attribuiti alcuni miracoli, tra i quali uno riconosciuto dalla Chiesa cattolica il 21 ottobre 2004. Quest'ultimo avvenne nella città di Castellammare di Stabia, e riguarda la guarigione di un'altra suora appartenente all'ordine, Fara Ciaramella, ammalata di "porpora acuta di tipo tifoideo".
Il santuario del Sacro Cuore dove sono custoditi i resti di Maria Maddalena Starace
La Starace morì di polmonite il 13 dicembre 1921: già dall'8 dicembre 1921 era stata costretta a letto dall'aggravarsi della malattia.
Culto
Il 4 aprile 1939 venne aperto un processo di santificazione, che il 7 luglio 2003 ha portato all'inserimento da parte di Giovanni Paolo II nell'elenco dei "venerabili".
Sulla base di queste premesse e delle azioni compiute in vita, è stata beatificata il 15 aprile 2007 (dietro decreto firmato da Benedetto XVI il 26 giugno 2006) nella concattedrale di Castellammare di Stabia ad opera del cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Per l'occasione è stato usato il nuovo rito inserito da
Joseph Ratzinger, il quale prevede che le celebrazioni siano svolte in una città della regione del beato.
Le spoglie della suora si trovano nel Santuario del Sacro Cuore sito in Scanzano, una frazione collinare di Castellammare di Stabia, posto accanto al convento della Compassioniste da lei stessa fondato nel XIX secolo su progetto di Antonio Vitelli. Vennero traslate in loco il 19 agosto 1929, per volontà popolare.
Nel santuario intitolato al Sacro Cuore vi un quadro omonimo realizzato dal pittore Scognamiglio, dove è rappresentata ai piedi di Cristo, santa Margherita Maria Alacoque in quanto apostola del Sacro Cuore.
Nel convento, sono presenti alcuni effetti personali della beata oltre che la stanza ove ella dormiva e la cappella ove pregava.

*Mariano Angelo Rossi O.P.

L’amicizia con Bartolo Longo iniziò nel 1884, conobbe il Domenicano a Roma, dove si era recato per chiedere l’approvazione del Papa per la pubblicazione de “Il Rosario e la Nuova Pompei”.
Padre Rossi era nato in Calabria, a  Cardeto, paesino distante circa 20 km da Reggio Calabria il 31 gennaio del 1840 ed a vent’anni indossava già le bianche lane di S. Domenico.
Nel 1865 era sacerdote e due anni dopo conseguì il lettorato e mandato in Francia dove fu “lettore di S. Tommaso a Mazères prima, e poi di logica e metafisica a Saint Maximin, e quindi a Tolosa lettore di teologia morale.
Dalla Francia dovette scappare, a seguito delle persecuzioni che subirono i Domenicani da parte dei partecipanti al Governo municipale di Parigi del 1871, ispirato a principi giacobini (comunardi).
Tornato in Italia  fu mandato a Malta, poi in Corsica, successivamente a Fiesole e, da quest’ ultimo luogo, a S. Sabina in Roma.
Ben presto da Roma fu trasferito a Genova dove svolse il suo ruolo di propagatore del culto e della devozione alla Madonna di Pompei con azione  convincente e convinta.
Partì per Pompei in luglio del 1892, e qui fu Rettore della basilica, morì a Pompei il 10 agosto del 1898.


*Michele Rua

Don Rua e Don Bosco nella "Storia Pompeiana"
(Umiltà e prudenza sono i segni eloquenti dell’incontro tra il Beato Bartolo Longo, San Giovanni Bosco e Don Rua, il suo successore)
Don Bartolo era certamente dotato di specifico carisma, mentre era destinatario di particolari illuminazioni dall’alto. Ma, nella sua umiltà è mosso anche da prudenza e concretezza umana; non rifiutava guida e suggerimenti esterni, né di prendere in considerazione esperienza altrui.
Del resto, il suo cammino di conversione si era effettuato nella docilità e benefiche influenze di anime sante.
In modo particolare, poi, in più di una occasione ed in varie circostanze, accettò le suggestioni del P. Ludovico da Casoria, con il quale era in edificante consuetudine. E molto probabilmente si deve attribuire proprio a questa familiarità l’aver egli programmato, in alcuni particolari, una interessante esplorazione effettuata nel 1885.
Questa è preceduta da un rilevante episodio che lo stesso Bartolo Longo narra e che viene riportato nel numero di settembre-ottobre 1934 da “Il Rosario e la Nuova Pompei”.
“Nel mese di marzo 1884 avevo cominciato a pubblicare in Napoli questo periodico…; ma il Padre Ludovico mi disse: “Tu devi impiantare una tipografia, e stampare qui a Valle di Pompei. Prendi con te dei fanciulli poveri e derelitti, educali e stampa con essi il giornale e i tuoi libri”».
Ed il santo frate gli mise anche a disposizione una sua macchina da stampa che al momento teneva inutilizzata.
Sotto questa spinta, nell’agosto dello stesso anno 1884, la Tipografia pompeiana cominciò a funzionare, stampando in proprio il periodico.
Intanto, nel numero del luglio 1885, l’Avvocato presenta relazione su “Il nostro viaggio per l’Italia”, compiuto in varie tappe nel mese precedente. Si è appena ad un anno dall’inaugurazione della tipografia.
Scopo del viaggio, la visita ai luoghi cateriniani di Siena, l’incontro con gruppi già costituiti di devoti della Madonna del Rosario di Pompei e l’esplorazione di istituzioni benefiche operanti nel Centro e Nord Italia.
Nel contesto, sembra assumere valore speciale la tappa di Torino. Non si sa se essa sia stata di uno o di più giorni, poiché non viene datata, ma si trova intercalata tra quelle di Genova e di Asti, le quali includono le date del 7, l’una, e del 10, l’altra, del mese di giugno.  
C’è giusto motivo di pensare che tale tappa sia stata anch’essa suggerita dal P. Ludovico, giacché, nella sua biografia scritta dal Garofalo, si legge che egli nel corso di un viaggio verso Verona – dove si sarebbe unito al Comboni per una missione in Egitto -, “da Firenze raggiunse Torino, dove desiderava visitare le opere di Don Bosco e del Cottolengo”. Il rimarchevole, ora, è che, mentre per le altre località la narrazione evidenzia l’aspetto devozionale, a Torino, invece, focalizza quello esplorativo. L’autore e commosso ed ammirato quando, indugiando visi alquanto, descrive la complessa ed organica articolazione del “Cottolengo”; vera cittadella della carità al più alto livello.
L’incontro con Don Bosco
Ma quando tratta della sua visita alla vicina “Valdocco” – l’Oratorio di Don Bosco -, sembra passare di meraviglia in meraviglia, con intensità di emozione.
Così descrive la sua impressione al primo ingresso nel magico cortile”O santo sacerdote di Dio, D. Giovanni Bosco, che in mezzo a un fitto stuolo di fanciulli da te rigenerati alla chiesa, alla
Società ed alle arti, ci apparisti Calasanzio redivivo e novello Girolamo Emiliani…”.
Così, poi, sintetizza la visione panoramica da lui avuta dall’istituzione, visitata nel suo insieme e valutata nei particolari organizzativi.
“Difficilmente voi trovate un altro collegio così ben posto come quello degli Artigianelli di Torino, dove i poveri fanciulli orfani ed abbandonati si educano così bene alle arti ed ai mestieri. Sale bellissime e spaziose di fanciulli artisti, tipografi, legatori, litografi e tutte fornite di macchine con il motore a gas…”.
È opportuno notare il particolare risalto dato al settore “tipografia”, mentre l’ospite ha certamente visto anche altri reparti non meno ben attrezzati e condotti. Infine, poiché la visita deve avere avuto logica e conveniente conclusione in un colloqui privato, così egli lo rivive, alludendo anche ad una ricevuta richiesta do preghiera.
“Abbiamo pregato per te la prodigiosa Vergine di Pompei che ti prolunghi la vita al bene di tanti infelici. E la preghiera ancora con tanta intensità di affetto, quanto affettuosa e specialissima fu l’accoglienza che a noi facesti nella tua stanza di Torino”.
Sui contenuti del colloquio cade giusto velo di delicato riservo. Ma certamente, oltre all’intuibile dimensione spirituale, esso ne ha avuto anche una di ordine operativo. Dove, infatti, cadervi un particolare del tutto caratteristico che si rivela riportato nel citato articolo del 1934, per il Cinquantenario della Tipografia.
È un brano di dialogo molto alla spiccia, la cui narrazione non è di prima mano. “-Don Bosco, presto dimmi il tuo segreto; come hai fatto a conquistare il mondo? – Bartolo, eccolo il mio segreto: mando il periodico a chi lo vuole e a chi non lo vuole”.
Questo particolare, ma in diverso contesto e non in identica forma, è stato recepito anche dalle “Memorie biografiche di Don Bosco” nel volume XVII. Il risultato della specifica esplorazione torinese fu quello che viene espresso dall’articolista del 1934 nel trarre propria conclusione.
“Bartolo Longo migliorò la tipografia, accrebbe le macchine e moltiplicò le copie del periodico”. Si può anche aggiungere – riprendendolo dal maggior biografo, lo Spreafico, - che dopo quell’incontro l’Avvocato abolì il prezzo di copertina nel suo bollettino.
Certo è che lo scritto commemorativo del giubileo della tipografia riconosce, anzi annuncia, il patrocinio avuto sulla nascita e lo sviluppo di essa, unitamente al periodico, tanto dal Beato Ludovico da Casoria quanto da san Giovanni Bosco. Dalle loro ispirazioni ed esperienze, infatti, si lasciò guidare, al riguardo, l’umiltà e la prudenza del Beato Bartolo Longo, assurto poi a campione di apostolato della stampa e della comunicazione, intese quale mezzo di evangelizzazione.
Don Michele Rua a Pompei
Una lettera che il 6 gennaio 1892 Bartolo Longo indirizzava a Torino a Don Michele Rua – erede e successore di Don Bosco – apre rilevante squarcio panoramico sul suo spirito di umiltà e prudenza.
Confida che “son sette anni che io vagheggiavo nel mio pensiero la fondazione qui di una casa per orfanelli”, ma che “la Madonna invece disponeva, per tratto di sua compiacenza… che io non dovessi spendere la mia forza per gli orfani di natura, ma sì bene per gli orfani della legge e cioè i figli dei carcerati che sono fanciulli più abbandonati degli stessi orfani”. E prosegue con sommissione: “ma… oggi non mi sento più nelle forze di sovraccaricarmi novelli pesi di corpo e di spirito. Sono venuto quindi nella determinazione per la educazione morale e civile dei figli dei carcerati”.
Si sa che si era rivolto, ma singolarmente, ad un altro religioso, che aveva avuto parere sfavorevole dal suo Superiore. Rivela che: “finalmente nel giorno di Natale mi è parso che il Cuore di Gesù voglia affidare questa nuova fondazione ai figli di Don Bosco”.
Rifulge la sua ascetica e la sua umiltà nell’immediata conclusione pratica: “Se questa è stata un’illuminazione o
 un’ispirazione del cielo, me lo dirà la Paternità Vostra Reverendissima”.
Questa lettera giunse a Don Rua mentre egli stava intraprendendo un viaggio che, scendendo lungo la Penisola per il versante tirrenico, lo avrebbe portato in Sicilia, per poi farlo risalire, al ritorno, lungo la costa ionica ed adriatica e tornare a Torino, dopo due mesi, nei primi del mese di marzo.
Approfittò della circostanza, il successore di Don Bosco, per recarsi di persona a Pompei ad incontrarvi l’Apostolo della novità di vita. Lo preveniva con lettera da Lucca del 9 gennaio, precisando che “prima di rispondere alla preg.ta sua dimanda, che fin d’ora prendo in viva considerazione, ho bisogno di discorrere un poco con la S.V. Chiar.ma per poterci dare
reciproche spiegazioni su certi punti speciali…”. E chiarendo che dal Signore “dobbiamo chiedere ed aspettare i lumi necessari”.
Precisate meglio le intese, anche per il tempo da poter dedicare ai colloqui – solo in serata -, Don Rua fu a Pompei nel pomeriggio avanzato del 30 gennaio; dedicò le giornate del 31 e del seguente 1° febbraio per dei sopralluoghi a Castellammare di Stabia ed a Cava dei Tirreni, riservando le serate a Don Bartolo e la sera del giorno 1 si imbarcò a Napoli per Palermo.
Come per il colloquio che l’Avvocato ebbe con Don Bosco a Torino, anche questa volta non si ha alcuna rivelazione sul contenuto del dialogo.
La cosa, si spiega anche nel fatto che i due Santi uomini si erano reciprocamente impegnati alla massima riservatezza, almeno fino a quando non avessero dovuto coinvolgere le rispettive sfere competenti.
Si capisce, quindi anche, come il passaggio di Don Rua per Pompei – cosa di per sé certamente rimarchevole – sia passato sotto silenzio da parte di quel periodico, che pure segnalava puntualmente visite anche di minor conto.
L’incontro dovette svolgersi in signorilità e cordialità da Santi e l’Avvocato, come dimostra l’incalzante corrispondenza susseguente, ne uscì carico di ardore e di speranza, che nel suo trasporto leggeva come certezza.
Seguì, tuttavia, notevole corrispondenza e alquanto frequenti incontri interposti, fino al maggio 1893, quando da Torino giunse a Pompei, delicata risposta negativa.
Vi erano, in effetti, obiettive difficoltà per il raggiungimento di un accordo, legate, in sostanza, alla giusta reciproca esigenza, da parte di due entità di quella portata, di avere propria autonoma autenticità.
Umiltà e prudenza in Bartolo Longo
In tutto l’insieme, Bartolo Longo non solo non si è mai turbato nella sua serenità, ma ha conservato sempre atteggiamento di umiltà e prudenza, coniugando fra loro virtù spirituali e virtù umane. Fin dalla prima lettera, prospetta l’opportunità che, in vista di possibile accettazione della proposta, i Salesiani collaborino, anzi, sopraintendono, al progetto ed ai lavori per l’esecuzione del nuovo Ospizio.
Anche quando la trattativa rallenta, insiste nell’appellarsi alla loro competenza, addirittura riguardo la gara d’appalto.
 Ma è molto interessante una singolare esplorazione di carattere socio-pedagogico che egli compie.
Nel clima del tempo, l’aprire un Istituto per l’educazione dei figli dei carcerati, era un’aperta e coraggiosa sfida alle idee sociali, di tipo positivista e lombrosiano, purtroppo dominanti.
Di esse egli era dotto e validissimo contraddittore: ma, nel programmare la concretizzazione della sfida, egli vuol farsi umile scolaretto.
Infatti, fra molti foglietti di appunti, ve ne è uno che riguarda un “problema” da sottoporre “ai Salesiani” circa alcune modalità pratiche da adottare. Il punto centrale è il quesito “se è meglio educare al laboratorio comune i figli dei carcerati per avere idea del come gli altri lavorano. Oppure educarli nelle proprie scuole per evitare ogni comunanza con gli operai esterni”.
Si capisce subito la delicata importanza del problema che egli in semplicità ed umiltà, prudentemente rimetta all’esperienza psico-pedagogica salesiana. Sul medesimo foglietto sono frettolosamente appuntati, in forma di “sì” e di “no”, le risposte ricevute.
Languendo, poi, la trattativa, ancora nell’ultima lettera di speranza scritta a Don Rua il 26 aprile 1893, dove Bartolo si dimostra aperto, disponibile e desideroso di indicazioni e suggerimenti; pronto ad aderire a proposte concrete. In piena docilità.
E quando agli inizi di maggio giunge definitiva comunicazione del disimpegno salesiano, non risultano eventuali sue reazioni risentite. In coerenza con il suo proposito iniziale di ritenere qualsiasi responso ricevuto da Don Rua, come manifestazione della “volontà di Dio”.
Si hanno invece buone testimonianze di continuate manifestazioni di stima e di fiducia, come pure di buona vicinanza con la Casa Salesiana di Castellammare di Stabia, apertasi in quegli stessi anni. (Pio del Pezzo)

Biografia

Ultimo di nove figli di Giovanni Battista Rua rimane orfano di padre il 2 agosto 1845.
Vive con la madre che ha un alloggio nella azienda dove lavora.
Ě in questo momento, forse nel successivo autunno, che incontra don Giovanni Bosco.
Partecipa fin da subito all'oratorio e diventa un entusiasta amico del futuro Santo.
Spinto sempre da don Bosco prende la strada del sacerdozio e il 3 ottobre 1853 riceve da don Bosco stesso l'abito clericale ai Becchi di Castelnuovo, da Don Bosco, in una cappella fatta costruire dal sacerdote astigiano.
Nel 1859 Pio IX ufficializza la congregazione salesiana, don Bosco è Superiore Generale Rua è direttore spirituale, diventa di fatto il "braccio destro" del santo che già da anni serviva nell'ombra.
Un giorno ebbe a dire: "traevo maggior profitto nell'osservare don Bosco, anche nelle sue azioni più umili, che a leggere e meditare un trattato di ascetismo".
Il 28 luglio 1860 viene ordinato sacerdote.
Nel 1865 è nell'oratorio di Valdocco a Torino, ci sono 700 ragazzi è le vocazioni sono molteplici, ma il lavoro di Rua è devastante e nel luglio 1868 sfiora la morte a causa di una peritonite, i medici gli danno poche ore di vita, ma invece arriva la guarigione, pare per miracolo compiuto per intercessione di Don Bosco.
Il peso della congregazione è per metà di nuovo sulle sue spalle, ma la salute di don Bosco peggiora e nel 1884 è il papa stesso a suggerire di pensare al suo successore, non ci sono esitazione deve essere Michele Rua.
Il 31 gennaio 1888 muore don Bosco e Rua diventa il superiore generale dei Salesiani.
Nel 1889 riprende prepotente l'espansione della congregazione che ormai ha una dimensione mondiale con case in tutti i continenti.
Michele Rua si trova così a capo di numerose case e migliaia di religiosi. Non è certo tipo da stare con le mani in mano, negli anni insiste sull'attuazione del sistema preventivo di don Bosco visita le opere salesiane percorrendo centinaia di migliaia di chilometri nonostante che con l'avanzare dell'età comincia ad avere seri problemi di salute.
Nel 1907 viene inventato di sana pianta uno scandalo in un collegio, l'Italia si scatena contro i salesiani.
Ma Rua è in prima fila a lottare e tutto finisce in semplici calunnie.
Dopo avuto la gioia di vedere don Bosco dichiarato "venerabile" (1907) e di aver finito di costruire la chiesa di Maria Liberatrice a Roma (1908) si ammala ed è costretto a letto spirerà due anni più tardi.
Aveva ricevuto dal fondatore 700 religiosi in 64 case disseminate in 6 paesi, ne lascia al suo successore 4000 religiosi in 341 case sparse in 30 nazioni.
Il primo successore di don Bosco, rettore maggiore dei salesiani, viene proclamato Beato nel 1972 da Paolo VI.
Scritti
1 - Lettere circolari di D. Bosco e di D. Rua ed altri loro scritti ai Salesiani, Torino, Tipografia salesiana, 1896;
2 - Lettere circolari di don Michele Rua ai Salesiani, Torino, Tip. S.A.I.D Buona Stampa, 1910;
3 - Circolare sulla povertà: 31 gennaio 1907, Torino, Direzione generale Opere salesiane, 1961;
4 - Lettere circolari di don Michele Rua ai Salesiani, Torino, Direzione Generale Opere Salesiane, 1965;
5 - Lettere inedite di don Rua conservate presso l'archivio salesiano di Caserta, a cura di Nicola Nannola, Roma, LAS, 1986?;
6 - La missione fra gli indigeni del Mato Grosso: lettere di don Michele Rua, 1892-1909, a cura di Antonio da Silva Ferreira, Roma, LAS, 1993;
Solenne Beatificazione del sacerdote Michele Rua
Omelia di Paolo VI
Domenica, 29 ottobre 1972
Venerabili Fratelli e Figli carissimi!
Benediciamo il Signore!
Ecco: Don Rua è stato ora da noi dichiarato «Beato»!
Ancora una volta un prodigio è compiuto: sopra la folla della umanità, sollevato dalle braccia della Chiesa, quest’uomo, invaso da una levitazione che la grazia accolta e secondata da un cuore eroicamente fedele ha reso possibile, emerge ad un livello superiore e luminoso, e fa convergere a sé l’ammirazione e il culto, consentiti per quei fratelli che, passati all’altra vita, hanno ormai raggiunta la beatitudine del regno dei cieli.
Bontà, Mitezza, Sacrificio
Un esile e consunto profilo di prete, tutto mitezza e bontà, tutto dovere e sacrificio, si delinea sull’orizzonte della storia, e vi resterà ormai per sempre: è Don Michele Rua, «beato»!
Siete contenti? Superfluo chiederlo alla triplice Famiglia Salesiana, che qui e nel mondo esulta
con noi, e che trasfonde la sua gioia in tutta la Chiesa.
Dovunque sono i Figli di Don Bosco, oggi è festa. Ed è festa specialmente per la Chiesa di Torino, patria terrena del nuovo Beato, la quale vede inserita nella schiera possiamo dire moderna dei suoi eletti una nuova figura sacerdotale, che ne documenta le virtù della stirpe civile e cristiana, e che certo ne promette altra futura fecondità.
Don Rua, «beato». Noi non ne tracceremo ora il profilo biografico, né faremo il suo panegirico. La sua storia è ormai a tutti ben nota. Non sono certamente i bravi Salesiani, che lasciano mancare la celebrità ai loro eroi; ed è questo doveroso omaggio alle loro virtù che, rendendoli popolari, estende il raggio del loro esempio e ne moltiplica la benefica efficacia; crea l’epopea, per l’edificazione del nostro tempo.
E poi, in questo momento nel quale la commozione gaudiosa riempie i nostri animi, preferiamo piuttosto meditare che ascoltare. Ebbene meditiamo, un istante, sopra l’aspetto caratteristico di Don Rua, l’aspetto che lo definisce, e che con un solo sguardo ce lo dice tutto, ce lo fa capire. Chi è Don Rua?
È il primo successore di Don Bosco, il Santo Fondatore dei Salesiani. E perché adesso Don Rua è beatificato, cioè glorificato? è beatificato e glorificato appunto perché suo successore, cioè continuatore: figlio, discepolo, imitatore; il quale ha fatto con altri ben si sa, ma primo fra essi, dell’esempio del Santo una scuola, della sua opera personale un’istituzione estesa, si può dire, su tutta la terra; della sua vita una storia, della sua regola uno spirito, della sua santità un tipo, un modello; ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume. Ricordate la parabola del Vangelo: «il regno dei cieli è simile a grano di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo; esso è tra i piccoli di tutti i semi, ma quando è cresciuto è tra i più grandi di tutti gli erbaggi e diventa pianta, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi fra i suoi rami» (Matth. 13, 31-32). La prodigiosa fecondità della famiglia Salesiana, uno dei maggiori e più significativi fenomeni della perenne vitalità della Chiesa nel secolo scorso e nel nostro, ha avuto in Don Bosco l’origine, in Don Rua la continuità. È stato questo suo seguace, che fin dagli umili inizi di Valdocco, ha servito l’opera Salesiana nella sua virtualità espansiva, ha capito la felicità della formula, l’ha sviluppata con coerenza testuale, ma con sempre geniale novità. Don Rua è stato il fedelissimo, perciò il più umile ed insieme il più valoroso dei figli di Don Bosco.
Una tradizione gloriosa
Questo è ormai notissimo; non faremo citazioni, che la documentazione della vita del nuovo Beato offre con esuberante abbondanza; ma faremo una sola riflessione, che noi crediamo, oggi specialmente, molto importante; essa riguarda uno dei valori più discussi, in bene ed in male, della cultura moderna, vogliamo dire della tradizione.
Don Rua ha inaugurato una tradizione. La tradizione, che trova cultori e ammiratori nel campo della cultura umanistica, la storia, per esempio, il divenire filosofico, non è invece in onore nel campo operativo, dove piuttosto la rottura della tradizione - la rivoluzione, il rinnovamento precipitoso, la originalità sempre insofferente dell’altrui scuola, l’indipendenza dal passato, la liberazione di ogni vincolo - sembra diventata la norma della modernità, la condizione del progresso, Non contestiamo ciò che vi è di salutare e di inevitabile in questo atteggiamento della vita tesa in avanti, che avanza nel tempo, nell’esperienza e nella conquista delle realtà circostanti; ma metteremo sull’avviso circa il pericolo e il danno del ripudio cieco dell’eredità che il passato, mediante una tradizione saggia e selettiva, trasmette alle nuove generazioni. Non tenendo nel debito conto questo processo di trasmissione, noi potremmo perdere il tesoro accumulato della civiltà, ed essere obbligati a riconoscerci regrediti, non progrediti, e a ricominciare da capo un’estenuante fatica. Potremmo perdere il tesoro della fede, che ha le sue radici umane in determinati momenti della storia che fu, per ritrovarci naufraghi nel pelago misterioso del tempo, senza più avere né la nozione, né la capacità del cammino da compiere. Discorso immenso, ma che sorge alla prima pagina della pedagogia umana, e che ci avverte, se non altro, quale merito abbia ancora il culto della sapienza dei nostri vecchi, e per noi, figli della Chiesa, quale dovere e quale bisogno noi abbiamo di attingere dalla tradizione quella luce amica e perenne, che dal lontano e prossimo passato proietta i suoi raggi sul nostro progrediente sentiero.
Ci insegna ad essere discepoli d’ un Superiore Maestro
Ma per noi il discorso, davanti a Don Rua, si fa semplice ed elementare, ma non per questo meno degno di considerazione. Che cosa c’insegna Don Rua? Come ha egli potuto assurgere alla gloria del paradiso e all’esaltazione che oggi la Chiesa ne fa? Precisamente, come dicevamo, Don Rua c’insegna ad essere dei continuatori; cioè dei seguaci, degli alunni, dei maestri, se volete, purché discepoli d’un superiore Maestro.
Amplifichiamo la lezione che da lui ci viene: egli insegna ai Salesiani a rimanere Salesiani, figli sempre fedeli del loro fondatore; e poi a tutti egli c’insegna la riverenza al magistero, che presiede al pensiero e alla economia della vita cristiana. Cristo stesso, come Verbo procedente dal Padre, e come Messia esecutore e interprete della rivelazione a lui relativa, ha detto di Sé: «la mia dottrina non è mia, ma è di Colui che mi ha mandato» (Io. 7, 16).
La dignità del discepolo dipende dalla sapienza del Maestro. L’imitazione nel discepolo non è più passività, né servilità; è fermento, è perfezione (Cfr. 1 Cor. 4, 16). La capacità dell’allievo di sviluppare la propria personalità deriva infatti da quell’arte estrattiva, propria del precettore, la quale appunto si chiama educazione, arte che guida l’espansione logica, ma libera e originale delle qualità virtuali dell’allievo.
Vogliamo dire che le virtù, di cui Don Rua ci è modello e di cui la Chiesa ha fatto titolo per la sua beatificazione, sono ancora quelle evangeliche degli umili aderenti alla scuola profetica della santità; degli umili ai quali sono rivelati i misteri più alti della divinità e dell’umanità (Cfr. Matth. 11, 25).
Se davvero Don Rua si qualifica come il primo continuatore dell’esempio e dell’opera di Don Bosco, ci piacerà ripensarlo sempre e venerarlo in questo aspetto ascetico di umiltà e di dipendenza; ma noi non potremo mai dimenticare l’aspetto operativo di questo piccolo-grande uomo, tanto più che noi, non alieni dalla mentalità del nostro tempo, incline a misurare la statura d’un uomo dalla sua capacità d’azione, avvertiamo d’avere davanti un atleta di attività apostolica che, sempre sullo stampo di Don Bosco, ma con dimensioni proprie e crescenti, conferisce a Don Rua le proporzioni spirituali ed umane della grandezza. Infatti missione grande è la sua.
I biografi ed i critici della sua vita vi hanno riscontrato le virtù eroiche, che sono i requisiti che la Chiesa esige per l’esito positivo delle cause di beatificazione e di canonizzazione, e che suppongono e attestano una straordinaria abbondanza di grazia divina, prima e somma causa della santità.
La missione che fa grande Don Rua si gemina in due direzioni esteriori distinte, ma che nel cuore di questo poderoso operaio del regno di Dio s’intrecciano e si fondono, come di solito avviene nella forma dell’apostolato che la Provvidenza a lui assegnò: la Congregazione Salesiana e l’oratorio, cioè le opere per la gioventù, e quante altre fanno loro corona.
Qui il nostro elogio dovrebbe rivolgersi alla triplice Famiglia religiosa che da Don Bosco dapprima e poi da Don Rua, con lineare successione ebbe radice, quella dei Sacerdoti Salesiani, quella delle Figlie di Maria Ausiliatrice, e quella dei Cooperatori Salesiani, ognuna delle quali ebbe meraviglioso sviluppo sotto l’impulso metodico e indefesso del nostro Beato.
Basti ricordare che nel ventennio del suo governo da 64 case salesiane, fondate da Don Bosco durante la sua vita, esse crebbero fino a 314. Vengono alle labbra, in senso positivo, le parole della Bibbia: «Qui vi è il dito di Dio!» (Ex. 8, 19). Glorificando Don Rua, noi rendiamo gloria al Signore, Che ha voluto nella persona di lui, nella crescente schiera dei suoi Confratelli e nel rapido incremento dell’opera Salesiana manifestare la sua bontà e la sua potenza, capaci di suscitare anche nel nostro tempo l’inesausta e meravigliosa vitalità della Chiesa e di offrire alla sua fatica apostolica i nuovi campi di lavoro pastorale, che l’impetuoso e disordinato sviluppo sociale ha aperto davanti alla civiltà cristiana. E salutiamo, festanti con loro di gaudio e di speranza, tutti i Figli di questa giovane e fiorente Famiglia Salesiana, che oggi sotto lo sguardo amico e paterno del loro nuovo Beato rinfrancano il loro passo sulla via erta e diritta dell’ormai collaudata tradizione di Don Bosco.
In Cristo ogni armonia e felicità
Poi le opere Salesiane si accendono davanti a noi illuminate dal Santo Fondatore e con novello splendore del Beato continuatore. È a voi che guardiamo, giovani della grande scuola Salesiana! Vediamo riflesso nei vostri volti e splendente nei vostri occhi l’amore di cui Don Bosco e con lui Don Rua e tutti i loro Confratelli di ieri e di oggi, e certo di domani, vi ha fatto magnifico schermo.
Quanto siete a noi cari, quanto siete per noi belli, quanto volentieri vi vediamo allegri, vivaci e moderni; voi siete giovani cresciuti e crescenti in codesta multiforme e provvidenziale opera Salesiana! Come preme sul cuore la commozione delle straordinarie cose che il genio di carità di San Giovanni Bosco e del Beato Michele Rua e dei mille e mille loro seguaci ha saputo produrre
per voi; per voi, specialmente, figli del popolo, per voi, se bisognosi di assistenza e di aiuto, di istruzione e di educazione, di allenamento al lavoro e alla preghiera; per voi, se figli della sventura, o confinati in terre lontane aspettate chi vi venga vicino, con la sapiente pedagogia preventiva dell’amicizia, della bontà, della letizia, chi sappia giocare e dialogare con voi, chi vi faccia buoni e forti facendovi sereni e puri e bravi e fedeli, chi vi scopra il senso e il dovere della vita, e vi insegni a trovare in Cristo l’armonia d’ogni cosa!
Anche voi oggi noi salutiamo, e vorremmo tutti voi, alunni piccoli e grandi della gioconda studiosa e laboriosa palestra Salesiana, e con voi tanti vostri coetanei delle città e delle campagne, voi delle scuole e dei campi sportivi, voi del lavoro e della sofferenza, e voi delle nostre aule di catechismo e delle nostre chiese, sì, vorremmo tutti un istante chiamarvi sull’«attenti!», ed invitarvi a sollevare gli sguardi verso questo nuovo Beato Don Michele Rua, che vi ha tanto amati e che ora per mano nostra, la quale vuol essere quella di Cristo, a uno a uno, e tutti insieme vi benedice.
Comunità Salesiana "Beato Michele Rua"
La comunità “Michele Rua” (Roma-UPS) è stata fondata nel 1975 per completare la comunità “Don Bosco”, che risultava insufficiente per accogliere tutte le richieste.
Il suo scopo principale è quello di offrire a salesiani di tutto il mondo (sacerdoti, normalmente) un ambiente idoneo per fare un’ esperienza di vita religiosa salesiana che sia  molto arricchente e allo stesso  tempo li aiuti a  realizzare convenientemente studi diversi (licenza, dottorato, aggiornamento) nella Università ed, eccezionalmente, anche in altre Università  Pontificie di Roma.
Si potrebbe descrivere così:
È una comunità cristiana: perciò Dio Uno e Trino è nel centro, occupa il Primato, e Gesù è il modello per eccellenza: il Buon Pastore  che tutti i sacerdoti devono essere.
È una comunità salesiana: questo vuol dire che lo spirito di allegria e di famiglia  di Don Bosco è  presente nella vita quotidiana creando un’ atmosfera propizia per la  condivisione fraterna.
È una comunità di studenti: perciò lo studio è il primo apostolato e la sua garanzia nel  presente e nel futuro.
È una comunità apostolica: entro la Visitatoria UPS e fuori (assicura il servizio in otto cappellanie nei giorni feriali e in tredici parrocchie/centri giovanili nel fine settimana; inoltre offre servizi sacerdotali nel tempo di Natale, della Settimana Santa e durante l’estate…)
È una comunità aperta alla Chiesa: offre ai vescovi che chiedono un posto per qualche prete diocesano il proprio progetto di vita, che è ben accolto da tutti i preti diocesani: sette o otto al massimo ogni anno. Talvolta  si accoglie anche qualche religioso non salesiano.
È una comunità internazionale: normalmente i paesi d’ origine si aggirano sui venticinque; perciò si vive l’interculturalità in tante maniere e si condividono le problematiche attuali dei loro paesi.
È una comunità numerosa: (con una media di sessanta membri ogni anno, di cui cinque stabili, tutti membri del Consiglio, e cinquantacinque studenti). Il numero permette di portare avanti molte iniziative dentro e fuori della comunità che costituiscono una vera ricchezza formativa .
È una comunità che si sente Visitatoria: perciò ogni anno si assume la responsabilità di parecchie attività: prepara l’ album fotografico della Visitatoria e l’ annuario, ambienta i luoghi intercomunitari e alcuni incontri non accademici (incontro d’ inizio dell’ anno, con il Rettor Maggiore, giornate di salesianità, e altri), dirige l’ accademia dell’ Immacolata e l’ animazione musicale dell’ Eucaristia di alcune feste: Beato Luigi Variara e altre), gestisce gli Esercizi Spirituali nei  Luoghi di San Francesco di Sales e quelli di Cracovia, promuove la preghiera missionaria e vocazionale  mensile della Congregazione, collabora direttamente nella festa della Visitatoria, e accoglie - ogni due anni - i confratelli che frequentano i corsi di italiano, latino e greco  durante l’ estate. Ha cura del “cucinino”.
È una comunità che cerca di essere  parte integrante  e attiva della università: perciò si assume la responsabilità dello sport universitario, appoggia le attività religiose, culturali  e accademiche non limitandosi soltanto a occupare una sedia nelle aule o a riempire un posto negli atti universitari.
Cerca di essere una comunità per il nostro tempo e una comunità credibile. Per raggiungere più facilmente questo scopo elabora ogni anno il Progetto di Vita Comunitaria, che ruota intorno ad un obiettivo generale inspirato alla priorità annuale proposta dalla Visitatoria. La priorità di quest’ anno è: Insieme diamo qualità al quotidiano.
Sa che Maria Ausiliatrice  è accanto a tutti e perciò cammina nella fiducia che tutto riuscirà sempre molto bene.
Chi entra in questa comunità deve sentirsi libero per fare il bene che deve fare sempre come salesiano, come religioso e come prete; e tutto con creatività e senza nessun complesso e non lasciando per l’ indomani, oppure per altre persone extra-comunitarie, l’ affetto, l’ aiuto, il sorriso, l’ abbraccio fraterno, i dettagli, la condivisione di quello che si è e si possiede, il fervore e la festa.


*Paolo Manna

Si infoltisce la schiera dei Beati e dei Santi che hanno conosciuto il Beato Bartolo Longo. La Chiesa ne ha proclamato la chiara ed eroica esemplarità della vita e li ha additati come modelli di santità perché ciascuno possa imitarne la preziosa testimonianza, tra questi vi è il Beato Alfonso Maria Fusco.
La Città Mariana crocevia di Santità
Tra gli ultimi Beati (4 novembre 2001) va ricordato Padre Paolo Manna di cui è stato offerto il profilo biografico e devozionale verso la Madonna Di Pompei nel numero del 2001, p. 38 della rivista "Il Rosario e la Nuova Pompei".
Mi piace ricordare il profondo spirito missionario del Beato Bartolo Longo, che non si manifestò solo attraverso il sostegno morale ed economico ai giovani aspiranti missionari, ma anche con l’amicizia con molti di essi che lavoravano nelle diverse parti del mondo.
Egli aveva elaborato, come del resto era naturale, una teologia della missione legata alla storia di Pompei di cui egli era promotore, cioè l’inviato-missionario del Signore.
Per Lui, infatti, il Rosario di Maria pregato e vissuto a Pompei, era la via dell’evangelizzazione per i circa 300 abitanti, agli inizi, e per i milioni di persone che avrebbero frequentato il Santuario della Nuova Pompei.
(Autore: Pietro Caggiano)
*Il Beato Paolo Manna, Amico di Bartolo Longo
É bello ricordare, la figura del Beato Padre Paolo Manna, del Pontificio Istituto Missioni Estere, che con la sua santità di vita e la passione per l’evangelizzazione dei popoli, è stato la coscienza missionaria della Chiesa del ventesimo secolo, proprio come il grande apostolo Paolo di cui portava all’anagrafe il nome e nel cuore la stessa passione per Gesù Cristo e il suo Vangelo.
Padre Manna, nato ad Avellino il 16 gennaio 1872 e morto a Napoli il 15 settembre 1952, donò la vita per l’evangelizzazione dei non cristiani, prima come missionario in Birmania (l’attuale Myanmar), che fu costretto a lasciare per malattia a soli 35 anni, poi, da allora e fino alla fine della vita, come infaticabile animatore nella Chiesa per la "missio ad gentes", cioè il primo annuncio del Vangelo a quanti ancora non ‘hanno ricevuto e che sono, dopo duemila anni, ancora la grande maggioranza dell’umanità. Come Paolo di tarso, Padre Paolo Manna evangelizzava soprattutto con la stampa. Scrisse diversi libri che sono fondamentali per capire la natura missionaria della Chiesa e l’obbligo per tutti i battezzati di realizzarla. Rifondò le missioni cattoliche e fondò tre riviste, che animano tuttora la chiesa verso l’ideale della missione: nel 1914, "Propaganda Missionaria"; nel 1919, "L’Italia Missionaria", un periodico per i giovani; nel 1943, "Venga il tuo Regno", rivista rivolta alle famiglie. Sulla convinzione di fede che la missione segna la natura stessa della Chiesa, realizzò due istituzioni profetiche: la Pontificia Unione
Missionaria, per ricordare la natura missionaria del sacerdozio cattolico, e il Seminario Missionario "Sacro Cuore" per l’Italia Meridionale, per significare il dovere di ogni Chiesa locale a provvedere direttamente alle vocazioni missionarie specifiche. Per realizzare questa attività, Padre Paolo Manna, come Paolo di Tarso, non aveva soste, non si concedeva tregua e non dava tregua, nella Chiesa, a nessuno perché come l’Apostolo, suo maestro, mostrava con la vita missionaria che "L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro" (2 Cor 5, 14-15) Padre Manna ebbe molta devozione per il Santuario Mariano di Pompei, dove si recò a pregare la Vergine del Rosario tanta volte e, in un’ultima occasione, alcuni mesi prima di morire, nell’ottobre del 1950, sognò addirittura di far nascere accanto ad esso il Seminario Missionario per l’Italia meridionale, intrattenendo per questo contatti con il Beato Bartolo Longo, fondatore del Santuario e delle Opere di carità annesse, e con il Cardinale Augusto Silj, delegato pontificio dal 20 febbraio 1906 al 27 febbraio 1926. Dopo aver aperto, a Trentola Ducenta (Caserta), il Seminario Missionario Meridionale, Bartolo Longo inviò a padre Manna il secondo alunno del Seminario, si chiamava Gennarino Sarno, piccolo ospite dell’orfanotrofio pompeiano.
Padre Manna sognava anche che il bollettino del Santuario potesse essere una grande occasione per animare la vocazione missionaria della Chiesa.
Abbiamo ricordato i rapporti di Padre Manna con il Santuario di Pompei; per lui la devozione a Maria è l’anima della santità del missionario e la preghiera del Rosario la più efficace. Scrisse ai missionari, ricordando la sua esperienza sugli altipiani birmani: "Specialmente nei lunghi viaggi, attraverso piani e monti, nella solenne quiete delle foreste, tenete il vostro spirito raccolto, sgranate il vostro Rosario, seminate preghiere: spunteranno sui vostri passi fiori di grazie".
(Autore: Padre Giuseppe Buono, Pime)


*Tommaso Maria Fusco

Si infoltisce la schiera dei Beati e dei Santi che hanno conosciuto il Beato Bartolo Longo. La Chiesa ne ha proclamato la chiara ed eroica esemplarità della vita e li ha additati come modelli di santità perché ciascuno possa imitarne la preziosa testimonianza, tra questi vi è il Beato Alfonso Maria Fusco.
La Città Mariana crocevia di Santità
Tommaso Maria Fusco, omonimo di Alfonso Maria Fusco ma non legato a lui da vincoli di parentela. Ambedue della stessa diocesi ed area geografica, fraterni amici, vissuti quasi negli stessi anni.
Le principali date della vita e dell’Opera del Fondatore possono essere così sintetizzate: nasce a Pagani (SA) il 1 dicembre del 1831, è ordinato sacerdote il 22 dicembre 1855, avvia la Congregazione delle "Figlie del Preziosissimo Sangue" nel 1867, muore il 24 febbraio 1891. Beatificato il 7 ottobre 2001.
Scritti biografici e pubblicazioni delle sue opere si sono moltiplicate negli ultimi quindici anni. Mi riferisco in particolare ai volumi del gesuita Pietro Schiavone.
Nei circa 35 anni di sacerdozio, svolse agli inizi i doveri ministeriali diocesani dedicandosi sempre più alla formazione del clero e dei religiosi, amò i bambini ed i giovani prendendosene a cuore i bisogni economici ed il suo futuro.
La radice di questo grande amore – il suo carisma – è Gesù Cristo. Soleva dire: "Chi ha bene studiato il Crocifisso sa ogni cosa…".
Il contesto storico ed il luogo di nascita favoriscono la conoscenza della spiritualità ignaziana e di S. Alfonso Maria de’ Liguori, grazie anche ai direttori spirituali padre Losito e padre Leone.
Di qui la grande devozione alla Madre Addolorata ed il Preziosissimo Sangue.
A quel tempo erano già sorte alcune congregazioni ed iniziative sociali intitolate al Preziosissimo Sangue.
Don Tommaso elaborò ulteriormente tale spiritualità definendola "Carità del Preziosissimo Sangue" che divenne il titolo definitivo della sua Congregazione: alle "figlie" il compito di portare nel mondo questa sublime Carità di Cristo.
Non risultano documentati incontri particolari con il nostro Bartolo Longo, ma è facile supporli in quanto ebbero in comune i due direttori spirituali ed anche la devozione a Gesù Crocifisso.
Il nostro Fondatore, infatti, si riferisce "al Sangue Divino" sia nella Supplica che altri scritti spirituali. Notevole la devozione, ancora oggi, dei fedeli per il "crocifisso alfonsiano" appartenuto e venerato da Bartolo Longo.
(Autore: Pietro Caggiano)


*Vincenzo Celli  

Già Vicario del Card. Augusto Silj fu poi Delegato Pontificio per il Santuario e le Opere di Pompei.
Vescovo titolare di Tapso (Ras Dimas in Turchia), era Vicario Generale della prelatura di Pompei, quando morì alle ore 15 del 17 ottobre del 1951.
Nato a Roma il 23 febbraio del 1870, fu ordinato sacerdote nella Diocesi di Norcia, il 22 settembre del 1892.
Insegnante nel Seminario di Norcia fu chiamato nel 1906 da Augusto Silj a Valle di Pompei per svolgere un apostolato che durò ben 45 anni.

Il 29 giugno 1927 fu ordinato Vescovo da Mons. Carlo Cremonesi che era successo al Cardinale Silj nel governo del Santuario e delle Opere di Pompei.
Fu a fianco di Sua Ecc. l’Arciv. Mons. Anastasio Rossi, Prelato di Pompei; poi collaborò con il Delegato Pontificio Mons. Roberto Ronca.
Fu fervente promulgatore della devozione alla Madonna di Pompei e sempre con quello stesso zelo e con la stessa fede, che Bartolo Longo gli aveva inculcato.   
(Prof. Mario Rosario Avellino)


*Vincenzo Paliotti  

L'artista Paliotti Vincenzo fu un pittore attivo nel corso del XIX secolo. Nacque a Terni nel 1861, morì a Roma nel 1894 all'età di 33 anni.
Vincenzo Paliotti, romano di nascita, in giovane età si trasferì in Campania dove svolse in prevalenza la sua attività artistica. Si ammirano i suoi affreschi nella Cattedrale di Castellammare di Stabia ed anche in quella di Benevento, nella Chiesa del Gesù Vecchio di Napoli e nella Cattedrale di Capua; il secondo sipario del Teatro San Carlo di Napoli è opera sua; suoi infine alcuni dipinti al palazzo Farnese in Roma. "Vincenzo Paliotti è stato uno di quegli artisti che
sin dal principio mi è stato costante compagno nei lavori di questo Santuario ed acuto interprete e fedele esecutore dei miei concetti artistici e dei temi più facili che io soglio porgere ai miei compagni di arte per la più nobile manifestazione delle bellezze cristiane e delle idee puramente ascetiche" (B.L.).
Di tutti i dipinti del Paliotti nel Santuario resta solo una parte; purtroppo durante i lavori di ampliamento del Tempio (1934-1939), alcuni affreschi ed i dipinti della Cupola dovettero essere sacrificati.
La Cupola infatti fu interamente ricostruita più ampia e più alta; l’abside fu arretrata, furono aggiunte le due navate laterali al fine di ricavare maggiore spazio per accogliere i numerosi fedeli.
Attualmente della vasta opera del Paliotti restano: - i quindici medaglioni dipinti su rame che coronano il quadro della Madonna. Rappresentano i quindici misteri del Rosario; - Il soffitto della navata centrale, vasto affresco firmato e datato 1888, vi è rappresentato l’ultimo mistero glorioso con al sommo la trinità che incorona la vergine, il tutto circondato da angeli in atto di omaggio. Nelle ogive sono affrescati San Domenico, San Benedetto, San Francesco d’Assisi e Sant’Agostino. Negli interspazi infine, tra i finestroni, San Pio V e San Paolino; - L’affresco del succielo della cantoria, con Santa Cecilia protettrice della musica e gruppi di angeli assorti nel canto.
(Nicola Avellino)

Il pittore Vincenzo Paliotti lavorò anche nel Duomo di Santa Maria Capua Vetere

Attenendoci ad alcune enciclopedie, dovremmo considerare il pittore Vincenzo Paliotti (Roma 1831-Napoli 1894) uno dei più freddi esponenti della corrente romantica, accademico e vedutista, che fu essenzialmente decoratore e pittore di pannelli ecclesiali. Mi sembra che non esista (almeno non l’ho trovata) una monografia sul profilo biografico e professionale dell’artista, il quale ha lavorato molto in gran parte dell’Italia meridionale, cimentandosi in lavori impegnativi non solo per l’importanza delle basiliche, ma anche per la dimensione dei pannelli soprattutto sulle volte delle navate centrali.
Egli affrescò, secondo i moduli accademici, la volta, la cupola, i pennacchi, le vele dei quattro altari e della crociera e il coro della basilica della Madonna del S. Rosario di Pompei (Na); lavorò ancora nel duomo di Maria SS. Assunta di Castellammare di Stabia (Na), nella chiesa di San Rocco a Torrevecchia Teatina (Ch), nella chiesa di S. Giuseppe Lungara a Roma, nel teatro di Lecce, nel duomo di Galatina (Le) ed, infine, nella cattedrale di S. Maria Maggiore di Santa Maria Capua Vetere (Ce).
A parte le tele, forse messe in vendita dalla famiglia Borrelli di Napoli (Ultima cena e Le sirene), come si vede, le sue opere furono numerose e diffuse in buona parte dell’Italia centro-meridionale. In particolare, eseguì parecchi lavori pittorici nel Santuario di Pompei e nel duomo di Castellammare di Stabia. Tra i primi interventi, si annovera la tela di S. Rocco (1852), nella chiesa di Torrevecchia Teatina; a Roma, nella chiesa di S. Giuseppe Lungara, lasciò vari dipinti.
A Pompei, nel Santuario del Rosario, si trovano l’Incoronazione della Vergine, nella cappella omonima e quindici medaglioni di rame, intorno al preziosissimo quadro della Vergine, sui quali si svolgono gli altrettanti obbligatori Misteri del Rosario (gaudiosi, dolorosi e gloriosi). Nella volta dell’abside, su di un cassettone rettangolare, dipinse la Carità del Beato Martino Parres; sui finestroni erano raffigurati il Beato Stefano e S. Pietro Martire; sulla cupola, da lui fu affrescata la Visione di S. Domenico Guzman; infine, lo stesso Bartolo Longo gli aveva commissionato, per la precedente cupola La Visione e il sogno di S. Domenico.  
A Stabia, nel duomo di Maria Assunta, in primo luogo realizzò tre dipinti (1893), che trattavano la vita di S. Catello: Catello in prigione, Catello liberato dal carcere, Catello ritorna a Stabia; sempre sulla volta della navata centrale, dipinse due riquadri: Gesù tra le folle e L’apparizione del S. Cuore di Gesù a S. Margherita; infine, sulla volta dell’altare principale lasciò due dipinti: La Madonna in mezzo agli angeli e L’apparizione dell’arcangelo Michele a S. Catello. Infine, sono visibili gli affreschi: La manna nel deserto, Il sacrificio di Melchisedec, L’angelo che porta il pane ad Elia, La gloria di S. Giuseppe (1890), Mosè ed Elia, ed altri affreschi minori sulla volta.
Per completare questa breve rassegna, aggiungo che nel teatro G. Piasiello di Lecce, dipinse la volta con tre motivi: L’armonia tra le nuvole, La tragedia col tripode fumante, La commedia col tirso; infine, nel duomo di Galatina, affrescò la volta con quattro scene della vita di S. Pietro, risalenti al 1875: La liberazione dal carcere, Il miracolo, La consegna delle chiavi, La gloria.
Indubbiamente, su un profilo così sintetico ed incompleto, non trovo elementi sufficienti, per quanto meno, abbozzare una critica più articolata e profonda del valore dei suoi affreschi. Inoltre, la perdita di quelli della basilica di S. Maria Maggiore di S. Maria Capua Vetere (Ce) impone una forte limitazione sulla valutazione dei criteri pittorici dei temi sviluppati. Si tratterà soltanto di un tentativo, un abbozzo, che avrebbe unicamente l’importanza documentaria.
Il Duomo prima del 1980
Nella nostra cattedrale, il primo tempio mariano di Capua antica, ideato ed elevato da S.
Simmaco, vescovo di Capua, il quale nel 432 di ritorno dal Concilio di Efeso (che aveva proclamato Maria Madre di Dio / Teotokos), Paliotti, nella piena maturità fisica e pittorica, nel 1887 affrescò cinque pannelli della volta della navata centrale. Lo conferma questa lapide apposta sul muro interno dell’ingresso principale:  
Questo antico tempio / fatto squallido dalle ingiurie degli anni / col concorso del municipio e le offerte spontanee / d’ogni ordine di cittadini ritornò bella e degna casa di Dio / nell’anno 1887 / ne dipinse la volta della navata maggiore il cav. Vincenzo Paliotti / al restauro delle colonne e dei pilastri / e al nuovo marmoreo pavimento / quasi tutto del suo provvide / la liberalità di Gaetano saraceni / lode a Dio
I cinque pannelli furono eseguiti a spese del benefattore Gaetano Saraceni, che dimostrò la sua liberalità nella costruzione della chiesa degli Angeli Custodi (sul corso Garibaldi), il mendicicomio (in un vicolo della strada che fu intitolata dal Comune nel 1889, sindaco Pasquale Matarazzi).
Il Duomo prima del 1980
Di tali pannelli, dealbati dalla Soprindendenza nel corso dei lavori di restauri della volta, resisi necessari per le conseguenze dei terremoti del 1980 e del 1984 e per le infiltrazione dell’acqua piovana sul tetto, in tale occasione, rifatto. È abbastanza comprensibile l’eliminazione del pannello centrale a causa del crollo di buona parte dell’intonaco e dell’incannucciata, ma è meno giustificabile che siano stati cancellati tutti, tranne, stranamente, l’ultimo, sovrastante sulla
cantoria sul portale principale dell’ingresso; per questo motivo, oggi è visibile solo quest’ultimo.
Con un paziente lavoro, avendo ricavato (in parte) l’iconografia originaria da fotografie di epoca, sono in grado di indicare le illustrazioni o almeno il contenuto dei quei grandi pannelli. Per seguire un ordine, tali pannelli sono stati numerati a cominciare da quello nell’abside:
1. Sulla volta dell’abside era rappresentata la Sacra Trinità; ai lati della tela del Diano, c’erano le effigi di S. Pietro e S. Paolo (visibili in foto). Nel pannello, gigantiscono le figure del Padre, del Figlio (benevoli e benedicenti sovrani di tutto l’universo) ed, in alto, della colomba (lo Spirito Santo); in basso il globo terracqueo circondato da angeli festanti.
2. Uscendo dall’abside, sul pannello sulla volta della navata centrale era   rappresentato S. Prisco, primo vescovo di Capua, che costruì la cripta sotto l’attuale basilica, precisamente sotto la Cappella della Morte: è raffigurato nel momento in cui è lasciato da S. Pietro per continuare la predicazione del Vangelo nella seconda città d’Italia, Capua.
Il vescovo è incoraggiato da una folla che, ripudiati gli antichi idoli, gli emblemi ed i monumenti della civiltà pagana, era fedele seguace della croce; s’intravedeva i ruderi dell’anfiteatro campano (visibili in foto);                                                                      
3. Viene, dopo, il dipinto di S. Simmaco, fondatore della basilica e protettore della città, fervidissimo devoto della Madre di Dio, alla quale dedicò il più grande mariano della città.
Il santo, levato in dolce estasi, pronunciava calde preghiere alla Vergine, leggermente adagiata su di una nuvola; a lui si inchina, tenendo in grembo il bambino Gesù e molti angeli riverenti la circondano (parzialmente visibile in foto);
4. Segue il riquadro di S. Germano, vescovo di Capua, uomo dotto e santo; egli stava in atto di cogliere il frutto dei sudori versati per la fede e per la gloria di Cristo. S. Benedetto dal cenobio di Montecassino lo vede portato dagli angeli salire al cielo in mezzo ad una striscia di luce (pannello non visibile, neppure in foto)
5. L’ultimo riquadro (ancora esistente e visibile) raffigura S. Paolino, vescovo di Capua, portento di carità, che, dopo aver profuso i suoi beni per sovvenire all’indigenza dei fedeli afflitti da annosa carestia, vede una matrona che gli mena innanzi i figli affamati. Non avendo più che dare, le dona la sua mula, la sola che gli era rimasta e gli serviva per visitare la diocesi. (Agosto 2013)
(Autore: Alberto Perconte Licatese)


*Vincenzo Pepe  

Vincenzo Pepe: un amico del Beato Bartolo Longo
Vincenzo Pepe fu cristiano tutto d’un pezzo, spirito bizzarro, ma d’un animo retto, anzi di oro, d’un’acuta intelligenza, d’una bella e profonda cultura letteraria e religiosa. Il Prof. Pepe studiò a Torino, si recò prima a Potenza per insegnare italiano al liceo, poi a Bari, e infine a Maddaloni, dove Bartolo Longo si recava spesso per andarlo a trovare quando era ancora studente di Legge.
Dagli scritti del Beato Bartolo Longo
“Il Signore non mi fece mai scompagnare dal novello Professore che aveva pregi non comuni, non solo per la sua valentìa nelle lettere italiane e latine, ma, che è più per la nobiltà di sentire e per le virtù cristiane, dominando nel suo animo un certo rigorismo religioso e morale, congiunto a una semplicità di fanciullo che lo rendeva esemplare di costumi, accostevole a chiunque con lui s’incontrasse. (…)  
E il primo incalcolabile bene che il mio amico fece all’anima mia fu quello di farmi svincolare dal “satanico giogo dello spiritismo”, e ripudiare le sue infernali dottrine, in cui io, per indomabile brama di conoscere “la verità”, era stato miserevolmente travolto.
Il mio amico, certo viveva nella grazia di Dio e nella frequenza dei santi Sacramenti, aveva un naturale aborrimento, quasi un mistico orrore per le pratiche spiritiche, e mi esortava costantemente a ritrarmene”.
(Bartolo Longo)


*Pia Elena Bonaguidi 

Il Beato Bartolo Longo e Madre Elena Bonaguidi
Nella lettera alla Madre Elena (non datata, attribuibile al 1884 o di poco successiva), il Beato Bartolo ci rivela uno scambio di preghiere tra lui (insieme ad altri devoti della Madonna di Pompei) e la Madre Elena (insieme all’intera comunità delle suore).
Qui sotto si può leggere una parziale trascrizione della lettera :
“A conforto di coteste buone consorelle  e perché aumenti nel loro cuore sempre maggiormente la devozione e l’amore a Maria le spedirò ogni mese il mio Periodico [Il Rosario e la nuova Pompei,] senza cercare altro che fervide preci alla N. S. di Pompei.
Non abbia timore: faccia e ripeta la Novena, reciti ogni giorno l’ intiero Rosario, e aggiunga l’ efficacissima pratica dei 15 sabati.
Non si sgomenti se picchiando la prima volta non le sarà risposto: torni a picchiare finché una
voce amorosa e santa non l’abbia rinfrancata.
Oh quanto è amorosa Maria! Essa non sa negar nulla.
E non le sia discaro porre per Mediatrice la nostra cara Madre Santa Caterina da Siena.”
Pia Elena Bruzzi Bonaguidi
(Siena, 2 febbraio 1835 – Firenze, 16 agosto 1913)
Il Padre domenicano Pio Alberto Del Corona attirava al suo confessionale di San Marco molte persone, quelle che si lasciavano da lui plasmare diventavano suoi figli e figlie spirituali.
La persona che più ha corrisposto e più ha fruttificato è stata la signora Elena Bruzzi, vedova Bonaguidi: una donna di forte tempra e adatta al comando, un’ anima eletta da Dio per compiere grandi opere.
La vedova Bonaguidi era alla ricerca di un padre spirituale, sentito magnificare le doti del giovane Padre domenicano, si presentò a lui nel 1869; il Padre l’ accettò e il 20 agosto dello stesso anno le scrisse la prima lettera di direzione spirituale.
Il Padre Del Corona, che da tempo pensava di fondare una congregazione per la diffusione della spiritualità domenicana, riconobbe in questa donna la persona più adatta per attuare il suo progetto: la futura Congregazione delle Suore Domenicane dello Spirito Santo.
Il loro rapporto è testimoniato da un lungo carteggio, durato per tutta la loro vita; queste lettere, oltre che una testimonianza storica, fin dall’ inizio hanno costituito un solido nutrimento spirituale per la vita delle suore della Congregazione: infatti, sia che fossero indirizzate alla Madre Pia Elena (il nome che, da religiosa, assunse la vedova Elena), sia che fossero indirizzate ad una delle suore o a tutte le suore collettivamente, le lettere venivano lette davanti a tutta la comunità delle suore.
A Prato, sulla tomba della Santa domenicana Caterina de’ Ricci,  il Padre Pio Alberto e la Bonaguidi giurarono che avrebbero fondato il nuovo monastero ad ogni costo.
Dopo aver avuto il consenso dei suoi superiori nel Convento di San Marco, il Padre Pio espose il suo progetto all’ Arcivescovo di Firenze Mons. Lamberti, che approvò con parole di lode e volle battezzare il monastero che sarebbe sorto con il nome di  “Casa di benedizione”.
Il Padre Del Corona chiese udienza anche al Papa,  Beato Pio IX,  e, l’ 8 maggio del 1872, si presentò con la futura Madre Elena; il Papa rispose: “Io non posso che approvare e benedire con tutto il cuore questa bella impresa”, e domandando alla signora Bonaguidi quante figlie fossero, lei
replicò: “dodici e tutte pronte”; allora Pio IX concluse: “Siete un apostolato! Andate e fate le apostole”.
La Madre Elena è morta il 16 agosto del 1913, esattamente un anno e un giorno dopo Mons. Del Corona.
Le sue spoglie, tumulate nel Cimitero di Fiesole, furono riesumate nel 1991 e traslate accanto a quelle del Fondatore, nella cripta del Monastero. Poco si sa di lei, e persino dei suoi scritti rimangono poche tracce, infatti, alla sua morte, furono quasi tutti bruciati in obbedienza ad un suo esplicito ordine.
Se fosse rimasto un maggior numero di scritti, avremmo avuto la possibilità di conoscere meglio la sua anima e non solo, si sarebbe anche potuta ricostruire la rete di conoscenze e amicizie avuta dalla Madre.
E ci sarebbero state, probabilmente, delle piacevoli sorprese, come dimostra un documento a noi pervenuto, una lettera che il Beato Bartolo Longo ha indirizzato alla Madre.  
Il Beato Longo (1841–1926), terziario domenicano, uno dei laici cattolici italiani più in vista fra XIX e XX secolo, è stato il promotore del Santuario della Madonna di Pompei e delle numerose opere caritative annesse al Santuario.


*Don Eustachio Montemurro 

Il servo di Dio don Eustachio Montemurro
In medico delle anime, conterraneo e medico per nove anni di Bartolo Longo

Il 24 settembre 2004 ricorreva il centenario dell’ordinazione presbiteriale del Servo di Dio Eustachio Montemurro, che per nove anni fu medico del Beato Bartolo Longo e collaboratore del parroco della Chiesa del SS. Salvatore.
Il servo di Dio nacque a Gravina (BA) il 1° gennaio 1857. Dal 1875 al 1881, presso l’Università di
Napoli conseguì il diploma speciale in matematica e scienze naturali e la laurea in medicina e chirurgia.
Dal 1882 al 1902 svolse l’attività di medico e di politico; il 24 settembre 1904 fu ordinato sacerdote; l’11 maggio 1908 fondò le suore Missionarie del Sacro Costato e di Maria SS.ma Addolorata per la riparazione delle offese al Sacro Cuore di Gesù che tanto amò.
Nel gennaio del 1914 si trasferì a Pompei, dove, dopo aver svolto per nove anni un fecondo apostolato, morì il 2 gennaio 1023.
Il professor Pasquale Sabbatino ha illustrato il tema "Bartolo Longo e Eustachio Montemurro", raccontando alcune fasi della vita dei due uomini di Dio, animati dallo stesso amore per gli ultimi, fondatori di Congregazioni religiose, innamorati della Madonna. Sono due pugliesi che vivono nello stesso periodo di tempo. Hanno frequentato entrambi l’Università di Napoli ed hanno operato a Pompei. Hanno sofferto tante afflizioni per le incomprensioni da parte della gerarchia ecclesiastica. Il professor Sabbatino ripeteva esultante: "Pompei è crocevia della santità".
(Autore: Luigi Leone)
"Biografia"
Le origini di Eustachio Montemurro sono collegate alle città di Matera, Gravina e Minervino Murge. Eustachio nasce a Gravina in Puglia il 1° gennaio 1857 dal notaio Giuseppe Montemurro, e da Giulia Barbarossa, proveniente da una distinta famiglia di Minervino Murge (BAT).
Alla sua educazione contribuiscono i genitori, che in Gravina si caratterizzarono per l’esimia vita di fede e la generosa carità verso i poveri e gli infermi, e gli zii canonici Federico e Leopoldo Barbarossa. Nella scuola elementare e ginnasiale da questi zii istituita a Minervino, Eustachio riceve la prima istruzione.
A Matera nella rinomata scuola "Emanuele Duni", si distacca per la sua intraprendenza e impegno negli studi, tanto che sarà scritto nell’albo d’oro di questa istituzione scolastica. Nell’autunno 1875, con aiuto del comune di Gravina, si inscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Napoli. Consegue nel 1879 il diploma speciale in matematica e scienze naturali e, il 23 agosto 1881, la laurea in medicina e chirurgia con il massimo dei voti.
Rientrato a Gravina, Eustachio consapevole dei suoi doveri come cittadino e desideroso di lavorare per il bene comune del suo popolo, svolge l’attività politica, sociale, assistenziale, caritativa. Diviene consigliere comunale, docente e dirigente scolastico, presidente di Opere pie. Durante la sua vita di laico prende a cuore la questione sociale del Meridione.
Sull’esempio di Cristo ama gli indigenti e li soccorre con le proprie sostanze e col ricavato del suo lavoro quotidiano. Non accetta compenso per il suo impegno nelle diverse scuole cittadine, onde favorirne il mantenimento a beneficio della gioventù, e per la direzione e sostiene con coraggio gli interessi di poveri e diseredati e l’assistenza sanitaria prestata alle Opere da lui gestite.
È importante annotare il suo continuo e assiduo discernimento alla luce della Parola di Dio e dei maestri dello spirito, che lo hanno accompagnato nel suo cammino. La sua vita ha avuto sin dall’inizio questa impronta di serio e chiaro impegno nel compiere la volontà di Dio e nel ricercare, anche a conto di sacrifici il bene comune. Perciò dopo, un lungo e profondo discernimento durato quasi 10 anni, su ciò che voleva il Signore da lui viene ordinato sacerdote dal vescovo Cristoforo Maiello, nella Cattedrale di Gravina il 24 settembre 1904. Conseguenza della peculiare chiamata è il modo con il quale egli ha vissuto il suo ministero, come anche i primi anni del nascente Istituto dei Piccoli Fratelli del Santissimo Sacramento. Non ha abbandonato le opere di carità e assistenza sociale che realizzava con gioia e fervore, anzi con la sua consacrazione al Signore, ciò che realizzava ha acquistato un valore sacro nel promuovere il vero bene comune aiutando i suoi concittadini e contemporanei a vivere una esperienza profonda di fede, nonostante il disagio sociale e le precarietà di vita e di istruzione.
A Gravina la chiesa di S. Emidio, attigua alla casa abitata dalla comunità maschile, divenne centro di irradiazione dell’amore e della misericordia del Signore. Li, scrive il prof. Michele Tota, «la vita cristiana la vivevi in tutta l’estensione della parola. Una scaletta metteva in comunicazione la chiesetta con l’appartamento occupato [dalla piccola comunità], di modo che qualunque ora del giorno, tu potevi comunicare con don Eustachio, perché era sempre alla disposizione dei fedeli. Nelle ore libere del ministero, tu lo vedevi in ginocchio, immobile, in adorazione davanti a Gesù in Sacramento! La mattina, d’inverno e d’estate, alle ore 4 di notte era al suo posto, in ginocchio, a colloquio con nostro Signore. Il colloquio veniva interrotto quando timidamente si affacciavano in Chiesa, alla fioca luce del Sacramento, uomini notabili, lontani da Dio da decenni, per riporre le loro colpe con una contrita ed esauriente confessione, cibarsi del pane degli Angeli e scappare, perché nessuno li vedesse. Il colloquio veniva ripreso e si protraeva a tempo indeterminato». Invece, le "Figlie del Sacro Costato" fondate nel 1° maggio 1908, si adoperano per la riparazione delle offese che si recano al Cuore di Gesù specialmente delle persone consacrate, e per l’educazione cristiana e civica delle fanciulle del popolo. Quando si trasferiscono a Pompei il loro
tenore di vita austera, sorretto da viva fede nella presenza reale di Gesù in Sacramento, attirò innumerevoli anime al suo confessionale. «Come Gesù, che stanco e affaticato sotto i potenti raggi del sole attese al pozzo di Sicar la samaritana, don Eustachio, nelle ore più scomode della giornata, era in confessionale, aspettando i penitenti», che scriveva il card. Augusto Silj nel febbraio 1916, «preferivano quelle ore solitarie per provvedere con più comodità ai bisogni della loro coscienza».
La vita e la storia di padre Eustachio è stata segnata da un’amicizia speciale quella di don Saverio Valerio.
Don Saverio è stato un’anima serafica, conosciuto a Gravina come il "beato Angelico", per la sua rettitudine interiore e la sua dolcezza, si è dedicato tanto ai poveri, ammalati, bambini, anziani, però sempre con una discrezione tale da non farsi notare, ha compiuto ogni bene con semplicità di vita e fervore d’animo. L’amicizia di don Saverio è stato un dono prezioso per padre Eustachio, perché ha condiviso con lui, le gioie, le speranze, le calunnie, la sofferenza dell’incomprensione, ma soprattutto una vita improntata radicalmente nel vangelo e che ha sparso il profumo dell’eterno Amore a tutti.  
L’azione del Montemurro parte dal mattino dall’incontro personale con il Signore, contemplato specialmente nel mistero della sua passione e rivissuto nel sacrificio eucaristico; è permeata dall’unione costante con Dio; termina, a sera, con un fedele rendiconto come del servo al suo «bel Padrone».
«La croce – ha scritto C. Naro – non è per così dire l’ideale di Montemurro. La croce è la via della sequela e dell’imitazione di Cristo. Ma l’idea resta vivere la beatificante unione con il Figlio di Dio. L’aspirazione resta il diventare una sola cosa con lui. Il distacco e lo spogliamento sono funzionali alla liberazione da ogni legame che impedisce l’unione. E l’ubbidienza realizza il distacco dalla volontà propria per aderire alla volontà di Dio. Le comunità religiose fondate dal Montemurro avrebbero dovuto offrire, secondo il suo insegnamento e il suo esempio, un modello esemplare di vita cristiana e perciò anche della pace e della gioia che sono i frutti della comunione con Dio».

Nascita e formazione

Eustachio nasce a Gravina in Puglia il 1° gennaio 1857 dal notaio Giuseppe Montemurro, di Matera, e da Giulia Barbarossa, di distinta famiglia di Minervino Murge BA. Oltre alle doti intellettuali e morali, per le quali sin da fanciullo si segnalerà, mostra un temperamento vivace, dinamico, intraprendente, volitivo e generoso.
Alla sua educazione contribuiscono i genitori, che in Gravina si distinsero per l'esimia vita di fede e la generosa carità verso i poveri e gli infermi, e gli zii canonici Federico e Leopoldo Barbarossa. Nella scuola elementare e ginnasiale, da questi zii istituita a Minervino, Eustachio riceve la prima istruzione.
Nel giugno 1867 Eustachio, per epidemia colerica, perde la mamma, la sorella M. Francesca, il fratello Federico Gregorio.
Il trauma della morte di tante persone care, senza ostacolare l'equilibrio del ragazzo, ne acuisce il senso di responsabilità, per cui egli riesce ad attendere allo studio con tali risultati da accedere, non ancora quindicenne, al liceo classico di Matera, distinguendosi per condotta e profitto.
Il triennio materano, 1872-1875, incide ancora positivamente sulla formazione della personalità del giovane studente.
Al liceo "Emanuele Duni" di Matera, oltre ad essere d'aiuto ai fratelli Francesco e Luigi, che lo
raggiungono un anno dopo dimorando con lui nel Convitto annesso, Eustachio ha modo di frequentare gli zii paterni, che conducono vita povera. Si rende conto dei disagi in cui si dibattono coloro che pur versando in ristrettezze economiche non tendono la mano e il suo senso innato di giustizia, gli sgombra il cuore da esigenze superflue, colmandolo di sensibilità per il prossimo. Ne esce irrobustito psicologicamente e spiritualmente per affrontare gli studi universitari senza sbandamenti.
Nell'autunno del 1875 Eustachio s'iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Napoli.
Coerente con i saldi principi religiosi e morali trasmessigli dalla famiglia, corroborato dalla grazia, appassionato per gli studi e desideroso di conseguire al più presto il dottorato per non essere di troppo peso al padre, si tiene lontano da ozi pericolosi, dedicandosi allo studio con assiduità e impegno. Perciò consegue, il 23 luglio 1879, il diploma speciale in matematica e scienze naturali e, il 23 agosto 1881, la laurea in medicina e chirurgia. Subito dopo, la sua formazione si rinsalda con l'esperienza del servizio militare compiuto a Bologna.


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