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Bartolo Longo: Pedagogista ed Educatore

Bartolo Longo

*A 80 anni l’ultima Opera del Beato Bartolo Longo!

"L’ultimo voto del mio cuore", l’opera finale del Fondatore di Pompei, a favore delle "orfane della legge", non solo stupisce per la tarda età in cui fu concepita e realizzata, ma può essere considerata il testamento spirituale dell’Apostolo del Rosario.
Siamo quasi nella fase conclusiva del nostro itinerario e lo stesso Bartolo Longo si trova ormai nel momento finale del suo progetto rivolto agli orfani della natura e/o della legge. Ma il numero delle sue iniziative non è ancora esaurito, anzi, è giunto ad una tappa emblematica, quando la scuola tipografica pontificia per i figli dei carcerati, da lui stesso fondata, pubblica un suo scritto dal titolo "L’ultimo voto del mio cuore. La nuova opera di carità e di salvezza sociale per le figlie dei carcerati". Il tutto emblematico sta proprio nella locuzione "salvezza sociale"; per quest’ultima, infatti, si apre una nuova prospettiva. Mentre le orfane della natura sono oggetto generalizzato dell’attenzione e dell’intervento pubblico e privato, per le orfane della legge non avviene altrettanto, o meglio, accade l’esatto contrario.
Dinanzi a quest’amara constatazione Bartolo Longo sente di dover agire e parla di "profilassi sociale". Vedremo come egli stesso descrive lo stato di fatto e quali i rimedi auspicabili, quali risposte esaustive riceverà dal mondo, per concludere il suo cammino di uomo di carità e di preghiera, di solidarietà e di crescita sociale.
A Bartolo Longo, infatti, va riconosciuta una puntualità critica ed umana tale da far convergere su quest’ultimo voto del suo cuore una risposta diffusa e consistente dal mondo intero. Il grande edificio del Sacro Cuore venne inaugurato il 26 ottobre 1926 dinanzi ad una folla ancora rattristata dalla recente morte del suo ideatore (5 ottobre 1926). Da quel momento fra quelle mura tante fanciulle riacquisteranno il sorriso e la speranza, la fiducia nel prossimo e nella vita testimoniando un altro miracolo della carità longhiana. (L.L.)
Fratelli e sorelle sparsi per l’Orbe,
da questa Valle di Pompei che la potenza di Maria aveva già fatto salutare come la Valle dei prodigi e che la misericordia di Lei aveva fatto acclamare come la Valle della Carità, sono ormai 30 anni, io levai a voi un grido, che fu come l’erompere di una forte passione da gran tempo compressa nell’animo mio. Un grido che vi chiamava a un’Opera e a una battaglia, a un’Opera di bene e a una battaglia di fede. Un grido che era l’eco del pianto d’innumerevoli madri, e della disperata angoscia di padri infelicissimi.
Un grido che doveva dare alla libertà, negata dalla scienza positiva, una nuova apologia, alla carità cristiana un nuovo ardimento, alla fede un nuovo trionfo, all’innocenza Dio stesso: il "Voto del cuore" per un’Opera di rigenerazione e di salvezza per i più miseri, i più reietti di tutti i fanciulli, i Figli dei Carcerati.
Non era soltanto il voto del nostro cuore, il voto di questo peccatore convertito dalla divina grazia, ma era il voto del Cuore di Gesù, di questo Cuore che è venuto a salvare tutto ciò che era perito, che dirige le sue fiamme e le sue tenerezze là dove maggiori sono le miserie. Non era soltanto il desiderio mio, la brama che mi cruciava l’anima, che mi avvampava in un fuoco di carità per gli Orfani della Legge, ma era pure il desiderio di Maria, di Lei che è la Madre di tutti, ed in modo speciale è la Madre di coloro che non hanno madre, non hanno asilo, non hanno
pane, che domani potrebbero non avere Dio; di Lei che è l’Addolorata ritta non solo sotto la Croce del Calvario, ma sotto tutte le Croci dell’umanità, di lei che predilige soprattutto l’innocenza che soffre, l’innocenza reietta.
A quel grido, il cuore vostro, fratelli, si commosse, le generosità degli oblatori non ebbero più limiti, e l’Opera sorse; sorse non nella forma consueta, modesta, d’un Orfanotrofio, d’un Ospizio, ma nella maestà d’un monumento. Su quel monumento, ad affermazione dei nuovi trionfi della nostra fede antica, della perenne potenza sociale del Cristianesimo sempre pullulante in nuove Opere di bene, scrivemmo in cifre di bronzo, una sola parola: Charitas! – La Carità!
Ha vinto la Carità, ha vinto l’Amore; si è trionfato del pregiudizio sociale e del pregiudizio scientifico. Mercé le nostre esperienze il delinquente nato è divenuto una favola della scienza, un mito ormai di tempi remoti. Si è provata l’educabilità, in linea generale, di tutti i fanciulli, anche della prole di padri colpevoli, purché quest’educazione sia fatta in speciali ambienti e con speciali metodi.
Gli Orfani della Legge, divenuti i figli nostri, sono rientrati con onore alla vita, a far parte nell’esercito della patria, nell’esercito del lavoro, nell’esercito della fede, ascendendo talvolta perfino alla dignità del sacerdozio.
Fratelli e benefattori sparsi per l’Orbe, istituendo l’Ospizio pei Figli dei Carcerati, noi lasciavamo non per tanto l’Opera incompleta.
Gli orfani della Legge erano accolti a Pompei, trovavano un pane, un asilo, un padre, ma le loro sorelle? ... I Figli dei Carcerati erano salvi, la le Figlie? ...
No, no; Dio non vuole Opere incomplete. Il pensiero di queste creature, che sono le infelicissime tra le Orfanelle, anche più che i loro fratellini, da trent’anni è stato come un carbone acceso nel mio cuore, un martirio giornaliero dell’anima.
Possiamo noi, può la carità di Gesù Cristo abbandonare non solo nell’indigenza, ma nel fango queste creaturine, che negli stenti della loro carne e nelle impressioni della loro anima portano la miseria e la vergogna di colpe non loro?
Nessun paragone fra le Orfanelle e le Figlie dei Carcerati. – Sono due grandi miserie, ma oh quanto diverse! Le une, le Orfane della natura, suscitano la compassione dei parenti, degli amici, dei concittadini; le altre, cioè le Orfane della Legge, per questa esagerata solidarietà umana che accomuna i padri coi figli, destano invece un senso di ripugnanza. Per le prime tutte le tenerezze, per le seconde tutti i disgusti. Le une sono un’innocenza ancora tranquilla, la cui calma verginale non è stata ancora turbata da tristizia d’esempi; le altre, sull’anima come molle cera aperte alle prime impronte della vita, hanno avuto già la letale e profonda impressione d’un delitto paterno.
Poveri fiori! Non una mano li raccoglie, ma molti piedi li calpestano. Poveri fiori! Desideravano una luce di bene, un calore di vita, e furono invece isteriliti, furono arsi nel loro primo rigoglio di una fiamma impura, la fiamma di un esempio rovinoso dei propri genitori.
E non solo la miseria delle Figlie dei Carcerati vince quella delle Orfanelle della natura, ma supera quella medesima dei loro compagni di sventura, dei loro fratellini, i Figli dei carcerati.
Per esse vi può essere non solo l’abbandono, ma l’insidia, la satanica insidia degli sfruttatori di tutte le indigenze, specie poi delle indigenze infantili. Le poverine possono trovare il soccorso, ma il soccorso di uomini che fanno pagare il tozzo di pane con la peggiore forma di schiavitù, con la schiavitù del peccato.
Le Orfanelle sono un’innocenza abbandonata, i Figli dei Carcerati sono un’innocenza rietta, ma le Figlie dei Carcerati sono un’innocenza in pericolo.
Queste fanciulle derelitte, affamate, senza una nozione di fede, senza un sentimento di Dio, spesso diventano preda di uomini che ne fanno le schiave della loro ingordigia, lo strumento della pubblica corruttela.
Se alla donna indigente manca il pane del Cielo e il pane della Carità, non le resta che il pane dell’ignominia.
Fratelli, chi sottrae all’abbandono e al vizio un Figlio di Carcerato, salva un’anima sola; ma chi soccorre una Figlia di Carcerato, salva tutto un numero di anime che insieme con lei potrebbero essere travolte nei vortici del vizio.
Ve lo diciamo con le lagrime agli occhi: questa è Opera di suprema gloria di Dio ed è insieme Opera di sapiente prevenzione di delitti e di efficace moralità sociale.
Fratelli, ascoltate l’ultimo "Voto del cuore" del vecchio amico vostro – sono l’amico, il fratello di tutti quelli che hanno nell’anima gli ardimenti e gli ardori della Carità di Cristo – coadiuvatemi coi vostri consigli, con le vostre preghiere, col vostro cuore.
Ho ottant’anni, Dio mi ha serbato sino a quest’età per vedere il compimento dell’Opera vostra, per cantare il "Nunc dimittis" sulla prima pietra della nuova Istituzione. Quest’opera è per me il bagliore del tramonto, ma sarà per molte anime l’alba radiosa della rinascita. Come striscia di luce del tramonto, Dio ha serbato l’Opera – la maggiore fra tutte -  di salvezza per le anime; a ottant’anno, sul limitare della tomba, non si pensa che alle anime e a Dio, non si guardano che le anime e il Cielo!
Fratelli, la grande crociata è aperta! Fatevi tutti soldati di questa nuova battaglia, apostoli di questa nuova idea! Il nostro motto è questo: - alla salvezza dell’innocenza in pericolo!
Qui in questa Valle di Pompei, dove ha i suoi prodigi la fede, ma ha pure i suoi prodigi l’amore, ponete questa terza e più bella corona di Carità sulla fronte radiosa di Maria!

(Bartolo Longo, l’ultimo voto del mio cuore – Valle di Pompei – Scuola Tipografica per i figli dei carcerati, 1925, pp. 3-6)

*Avviamento al lavoro, Ginnastica e Musica
(A cura di: Luigi Leone)

Le officine per fabbri, falegnami, calzolai, rilegatori e tipografi e altre attività, volute da Bartolo Longo per i ragazzi che ospitava a Pompei, hanno anticipato di decenni i moderni "laboratori" delle nostre scuole.
Più volte abbiamo affermato che sul piano didattico-educativo, Bartolo Longo si propone al mondo pedagogico con indicazioni innovative, anticipando finalità e strumenti che avrebbero trovato conferma nel tempo e che ancora oggi costituiscono oggetto di attenzione nell’organigramma scolastico. Ci riferiamo non soltanto a quel campo che comprende, nello specifico, l’educazione psico-motoria, l’educazione musicale, l’educazione artistica come modalità di formazione nel tempo libero, ma pensiamo alla preoccupazione di agevolare lo studente, già nel corso degli studi di base, nella scelta del suo indirizzo lavorativo futuro, rispetto ad un mestiere e/o di un’attività, ad una professione più congeniale alle sue aspirazioni, possibilità, tendenze.
Le esperienze concrete di avviamento al lavoro, che i ragazzi vivevano all’interno delle istituzioni pompeiane rappresentavano, concretamente, l’aspetto complementare dell’Istruzione, si presentavano, cioè, come scuola di avviamento al lavoro.
Un aspetto che, nella scuola ufficiale del nostro tempo, omesso con la istituzione della scuola media unica, sembra ripresentarsi in tutta la sua validità orientativa; soprattutto rispetto alla rivalutazione di arti e mestieri, propri della mano, che oggi troverebbero anche il supporto dei mezzi tecnologici.
Quando nelle nostre scuole si parla di "laboratori" si può pensare, senza timore di sbagliare a Pompei, a quelle officine per fabbri, per falegnami, per calzolai, per rilegatori, per tipografi.

È nostro proposito allevare e dirigere gli Orfanelli della Legge: qui raccolti in modo che non solo siano coltivate tutte le doti del loro animo sì da farne onestissimo ed esemplari operai, ma che sia altresì tanto curato il loro sviluppo fisico da farne lavoratori forti, sani e resistenti. Perciò, ad impedire che il lavoro troppo prolungato produca danno alla loro salute, non solo esso è graduato secondo la età di ciascuno, ma è altresì frequentemente interrotto con ore di riposo sia fisico e sia intellettuale.
In ciò, le ricreazioni, ci sono di grandissimo aiuto la Ginnastica e la Musica.
Quella, oltre le barriere da saltare, le sbarre e i trapezi da farvi sopra ogni sorta di esercizi, è regolata in guida da obbligare ogni fanciullo ad atteggiamenti, movimenti e sforzi del tutto diversi ed opposti a quelli richiesti per l’ordinario dal lavoro che ciascuno esegue nella propria officina. Si ha così una ginnastica compensativa che risponde allo scopo igienico di rafforzare la costituzione e di
agevolare lo sviluppo fisiologico dei giovani ricoverati, e raggiunge insieme uno scopo eminentemente curativo, come quella che corregge gli inconvenienti e le imperfezioni tutte proprie di questa o di quell’arte, di questo o di quel mestiere.
Inoltre, le passeggiate militari, gli esercizi coi moschetti, le parate hanno anche il pregio di adusare tutti questi giovanetti alla disciplina ed all’ordine della milizia; e quando si potrà, come è nostro desiderio, formare una scuola regolare di tiro a segno, questo Istituto potrà dare allo Stato soldati che, sotto ogni rapporto, gli faranno onore. Beneficio grande, senza alcun dubbio: specialmente se si riflette che esso viene ad aggiungersi ad un altro, non meno importante e desiderabile: l’avvantaggiarsi nella sanità e nelle forze fisiche dei piccini e degli adolescenti che sono il continuo nostro pensiero.
Un’altra diversione agli effetti del lavoro, ed un altro modo di dare alla mente ed al corpo un operoso e gradevole riposo è stato da noi trovato nella Musica, e i risultati ci confermano ogni dì più del nostro convincimento.
Pertanto, tutti i nostri fanciulli, eccetto quelli che vi sono assolutamente negati, studiano la musica, ed in tale studio trovano una distrazione alla monotonia dei lavori cui attendono e di più un mezzo validissimo di educare ed ingentilire il cuore.
E sebbene questa non sia l’occupazione principale dei Figli dei Carcerati, ma solo una specie di pausa conceduta a loro doveri più gravi, essi vi hanno fatto tali progressi che, avendo cominciato gli studii
musicali a date diverse, secondo sono entrati nell’Ospizio, tuttavia è stato possibile riunire i più provetti in una Banda favorevolmente conosciuta ed apprezzata. Essa, in vero, è giunta ad un notevole grado di correttezza, di affiatamento e di espressione; e nella esecuzione di pezzi abbastanza complicati e difficili mostra qualità e doti che non sempre si trovano nei concerti composti di adulti.
Aggiungiamo che taluni dei nostri fanciulli sono giunti a vera perfezione artistica, onde non si lesina sulla loro istruzione, e ricevono lezioni di pianoforte, di armonium e, perfino, di contrappunto. Ciò, pertanto, non impedisce che, fedeli all’inveterato odio nostro per tutto quello che contribuisce a creare spostati, continuiamo a fare esercitare anche a questi fanciulli così ammirabilmente dotati l’arte o il mestiere che per essi sono stati prescelti.
Ed è certa che tutti i piccoli ospiti nostri, i quali attendono, per distrazione e per esercizio educativo, alla musica, ritrarranno da essa notevole utilità e durante il servizio militare che potranno compiere da bandisti godendo soprassoldi ed agevolazioni, e quando saranno operai liberi e indipendenti, che alla mercede del loro lavoro potranno anche aggiungere lo stipendio guadagnato come componenti di quelle Bande Musicali, delle quali ormai non vi è città e paese che sieno privi.
E noi siamo contentissimi che da uno studio cui da noi si è ricorso solo come a mezzo di educazione e di dilettevole distrazione, tanto bene è da ricordare agli Orfanelli, che con amorevolezza singolare rispondono alle nostre cure e ci ricompensano di esse.

Risultati generali del nostro sistema didattico. I fanciulli
Precedentemente abbiamo discorso della solenne Premiazione che ha luogo nell’ultima Domenica di Maggio di ogni anno. Essa è fatta in modo da offrire come il bilancio coscienzioso ed imparziale dei risultati che si ottengono nella educazione e nella istruzione degli Orfanelli che hanno dimora in questa Istituzione.
E per acquistare cognizione della benefica efficacia che esercita il sistema educativo proprio della Istituzione salvatrice di Valle di Pompei, basta esaminare le tabelle e gli specchi statistici onde corredammo, nella Premiazione di questo anno 1899, l’elenco dei giovanetti e dei fanciulli che erano da premiare e che poi furono solennemente premiati. Primieramente, raccogliamo nello specchietto seguente il numero e la natura dei premii distribuiti negli ultimi quattro anni, vale a dire dal tempo in
cui i Figli dei Carcerati han raggiunto il numero di cento, perché da esso più che da qualsiasi esame e controllo risultano la equanimità e la sicurezza del giudizio cui si sottopongono i nostri fanciulli fin nelle minime loro azioni.
La Premiazione negli ultimi quattro anni
Tali cifre attestano che la più chiara e recisa certezza la severità e la costanza di metodo, che ispirano e dirigono l’esame continuo e minuzioso, onde poi i premi sono la definitiva espressione.
(Bartolo Longo: Memoria per il Congresso di Bruxelles Parte I - Valle di Pompei - pp. 21-24)

*Cristo fondamento del metodo educativo longhiano

Bartolo Longo, questa volta, oltrepassa i confini nazionali e si rivolge in francese "alla pubblica opinione", affrontando in particolare il tema che connota e caratterizza l’intero suo percorso esistenziale: quello che investe il concetto di carità ed il modo di attuarla, in riferimento all’intervento educativo sugli orfani della legge.
Il suo punto di partenza chiaro non è costituito dal patrimonio della scienza, dalle teorie pedagogiche e/o antropologiche del suo tempo: il filo conduttore, il motivo fondante della sua carità operante "ha un solo nome, un solo esempio, quello del Cristo in terra. Fare del bene all’umanità è un punto sul quale concordano tutti gli uomini, qualunque sia il loro credo, il loro colore politico, ma per fare il bene soltanto la carità di Cristo spinge al sacrificio per amore di Dio".
In questo suo messaggio, Bartolo Longo insiste su questa dimensione cristologica: è il Cristo del "sinite parvulos venire ad me", il Cristo che non sceglie, né distingue quali fanciulli accogliere e quelli no, mentre invitava i suoi discepoli a seguito in questo suo percorso.
Tale, in fondo la sintesi del pensiero longhiano sulla carità e in particolare su quelle prime testimonianze che di essa Bartolo Longo aveva aperto rivolgendo la sua attenzione ai diseredati dalla legge, ma il discorso che pubblichiamo riprende e si sofferma anche ed esaurientemente sul mondo scientifico del positivismo, sui suoi più autorevoli rappresentanti ed ha come interlocutore indiretto il dotto e degno Britto Romano, il quale in un articolo sulla
Rivista psicologica di Firenze (sett. 1895) gli rivolgeva queste parole: "Eccellente Avvocato, voi che siete credente e pieno di carità cristiana, voi non faten il bene secondo gli insegnamenti della scienza positiva, come voi dite, ma voi lo fate secondo l’ispirazione della carità cristiana, secondo le lezioni del Vangelo, tutto unitamente… Lasciate a noi sapienti il campo della scienza, e percorrete il campo che vi è proprio, quello della carità".
Una conferma e un consiglio che provengono da un uomo di scienza.
In questa straordinaria testimonianza emerge con tutta la sua forza operativa il principio basilare su cui poggia tutta l’opera educativa del Fondatore di Pompei: fondamento del suo sistema pedagogico non sono i "sapienti" del suo tempo, ma il Signore Gesù, maestro di carità e di vita, il solo capace di risvegliare, in tutti, la voce del cuore.
Signori, è la terza volta che ho l’onore di presentarmi davanti a voi. La prima volta, proprio tre anni fa, noi eravamo riuniti nell’asilo destinato a raccogliere i bambini e le bambine di Pompei per dare a loro una educazione civile e morale.
Era l’ultima domenica del maggio 1892, un anno dopo che avevo lanciato al mondo intero un appello, un voto del cuore.
Oggi, io non intendo discutere nessun principio scientifico. La nuova scuola di antropologia criminale è stata questa mattina stessa ben rappresentata dall’illustre direttore dell’asilo degli alienati della provincia di Cuneo, a Racconigi, il professore cavaliere Oscar Giacchi. Davanti a me si apre un altro campo che mi è proprio e che risponde alla voce che ha risvegliato il mondo, alla voce del cuore, e il mio campo è la carità.
In questo campo non c’è posto per le discussioni scientifiche, né per le divergenze di opinioni.
Qualunque sia il loro credo, qualunque sia il loro colore politico, tutti gli uomini concordano su un punto: fare del bene all’umanità ma per fare il bene, soltanto la carità di cristo spinge al sacrificio per amore di Dio. E su questo campo che voi e io avremo la felicità di raccogliere dopo appena un anno i primi frutti. Nella scelta dei bambini e nel mio metodo io non sono né la scuola dalla Salpetriére, né quella di Nancy, né Lombroso, né Ferri, né tale uomo di scienza, capo di una scuola italiana o straniera, io, scelgo il mio maestro, che è il Cristo. La mia professione di fede non deve dispiacere ai sapienti positivisti, ma piuttosto risultare piacevole, poiché uno di loro, il dotto e degno Britto Romano, in un articolo sulla "Rivista psicologica" di Firenze (settembre 1895) mi dava questo consiglio a proposito del mio discorso del 28 maggio:
"Eccellente avvocato, voi che siete credente e pieno di carità cristiana, voi non fate il bene secondo gli insegnamenti della scienza positiva come, voi dite, ma voi lo fate secondo l’ispirazione della carità cristiana, secondo le lezioni del Vangelo, tutto unitamente. Si tratterà di una semplice questione di intelligenza e di parole, ma ciò ha un valore perché permette di riconoscere la maniera di essere un individuo…
Lasciate a noi sapienti, il campo della scienza e percorrete il campo, che vi è proprio, quello della carità".
E ho seguito il consiglio. Ho invitato un sapiente a parlare di scienza, riservandomi di trattare della fede e della carità nell’educazione di questi bambini. Il Signore è dunque per me un maestro, una guida, la luce, la vita, la scienza, la verità. Preso da compassione per i bambini, il Cristo diceva: "Lasciate che i pargoli vengono a me" Ora credetemi, accogliendoli, egli non sceglieva tra i figli dei delinquenti e i delinquenti – nati, ancora meno egli si metteva a osservare il loro cranio e la loro figura per ritrovare quelle anomalie che costituiscono per la nuova scuola di antropologia criminale, le note fatali del delitto innato. No, il Cristo abbracciava tutti i bambini e diceva: "Sarebbe meglio essere gettato in mare che scandalizzare uno di questi bambini; colui che accoglie uno di loro, accoglie me stesso. Ebbene, ecco ciò che io faccio, ricevendo i piccoli figli di condannati, non osservo la loro figura, non esamino il cranio, se ho la garanzia che sono dei poveri innocenti, rigettati e abbandonati, questo mi basta, io li stringo sul mio cuore e intraprendo la loro educazione. Ho una dichiarazione da fare per riconciliarmi con alcuni sapienti che credettero di essere stati colpiti dal mio discorso di un anno fa.
Il dottore Britto Romano mi ha giustificato. Io fui attaccato senza pietà, si giunse perfino a qualificare di immorale, di antiscientifico e di antinaturale la mia opera di educazione. Io risposi e l’abile sapiente scriveva: "Nel suo discorso l’avvocato Bartolo Longo ha avuto delle frasi felici e che noi approviamo pienamente. In verità l’avvocato aveva il dovere di difendersi poiché era stato attaccato e si è difeso coraggiosamente". L’illustre professore Lombroso che fino allora combatteva fermo l’educabilità dei delinquenti – nati, ha cambiato opinione e ora ammette che alcuni di questi sfortunati bambini sono suscettibili di educazione. Dunque la nostra opera non è affatto vana, soltanto, secondo il parere della scuola positivista, essa, è difettosa imperfetta, perché essa si allontana dai loro principi.
Io tornerò un’altra volta, Signori, per il momento devo comunicarvi una notizia più importante. Un congresso di antropologia criminale teneva, poco tempo fa, le sedute in Svizzera e proponeva all’esame dei sapienti la nostra stessa tesi: l’educabilità e l’educazione dei figli di delinquenti. I membri del congresso, dando ragione alla scuola francese ammirano questa conclusione;
l’educazione dei delinquenti – nati è cosa possibile, ma ardua e difficile, essi fecero un passo in più e dichiararono che bisognava bandire della scuola criminale moderna l’espressione delinquenti – nati per sostituirla con un termine che non offendesse così apertamente l’onore dell’umanità. Ecco come gli sfortunati figli dei condannati, che fino ad ora la scienza chiamava delinquenti per la fatalità dell’atavismo, degenerati – nati, ormai bisognerà soltanto applicare l’epiteto di incorreggibili – nati.
Nel mese di giugno 1895 si riunirà a Parigi un congresso penitenziale, che va di nuovo ad esaminare questa questione importante: il recupero e la riforma morale dei delinquenti, sono possibili e quali sono i mezzi per ottenere la loro riabilitazione, poi qual è il metodo di educazione da seguire con questi sfortunati bambini di cui né la scienza, né la società hanno cura.
Non è giusto dedurre dalle mie parole che io professo del disprezzo per la scienza o che io ne rigetto gli insegnamenti, come se la scienza fosse sempre in contraddizione con la carità così come l’hanno preteso alcuni uomini ignoranti della scienza di Dio. Dio è caritatevole ed egli è contemporaneamente l’autore e maestro della scienza. Come può esserci opposizione tra la carità e la scienza, se tutti e due provengono dallo stesso principio? Io non sono un avversario della scienza; al contrario la scienza esercita su di me un fascino e nel risultato delle mie esperienze su questi bambini, io offro alla scienza un prezioso contributo.
Ma io dichiaro apertamente: Se la scienza diventasse nemica della carità, l’abbandonerei e seguirei la carità. Ecco perché mentre l’antropologia moderna ricerca se i figli di delinquenti sono o non suscettibili d’educazione, io li educo…
Mentre la nuova scienza d’antropologia criminale esamina quali sono i principi dell’educazione da dare, se sia il caso di separare i delinquenti-nati dai non delinquenti, se bisogna mandarli all’asilo dei pazzi criminali o gettarli a mare o isolarli in manicomio ecc.: mentre essa inventa parole nuove (solo quest’anno ne ho imparato quattro!) lo lascio discutere e mi dedico interamente all’educazione di questi sfortunati. Inoltre mentre alcuni sapienti affermavano in una "Rivista delle scienze e delle lettere italiane" che nella Valle di Pompei, noi non otterremo nessun successo perché il nostro istituto è stato fondato sui principi del Vangelo e non sui principi della scienza positiva, senza perdere tempo a rispondere, noi abbiamo lavorato e dopo appena 18 mesi d’esperienza ecco che noi vi presentiamo i primi frutti delle nostre fatiche. Il fatto è al di sopra di ogni discussione soprattutto nelle scienze sperimentali.
Ebbene sono fatti e non discussioni che io vi porto. Io farò la monografia di ognuno dei bambini che voi avete visto un anno fa in questo asilo della carità, io voglio dire dei primi quindici, i soli che io ho avuto il tempo di studiare dando allo stesso tempo un’educazione curata e paterna. Io non parlerò degli altri, perché essi sono ancora troppo piccoli e troppo nuovi nell’istituto.

(da: L’ouvrage de l’Avvocat Bartolo Longo devant l’opinion pubblique, discours de Monsieur l’Avvocat Bartolo Longo – Scuola Tipografica per i figli dei carcerati Valle di Pompei 1896 – pp. XVII – XXIII).

(A cura di Luigi Leone)

*Educazione e Amore: un binomio vincente

Gli anniversari commemorativi, la puntuale descrizione degli eventi e dei motivi che li sostengono costituiscono il mezzo indiretto per dare testimonianze e per consolidare la memoria: in questo filone si muovono gli scritti del Beato Bartolo Longo legati alle opere sociali nella loro evoluzione. Così, dal discorso presentato al Congresso Penitenziario Internazionale di Parigi, pubblicato nel 1896, i lettori potranno trarre fin dall’introduzione i segni della fede e del pensiero pedagogico dell’autore.
Bartolo Longo si ripresenta, infatti, ai suoi interlocutori passando, questa volta, dalle sole riflessioni ai "primi frutti della nuovissima istituzione": si tratta, cioè, di una sorta di diagnosi funzionale all’intervento educativo, che si conclude con un profilo di valutazione in uscita.
Le descrizioni psico-sociologiche riguardano i primi quindici fanciulli accolti a Pompei, ad un anno dal loro ingresso nell’Istituto. I risultati conseguiti da questi ragazzi non sono, tuttavia, quelli soggettivi soltanto, se i frutti investono anche i loro genitori nelle carceri: siamo di fronte ad un percorso interattivo, nel quale si intravedono con chiarezza antesignana i tratti di una pedagogia psico-sociale, dove, superati i pregiudizi formali, entrano in causa i soggetti nelle loro potenzialità, suscettibili di progresso, perché inseriti in un habitat educativo e promozionale, qualificante e con i ragazzi si ramificano le influenze positive sui loro genitori.

A Poco più di un anno dalla fondazione dell’Istituto per i Figli dei Carcerati, Bartolo Longo presenta, con orgoglio ed intima soddisfazione il risultato del suo lavoro.
I suoi ragazzi sono la prova più bella e convincente della infondatezza della teoria che affermava la non educabilità dei figli dei delinquenti.

Signori, questa è la terza volta che ho l’onore di presentarmi a voi. La prima volta, compiono oggi tre anni, ci raccogliemmo insieme in un asilo dell’infanzia, che si era costruito a bella posta per accogliere fanciulli e fanciulle pompeiani e gettare nei loro animi tenerelli i primi semi dell’educazione morale e civile.
Era l’ultima Domenica di Maggio del 1892, cioè un anno da che io aveva lanciato al mondo una parola, che chiamai un voto del mio cuore.
Quella parola che era un desiderio, un sospiro, un gemito per affanni sociali di tutti intesi, ma a cui nessuno stendeva la mano della riparazione, venne accolta da un mondo intero civile; e un mondo intero rispose, prestando il concorso ad edificare l’Opera novissima, che intende a salvare la classe più abbandonata dell’infanzia. Quel concorso del mondo civile: eloquentemente significava che la mia voce aveva trovato un’eco in tutti i cuori; e quell’eco riconosceva vera e lamentava una miseria universale e universalmente sentita.
In quel giorno festeggiammo insieme la prima pietra morale dell’edifizio che dovrà raccogliere fanciulli i quali piangono colpe non proprie. Dicemmo che la prima pietra morale sarebbe stata la
salvezza di un primo fanciullo figlio di un condannato. E questi fu un Calabrese.
Non ve lo presentai perché egli era solo, ed anche per non richiamare su di lui la inutile curiosità degli sguardi.
Ma, oggi è un anno, in questo medesimo giorno, ci raccogliemmo la seconda volta, e non nell’ospizio di carità, sì bene, perché sospinti dal temporale, nella casa centrale della carità; che è il Tempio di Dio. Ed ebbi il contento di presentarvi i primi quindici fanciulli da me raccolti, che sono figli della sventura, ma anche vittime di una scongiura sociale. Poiché non è solamente il padre colpevole che pone sulla loro fronte innocente la nota dell’infamia; ma è la Società egoistica che diventa carnefice di questi innocenti, quando, facendo scontare ai figli l’offesa ricevuta dai padri, gli abbandona e li calpesta, gittando loro in faccia una ingiuria e una maledizione: - Va che sei figlio di un assassino!
Allora, voi inauguraste l’Ospizio Provvisorio: oggi, festeggiamo il secondo anniversario di questa novissima Istituzione di beneficenza sociale; e godo di potervi presentare quaranta fanciulli Figli di Carcerati e di potervi dire: l’Ospizio Provvisorio è già divenuto definitivo!
Chi sono questi primi quindici fanciulli?
Di alcuni già voi avete veduto forse i ritratti nel giornale "Valle Di Pompei"; di altri avete già letto i resoconti morali, che vi hanno descritto la loro indole, la loro fisionomia, i loro caratteri.
Rammentiamone i nomi e i luoghi di nascita:
1. Pullano Domenico (Catanzaro) – 2. Caruso Guglielmo, di Lioni (Avellino) – 3. Grassi Ciro, di Napoli – 4. Leone Arturo, di Foggia – 5. Leone Adolfo, di Foggia – 6. Bezzeccheri Canzio, di Iesi (Ancona) – 7. Fioravanti Massimiliano, di Poggio Mirteto (Perugia) 8. Fioravanti Gustavo, di Poggio Mirteto (Perugia) 9. Mongelli Pietro, di montescaglioso (Potenza) – 10. Moscini Mario, di Orvieto (Perugia) – 11. Arzaniello Giorgio, di S. Giorgio a Cremano (Napoli) – 12. De Carolis Emmanuele, di Ascoli Satriano (Foggia) – 13. Fileccio Sante, di Ustica (Palermo) – 14. Terlizzi Emilio, di Guglionesi (Campobasso) – 15. Tedeschi Pellegrino, di Mugnano del Cardinale (Avellino).
Comincerò dal mostrarvi in prima quei tre tipi di fanciulli natio col marchio fatale della delinquenza atavistica, quegl’infelici reietti della Società che la Scienza dichiarava delinquenti nati, e che secondo le nuove teorie dovrebbero essere rinchiusi in un Manicomio Criminale.
Poi presenterò due altri, verso dei quali le nostre cure debbono essere massime, perché assai meno propensa al bene troviamo l’indole naturale, tuttochè la Scienza non scopra in essi apparenti note di degenerazione innata.
Infine vi presenterò un bel numero di fanciulli, che, sebbene prole di condannati a lunga pena e recidivi, ci confortano con una condotta che da molti padri dabbene si desidererebbe nei propri figli.
Incomincerò quindi dal più amaro, per venir poi a confortarci insieme del bene che si è cominciato qui a produrre; e dal frutto, ottenuto in sì breve spazio di tempo, abbiamo tutta ragione a prometterci assai migliori risultati nel tempo avvenire.

Sante Fileccio

Il primo fanciullo condannato inesorabilmente dalla Scienza Moderna alla delinquenza ed alla prigione e al Manicomio Criminale è Sante Fileccio, il Siciliano.
Voi ricorderete d’aver visto il suo ritratto e letta parte della sua luttuosa origine nel giornale "Valle Di Pompei" del passato Febbraio. Udiste quali definizioni dà del cranio, del volto e del cervello di lui la Scienza; definizioni da far disperare di qualunque correzione, da far cadere l’animo a qualsivoglia esperto educatore.
Questo sventurato fanciullo è figlio di un pirata siciliano e di un tradita giovane napoletana che occupa una pagina nella storia misteriosa e funesta delle infime taverne di Napoli. Forse era ancora viva la miseria e lottava con la morte, quando l’uomo che la fece madre del nostro Sante, toglieva altra donna.
Il misero fanciullo Sante ha il cranio branchicefalo con stenocrotofia e con plagiocefalia sinistra.Ha pure leggiera asimetria facciale. Ha la bozza parietale destra più prominente dell’altra; arresto leggiero di sviluppo; leggiera balbuzie: ha il tubercolo darviniano e il lobulo attaccato: insomma ha tutte le note che dicono di innata degenerazione. Ha le impronte fatali della delinquenza ereditaria, ha le stimmate degenerative. Onde affermano i Frenologi che sarà fatalmente costretto al delitto.
Ricordiamo ancora le parole di un celebre psichiatra, quando osservò Fileccio. Rivolto a me quello Scienziato disse:
_ Se voi farete di questo ragazzo un galantuomo, farete cadere la Moderna Scienza Positiva.
A dire il vero, insino a questo momento Sante Fileccio non ci mette paura; anzi egli è uno dei più bravi della sua Schiera. È ottima pasta di fanciullo, laborioso, tranquillo, intelligente e buono.
Speriamo, per il bene dell’umanità, che la scienza Antropologica Moderna per questo fanciullo non abbia dato nel segno. E quando pure per mala ventura la scienza si sia apposta al vero, non ci cade la speranza che la educazione amorevolmente e cristianamente impartitagli produrrà alcun bene.
Voi lo vedrete questa mattina; il poverino non ha ancora sette anni; vi desterà forse compassione a vederlo ancora gracile, con la minaccia di una gobba sul petto; e pure, son certo, lo abbraccerete.
Dapprima egli sembrava irrequieto ed incorreggibile, ma da due mesi in qua, dacchè lo abbiamo messo al rapporto settimanale, che io soglio fare innanzi ai visitatori che qui convengono ogni Domenica, sante Fileccio fa tutti i suoi sforzi per divenire buono, educato e laborioso.
Ed è felice quando la Domenica ode in pubblico di aver raggiunto il dieci, il massimo dei punti, ed ottiene in premio un pallone, un’arancia e due fichi secchi.
Ebbene, Signori, quel piccolo Siciliano, quel figlio sventurato di un pirata, che la Scienza ha dichiarato essere nato già delinquente, perché ha tutti i dati della generazione innata, voi oggi comincerete a premiarlo, giacchè, come ha osservato il medesimo prof. Giacchi, questo fanciullo non ha dato sin oggi nessun segno di atavica depravazione.
Però se la scienza l’avesse segregato dal consorzio degli altri fanciulli e lo avesse già condannato al Manicomio Criminale, avrebbe troncata nel campo sociale e gittata una pianta fruttifera, invece di allevarla e coltivarla a dare alcun frutto di bene.

(da Bartolo Longo, Quaranta figli di Carcerati, Valle di Pompei 1896, pp. 7-8; 19-23)
(A cura di Luigi Leone)
                          

*I collaboratori del Fondatore di Pompei

Una riflessione particolare meritano le scelte che Longo operò per affidare il suo programma educativo. Si Trattava, infatti, di selezionare il suo programma educativo. Si trattava, infatti, di selezionare con attenzione il personale che doveva tradurre i suoi intenti educativi nella quotidianità dei rapporti e degli interventi fra docenti e discenti, tenendo conto, soprattutto, degli accorgimenti indispensabili, perché preghiera, studio e lavoro producessero, interagendo, gli effetti formativi desiderati, all’interno di una realtà umana non priva di problematiche psico-sociologiche specifiche.
Quando parla degli educatori dell’Ospizio, lo stesso Bartolo Longo afferma che: "il metodo di educazione da noi ideato per formare il carattere morale, una coscienza civile e cristiana in fanciulli, che la scienza positiva voleva a torto dichiarare irreformabili e destinati per atavismo alla delinquenza, il nostro metodo educativo… non avrebbe mai prodotto quell’immenso vantaggio che ormai tutti conoscono, se non avessimo avuto dalla provvidenza cooperatori pieni di intelligenza, di zelo e di abnegazione, che hanno poi reso quest’Ospizio un vero trionfo della carità educatrice".
Docenti delle diverse discipline scolastiche, sacerdoti, i Figli di San Giuseppe Calasanzio e i Fratelli delle scuole Cristiane, furono collaboratori attenti e premurosi nell’opera educativa a favore dei figli dei Carcerati.
(A cura di Luigi Leone)
I Figli di San Giuseppe Calasanzio
Ai primissimi tempi io non aveva qui che persone secolari, miei segretari o collaboratori, al cui zelo e alla cui benevola operosità potei affidare i primi pochi fanciulli, Figli di Carcerati, che man mano venivano raccolti nel nascente Ospizio.
Ricordiamo due benemeriti dei primi tempi, che con grande amore ed abnegazione si dedicarono all’educazione di questi fanciulli, facendo un po’ di tutto: da maestri, educatori, infermieri, inservienti e perfino da cuochi, provvedendo a tutti i bisogni morali e materiali dei piccoli ricoverati. Essi furono il sacerdote Don Enrico De Maria, tuttora vivente in Napoli, e il compianto Signor Luigi Corso, borghese, vero apostolo dei fanciulli, intelligente e fedele segretario e collaboratore nostro fino a pochi anni or sono, insino al giorno in cui il Signore lo chiamò a sé per la corona delle sue virtù, speriamo nella eterna gloria.
È anche doveroso ricordare con animo grato tanti benemeriti borghesi, validi cooperatori per l’educazione dei Figli dei Carcerati, così nei varii laboratorii di arti e mestieri, come nell’insegnamento
della musica. Per la Tipografia segnatamente vanno ricordati il compianto Direttore Cavalier Tito Enrico Marini, l’attuale Capo Tecnico Sig. Francesco Sicignano e tutti gli operai compositori; l’egregio Capo Legatore Sig. Raffaele Iozzini, il vecchio impressore Sig. Francesco Wanderlingh, l’esimio penalista Sig. Pasquale Ravallese i quali tutti con amore ed abnegazione dedicarono le migliori loro energie ad addestrare i cari fanciulli nelle varie branche dell’arte tipografica.
Per l’insegnamento dell’arte musicale vogliamo ricordare il compianto valoroso maestro Prof. Giovanni Battista Tortolano, che per venticinque anni ha speso tutta la sua salute e la sua vita per far divenire i poveri Figli dei Carcerati valenti musicisti, alcuni dei quali anche esimii maestri e direttori di orchestra, che si sono segnalati in rinomati concerti musicali in Italia ed all’estero.
Ma i fanciulli ricoverati aumentavano senza posa, ed urgeva il problema di assicurare la loro educazione con maggiori e migliori mezzi.
Era allora rettore del Santuario il Reverendissimo P. Sisto Bonaura delle scuole Pie, da me chiamato qui, perché gran fiducia ed amicizia mi legava ai Padri Scolopii, essendo stato da loro educato nella mia gioventù. Il P. Bonaura era tra i più grandi educatori di giovani fra i benemeriti Padri Scolopi e fu il fondatore e direttore del fiorentissimo celebre collegio di San Giuseppe Calasanzio in Napoli.
Il P. Sisto non era solo il Rettore del Santuario di Pompei, ma era ancora l’educatore e il confessore delle Orfanelle.
Il buon Padre, vedendo la mia preoccupazione per trovare gli educatori del novello Ospizio pei Figli dei Carcerati, si offerse a me col dirmi: "Se avete bisogno dell’opera nostra, dei nostri Scolopii, io posso mettermi a vostra disposizione".
Fu certamente questa una via dischiusa a noi dalla Provvidenza di Dio! E così il P. Sisto Bonaura fu anche il primo Direttore dell’Ospizio.
Dopo qualche anno, propriamente nel 1894, dietro nostre reiterate istanze, il Rev.mo P. Mauro Ricci, compianto Generale delle scuole pie, risolvé di mandare dalla Toscana un altro Scolopio per l’educazione civile e religiosa dei Figli dei Carcerati, e fu il venerato amico Padre Giovan Gualberto Giannini, ora direttore dell’Istituto professionale in Firenze, che fu per noi un vero dono della Provvidenza; fu una luce benefica di intelligenza, di sapiente zelo instancabile e di paterno cuore sacerdotale pei figli della sventura…
I benefici effetti della sapiente e paziente educazione impartita dai cari figli di San Giuseppe Calasanzio ai poveri fanciulli dell’Ospizio furono sperimentati ininterrottamente pel corso di tredici anni, e misero in luce prodigiosi risultati di quest’Opera novissima.
Basti dire che, sotto la loro direzione, oltre i numerosi fanciulli usciti ad educazione compiuta, ottimi elementi della civil società, ben dieci fanciulli riuscirono anche o Sacerdoti, o Religiosi di svariati ordini.

I Fratelli Carissimi delle Scuole Cristiane
Il meraviglioso prosperare della Istituzione richiedeva intanto personale più numeroso dedito tutto all’educazione e alle varie istruzioni da impartire ai ricoverati, che ogni giorno aumentavano di numero.
Ma i buoni Padri Scolopi non potevano disporre di tante persone da dislocare dalle varie loro case religiose, dalle loro chiese e dai loro istituti per adibirle in questo Ospizio.
Fu veduto perciò il bisogno di chiedere l’opera di altro Ordine Religioso, che potesse sempre disporre di molteplici persone come istitutori ed educatori di fanciulli.
Io già, fin dal febbraio 1906, aveva ceduto alla santa Sede il Santuario e le Opere annesse di Beneficenza educativa, e il santo Padre X, di venerata memoria, aveva già preposto a queste Opere un suo Delegato Pontificio nella persona di Mons. Augusto Silj, ora Cardinale di S.R.C. e Vicario del Papa per queste Opere Valpompeiane.
Fu merito della Ecc.ma Delegazione Pontificia l’aver ottenuto che venissero a reggere questo Ospizio i benemeriti Figli di San Giovanni Battista De La Salle, del grande pedagogista francese, apostolo
della gioventù, fondatore dei Fratelli delle scuole Cristiane, che ormai hanno istituti, collegi e scuole gratuite pei figli del popolo in tutte le parti del mondo.
Si chiamano i Fratelli Carissimi questi insigni istitutori; non sono mai ordinati sacerdoti quantunque facciamo la loro professione religiosa, e sono tutti dedicati ad un molteplice apostolato di educazione e di insegnamento a pro dei fanciulli e dei giovani. In quest’ammirabile Ordine Religioso, si può dire, sono tutte le competenze magistrali, tutte le abilità educatrici, fuse insieme con lo zelo e l’amore che sono proprii dell’apostolato cristiano.
I Fratelli Carissimi vennero qui nell’agosto del 1907 in numero di 20, e ad essi fu affidato questo Ospizio, il quale parve avere quell’alito perenne di vita che tanto si desiderava.
Sono ormai tre lustri che il nostro Ospizio ha fatto singolari progressi, ed è orgoglioso per la perfetta educazione ed istruzione, sotto lo spirito vivificante dei Fratelli Carissimi, che si diffonde benefico anche a pro dei fanciulli pompeiani nelle "Scuole esterne Pontificie" fiorenti in locali dell’Ospizio stesso. Ne dànno ampia prova e completo resoconto i Calendari del Santuario di Pompei di ogni anno, dal 1907 fin oggi.
I Fratelli delle Scuole Cristiane svolsero meravigliosamente i capisaldi del nostro programma educativo, e li perfezionarono sponsali al loro metodo due volte secolare.
È utile additare sinteticamente i fecondi principii da cui è informata e guidata la loro opera educativa, eminentemente pratica, pedagogicamente moderna e perfetta, e confortata da lunga e sicura esperienza.

(Bartolo Longo: Vie meravigliose della Provvidenza, Istituto Editoriale Bartolo Longo, IPSI – Pompei 1954, pp. 258 – 259 – 260 – 261 – 262 – 264 – 265 – 267).

*I fondamenti di ogni riforma educativa

Iniziamo una serie di incontri nei quali riprenderemo testualmente tratti significativi di quegli scritti di Bartolo Longo, che evidenziano il suo pensiero pedagogico, tradotto nell’azione educativa che distingue le opere sociali da lui fondate. Si tratta di assecondare un impegno redazionale che, tuttavia abbiamo assunto anche personalmente da tempo ed in circostanze diverse: perché il nome del propagatore del Rosario ed il costruttore della Pompei Mariana venga a tutti gli effetti iscritto nella storia ufficiale della Pedagogia.
L’opera che introduce questo nostro percorso è titolata "Per la educazione morale e civile dei figli dei carcerati" (Scuola tipografica editrice B. Longo, 1894): in essa l’Autore parla dei suoi progetti e ne sostiene l’impostazione pedagogica con chiarezza di termini e profondità di motivazioni.
Il primo approccio speculativo, in apertura del testo, riguarda, infatti, il concetto dell’educare: un’azione che, indipendentemente dalla diversità dei metodi e dei contenuti, dei luoghi e delle culture si presenta e rimane come una preoccupazione costante delle generazioni adulte rispetto alla prole e alla gioventù consegnataria, quest’ultima, dal patrimonio dei padri e responsabile del progresso futuro. In questa ottica l’alfa e l’omega di ogni riforma sta nell’educare; ma la pedagogia longhiana divenuta specifica ed originale – oltre che profondamente attuale – quando afferma che educare comprende istruzione e formazione del carattere, rapporto con gli altri ed implica la valorizzazione delle potenzialità individuali, aperte ad un progetto di vita sempre più autonomo e libero da condizionamenti.
In tale paradigma Bartolo Longo coniuga il sentimento del dovere, la legge del lavoro, il culto dei diritti civili e della Patri, la carità e la fede: siamo nel momento in cui egli pensa di edificare le fondamenta di quella che chjiama Casa di educazione per i Figli dei Carcerati.

L’impegno per l’educazione deve coniugare insieme cultura dell’intelletto e cultura del cuore, sentimento del dolore ed esperienza lavorativa, ed avere come elemento fondante e vivificante un’autentica esperienza religiosa.
L’Opera di beneficenza per i figli abbandonati dei poveri forzati, come l’intendiamo noi, sarà una istituzione essenziale educativa, fondando l’educazione principalmente sul lavoro e sull’esercizio di quei mestieri che sono consentanei alla condizione sociale dei giovanetti ricoverati.
Conforme abbiamo fatto per il nostro Orfanotrofio femminile della Vergine di Pompei, così faremo per questa nuova Opera di beneficenza: curare soprattutto di non creare spostati, una delle più profonde piaghe d’Italia; ma di limitare l’istruzione a quanto è necessario per esercitare meglio un mestiere e i diritti di cittadini.
In quanto al resto è nostra costante sollecitudine che i fanciulli e le fanciulle affidati alla nostra educazione, imparino bene un mestiere, acquistino l’abitudine al lavoro, la forza della volontà, l’amore al risparmio, e siano teneri sopra tutto della dignità umana, che essi acquistano lavorando, con la speranza che un giorno non saranno di peso a nessuno, e con il loro lavoro provvederanno da loro medesimi ai bisogni morali e materiali della vita.
La carità è per noi fuoco potente che spira le sante istituzioni, e spiega la sua efficacia sulla società con frutti di sana educazione e di vera civiltà.
Quando noi avremo raccolti qui una buona quantità di fanciulli abbandonati, figli di condannati a lunga pena, avremo la certezza di aver sottratto alla mala vita centinaia d’innocenti, di aver sottratto alla statistica criminale una buona cifra di delitti, di aver contribuito alla tranquillità pubblica della nostra nazione; e nello stesso tempo avremo la consolazione di educare al bene tante anime create per vivere da buoni cittadini e buoni Cristiani, per compiere santamente il loro sublime destino di andare un giorno all’amplesso di Dio.
Educare, educare, educare ecco l’alfa e l’omega di ogni riforma, ecco la medicina di malattie sociali divenute incurabili sotto altro trattamento, ecco l’unico modo di rendersi cittadino benemerito.
L’educazione non deve essere come è stata finora, intesa solamente ad istruir la mente, senza aver d’occhio la vita, ma a contemperare la coltura della mente con quella del cuore, il sentimento del dovere, e la legge del lavoro; e il tutto sostenuto, vivificato dalla religione, la quale solleva l’anima al cielo e le impedisce di sprofondare nella materia, che la uccide e la snatura.
Ecco i nostri intendimenti nella istituzione della nuova Opera per i figli abbandonati dei detenuti a vita e a lunghi anni di lavoro forzato: educarli alla religione ed all’arte, all’amore del lavoro ed alla ubbidienza alle leggi, alla coscienza dei propri diritti, e in pari tempo alla conoscenza del proprio dovere.
Finora, sempre intenti ad una voce interna, arcana, soprannaturale, che ci ha guidati per il corso non interrotto di quindici anni, abbiamo inteso principalmente a rinfocolare nel mondo il sentimento religioso, con l’edificazione del santuario, e a risvegliare e rendere operosa la carità dei fedeli dando opera a circondare il Santuario di Pompei di Opere benefiche.
Oggi la medesima voce ci chiama a cooperare in un campo pedagogico.
E noi tanto più volentieri rispondiamo all’impulso interno, in quanto che siamo invitati dalla voce autorevole del Capo di tutto il Cristianesimo, dal Rappresentante di Cristo, che ha già dettato nell’ultima sua Enciclica le norme generali di condotta che debbono seguire gli Stati e i cittadini nella terribile questione operaia che ci sovrasta.
A questo modo io, come Cattolico, contribuisco anche io, quanto è da me, alla soluzione del più difficile problema sociale.
L’educazione dell’operaio è stata la nostra preoccupazione continua, e confidiamo che il buon frutto seguirà agli sforzi dell’industre agricoltore.
E però confidiamo ancora che con l’educazione, quel fanciullo che, ad esempio del padre, guardava la via del delitto e s’avviava alla galera, si potrà mutare in angelo di costumi, amante del lavoro, e sostegno della sventurata madre, la cui immagine si riproduce come un fantasma nei sogni turbati dell’infelice galeotto.
Un giorno quel fanciullo da noi educato, divenuto adulto, alimenterà il vecchio genitore, che riabilitato dalla pena sofferta, avrà sempre dinanzi agli occhi in quel figliolo l’esempio del bene, della religione e della carità cristiana.
La sua educazione alla virtù, alla morale, al lavoro, ricevuta in Valle di Pompei, riverbererà su tutta la reietta ed abbandonata famiglia. La madre non sarà costretta al male per portare un pane ai derelitti figli; perché il figliol suo, educato al mestiere in Valle di Pompei, le recherà il pane benedetto procurato dalle proprie braccia.
Oneste saranno le sue sorelle che conosceranno i beni della religione, della onestà e della fatica.
Il vermicciuolo lasciato ad imputridire, perché privato della luce (della verità), potrà mutarsi nell’angelica farfalla destinata a volare tra gli spazi eterni.
La vittima di somma, trascinata dall’abbandono e dalla colpa non sua, a soggiacere o a castighi di colpe non sue, o alle quali è sforzata, viene da noi salvata dal coltello del carnefice, ed il carnefice è per questa vittima la società tutta: e viene abilitata a produrre tutto il bene, che sa
e che può produrre la creatura, da Dio destinata alla virtù, alla gloria, al premio del cielo, dopo di essere stata virtuosa e feconda di bene per sé e per gli altri sulla terra.
Questo, secondo pensiamo noi, significa curare il male dalla radice, educare con sforzi titanici la nuova generazione operaia a sentimenti di religione, a un concetto della vita più sano, più giusto, più rispondente alla realtà.
Se continua il concorso degli italiani e degli stranieri alla nostra nuova istituzione, noi cominceremo l’Opera con cento fanciulli, i quali, continuando la cooperazione dei nostri fratelli, chi sa, arriveremo forse al numero trecento.
Così avremo sottratto all’elemento sociale rivoluzionario, che recluta molto facilmente la gioventù traviata e dedita al malfare, trecento operai, i quali invece di diventare petrolieri e scassinatori sanguinari dell’edificio sociale, saranno dei buoni capi di famiglia, che a loro volta educheranno al bene anche i loro figli, perché il bene è fecondo come il male e si propaga con la stessa legge di solidarietà.
Noi diciamo trecento, ma non saranno mica soltanto trecento i fanciulli salvati dalla via della perdizione; giacché quando i primi ricoverati saranno giunti ad una età in cui possono rientrare nella vita, e lucrare onestamente il loro pane quotidiano, altri entreranno a godere gli stessi benefici dell’educazione, e così verremo a stabilire un vivaio rigoglioso di cultura, un luogo ove si redimono le anime che sono in pericolo di pervertimento.

(da Bartolo Longo, Per la educazione morale e civile dei figli dei carcerati, Pompei 1894, pp. 15-20)
(A cura di Luigi Leone)

*I Fratelli delle Scuole Cristiane e l'Opera pompeiana

Un profondo connubio di idee e di metodologie caratterizzò l’impegno educativo di Bartolo Longo e degli eredi di San Giovanni Battista de la Salle. Il Fondatore di Pompei ne evidenziò i meriti e i frutti della loro azione formativa.
Nei confronti dell’azione educativa svolta dagli educatori nell’Ospizio "Bartolo Longo", dinanzi al continuo incremento numerico dei fanciulli, si avvarrà come abbiamo visto in un primo momento dei Padri Scolopi, chiamando in un’ulteriore fase i Figli di San Giovanni Battista de la Salle, presenti ancora oggi con la progressiva collaborazione dei docenti esterni.
Nei suoi scritti il Beato entra nel merito della metodologia lasalliana, mettendone in evidenza i tratti più significativi, specificandone dettagliatamente i tratti più significativi, specificandone dettagliatamente i tratti. In quelle linee generali egli ricollega l’intervento magistrale, il mezzo della persuasione e l’esempio.
Siamo dinanzi a tre aspetti che si intersecano e si condizionano reciprocamente, dai quali dipendono, poi, il profitto intellettuale, la crescita etico-religiosa, il rispetto verso l’adulto che ci educa, sempre pronto all’ascolto, al consiglio ed altrettanto aperto ad alternare l’impegno scolastico degli allievi con l’offerta di attività collaterali ricreative.
Abbiamo accennato come quest’Opera nuova di rigenerazione a pro dei Figli dei Carcerati fu approvata, encomiata ed appoggiata da moltissime persone illustri nella scienza criminale, nella magistratura e in ogni sorta di pubblici uffici.
Lettere, relazioni, discorsi, articoli di giornali, studi di riviste, di sommi cultori della scienza e del diritto, ebbero giudizi lusinghieri per la novella Opera; ed erano professori di Università, magistrati di fama, scienziati anche di fede opposta, e non solo d’Italia ma pure dell’Estero.
Abbiamo pure fatto cenno delle nostre apposite pubblicazioni, che illustrano i meravigliosi risultati di questa Istituzione salvatrice, segnatamente del nostro libro: "Il Triplice Trionfo della Istituzione a pro dei Figli dei Carcerati", dove son riportate le testimonianze e i nomi degli illustri uomini che fanno entusiastica apologia della umanitaria Opera da noi fondata.
Vogliamo ora ricordare le impressioni di un illustre magistrato napoletano, Cav. Antonio Iodice, Consigliere della Corte di appello in Napoli, che ritrae in felice sintesi i singolari frutti di educazione originati dall’Opera direttiva dei Fratelli delle Scuole Cristiane sul cuore e sul carattere morale di questi fanciulli.
Stralciamo questo brano di un suo magistrale articolo: "In un Ospizio – Osservando e meditando" pubblicato nel giornale "Il Corriere dei Tribunali" del 13 novembre 1910.
"Ebbi agio di ammirare – così scrive l’esimio sociologo – con la magnificenza e la salubrità degli ampii dormitorii, delle scuole e delle officine, piene di aria e di luce, di pulizia, di igiene e di ordine, i frutti dei loro lavori scolastici, artistici e meccanici, e ne rimasi vivamente meravigliato e commosso.
Ma, rivolgendo la parola a parecchi di essi, fra i più adulti, fui preso da un sentimento di ineffabile tenerezza nel constatare la trasformazione morale di quelle anime attraverso i temperamenti ed i caratteri più opposti e difficili.
E pensai: quanto deve essere stata ardua e faticosa l’impresa della educazione di questi fanciulli! E parlando coi loro precettori – i seguaci del grande pedagogista Giovanni De la Salle – mi convinsi che il segreto di quel miracolo di rigenerazione e riposto nell’attuazione continua, fatta d’intelletto e di sacrificio, del programma del fondatore dell’Ospizio, compendiato in due parole: Religione e Lavoro.
Eppure, notai che quei ragazzi vengono su crescendo con un sentimento squisito e profondo di libertà e di dignità civile, da escludere assolutamente il dubbio che possono essere o apparire invasi dalla nevrosi isterica della bigotteria.
Basta avvicinarli, conversare con essi, penetrarne l’animo solcato dal dolore per ricredersi e disingannarsi d’un cotal pregiudizio. Ed è per questo che principalmente richiamo l’attenzione degli scienziati sull’esame attento, fatto con sincerità e senza preconcetti, sulla esplorazione intima di quegli spiriti, così teneri e cotanto travagliati dalla sventura, per ricostruire la psicologia attraverso tutti i momenti della loro esistenza, tutti gli atteggiamenti, tutte le inflessioni del volere e del carattere, non solo nelle origini della loro costituzione organica,, ma nelle manifestazioni multiple di quella energia psichica, onde essi, nel governo degli stimoli e degli appetiti più impetuosi e gagliardi, han saputo affrontare e vincere la lotta con se medesimi, guidati e sorretti da ottimi educatori, tra la tendenza cleptomaniaca ed il rispetto della roba altrui, tra l’eccitamento alla violenza e l’amore verso i compagni, tra la riluttanza al lavoro ed il dovere di fuggire l’ozio, tra l’indolenza e la riconoscenza pel maestro e pel benefattore, tra la sensualità e la morigeratezza, tra la scaltrezza egoistica e la più squisita delicatezza dei sentimenti altruistici.
Sere or sono – mi diceva uno dei maestri che mi accompagnava nella visita dell’Ospizio – uno di essi meritò da me un aspro rimprovero, e poiché era recidivo nella violazione della disciplina, fu minacciato di espulsione, la suprema misura di rigore, mi soggiungeva, che suole adottarsi con l’intento, s’intende, di non attuarla mai.
All’ora in cui dovevano essere a letto, come al solito, passeggiavo pei corridoi, facendo capolino nelle camerate per la consueta vigilanza, e, con sorpresa, in quella, cui apparteneva il rimproverato, constatai che tutti erano in ginocchio presso i loro letti e mormoravano il Rosario, silenziosamente, cautamente, per non farsi scorgere.
Seppi da alcuni di essi che avevano così pensato di operare per ottenere dalla Santa Vergine di
Pompei la grazia di rimuovermi dal proposito di espellere il compagno.
Questo fatto riassume tutta la psicologia di quell’infanzia e porta l’impronta di un metodo di educazione, il quale, non fosse di altro capace, riesce e tramutare e sublimare lo spirito di rivolta in un atto di pietà cristiana nell’affermazione della più fervida e nobile solidarietà fatta di amore e di cameratismo.
Tutti i fattori pedagogici moderni si fondono e si perfezionano, per quel metodo, in un sentimento purissimo di religione, professata senza ostentazione e senza eccessi dagli educatori, praticamente, al contatto degli alunni, in modo che questi ne sperimentino continuamente il benefico influsso della dolcezza e nella premura, onde si veggon da essi circondati, nella benevolenza e nel rispetto reciproco, nella confidenza, nella gratitudine e nella soggezione per l’educatore, nello spirito di emulazione e di giustizia mantenuto fra i compagni, nel benessere morale e materiale dell’ambiente dell’Istituto, e, specialmente, nello spirito familiare, che tutti stringe in un vincolo di affratellamento: direttore, maestri, capi d’arte e discepoli.
L’istruzione diventa mezzo di educazione, e l’una e l’altra si ravvivano nel sentimento religioso da tutti egualmente praticato.
La Religione spiega un’efficacia indiscutibile sulla educazione; imperocché ora raffrena gli impulsi e gli eccitamenti dell’apparato nervoso ed ora risveglia nell’animo del fanciullo le energie morali assopite e depresse, e sempre agisce direttamente sull’intelletto e sul cuore per la via del sentimento e dell’imitazione, dell’abnegazione e del costume, in quanto non possa revocarsi in dubbio che l’insieme dei precetti religiosi sia rivolto principalmente ad instillare le più utili cognizioni della vita nella sua mente e ad infondergli nel cuore il senso del rispetto e ciò che è rispettabile, da cui scaturiscono l’obbedienza e la fortezza della volontà. E quando questo metodo si esplichi e si coordini con l’ausilio della educazione fisiologica e fisica, intesa a consolidarne l’organismo ed a preservarlo da ogni contagio, il problema della corruzione dei figli dei delinquenti è risoluto".

Risultati dell’Opera fino ad oggi
Sono stati finora raccolti nell’Ospizio Valpompeiano ben quattrocentottantadue figli di condannati. Ne sono usciti con educazione compiuta duecentocinquanta. Hanno servito la Patria nella guerra, ottanta ex alunni, tra cui alcuni valorosi ufficiali. Si sono segnalati in Italia e all’Estero nelle arti meccaniche nell’ebanisteria, nell’intaglio, nell’arte musicale e tipografica centoventi fanciulli già istruiti ed educati nel detto Ospizio.
Alcuni di essi sono divenuti Sacerdoti e Religiosi di vari ordini, ed uno di questi è anche parroco!
Queste cifre dicono abbastanza della forza educativa nei Figli dei Carcerati.
Gli educatori di essi da sei lustri raccolgono in quest’Ospizio frutti salutari e copiosi della loro benemerita missione.

(Bartolo Longo: Vie meravigliose della Provvidenza, Istituto Editoriale Bartolo Longo, IPSI – Pompei 1954, pp. 268–273)

*Il rapporto tra genitori e figli nel cammino educativo
(a cura di: Luigi Leone)

Il caso del piccolo Domenico Pullano, su cui si attarda l’analisi e l’approfondimento del Fondatore di Pompei, diventa esperienza emblematica del suo metodo educativo e mette a nudo la complessità del problema evidenziando il sapiente equilibrio e l’acume pedagogico di Bartolo Longo.
Siamo nel mese di Giugno del 1899, quando la "Scuola Tipografica per i Figli dei Carcerati" pubblica un libretto dal titolo "Risposte ad alcuni quesiti proposti dalla Sottocommissione presieduta
dall’illustre Commendatore Luigi Bodio, avente come finalità lo studio di provvedimenti legislativi a favore dell’infanzia". I quesiti sono quattro: ad essi Bartolo Longo risponde con l’acume di sempre.
Le richieste riguardano il rapporto fra genitori e figli accolti nell’ospizio durante la loro permanenza: se i genitori reclamino i figli prima che essi raggiungano un’educazione compiuta. A questo proposito Bartolo Longo denuncia le carenze legislative in atto, porta alcuni esempi sia dei ragazzi dell’ospizio maschile, che delle ragazze dell’orfanotrofio femminile, auspicando precise disposizioni di legge.
E sempre d’intervento si parla, quando si guarda ai regolamenti interni degli orfanotrofi: in questo caso sarebbe opportuno che l’intervento educativo sul piano intellettuale e professionale potesse esaurirsi anche prima della maggiore età.
Il binomio religione e lavoro sarebbero la base di tale principio: sono due componenti che Bartolo Longo ritiene essenziali per lo sviluppo e la formazione della persona umana, perché essa, sorretta nello spirito dalla preghiera, sfugga ai pericoli derivanti dall’ozio e dalle suggestioni del facile profitto.
Nell’ultimo quesito Bartolo Longo entra nel merito dei costi, divisi in tre categorie: spese per dimora ed abitazione, spese personali, spese per l’educazione, l’istruzione e vigilanza dei ricoverati un elenco particolareggiato di una chiara idea dell’impostazione dell’offerta educativa.
Siamo di fronte ad un’analisi dalla quale emergono e si conformano i principi che ispirano Bartolo Longo e che bene si evincono nella descrizione puntuale e precisa del caso di Domenico Pullano, uno dei ragazzi accolti nell’orfanotrofio, che fu il primo ad essere ammesso. Bartolo Longo risponde con severi giudizi al primo quesito – il più pedagogico – presentandoci il caso di Domenico Pullano, di Placido Zirillo, di Giovanni Moscatelli dell’orfanotrofio maschile, ma anche il caso di Rosa Barbieri, Bianca ed Egle Boi dell’orfanotrofio femminile della Vergine di Pompei. (L.L.)
Se avvenga frequentemente che un fanciullo accolto in un Ospizio perché trascurato o maltrattato dai genitori, sia da questi reclamato, prima che abbia potuto ricevere un’educazione compiuta, e sia giunto ad un’età in cui possa provvedere da sé. Intorno a questo quesito ho avuto occasione di raccogliere, così nell’Ospizio pei Figli dei Carcerati, come nell’Orfanotrofio della Vergine di Pompei, numerosissimi dati di fatto, i quali dimostrano l’insufficienza dell’odierna legislazione circa i rapporti tra i fanciulli e giovanetti ricoverati in Istituti di beneficenza e i loro genitori.
Citerò solamente quelli che sono più caratteristici.

Domenico Pullano
Con questo fanciullo, che ormai è un giovane diciassettenne, ebbe principio l’Opera a pro dei Figli dei Carcerati. Egli fu ammesso per primo in quest’Ospizio, e con la consecutiva ottima riuscita ha fatto e va dicendo molto onore all’Istituzione che lo ha salvato.
È Calabrese, nativo di Taverna (provincia di Catanzaro). Suo padre, Rosario Pullano, era stato condannato per omicidio con premeditazione. Espiata la pena, non volendo rimanere in paese per tema di vendetta, emigrò in America, non esercitandovi mestiere stabile e certo, e ripartendone varie volte per poi ritornarvi di nuovo.
Rosario Pullano cominciò col mostrarmi grandissima riconoscenza e gratitudine per avergli liberato il figliuolo dai pericoli dell’abbandono e, forse pure, dai suoi nemici. Ma a misura che trascorrevano gli anni e Domenico diventava esperto sonatore di bombardino nella Banda Musicale del Figli dei Carcerati, e, quel che è più, abilissimo compositore tipografo, i sentimenti del padre cominciarono a mutare. Scriveva che non sapeva e poteva vivere senza il suo amato figliolo, che gli era assolutamente necessaria la compagnia di lui: ma dalle informazioni che assiduamente assumeva sui progressi del giovinetto nella musica e nell’arte della stampa, ben chiara traspariva la speranza ed il proposito di servirsene per la sua sussistenza.
Poco dopo, infatti, mi pregò che gli avessi consegnato il figliuolo. E poiché per lettera, gli risposi che in buona coscienza non poteva farlo, perché costui non era in condizione da potere impunemente essere abbandonato a se stesso; Rosario se ne venne in questa Valle per appoggiare la richiesta con la sua presenza.
Per allora fu persuaso a desistere: ma, trascorso poco tempo, cominciava a tempestar di nuovo, minacciando di ricorrere alle pubbliche autorità e spesso non serbando quella correttezza che gli era doverosa.
Sennonché, a non cedere alle sue reiterate e troppo vivaci imposizioni mi consigliavano ed il bene del giovanetto, non ancora in età da sapersi serbare immune da qualsiasi male, e la volontà ferma e
decisa del medesimo continuamente manifestata di non volere per cagione alcuna allontanarsi dalla Casa, ove ha passato tanti anni ed ove va diventando onesto, operoso ed esperto operaio.
Perciò mi sono rifiutato più volte di accondiscendere alle istanti richieste di quel padre testardo, ma ciò non manca di procacciarmi continui dispiaceri e noie. Senza dire poi che nell’animo del figlio non deve avere un salutare effetto l’intendere le ragioni della condotta del padre ed il resistere ostinatamente alla sua volontà.
Per ora, il girovago Pullano si è da qualche mese acchetato, scoraggiato da una lettera, in cui il figlio gli assicurava che le sue insistenze lo avrebbero fatto espellere dall’Ospizio, ed allora avrebbe fatto di tutto pur di riconoscere il padre nell’autore della propria rovina. Ma è certo che fra qualche tempo riprenderà i suoi tentativi.
E se avrà il pensiero di abbandonare le vie e le trattative private e di valersi dei poteri e dei diritti che la legge gli accorda, il suo malvagio disegno sarà attuato pienamente.
E Domenico Pullano – un giovanetto che nei cinque anni da che istituita la pubblica premiazione, ha conseguito cinque premi di primo ordine – costretto a guadagnarsi il vitto per sé e per il padre in Calabria o in America, non solo non potrà rendersi sempre più perfetto nell’arte che ora esercita con facile successo, ma privo di direzione e di consiglio negli anni appunto che, per ribollire dell’età, hanno maggior bisogno dell’una e dell’altro, non ancora perfettamente rassodato nei retti sentimenti inoculati e coltivati nell’animo suo, potrà avere una ben diversa da quella che la sua puerizia e la sua adolescenza gli hanno meritata.

(Bartolo Longo, Risposte ad alcuni quesiti per lo studio dei provvedimenti legislativi a favore dell’infanzia – Giugno 1899, Scuola Tipografica per i figli dei Carcerati, Valle di Pompei pp. 3-5).

*I Luoghi dell'accoglienza dei Minori

Dopo aver stabilito i principi fondamentali dei percorsi educativi, il Fondatore di Pompei pensa alle strutture e ai locali che accoglieranno i suoi giovani ospiti.
Nulla è lasciato al caso: e sussidi necessari.

Una volta stabilite le regole e considerati alcuni aspetti sostanziali per l’educazione dei giovani, Bartolo Longo organizzerà via via l’accoglienza e la permanenza ambientale, sulla base delle esigenze fisio-psichiche, intellettuali, ricreative dei convittori: nulla è lasciato al caso, rispetto alla ristrutturazione dei locali, alla loro ampiezza, all’arredamento, ai sussidi per attrezzare i laboratori.
È lo stesso Bartolo Longo a descrivere la progressione degli edifici ed i criteri ai quali sono ispirati: li caratterizzano, infatti, "spaziosissime camerate", "ampie sale di lavoro e di studio", "sale di musica", illuminazione elettrica di tutti i locali", "lunghissime mense coperte di lastre di marmo".
E, parallelamente, alla salvaguardia del bene-essere del corpo e della mente, si affianca l’Oratorio, luogo dove riunirsi per la preghiera, per l’ascolto, per la partecipazione attiva al progetto di formazione integrale della personalità giovanile.
I particolari forniti e gli accorgimenti messi in atto confermano la singolarità creativa del Fondatore e l’impegno assunto perché i suoi giovani "figli adottivi" vivessero serenamente, senza dover avvertire, almeno sul piano del conforto ambientale, la loro situazione di esseri umani privati, senza colpa, dei loro affetti diretti.
Educare accogliendo, educare fornendo mezzi esistenziali soddisfacenti, educare ed istruire, rispettando le singole disponibilità, pregare, lavorare e sperare per sé e per il prossimo. (L.L.)
Lo svolgimento dell’Ospizio ove i piccoli Figli dei Carcerati hanno ricovero ed istruzione, procedeva di pari passo col favore sempre crescente, suscitato dovunque da quest’Opera, che è la più schietta emanazione della carità cristiana.
In brevissimo tempo, e per un vero miracolo della beneficenza sorgevano vasti e maestosi fabbricati, che mostravano gli intenti con cui la Istituzione era ispirata.
Si provvedeva con queste prime fabbriche alle necessità ed ai bisogni dell’Istituto, non però alla sua rapidissima espansione.
Vi si costruivano camerate vaste e soleggiate, numerose sale di studio e di lavoro: ma ben presto l’ampliamento dell’Edificio era reso necessario dai rapidi progressi dell’Opera. Fu quindi impresa la costruzione di un’ala meridionale parallela a quella già costruita, e di un’ala orientale atta a collegare ed a mettere in comunicazione le altre due.
Così l’edificio ove sono raccolti i Figli dei Carcerati, si può dividere in due: parte antica e parte in costruzione.

1) La parte antica dell’Ospizio

Lettere strazianti che giungevano da ogni parte implorando ricovero per questo o quello sventuratissimo Orfanello della Legge, mettevano alle strette il fondatore della novella Opera salvatrice, ed egli non ebbe cuore d’indugiare più a lungo, e volle che ad ogni modo la infanzia sventurata cominciasse a godere i salutari effetti della cristiana beneficenza.
Comprò, per tanto, nel 1892 una piccola casa, la prima che, venendo dalla Stazione, si trovava sul lato destro della Via Sacra. Era una modesta abitazione con quattro camere in pianterreno, un vestibolo ed un giardinetto interno; e divenne il primo nucleo dell’Opera germogliata dalla Fede accoppiata alla Carità.
In quello stesso anno e nel seguente 1893 vi furono costruite camere spaziose, fu prolungato il lato meridionale e vi fu aggiunto refettorio, cucina, scala. Le costruzioni furono proseguite anche nel 1894, e nel Maggio di quell’anno s’inaugurarono due spaziosissime camerate, ove cinquanta fanciulli potevano stare con quell’agio e con quella comodità, che la pedagogia e l’igiene richiedono.
Così, nel 1895, questa parte dell’edificio era assolutamente completa, e già conteneva quanto era necessario alla vita, alla educazione ed alla istruzione della numerosa famiglia ricoveratavi. Finalmente, nella parte antica dell’Ospizio trovasi l’Armeria, perché sin dal principio si pensò ad addestrare i Figli dei Carcerati nelle evoluzioni militari e nel tiro a segno affinché, giuntane l’età, potessero compiere il servizio militare assai facilmente e bene.
E nell’Armeria sono serbati e custoditi sessanta moschetti, comprati presso la Direzione Territoriale di Artiglieria in Napoli, coi quali gli Orfanelli della legge si educano al ben portamento della persona, all’ordine ed alla disciplina.

2) L’Oratorio
Parte importantissima dell’Ospizio è l’Oratorio, che è stato ingrandito e mutato di posto, conforme richiedeva il sollecito prospettare della Istituzione. Cominciò con essere una piccola Cappella, tutta candida e raccolta, eretta nei primi cominciamenti dell’Opera.
Le spese di essa furon sostenute per duemila lire offerte per l’Altare del benefico Signor Pasquale Fiorentini da Gioia del Colle per voto fatto a favor di suo figlio, e per lire mille dal Signor Pasquale Martini da Oria per grazia ottenuta.
Due iscrizioni incise sopra lestre di marmo ricordavano la carità esemplare di quei due benefattori degli Orfani della legge, affinché costoro non dimenticassero mai di pregare per quei cuori generosi. E questa modestissima Cappella fu inaugurata il 29 Ottobre 1894, ultima Domenica del mese, con una solenne solennissima Processione, la quale mosse dal Santuario accompagnando Gesù sacramentato
che venne a visitare e a benedire i figli prediletti al suo Cuore.
In tal maniera fu istituita e celebrata per la prima volta una delle più belle funzioni che qui hanno luogo nel mese di Ottobre, vale a dire la processione del SS. Sacramento per le vie della risorta Pompei. Breve tempo dopo, questa Cappella che non era più atta a contenere la sempre crescente famiglia di fanciulli fatti fratelli dalla comune sventura.
Si era intanto sperimentato che dal giorno in cui questi fanciulli aveva avuto con loro Gesù in Sacramento, essi eran divenuti migliori: onde rapidamente sorse un Oratorio, assai più spazioso del primo, e di forma un po’ allungata. Per quattro finestroni in fila, esposti a mezzogiorno e che davano sulla ridente campagna pompeiana, entrava una festa di sole e di dolcissimi effluvii ossigenati, e rendeva gaio e salubre oltre ogni dire il luogo che dai fanciulli deve essere amato e rispettato su tutti gli altri.
Le candide mura, poi, prive di qualsiasi ornamento, eran fatte per invitare a spingere al raccoglimento le menti dei fanciulli così facili a sviarsi e a distrarsi.
Stendeansi nel mezzo lunghe file di banchi, ed era veramente dolcissimo lo spettacolo che offrivano, quando li gremiva la nidiata composta e serena dei piccoli devoti. E non mancava l’harmonium per accompagnare con le note melodiose i corali larghi e commuoventi, coi quali gli Orfanelli della Legge alternano le loro preci.
L’altare era nel fondo, trasportatovi dalla prima cappellina. A destra ed a sinistra di esso vedevansi infisse nelle mura laterali le due marmoree iscrizioni che commemoravano la magnificenza dei due speciali benefattori. Così anche nella chiesa, anche al cospetto di Colui che ha tesori inesauribili di
carità e di amore pei miseri e per gli infelici, ai piccoli beneficati non era possibile dimenticare quanto dovevano alla generosità dei cuori pietosi.
Così, quando su di loro discendeva la benedizione del Signore, essi eran tratti a pregar fervidamente, con l’abbandono fiducioso dei cuori infantili sì per la conversione e la emenda dei loro padri sventurati, e sì per la salute ed il bene dei loro benefattori.
Questo Oratorio veniva inaugurato il giorno di Pasqua del 1896, con una grande profusione di fiori, con molti e dolcissimi canti e con numerosissime comunioni dei Figli di carcerati e di Operai che vollero affratellarsi con quelli della Mensa Divina, così come con quelli sono affratellati nella officina ed al lavoro.
Però né meno questa Cappella offriva tutti i vantaggi che si potevan desiderare. Impiantata in un locale costruito per scuola o per officina aveva l’inconveniente di esser troppo prossima alla via, ed il movimento di questa necessariamente turbava il raccoglimento tutto proprio della Casa del Signore. Inoltre, la forma speciale della sala, soverchiamente allungata, precludeva ogni vista dell’altare a quelli che non avevano il vantaggio di occupare i primi posti.

(Da "L'istruzione a pro dei Figli dei Carcerati e l'Ospizio Educativo di Pompei". Valle di Pompei –Scuola Tipografica Bartolo Longo 1898, pp.28-33)

(A cura di: Luigi Leone)

*I mezzi ausiliari dell'educazione e l'attivismo pedagogico
(A cura di Luigi Leone)

Musica, ginnastica, premiazione solenne ed altre attività, definiti mezzi ausiliari di educazione, completano il metodo educativo del Longo che anche in questo campo può essere definito anticipatore delle più recenti acquisizioni pedagogico-educative.

Mezzi ausiliari di educazione: così Bartolo Longo titola le pagine nelle quali chiarire, nei dettagli, a quali altri mezzi, oltre alla religione, al lavoro ed alla scuola, ricorrere per completare la formazione. Si tratta di "mezzi ausiliari". Fra essi la musica, la ginnastica, la premiazione solenne, una piccola mercede per il lavoro svolto: attività e modalità di gratificazione che aiutano il progressivo svolgersi della personalità, lasciando emergere e. quindi, scoprire possibili tendenze naturali sul piano della creatività e della espressività stessa dei ragazzi, agevolando anche il nascere spontaneo di gruppi coesi anche rispetto alla realizzazione di specifici progetti, suscettibili di aperture all’esterno, nei momenti delle ricorrenze o degli incontri con la società civile, Bartolo Longo si sofferma con ricchezza di particolari nella esposizione di questo percorso, per così dire, compensativo ed integrativo del curriculum scolastico: ed anche sotto questa direzione va considerato come un anticipatore dell’attivismo pedagogico e della progettualità che connota sempre più la stessa scuola pubblica, quando inserisce musica, educazione motoria, lingue straniere nelle discipline tradizionali.

Se abbiamo posto a base dell’educazione dei nostri fanciulli la Religione, il Lavoro, la Scuola, non escludiamo però verun trovato della Scienza e segnatamente della Pedagogia che è destinata a formar l’Uomo. Così abbiamo prescelto i mezzi ausiliari di educazione per i Figli dei Carcerati la musica e lo svolgimento delle forze fisiche e muscolari, come la ginnastica, e gli esercizi militari, il salto, la corsa, i bagni,
Musica
E principalmente la Musica è per noi uno dei più rilevanti mezzi per dirozzare questi monelli, come quella che di natura ingentilisce il cuore non solo di chi lo coltiva ma ancora di tutti quelli che la sentono. Ed essi l’amano non solamente perché risponde a una particolarissima disposizione di tutti quasi questi fanciulli meridionali, ma perché è un diversivo che rompe la monotonia dell’Istituto, una valvola di sicurezza alla loro inesauribile vivacità.
Come potrebbero essi durare al lavoro per l’intera giornata, costretti all’immobilità, al silenzio soprattutto, e alla serietà dell’officina? Perciò si frammezza la fatica del mestiere o l’esercizio delle arti meccaniche con lo studio della Musica e con l’apprendere l’arte degli strumenti musicali, e col suonare in concerto.
Ma la ragione principale per cui i Figli dei Carcerati si dedicano allo studio della Musica con passione pari a quella che portano al lavoro si è perché sanno che sarà per essi una nuova fonte di onesto e facile guadagno. A quelli che saranno chiamati alla leva militare assicurerà il modo di prestar servizio militare nelle Bande Musicali dei Reggimenti, e a quelli che saranno esenti dal servizio militare darà l’agio di iscriversi nei concerti musicali dei loro paesi, poiché non vi è città o borgo d’Italia che ne vada sprovvisto.

Ginnastica
I nostri ricoverati nelle ore di ricreazione si incaricano da sé della ginnastica occupati a saltare barriere, a correre e rincorrersi in mille giochi.
Ma ciò che non farebbero da sé, sono le evoluzioni militari e quegli esercizi ginnastici speciali che sono in perfetto antagonismo con l’atteggiamento e coi movimenti richiesti dal lavoro particolare che
ciascuno operaio esegue nella propria officina. A ciò si provvede con una scuola di ginnastica di compensazione che mentre soddisfa allo scopo igienico di rafforzare l’energia dei poteri fisiologici, raggiunge uno scopo eminentemente curativo, correggendo le imperfezioni prodotte dal mestiere. Gli esercizi militari col fucile, le parate, le passeggiate militari, li adusano alla disciplina e all’ordine, mentre concorrono potentemente, al pari della ginnastica, al regolare sviluppo delle forze fisiche.
Premiazione solenne
La premiazione dei Figli dei Carcerati che da ben nove anni siamo soliti fare nell’ultima Domenica di Maggio è la meta cui guardano ansiosamente i nostri fanciulli per tutto il corso dell’anno.
A tenere sempre vivo il ricordo concorre validamente la votazione settimanale, in cui Istruttori, Maestri e Capi-Officine danno ragione del profitto e della condotta dei rispettivi allievi, e la premiazione bimestrale pubblica la quale ci porge il destro di incoraggiare i buoni, di scuotere i tiepidi e i vacillanti, e non è altro in sostanza, che una preparazione alla Premiazione solenne del Maggio, nel giorno Anniversario della Istituzione salvatrice dei poveri Figli dei Carcerati.
E noi a bella posta abbiamo voluto che questa Festa fosse pubblica e improntata a grande solennità e importanza non solo per eccitare l’emulazione tra i ricoverati e stimolare tutti al progresso, ma principalmente per attestare del progresso dei premiati e dell’Opera stessa, della quale si ritesse la storia svoltasi nel corso di tutto l’anno.
Perciò si fa la Festa Civile al cospetto di una eletta moltitudine di Signori e di Signore che qui convengono da ogni parte d’Italia, personaggi eminenti, rappresentanti delle autorità civili e militari di Napoli e delle provincie limitrofe, uomini di Stato, Sociologi, Giuristi e Magistrati, precedentemente da noi invitati a rendere lieta la festa dell’esultanza e del conforto.
I progressi materiali dell’Istituto, e le vittorie conseguite sulla pubblica opinione in ordine alla eredità della colpa e i trionfi riportati nel campo della scienza contro le sue prevenzioni dai principi morali cui s’impronta l’educazione di questi orfani, e quelli non meno importanti conseguiti nelle Carceri dall’Apostolato dei Figli dei Carcerati medesimi a pro dei loro colpevoli Genitori, formano l’oggetto del solenne convegno.
Presentiamo quindi tutti i fanciulli al numeroso pubblico qui convenuto, e narrati per sommi capi i precedenti di quelli che maggiormente si sono distinti, si invitano i benefattori dell’Opera a conferire il meritato premio.
Così a ognuno è dato interrogarli, studiarli, controllare il profitto da essi fatto nelle arti, nei mestieri, nella scuola, in tutto.
Infine si conferiscono le ambite insegne di capi squadra e di capi officine a quelli che per condotta e abilità nel lavoro sono degni di essere assunti a moderatori dei loro compagni.
La Mostra del lavoro, la musica, gli esercizi militari, il maneggio d’armi, i saggi di Ginnastica, costituiscono anch’essi la nota gaia e geniale del solenne trattenimento, e servono nel tempo stesso a dar ragione del progressivo svolgimento intellettuale e fisico dei ricoverati.
A questo proposito, anzi, non sappiamo astenerci dal riportare alcuni brani di un lungo articolo del
Corriere di Napoli, uno dei più diffusi giornali d’Italia.
L’articolista, colto scrittore ed osservatore acuto, dopo aver detto che ordinariamente i discorsi e le premiazioni hanno un valore piuttosto virtuale che reale, e che servono piuttosto a stimolare gli allievi al progresso che ad attestare del progresso degli allievi, continua così:
"… Ma andate a Valle di Pompei in un qualunque giorno dell’anno, andate a visitare l’Ospizio e a far conoscenza coi piccoli ricoverati quando meno essi si aspettano visite e inquisizioni, andateci senza compagnia, in modo che essi non siano messi in apprensione dal numero… Andate laggiù, tra quel ricovero di figli di bruti, con la massima diffidenza… Voi cercherete invano nella espressione della maggioranza dei volti l’indizio della contrarietà, del fastidio, dell’intolleranza, dalla rassegnazione tormentosa… Quei piccoli figli di bruti, quegl’infelici, molti dei quali hanno nella persona le stimmate della degenerazione, non sono attenti, volenterosi e lieti di loro occupazione relativamente alla loro natura. Il loro grado di mansuetudine non è mirabile per rapporto alla loro indole selvatica. Tanto non è che voi pensate, involontariamente, ad altri ragazzi visti in altri luoghi, in così diversi luoghi di educazione: a quanti altri ragazzi, a quanti altri adolescenti abbiate visti in altre scuole; e il paragone non è favorevole a questi. E ciò che per il contegno  avviene per il profitto.

(Bartolo Longo: Congrès Pènitentiaire International de Brixelles – 1900 -  pp. 14-17)

*I principi educativi di Bartolo Longo

Fra i punti sui quali Bartolo Longo incentra le modalità del suo metodo pedagogico ne incontriamo due – preghiera e lavoro – che egli dimostra essere aspetti e momenti coessenziali al processo di sviluppo naturale ed internazionale di ogni essere umano, tanto più necessari ed irrinunciabili quando, come nel suo caso, si tratta di affrontare problemi etico-sociali, la cui natura si collega alla fede ed alla fattività creativa.
Al rapporto ed alla funzione di tali concetti Bartolo Longo dedica ripetutamente le sue
riflessioni dirette e/o affidate alla penna: siamo di fronte a considerazioni che, seppure inizialmente riservate ai "diversi" accolti a Pompei, costituiscono, rivedendole oggi, una singolare anticipazione rispetto alla pedagogia della persona ed allo stesso attuale progressivo interesse formativo come prospettiva dell’orientamento professionale, mentre il tutto va di pari passo con l’imponente partecipazione del mondo giovanile alla lettura ed alla pratica del messaggio cristiano nello stesso mondo del lavoro.
Su preghiera e lavoro il Longo si esprime a Pompei "ampiamente e con diligenza" nel discorso pronunciato nella "grande festa anniversaria del maggio 1895", mentre ne parla al mondo nelle sue risposte ai quesiti del Congresso Penitenziario Internazionale di Bruxelles".

Tra gli elementi che costituiscono l’impianto fondamentale dell’impegno educativo del Fondatore di Pompei, due, soprattutto, furono additati dal Longo stesso come pilastri essenziali e insostituibili di ogni processo formativo.
Ci riferiamo alla preghiera e al lavoro e sulla sua funzione Bartolo Longo dedica ripetutamente la sua riflessione.
Nel presentarvi due anni or sono i primi quindici fanciulli Figli di Carcerati, vi dissi che la Scuola Positiva esagerava nel travedere in questo Ospizio di figli di delinquenti un covo di belve. E risposi, difendendomi dagli attacchi avuti, che non solamente è possibile la educazione dei nati delinquenti, ma ancora io ho la speranza di conseguirla, anzi con animo deliberato la intraprendeva. E gettava nella medesima ora le basi del novello Istituto, dichiarando quali erano i principii educatori di questa sorta di fanciulli.
– Due elementi, - io dissi, - due elementi educatori noi metteremo in opera per educare alla rettitudine e all’onestà fanciulli allevati nell’abbandono della miseria e dell’ignoranza: Lavoro e Preghiera (…).

La forza della Preghiera Cattolica
(…). Ma prima di riassumere le mie argomentazioni, conviene che sormonti un altro errore, e che diradi la nebbia che oscura taluni intelletti.
La forza della preghiera non proviene esclusivamente dall’intelligenza di chi prega, altrimenti il più intelligente, il più dotto, avrebbe maggior merito innanzi a Dio; e per contrario, l’ignorante, l’operaio,
il medico, l’analfabeta, quantunque animato da pari affetto e dalla medesima fede, che scapiterebbe innanzi all’Eterno. Ma no.
La forza della preghiera procede da una virtù misteriosa che viene da Cristo. I Teologi la chiamano grazia.
Togliamo un esempio da cosa familiari.
Un fanciullo che chiude nella sua mano un marengo, e crede di stringere un soldo, quando andrà a spenderlo troverà che non un soldo egli possedeva, ma si invece quattrocento soldi.
Il figlio del positivista ha una fede di Banco, un ordine di pagamento scritto in una lingua a lui ignota sopra una casa straniera. Egli poco sa leggere e niente comprende quell’ordine, ma pure allo sportello dei Banco riscuote mille scudi.
Così la preghiera innanzi a Dio, per esempio, il Pater, tuttoché mal pronunziato dal popolo o dal bambino, vale a cento doppi; perché quella lingua ben la intende il Banchiere Celeste.
Anzi Egli stesso ha insegnato questa preghiera agli uomini, e vuole che si dica così, anzi la esige, perché l’uomo deve a Dio per primo dovere l’adorazione; e un atto di adorazione e la preghiera.
Chi è mezzanamente istruito nelle cose di fede, sa che la preghiera non è solamente la domanda che si fa a Dio, ma la soddisfazione del debito della creatura verso il Creatore.
Questo debito si esercita con gli atti di adorazione, di desiderio, di lode, di ringraziamento al Fattore di tutte le cose. E quando il fanciullo ripete quella preghiera: Padre nostro che sei nei cieli, adempie a tutte le condizioni che il Creatore ha imposte alla sua creatura e come suddito e come figliolo.
Alcuni dei positivisti qui potrebbero solamente insorgere e protestare:
- Noi non crediamo né a Dio né alla forza della preghiera.
- Allora, noi rispondiamo, con quella libertà che vi dà il diritto di affermare la vostra opinione atea, per quella medesima libertà dovete concedere a me il diritto di affermare e dichiarare la mia opinione di credente.
Molto più che la mia non è una semplice opinione come la vostra, ma è una verità difatti, e di fatti compiuti che forma appunto il mio segreto che ho promesso rivelarvi.
Il lavoro Cristiano
Ritornando un passo indietro, rispondiamo al nostro positivista sulla questione del lavoro, come mezzo educativo.
Ma lo dite voi in buona coscienza che il lavoro non torna di nessun utile all’educazione dei fanciulli ed al ravvedimento dei condannati?
A noi pare tutt’altro.
Il lavoro, secondo la nostra scuola, è essenzialmente educatore (…).
Noi non facciamo consistere l’educazione solamente nel pregare, ma nel pregare e nel lavorare.
Il lavoro nobilita l’uomo; la preghiera lo santifica.
Il lavoro compie la legge naturale. Che è legge divina: tu ti ciberai del pane bagnato dal sudore della tua fronte.
Tutto è lavoro in natura, ed è legge di movimento: guai se si arrestasse questo lavorio continuo e questo movimento (…). Ciò permesso, affermino che il lavoro, essendo precetto di Legge naturale, è perciò un elemento essenziale educativo che perfeziona l’uomo, perché ogni legge eseguita è perfezione dell’essere.

Il lavoro frena l’istinto del vagabondaggio.
Educa alla pazienza, all’obbedienza, al rispetto dei superiori e delle autorità.
Emancipa l’uomo dalla schiavitù e dal servaggio. Rende l’uomo veramente libero. L’uomo che lavora, cambia città, muta domicilio, emigra in altri regni, egli è libero: il lavoro è sorgente di vera libertà.
Il lavoro è sorgente altresì di benessere sociale.
Sopprime una piaga sociale, che è l’accattonaggio.
La famiglia dell’operaio, che vive con il lavoro, è onesta; laddove l’operaio che non lavora, si impoltrisce nell’ozio è il padre dei vizi.
Il lavoro è causa di economia domestica. L’operaio, che sa quanto sudore costa quella lira, non la spende in piaceri colpevoli, ma la riserba per sé e per la sua famiglia.
Il lavoro è sorgente di pace e di unione domestica. L’operaio, che non lavora, va alla bettola, alla cantina, batte la moglie ubriaco, fa piangere e disperare i figli, e per far danari commette furti ad assassini.
5° Il lavoro nobilita l’uomo (…).

Il lavoro è Preghiera
Ma vi è di più. Il lavoro è elevato a preghiera. Il lavoro soddisfa tanto la legge naturale quanto la legge divina: col sudore della tua fronte mangerai il pane.
L’adempimento della legge di Dio è merito e preghiera insieme.
La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio; e l’operaio, che lavora, eleva la sua anima a Dio, unendo il suo lavoro con quello del Dio fatto uomo; e l’offre per adempimento della legge di Dio, che impose il lavoro all’uomo, e come mezzo di sostentar la vita, e come soddisfazione delle proprie colpe.
Sicché, mentre che il suo corpo lavora, il suo spirito si solleva da questa bassa sfera, e si congiunge con gli Angeli del cielo, che sono intenti all’adorazione, alla lode, al culto del re dell’universo.
Così la preghiera innalza il lavoro sino a farlo diventare divino, unendo il proprio lavoro col lavoro di dio fatto Uomo (…).
Riassumiamo.
Il lavoro elevato a preghiera è fonte di meriti e di perfezionamento dell’uomo.
La perfezione della vita sta nel fine che si propone l’intelletto dell’uomo in tutte le sue azioni.
Ora l’uomo diventa perfetto, quando lavora:
Perché adempie la legge del lavoro imposta da Dio; e chi adempie la legge è perfetto.
Perché ci assomigliamo al Figliolo di Dio, che visse lavorando; e il conformarsi al tipo perfetto, che è il Dio Uomo, e il sommo di ogni perfezione.
Perché il lavoro è sorgente di benessere nella famiglia, nella patria, nella nazione.
Perché è origine di felicità, di pace domestica.
Concludo: il lavoro è elemento educatore quando è unito alla preghiera.

(Bartolo Longo: Il Triplice Trionfo della Istituzione a pro dei figli dei Carcerati – seconda edizione – Valle di Pompei, 1922 – pp. 56, 62-65) Per la educazione morale e civile dei figli dei carcerati, Pompei 1894, pp. 15-20)
(A cura di Luigi Leone)

*La carità per le Opere di Pompei non deve finire mai!
(a cura di: Luigi Leone)

"Una preghiera: un ricordo!" il testo che vogliamo ripubblicare dopo settantotto anni si snoda lungo un duplice binario che si distingue per la intensità dei sentimenti oltre che per la particolare semplicità del linguaggio: Bartolo Longo è gravemente ammalato e dal suo letto di sofferenza prega quelli che egli considera "fratelli e sorelle in Gesù Cristo" di unirsi alle sue stesse preghiere, per condividere la sua rassegnazione, per confidare alla Madonna, Regina del S. Rosario, per ricordare insieme. Siamo di fronte ad un percorso nel quale le esigenze e le certezze dell’anima si uniscono alla devozione, per confluire tutte nel ricordo.
Bartolo Longo, infatti, riprende le vicende e le esperienze del passato comune, richiamandole alle memoria dei suoi lettori, perché questi ultimi possano parteciparvi intensamente, sul piano degli affetti e della fede, avendole interiorizzate nella conoscenza individuale e collettiva.
Una preghiera ed un ricordo: la prima per chiedere con umiltà e fervore la protezione di Dio e della Vergine.
Il ricordo perché esso costituisca lo stimolo per proseguire, per non interrompere il miracolo che in dieci lustri i benefattori hanno permesso di realizzare nell’Antica Valle: un miracolo, egli aggiunge, che ha assunto una consistenza più profonda da quando le Opere sono state rimesse al Papa e possono contare sull’azione dei Prelati, come "l’eminentissimo Cardinale Augusto Silj e Mons. Carlo Cremonesi".
E la preghiera si conclude con lo sguardo al passaggio dalla precarietà fisica e "con quale inenarrabile gioia vedrò intorno al trono della celeste Regina non solo quella schiera di santi uomini che mi furono di luce, di consiglio, d’incoraggiamento, ma anche tutto lo studio innumerevole dei primi zelatori, dei primi devoti di questo Santuario e delle sue opere!"
Una pagina intensa, una testimonianza oggettiva di una vita e di un passato che ancora oggi detta le sue leggi al mondo della marianità e della carità.
Fratelli e sorelle in Gesù Cristo! O divoti della Madonna di Valle di Pompei esistenti in ogni terra cristiana! Giammai mi prese tanto ardente desiderio di comunicarvi l’animo mio, come in queste ore tormentose!
Da lunghissimi mesi un’infermità ribelle alle cure dell’uomo mi ha tolto all’usuale lavoro, alle mie predilette occupazioni, alla mia ininterrotta attività, costringendomi a una penosissima esistenza.
Sento sgorgare dal fondo dell’animo mio il grido del santo Giobbe: Spiritus meus attenuabitur… In amaritudinibus moraturoculus meis…".
Benedetta sia la mano del Signore!
Dall’alba alla sera, durante le lunghe, amarissime vigilie, io non mi stanco di adorare la sua santa volontà e di benedirne i sapientissimi e misericordiosissimi disegni.
Ormai vi posso dire, o fratelli e sorelle, che il mio pane sono le lacrime e le preghiere.
E pure il bisogno che la mia voce rivolta al Signore e alla carissima Madre e Regina del Santo Rosario sia corroborata da quella di anime fedeli e sincere è ardentissimo nel mio cuore ed è questa la preghiera ch’io voglio indirizzarvi dal letto de’ miei dolori.
O fratelli e sorelle! Per cinquant’anni e più, dall’istante che una prima pietra scese per iniziare le fondamenta di questo Tempio in cui la Regina del Rosario ha mostrato di trovar le sue celesti compiacenze, dal momento che un primo cuore, un’anima a me sconosciuta si rivolse invocante preghiere, da quell’ora che la Madonna con un primo prodigio iniziò le meraviglie di Valle di Pompei, io non mi sono mai, mai stancato di pregare per ogni dolore, per ogni affanno, per ogni calamità.
Era la preghiera d’un povero peccatore, è vero, ma era pure un desiderio sincero, una brama ardente delle altrui consolazioni, del benessere del prossimo: era insomma quanto poteva far
l’anima mia confidando nella onnipotenza di Dio e nella intercessione della sua Madre Divina.
Quale giorno ho dimenticato i benefattori e divoti di Valle di Pompei? In quale ora io non ho invocato Maria per i suoi figliuoli sparsi per ogni terra della cristianità?
E voi pure, o sorelle e fratelli in Gesù, voi pure avete pregato per me, come tante volte mi avete attestato e come più spesso, ho dovuto riconoscere nel veder compiute opere e imprese che sarebbero state follie soltanto ad immaginare, senza una straordinaria benedizione del Cielo, senza l’altrui spirituale cooperazione.
Ma ora più che mai io ho bisogno di preghiere, ora più che mai l’anima mia confida nella vostra divozione, nella vostra bontà.
Innalzatela dunque una preghiera speciale al Signore, o fratelli e sorelle, rivolgete un più fidente e affettuoso grido alla nostra cara Madre e Regina perché si degni di rivolgere dal suo trono uno sguardo pietoso sul suo vecchio, sofferente servitore.
Quale sarà l’alba del mio domani?
È il pensiero che mi persiste nella mente, ma cui guardo pure con calma e con grande rassegnazione, con quella rassegnazione che il Signore si compiace di donarmi in queste ore di tribolazioni e di prove.
Ma che importa il domani della mia povera vita, della mia tribolata esistenza?
O fratelli e sorelle, alla preghiera aggiungete un ricordo!
Con la vostra carità, con la vostra generosità voi, da cinquant’anni e più, avete alimentato un vero popolo di piccole anime così care a Dio e alla Madonna e le donate ricche di religiosità e di utili conoscenze alla società; con la vostra fede, con la vostra divozione e con le vostre elargizioni avete reso celebre per bellezza e sontuosità questo tempio del Rosario.
Per le mie mani son passati veri fiumi di danaro, fiumi di cui le sorgenti erano ne’ vostri cuori, fiumi che sono scesi ad irrigare una squallida Valle e renderla un prodigioso giardino, fiumi che hanno prodotto opere meravigliose a cui guardiamo benedicendo il Signore, ringraziando voi e rallegrandoci di poter discendere nella tomba, quando che sia, ripetendo le parole del santo Giobbe: Nudus egressus sum de utero matris meae et nudus revertar illuc…
Ma ohimè, che sarebbe se per poco, s’interrompesse questo slancio della vostra beneficenza e del vostro amore?
Non si estinguano, dunque queste sorgenti della vostra carità! Chi di voi ha dato in limitata, o in generosissima misura, o fino al punto talvolta da rasentare il prodigio, chi di voi, ripeto, ha dovuto mai pentirsi d’esser stato così caritatevole?
Continuate, continuate, senza l’interruzione neppure d’un minuto solo nell’opera del vostro amore e della vostra carità.
Vada la vostra preghiera per le mie sofferenze, per i bisogni dell’anima mia; vadano le vostre nobili oblazioni per il popolo de’ miei figliuoli, per quelli che ora vedo e benedico, per tutti quelli che verranno un giorno e ch’io amerò con più perfetto amore, quando si saranno chiusi questi occhi mortali. Ricordate infine che non da ieri data la nostra incondizionata, illimitata, fiduciosissima rinunzia fatta al Vicario di Gesù Cristo di quanto si riferisce al Santuario e a tutte le annesse Opere di cristiana beneficenza.
Ricordate che dal giorno della rinunzia ad oggi, la sapienza del Papa e lo zelo ardente di chi lo ha rappresentato sono stati di immenso giovamento a queste istituzioni; che anzi non solo se ne sono avvantaggiate, ma si sono consolidate su più duraturo fondamento e hanno prodotto uno sviluppo sempre crescente.
All’Eminentissimo Cardinale Augusto Silj che fu uomo zelantissimo e tutto acceso d’amore per Gesù, per Maria, per le anime innocenti, è succeduto un Prelato oltremodo insigne per pietà per saggezza, per doti preclarissime di governo: io vi parlo del venerato attuale Rappresentante del Papa, Monsignor Carlo Cremonesi.
Queste ragioni più che ogni altra starei per dire alimentino e accrescano la vostra generosità.
O fratelli e sorelle! Come mai mi riuscirebbe di esprimervi e di emunerarvi tutto quello ch’io dovrò dire per voi, giunto, quando sarò, al trono della carissima Madre e Regina del Santo Rosario?!...
Negli anni mortali, in mezzo a tanti affanni e a tante occupazioni, giammai m’è sfuggito neppure uno solo o minimo particolare di ciò che voi – che pur formate migliaia, migliaia e migliaia – avete fatto per questo tempio e per le sue opere, per l’onore di Dio e per la gloria della Madonna.
Oh, quanto più mi saranno vivi e luminosi questi ricordi, spogliato del mortale ingombro, avvicinatomi al mare della luce infinita! Fate ch’io allora debba senza termine pregare non solo per ciò che voi avete fatto nella mia vita, ma, vorrei dire quasi di più, per quanto voi farete allorché al Signore, o presto o tardi, piacerà di togliermi agli affanni della terra.
Con quale inenarrabile gioia vedrò intorno al trono della Celeste Regina non solo quella schiera di santi uomini che mi furono di luce, di consiglio, d’incoraggiamento, ma anche tutto lo stuolo innumerevole dei primi benefattori, dei primi zelatori, dei primi devoti di questo Santuario e delle sue opere! ...
Fratelli e sorelle! Io provo un profondo conforto, io sento un’incrollabile sicurezza nella continuazione della vostra beneficenza, della vostra carità, della vostra generosità, della vostra preghiera, a questo bene che farete l’attribuisco a un sorriso celeste, un’altra prova di celestiale amore e di protezione che la Regina del Rosario vuol dare al suo vecchio, affezionatissimo per quanto indegno servitore!

(Bartolo Longo, Una preghiera! Un ricordo! 12 Settembre 1926, Anno XLIII, quaderno n° 5, pp. 162-166).

*L'accoglienza dei fanciulli stranieri in Istituto

L’attuale dibattito circa i rapporti tra persone di cultura diverse, trova nell’esperienza educativa del Fondatore di Pompei, riflessioni e prospettive pertinenti, superando, con disinvoltura e semplicità, difficoltà a prima vista insuperabili come la diversità della lingua e la differenza delle abitudini.
Tra i profili dei ragazzi accolti nell’Istituto maschile di Via sacra, oltre a quello di Silvio Zenoniani, Bartolo Longo ce ne offre altre due, quello di Gustavo Franchi Villerez, da Dammarie-Les Lys, Dipartimento di Senna e Marne (Repubblica Francese) e quello di Giuseppe Cristiano, da Budapest (Impero austro-ungarico).
Nel contesto descrittivo di queste due personalità emergono, a sostegno di quelle pedagogiche, alcune considerazioni socio-psicologiche che si ripresentano nell’attuale dibattito dei rapporti fra persone appartenenti a culture diverse. Bartolo Longo, infatti, nell’affrontare quell’intervento educativo si preoccupa delle possibili, reali difficoltà derivanti dalla lingua, dalla differenza degli usi e delle abitudini e non ultime quelle della sfera religiosa.
Si tratta di differenze sostanziali, sia nel rapporto biunivoco docente-alunno, sia nel processo della socializzazione fra gli alunni. Di qui la pertinenza delle sue riflessioni e le prospettive avanzate rispetto alla reciprocità delle conoscenze.

(A cura di: Luigi Leone)
Sul principio, allorché si trattava di ammettere questi fanciulli stranieri nella Istituzione pompeiana, io temevo che i miei sforzi per educarli si sarebbero spuntati contro due ostacoli, i quali allora mi sembravano insuperabili: la diversità della lingua, la differenza delle abitudini.
Ed in verità non riusciva a concepire come avrei fatto per non alterare il regime comune di questa Casa ed uguale per tutti, senza mettere i novelli arrivati in una evidente condizione di inferiorità
verso i loro compagni. Non parlando la lingua adoperata nell’Ospizio, gli Orfanelli stranieri avrebbero dovuto impararla e, prima di apprenderla, quante volte sarebbero restati sordi alle esortazioni, agli ordini, alle correzioni dei superiori, quante volte per aver frainteso o per non aver compreso affatto, non ne avrebbero tenuto conto veruno. Con questo di più, che il loro linguaggio, diverso al certo da quello degli altri, avrebbe ispirato, come si vede nelle scuole, celie e beffe ai compagni con danno evidente e considerevole della disciplina e con l’inasprimento troppo naturale del carattere e del cuore di coloro che ne erano vittime.
Circa le abitudini, poi, pareva che grandissima fosse la ingiustizia del pretendere che alla stessa maniera si comportassero rispetto al regolamento e alla disciplina della casa fanciulli nati nella medesima nazione, ove l’uno e l’altra erano stati concepiti, e fanciulli cui, per non trovarsi nella medesima condizione, troppo grave e penosa poteva riuscire tale obbedienza. Né era difficile prevedere che anche per questo verso quelle tali celie e motteggi sarebbero stati incoraggiati assai: che nulla tanto asseconda ed ispira l’istinto satirico e dileggiatore dei fanciulli, quando il notare nei coetanei e nei compagni usanze e costumi diversi dai propri.
Pertanto, non senza una certa apprensione e diffidenza aprii nel 1895 la sala Internazionale: però i miei timori svanirono in men che si dica e le mie tristi previsioni non si avverarono né in tutto, né in parte, con mia somma gioia e compiacimento. E la cosa non era, come sembrava a prima vista, inesplicabile, perché aveva le sue buone e convincenti ragioni.
L’Italia, infatti, per la sua topografia e per le vicende storiche attraverso alle quali è passata, ha più che qualsiasi altra nazione di Europa varietà grandissime, straordinarie, sol che si passi da luogo a luogo. Né solamente con l’andar da un paese ad un altro si trova diversità di clima, di temperatura, di produzioni agrarie: ma si osservano altresì singolari differenze nelle attitudini dei popoli, e nelle tendenze, nei gusti, nei sentimenti e perfino nel linguaggio. Ond’è che in una Istituzione come questa di Pompei, nella quale sono raccolti fanciulli venuti dalla Sardegna e dalla Basilicata, dalla Toscana e dal Veneto, dal Piemonte e dalle Calabrie, dalle Romagne, dalle puglie, dal Lazio, dalla Sicilia, la diversità del parlare del novello venuto non è né meno avvertita, perché cosa consueta ed ordinaria. Non così accadrebbe, se tutti i fanciulli o almeno la maggior parte di essi venissero ad una sola e medesima provincia e regione: ma così come stanno le cose, non è possibile si ponga mente all’insolito discorrere di un Francese, di un tedesco, di un Magiaro, quando si è assuefatti ad ascoltare ed intendere dialetti che tanto differiscono dal proprio, quanto una lingua da un’altra.
Per siffatte ragioni, contro ogni mia aspettativa, alla venuta di ciascuno dei tre fanciulli non ci sono state affatto le celie e i dileggi, che chiunque avesse vissuto anche per breve tempo la vita del collegio poteva prevedere; e nello stesso tempo, parlando l’italiano, è stato possibile a maestri e ad istitutori educare ed istruire fanciulli che tale idioma non conoscevano affatto. Perocchè il piccolo monello che parla il piemontese più stretto, l’arduo siciliano delle montagne o l’incomprensibile dialetto sardo, sia di Lagoduro, di altra contrada, ignora la lingua patria non altrimenti che qualsiasi straniero della sua età.
Da qui la necessità, nel personale insegnante dell’Ospizio, della massima pazienza, della più precisa chiarezza; ed allo stesso modo che in breve tempo, pochi mesi appena, i vispi ed intelligenti selvaggi delle nostre più inospitali montagne intendono e parlano l’idioma civile, ciò fanno ugualmente anche i fanciulli stranieri.
Né è necessario aggiungere che ciò che qui sin dice della lingua, va detto del pari delle abitudini, degli usi, delle tendenze particolari a ciascun individuo, le quali in una così grande varietà di costumanze certo non potevano, come non possono, formare oggetto di continua osservazione e meraviglia e di conseguente derisione.
Per chiudere, riassumo, in maniera brevissima i giudizi cui mi ha condotto la lunga esperienza che ho avuto dai miei tre orfanelli della Legge straniera:
1. Nella infanzia e nella fanciullezza difficilmente i fanciulli hanno tratti così spiccati nelle tendenze e nelle abitudini, che possono costituire di loro tanti tipi diversi, quante sono le nazioni cui appartengono, secondo avviene negli uomini e nei giovani.
2. La differenza di tendenze, di abitudini e di linguaggio di uno o più fanciulli che si trovano tra fanciulli di un’altra nazione, non viene avvertita, ove questi ultimi provengano da provincie e regioni varie e diverse.
3. Fanciulli, non ancora depravati e corrotti, sebbene siano di nazioni diverse, non presentano, più o meno sviluppati, che i difetti generalmente propri della loro età, ed in forma assai incerta le anomalie derivanti dall’esempio, anomalie anche esse generiche e non già specifiche a ciascuna nazione.
4. Fanciulli ammessi, in tali condizioni, in un Istituto che è fuori del loro paese ed ove si parla una lingua diversa dalla loro, progrediscono notevolmente e presto sì nella istruzione e sì nella educazione, a causa del singolare adattamento di cui gode l’individuo umano nella prima età e della sollecitudine con cui apprende gli idiomi che si parlano intorno a lui.
5. Anche in tali casi la salvezza dei figli implica il ravvedimento dei padri: onde chi sottrae al suo triste fato un Orfanello della Legge, sia pure straniero, compie una triplice opera meritoria: libera la società da un futuro fierissimo nemico: acquista alla società un operoso ed onesto componente: redime un fratello dal tristissimo salvataggio della colpa.
(Dalla lettera dell’Avv. Comm. Bartolo Longo a Monsieur A. Riviére – Sécretaire géneral à la Société des Prisons, Rue d’Amsterdam, 52 Paris - Valle di Pompei Scuola Tipografica Bartolo Longo per i figli dei carcerati 1899 – pp. 9-10, 20, 21).

*L'accoglienza dei minori e la carità

Bartolo Longo prosegue – e noi con lui – affrontando le affermazioni dei "positivisti fieri" e soffermandosi sulle considerazioni che questi ultimi esprimono nei confronti dell’Opera educativa dei Figli dei Carcerati e ne chiedono la distruzione. Si tratta – essi affermano – di una iniziativa contro "l’umanità" e contro la "Morale": due pregiudiziali che Bartolo Longo confuta con estrema convinzione e fermezza. Essere stati accolti ed educati presso l’Istituto per i Figli dei Carcerati rappresenterebbe per "costoro" già di per sé una esplicita ammissione della loro origine "disonorata".
Se dovessimo confermare tale tesi dovrebbero, allora, "distruggere" tutte le altre opere che a vario titolo agiscono per i "trovatelli", le "Case di maternità", quelle per gli ospizi, i Riformatori ed altre istituzioni parallele.
Il problema è di tutt’altra natura: se è vero che ogni essere umano non sceglie i genitori, né il loro stato, è anche vero che nel momento stesso in cui viene concepito egli è qualcosa di unico, dotato di potenzialità proprie, destinate a manifestarsi ed a svilupparsi. In questo senso
Bartolo Longo accoglie l’orfano, indipendentemente dalla sua progenie, considerandolo un essere a sé stante, suscettibile di progresso e/o di regresso in rapporto ad un intervento educativo precoce ed attento, sostenuto dalla fiducia, dalla speranza, dall’amore. Del resto non è detto che da padri cattivi non possano nascere figli buoni e viceversa, così come si hanno figli sani da padri malati…
I positivisti "fieri" parlano a torto di "marchio d’infamia", confondendo la sventura con la colpa e dimenticando che molto spesso sono le stesse sventure a determinare quest’ultima: la società, pertanto, ha il dovere e l’interesse di agire per salvare il salvabile.
Ai positivisti contro la morale ed a quelli in mala fede Bartolo Longo risponde presentando, a queste due correnti di pensiero, i primi quindici ragazzi accolti e ricorda il miracolo nuovo, quelli della carità, sollecitando i suoi anonimi interlocutori a riflettere, come noi stessi andiamo facendo.
Nella polemica con i Positivisti, Bartolo Longo confuta le loro tesi accusatorie sulla presunta disumanità ed immoralità della sua Opera a favore dell’infanzia emarginata.
Il Fondatore di Pompei replica sulla possibilità educativa dei ragazzi e sulla loro dignità, unicità e potenzialità.

Positivisti fieri

È la seconda classe degli scienziati, che vorrebbero ad ogni costo distrutta l’Opera Educativa dei Figli dei Carcerati.
Essi ragionano così:
* La vostra opera, o Bartolo Longo, dev’essere distrutta.
Perché essa è contro l’Umanità.
Perché è contro la Morale!

Contro l’Umanità

Voi, Bartolo Longo, accogliendo in un istituto questi sciagurati, ponete un marchio d’infamia su la loro fronte, perché non potranno ad alcuno celare che essi sono figli di malfattori, dacchè il nome dell’Istituto pei figli dei carcerati ricorda sempre la loro disordinata origine.
A questa obbiezione ha risposto validamente un altro Positivista moderno, tuttochè contrario a questa istituzione.
"Collega! – egli scriveva – Qui avete preso una cantonata: Se dovete distruggere un’Opera di beneficenza sol perché il suo titolo ricorda l’origine ignobile di chi è beneficato, allora distruggete tutte le Opere di beneficenza che appongono rimedio alle svariate piaghe sociali. Così distruggete gli Orfanotrofii dei trovatelli, perché il solo nome di trovatello ricorda una ignobile nascita. Distruggete le Case di maternità, perché queste case ricordano che i bambini ivi allattati sono dei reietti. Distruggete gli Ospizi delle fanciulle derelitte, perché questo nome ricorda origini poco morali. Distruggete le Case di Ravvedimento delle donne, perché donna ravveduta ricorda la vita antecedente bisognosa di ravvedimento. Distruggete i Riformatori e le case di Correzione dei fanciulli, perché l’Istituto dei Carrigendi vi ricorda che quei fanciulli ebbero bisogno della correzione. E di questo passo distruggerete tutte le Opere di emenda e di riabilitazione".
E noi facciam plauso a questo Positivista che combatte un distruttore.
Ma rispondiamo direttamente. Dunque voi volete distruggere solo per amore di un titolo? Ma tale logica non è retta. La conclusione del vostro argomento dovrebbe essere questa:
- Dunque mutiamo il titolo dell’Istituto.
Ma già la Carità che ci avea ispirata la fondazione dell’Opera, ci ha ispirato di velarne il titolo.
Interrogammo moltissimi sul titolo da apporre alla novissima istituzione.
Nessuno seppe darcelo adeguato.
- Metti il tuo nome, mi dissero finalmente gli amici, con la responsabilità del successo cadrà su di te solo. E così voi avete veduto sulla Via Sacra, la scritta Ospizio Educativo Bartolo Longo.
Comprendiamo però anche noi, che per quanto la carità voglia covrire, son sempre piaghe sociali; e, per quanto si vogliono avvolgere in lini finissimi, sono sempre piaghe. Ma rispondiamo ora agli argomenti falsi dell’accusa.
- Stando, voi dite, codesti fanciulli raccolti in un Ospizio, non possono celare che essi sono figli di malfattori.
- E stando nei loro paesi, noi rispondiamo, l’avrebbero forse celato?
Anzi per contrario, nei loro paesi sono non solo conosciuti, ma segnati a dito e detestati. Anzi la loro presenza nei paesi mantiene vivo il ricordo dei delitti dei loro genitori e ridesta le ire degli offesi. Quindi l’allontanamento dai paesi è un benefizio".
Laddove quando vi ritorneranno, dopo varii anni, operosi artigiani, saranno attutiti i funesti ricordi, e comincerà per essi un’era novella; vi saranno accolti ben altrimenti dal come se ne partirono; ed è ben difficile che si vadano ripescando nel passato i languidi profili di fatti che sono stati smorzati ormai dal tempo e dalle nuove circostanze.
I coetanei del delitto paterno sono o decrepiti o spenti; vi rinvengono come un popolo novello, in mezzo al quale cominciano essi una vita nuova, ben diversa dalla vita che vi avrebbero in quel tempo trascinata, se fossero rimasti in quell’aere avvelenato dalla colpa di origine, e mantenuta venefica dalle tradizioni serbate e riprodotte dalla loro esosa e maledetta presenza.
Appresso: noi poniamo un marchio d’infamia sulla loro fronte?
Ma sanno essi che vuol dire marchio d’infamia? Il marchio d’infamia era una pena, era un segno infamante, che la legislazione francese poneva in fronte ai ladri. L’infamia dunque supponeva la colpa che ci rendeva infami.
Ma direste voi infami gl’innocenti sol perché nacquero poveri e sventurati?
Allora dovreste chiamare infame ogni povero che nasce nella miseria: infame ogni vecchio che esce dall’Ospizio di mendicità o dall’Albergo dei poveri. Cotesto Argomento dunque ripugna alla ragione, e sarebbe cagione di lotte sociali.
Il marchi d’infamia fu sempre una pena che si inflisse alle colpe, e, si noti, alle colpe più personali e in cui più entrò la frode dell’uom proprio male, ed avea l’intento che altri si guardassero da colui. Fu dunque sempre una pena ed una guarentigia, una vergogna ed un avviso che la società stesse in guardia.
Così quel reo era messo da parte, era come un bandito stando pure in mezzo alla società. Non accadde giammai che il marchio rappresentasse un segno di sciagura, o di povertà, o di casta. Che colpa avrebbe esso punita? Di che, o di qual frode avrebbe messo gli altri in guardia? La sciagura fu sempre invece per se stessa un distintivo, ma un naturale richiamo alla commiserazione, ed all’amore. La sventura, specialmente compagna della debolezza, fu sempre rispettata e, dirò anzi, onorata. Ma vi è un argomento che riduce al silenzio i nostri avversari.
Gli stessi positivisti distinguono i delinquenti in due classi: delinquenti di nascita e delinquenti di occasione.
Ora i delinquenti di occasione sono novanta su cento. I delinquenti di nascita dunque sono dieci su cento. Chi ignora questa proporzione, vada a studiare nelle carceri le umane passioni.
Ciò posto, io dunque non debbo far l’Opera di salvazione per nove fanciulli, solo per il pericolo d’incontrarmi in uno che sia figliolo di un delinquente per nascita? Sarebbe assurdo il pretenderlo, sarebbe una mostruosità far perire nove naufraghi in mare, perché si è certi che il decimo resisterà al suo scampo.

Contro la Morale

Esse ci han detto: la vostra Opera è immorale, è antisociale. Ragioniamo così: "Questi fanciulli, se isolatamente son nati perversi, uniti insieme, formerebbero un covo di fiere. In quel covo ciascuno, oltre a manifestare la propria tendenza malefica, si appropria, per cognizione, l’altrui malvagità. Quindi l’istituzione di raccogliere quei fanciulli ed educarli è contro la Morale, essa è antisociale.
Qual è la conclusione?
- lasciateli morire questi fanciulli; lasciateli una volta in preda alla benefica selezione naturale. Il che vuol dire: - lasciateli morire nel fondo della miseria e nell’avvilimento più deplorevole.
Ma questo ragionamento non mi sembra che sia umano, e neppure logico. Permettete che, per amor dell’Umanità e della rivendicazione dell’infanzia abbandonata, io stringa in un morso di ferro questa logica dei Positivisti. Voi avete detto: che faremo un covo di fiere!
Ebbene, la società ha il diritto di liberarsi delle belve che infestano le vie e le case. Le belve o s’ingabbiano o si ammazzano. (Benissimo).
Ingabbiarli questi fanciulli non volete, perché si crea un covo di fiere, ebbene ammazzateli. Ma ammazzateli voi, se vi regge il cuore: non io. Ammazzateli, come si scannavano i fanciulli storpi e i malati a Sparta perché non erano idonei a difendere la patria. Andate a caccia di essi come si va a caccia alle tigri, e come un giorno si andava a caccia dei lupi.
Per ogni lupo si dava il premio di cinque scudi. Ponete anche voi un taglione sulla testa di un fanciullo infelice figlio di Carcerato. Per ogni testa di un figlio di delinquente ponete cinque lire di mancia.
Ma, vivaddio! Nella terra dell’Italia, che ha dato al mondo scopritori di nuove terre e di nuovi cieli, Cristoforo Colombo e il Galilei, non si ammazza nessun fanciullo! (Benissimo, applausi).
Allora, se non vogliamo ammazzarli questi fanciulli, mi permettano che li ingabbi io. Ed io gli ho ingabbiati.
Però la carità ha fatto il miracolo di trasformazione.
Questa mattina ho la ventura di presentarvi quindici volute belve; ma vedrete un miracolo nuovo della carità. Cioè in vece di quindici belve vi presenterò quindici conigli.

(da Bartolo Longo, Per la educazione morale e civile dei figli dei carcerati, Pompei, 1891, pp. 129-135).
(A cura di Luigi Leone)

*La continuità nella direzione pedagogico-didattica

Con lucidità di argomentazione, da fare invidia al più provetto educatore, Bartolo Longo disserta sulle necessità di un unico percorso educativo, capace di coniugare insieme la fase dell’accoglienza e la preparazione all’esercizio di una professione o di un lavoro.
Non bisogna dimenticare che si ragiona di fanciulli anormali dai quali solo una direzione ferma, costante, assidua ed amorosa può ripromettersi un sicuro risultato, e la formazione del carattere.
Ora, a che si ridurrà l’efficacia dell’Opera con fanciulli che si riuniscono solo la sera per raccontarsi le marachelle fatte e da farsi, per prendere un po’ di cibo e riposo la notte?
E poi, questi fanciulli avranno per educatori i capi officine dove lavorano.
Ma se, come più innanzi si è detto, occorre un metodo speciale di educazione per essi, che educherà i capi officine a seguire quel metodo?
Chi può sperare nella efficacia di una educazione tanto varia quanto sono vari gli umori dei capi officine nei quali vengono affidati per tutta la giornata?
E chi garantisce i ragazzi dalle antipatie e dalle vessazioni dei Capi officine medesimi? Perocché questi ove abbiano l’officina in appalto più che all’educazione e all’utile dell’allievo, baderanno al proprio interesse con grave danno dell’allievo che deve, prima di uscire dall’Istituto, aver imparato l’arte che formerà tutto il suo patrimonio.
Ma il tempo utile per l’apprendimento dell’arte è limitato dai 12 ai 20 anni e se in questi 8 anni non s’impartisce un insegnamento professionale metodico e progressivo il ricoverato non potrà contare sull’arte appresa per condurre una vita indipendente e agiata. L’Officina deve essere dunque una vera Scuola.
A garantire i nostri fanciulli da queste gravissime cause di mali futuri e presenti abbiamo voluto che i Capi Officine e le officine stesse dipendessero direttamente dall’Opera. In tal modo, studiata prima l’indole, le attitudini, il carattere, le tendenze dei fanciulli per essere meglio in grado di consigliarli
nella scelta dell’arte, ci rendiamo noi stessi conto del lavoro dei Figli dei Carcerati e possiamo, quando occorra, cambiare facilmente il Capo officina ove non si dimostri degno della nostra fiducia, e possiamo far provare le diverse arti a quei fanciulli che incostanti e poco sviluppati non dimostrano alcuna ben chiara tendenza.
Perocché non sempre si dà nel segno alla prima prova, ma non per questo ci sgomentiamo.
Il tentativo fallito oggi potrà riuscire domani.
E con pazienza, a via di prove e di rimproveri si giunge sempre a dare una direzione decisa ai nostri fanciulli, nessuno dei quali vi dà quindi l’immagine di un condannato a qualche lavoro forzato, né ha sul volto quell’apatia, quella stanchezza che è dote speciale degli spostati.
Ciò non può ottenersi in quelli Istituti che non hanno officine proprie e affidano i ricoverati a operai esterni e indipendenti dall’Opera, né in quegli Istituti dove uno solo è il lavoro per tutti i ricoverati.
Quando a noi, assicurato il buon andamento dell’Opera, e scongiurato il serio pericolo che l’uniformità del lavoro ci faceva temere, ci studiamo ora di trarre il maggior profitto dall’amore e dall’impegno con cui i Figli dei Carcerati attendono ai loro mestieri, procurando che come sono onesti, essi divengano ancora valenti nella loro arte e quindi uomini liberi e forti contro le esigenze prepotenti degli sfruttatori, e contro le seduzioni del vizio.
Ma non riesce valente chi nell’arte appresa non trova modo di esplicare le sue naturali attitudini, o non ha avuto nel suo Principale un maestro amoroso, ma solo un interessato ed avaro padrone.
I patrocinatori dell’educazione data nelle famiglie temono che un soggiorno prolungato in un Istituto non sia per i ricoverati una preparazione normale alla loro entrata in società.
Lasciando stare che non è facile trovare famiglie adatte a così gran numero da far fronte alla enorme quantità dei fanciulli abbandonati, a noi pare che questo timore sarebbe ragionevole e giusto quando si riferisse agli elementi della educazione impartita, non al luogo dove si imparte.
Tanto la famiglia quanto l’Istituto non hanno altro scopo che quello di preparare il fanciullo alla società; con questa differenza che nella famiglia il fanciullo è più libero, ed è isolato. Ma dato l’elemento di cui ci occupiamo, la vita di n Istituto mentre da una parte preserva i fanciulli appunto dai pericoli della libertà, dall’altra li prepara in modo più normale alla vita sociale.
Un buon padre di famiglia è sempre avaro di libertà per i suoi figli perché non può correre dietro a vigilarli dappertutto.
La vigilanza invece è possibile in un Istituto, dove i ricoverati sono in contatto con persone d’ogni età e condizione, lavorano con operai esterni, vivono con fanciulli e con uomini di età, d’indole, di costumi altrettanto vari quanto son varie le loro fisionomie; lucrano, e spendono; non difettano di esempi buoni e d’incentivi a mal fare, lottano con quasi tutte le passioni che agitano gli uomini, hanno le stesse occasioni di ben fare e di far male; e tutto ciò e le relazioni di individuo a individuo forma appunto la vita della grande Società umana alla quale si preparano con un tirocinio pratico che, secondo noi, è la più normale delle preparazioni.
L’Istituto insomma è una società piccola sia per il numero che per l’età dei componenti.
Ma è il numero poca cosa, e l’età va via via crescendo come il corpo, come la formazione del carattere, finché la piccola società metterà foce nella grande società degli uomini, quando appunto i suoi componenti si saranno fatti uomini anch’essi.
E non entreranno in un mondo nuovo, e alle norme che li guidavano prima, per vivere onestamente non avranno da aggiungere altro capitolo che quello riflettente la formazione di una nuova famiglia.
È in questo modo che si sono formati quasi tutti gli uomini illustri che onorano attualmente l’Italia, per non dire di altre nazioni, nel governo, nella scienza, nella letteratura e nella milizia.

(Bartolo Longo, Congrès pénitentiarie international de BGruxelles, 1900. Valle di Pompei, Scuola Tipografica Bartolo Longo per i figli dei carcerati, 1900, pp. 9-11)
(A cura di Luigi Leone)
 

*La cultura del cuore e dell'intelletto

I principi fondamentali del metodo educativo del Fondatore della Città mariana, in una sintetica retrospettiva, prima di avviare altre interessanti esplorazioni nei suoi scritti, veri tesori di sapienza antropologica e cristiana.
Abbiamo cercato, negli articoli precedenti, di riprendere gli aspetti e le riflessioni fondanti che "in corso d’opera" Bartolo Longo descrive "puntigliosamente" nei suoi scritti.
Cercheremo questa volta di offrire una sintesi ragionata nella quale lo stesso lettore possa ritrovarsi e riflettere per poter affrontare le nostre future proposte.
Diciamo, intanto che Bartolo Longo è un laico che pensa cattolico, e viceversa. È un cattolico che opera come un laico: un modo di procedere che, se fosse preso in esame ed attuato ai nostri giorni ridurrebbe le polemiche inutili e distruttive, per una visione comune, più estesa e condivisa per risolvere i numerosi problemi socio-esistenziali che incontriamo nel complesso e complicato percorso del nostro momento storico-culturale; e per far emergere le comuni aspirazioni di un’umanità, che guarda alla pace, alla solidarietà, alla giustizia, al benessere.
Dopo avere deciso di riscattarsi dai dubbi giovanili, il nostro Beato, giunto all’antica Valle, per esercitare la sua professione come amministratore e curatore del patrimonio terriero della vedova De Fusco, impara a conoscere i residenti, vede e rivaluta di persona i segno della città antica ed intraprende, in nome di Maria e della preghiera del Rosario, il suo lungo viaggio di risanamento spirituale e culturale.
Il mezzo che sceglie passa per la fede o meglio passa per l’educazione alla fede, alla conoscenza, alla socialità: si trattava di tre elementi, per così dire, assenti in un angolo di terra fertile per pregiudizi, per ignoranza, per differenze sociali: nasce così la Chiesa, nascono le scuole, le opere civili.
Questo impegno educativo rivolto alle persone si arricchirà di un progetto nuovo e singolare rivolto ai "diversi" del suo tempo: si tratterrà, come abbiamo visto, di un progetto del tutto "antesignano" nella sua impostazione psico-pedagogica e "controcorrente" rispetto alle teorie imperanti, che tuttavia, troverà consensi e riconoscimenti.

Educare, educare, educare!!!
"Coniugare insieme cultura dell’intelletto e cultura del cuore, sentimento del dovere ed esperienza lavorativa, avere come elemento fondante e vivificante un’autentica esperienza religiosa": un paradigma attraverso il quale Bartolo Longo riuscirà a costruire il suo "specialissimo" monumento ad una carità intensa come "amore" verso il prossimo più infelice e diseredato.
"Educare, educare, educare"; "l’alfa e l’omega" che riesce a non tramontare, indipendentemente dai mezzi che si aggiornano.
La polemica aperta con i positivisti del suo tempo è esplicita e Bartolo Longo la sostiene con la chiarezza delle confutazioni, l’efficacia dei propositi tradotta nelle opere: la molla che lo guida in prospettiva è quella della "pietas" intesa come "solidarietà", quella che valorizza la reciprocità degli scampi esperienziali, per cui ogni essere umano ha il suo valore potenziale, che lo rende degno ed unico rispetto all’altro da sé.
Di qui il binomio vincente "amore ed educazione": si giunge, cioè, alla fondazione dell’<<Istituto per i Figli dei Carcerati>>, che Bartolo Longo definisce il suo "voto segreto" e che egli presenta con legittimo orgoglio, perché i suoi ragazzi sono la prova vincente "della infondatezza della teoria che ne affermava la non educabilità"
(Discorso di Bartolo Longo al Congresso Penitenziario Internazionale di Parigi, 1896).
Il Pedagogista-educatore, dunque, non si era fermato dinanzi agli ostacoli, riuscendo ad "imporre" all’attenzione del mondo non solo gli esiti della sua pedagogia sui minori orfani della legge, ma anche i riflessi positivi di essa sui padri colpevoli.
E lo sguardo dell’apostolo del Rosario e dell’educatore supera gli stessi confini nazionali quando egli crea una schiera internazionale di orfani stranieri.
Ma dove di indirizzi e come si muova la pedagogia e la didattica del Fondatore delle opere lo abbiamo visto quando abbiamo parlato del metodo del lavoro.
I giovani, egli affermava, avrebbero dovuto essere educati ed educarsi, scegliendo come strutture portanti la preghiera ed il lavoro: pensare ad apprendere in funzione del "saper fare", per conquistare progressivamente padronanza di mezzi, abilità creative, che, mentre impegnano la mente, conducono alla realizzazione di un prodotto finito in grado di rifinirsi rispetto alle evenienze ed ai mutamenti.

L’attualità delle intuizioni longhiane
Una bella pagina di pedagogia e di metodologia che può essere agevolmente ritrovata un tutto il movimento attivistico e post-attivistico e che la stessa scuola contemporanea può rileggere ritrovando i germi del suo stesso fermento riformistico, fatte salve le cosiddette differenze lessico-formali: ci riferiamo fra l’altro fra l’altro alla formazione preventiva ed al supporto da offrire allo studente perché apprenda a guardare e scoprire in se stesso e nella realtà circostante le sue "vocazioni" o le oggettive opportunità occupazionali.
Ed al lavoro il Fondatore di Pompei dedica nei suoi istituti uno spazio essenziale, diciamo, insostituibile ed irrinunciabile, quando si parla di problemi etico-sociali: nella pedagogia della persona, l’orientamento professionale è un dato da perseguire.
Siamo di fronte ad una proposta che si presenta oggi in tutta la sua validità; così come ricco di prospettive resta il discorso che Bartolo Longo fa rispetto al valore che assume "la musica", intesa come momento di relax, ma anche come mezzo per ingentilire gli animi, per scoprire vocazioni.
Un altro degli aspetti che abbiamo considerato riguarda l’influenza indiretta che l’educazione dei figli esercita sul riscatto dei padri colpevoli: così egli parla della "voce del figlio", che scuote più di ogni altra voce, per la sua efficacia affettiva; così come efficaci risulteranno la corrispondenza e la lettura di testi pensati per ricondurre i "particolari lettori" a rivedere il proprio passato, in cerca di un pentimento reale, avvertito: molte sono le testimonianze che il Longo offre a riguardo nei suoi libri e che occupano pagine interessanti, umanamente suggestive, per capire meglio il suo spirito pedagogico.

(A cura di: Luigi Leone)

*La scuola, un mezzo per educare il cuore e il carattere
(A cura di Luigi Leone)

Dopo aver sottolineato la necessità di un unico percorso educativo e l’utilità di una lunga permanenza nell’Istituto di accoglienza, il Fondatore di Pompei illustra l’importanza della scuola nella formazione dei minori, soprattutto nella dimensione affettiva e nella loro moralizzazione.
Dalle necessità di assicurare l’unica direzione pedagogico-didattica scaturisce, pertanto, un altro aspetto da considerare e mettere in atto: si tratta della necessità di un luogo e non interrotto soggiorno nell’<istituto di accoglienza.
A questo proposito Bartolo Longo ritiene ed afferma che l’uscita degli orfani della legge dovrà coincidere con il momento del servizio militare, che sarà propedeutico al loro definito ingresso
nella società; mentre i giovani non costretti alla leva troveranno una volta fuori dall’istituzione, un valido sostegno neo loro "padrini di cresima": in questa ottica la scelta ricade su persone disponibili a svolgere il ruolo di "amici", di "consiglieri", di "Patroni", in un rapporto spirituale e materiale per agevolare il loro ingresso nel mondo del lavoro.
Le riflessioni si rivolgono, poi, alla scuola, alla quale è riconosciuto ed affidato il compito di "educare il cuore e di formare il carattere, attraverso un intervento non percettivo, ma tale da agevolare al massimo la partecipazione del soggetto da educare".
Rispetto ai cicli dell’intervento, Bartolo Longo ribadisce che concluso il corso elementare i ragazzi continuano la scuola frequentando "un corso complementare di arti e di mestieri": da notare il particolare molto singolare con insegnamenti speciali e rapporti dell’età o mestiere prescelto.
Quindi l’uscita dei Figli dei Carcerati dall’Istituto coinciderà con l’epoca della loro coscrizione, cioè a venti anni, affinché il servizio militare sia come la continuazione e il perfezionamento dell’opera dell’Ospizio. La milizia invece della famiglia li preparerà a entrare definitivamente nella società e la disciplina militare oculata e severa tempererà la reazione temuta rendendo il passaggio progressivo e dolce.
Quelli poi tra i Figli dei Carcerati che non sono soggetti alla coscrizione o sono esenti dal servizio militare, allorché diventeranno cittadini liberi e padroni di sé stessi, troveranno un freno potente nei loro padrini di cresima.
A questo scopo da quattro anni a questa parte facciamo cresimare solennemente i nostri Orfanelli, e persone di ogni condizione e di ogni ceto fanno a gara per tenerli al sacro crisma. Coloro che amano teneramente i loro figliocci ne saranno allora gli amici, i consiglieri, i patroni; e la loro autorità, come al presente è sprone a comportarsi bene e con onore, varrà a sostenerli ed a sorreggerli nelle aspre lotte per la vita quando entreranno a far parte della società.
Nella soavità del vincolo spirituale i Padrini dei nostri fanciulli attingeranno la carità da provvedere al collocamento e al lavoro dei figliocci, il diritto di partecipare alle loro gioie e ai loro buoni successi, il dovere di dividerne gli affanni, i dolori, la forza infine di essere per loro altrettanti Padri vigili, attenti, instancabili, amorosi.
Né saranno soli i nostri orfanelli a godere del beneficio inestimabile di un tanto protettore.
Anche i loro Genitori quando avranno espiata la pena troveranno accanto al figlio onorato un posticino sicuro e la via più aperta per riacquistare la buona fama perduta.

La scuola

Un terzo elemento di educazione molto importante per noi è ancora la scuola.
In essa però non intendiamo di istruire soltanto la mente, ma soprattutto intendiamo di formare il cuore.
È cosa notissima che la maggior parte dei delinquenti viene dalla classe ignorante della società: ma non è meno noto che ad onta dell’istruzione obbligatoria la delinquenza non è punto scemata, specie nei minorenni. Ciò prova, secondo noi, che la scuola o meglio la semplice istruzione non basta a moralizzare la gioventù, e che soltanto i sentimenti del cuore, e non le conoscenze dello spirito, valgono a preservare l’uomo della colpa. Per conseguenza la missione dei maestri dell’Ospizio e essenzialmente educatrice, e la scuola per noi è un mezzo, un pretesto per porre sott’occhio ai Figli dei Carcerati il bene in tutte le sue manifestazioni. Ci contentiamo quindi di impartire ai Figli dei Carcerati una istruzione limitata, per modo che compiuto il Corso Elementare, è compiuto per essi il Corso Elementare, è compiuto per essi il corso dei loro studi.
Diamo invece largo sviluppo all’insegnamento morale e religioso dichiarando in forma piana e familiare quei principii di onesto vivere sui quali si basa la vita dell’uomo.
Non si può stancare i fanciulli con prediche incessanti: perciò i nobili esempi, le virtù dei passati e dei presenti, tutti gli avvenimenti che rivelano abnegazione, sacrificio e coraggio formano il tema delle letture di Scuola.
Il fanciullo apprende così da sé stesso, e quasi senza avvedersene, la verità, e s’innamora delle virtù che gli appare più bella e gli si imprime più profondamente nel cuore quando la vede incarnata e, quasi diremmo, in azione nei fatti e negli esempi resi attraenti e persuasivi dalle grazie dell’arte.
In questo modo la scuola raggiunge veramente il suo fine, che deve essere l’educazione del cuore, la formazione del carattere; perocchè dalle più alte e sublimi verità della religione e della morale fino a più minuti precetti del vivere civile tutto è oggetto di ammaestramento, di quell’ammaestramento che vogliamo poi vedere tradotto in pratica nell’Officina, nelle relazioni tra compagno e compagno, e coi superiori, e con gli inferiori.

L’insegnamento complementare

Compiuto il Corso Elementare di studi, i Figli dei Carcerati non cessano di frequentare la scuola, sia perché finirebbero con dimenticare ciò che hanno appreso con tanta fatica, sia perché non vogliamo privarli di un mezzo così potente ed efficace per formare il carattere, sia infine per accompagnarli nello svolgimento delle loro attitudini che variano di anno in anno, con lo svolgersi dell’età e delle forze fisiche e intellettuali.
Così senza insegnare nulla di superfluo, e poiché nell’anno 1899 ben sedici Figli dei Carcerati hanno conseguito la licenza elementare, abbiamo istituito un corso complementare di studi nel quale si istruiscono i Figli dei Carcerati nella tecnica speciale della loro arte, e un corso complementare d’arti e mestieri che frequentano solo la sera dopo il lavoro.
In esso ai compositori tipografi, ai falegnami, agli ebanisti e operai meccanici si impartiscono lezioni di disegno ornamentale, lineare e geometrico; ai meccanici, agli elettricisti lezioni di fisica, di chimica e di geometria, e ai Compositori tipografi lezione di lingue straniere perché siano in grado di comporre con maggior correttezza e facilità nelle diverse lingue più comuni, specialmente in lingua francese.
Tutti gli altri fanciulli si esercitano nella lettura, nella composizione, nel far lettere commerciali e conti, e tutto ciò sempre nell’intento di renderli liberi nell’avvenire e per aver occasione di ribadire le regole e i precetti religiosi e morali appresi nelle prime scuole.

(Bartolo Longo: Congrès Pènitentiaire International de Brixelles – 1900 - Scuola Tipografica di Pompei, 1900 - pp. 12-14)

*L'Esigenza della Formazione

Il principio che – come abbiamo detto – Bartolo Longo segue e intende dimostrare con il suo metodo educativo consiste nel voler, anzi dover riconoscere agli orfani della legge quel diritto alla formazione che la scienza positiva e il pensiero lombrosiano negavano loro. In tale contesto, egli documenta le influenze positive che l’educazione dei figli esercita sui padri, nelle lettere che quest’ultimi gli indirizzavano "raccomandandogli i figli, con l’affanno, col gemito, con le parole che spontanee verrebbero soltanto sulle labbra di un uomo che fosse preso a far l’ultimo respiro". Nel testo troviamo, infatti, un capitolo "lettere e strazi", che lascia chiaramente capire anche come la molla che guida Bartolo Longo quando si pronuncia sulla pedagogia parta dalla "pietra", dalle corde più intime della solidarietà, per esprimersi, poi, nella sostanza, nel momento in cui affronta nello specifico, le singole posizioni delle correnti positiviste: i positivisti "di buona fede", quelli "fieri", quelli di "mala fede". Le risposte che Bartolo Longo darà sono quanto mai realistiche: il medico non abbandona chi nasce con i germi della tisi, altrettanto fa il botanico per rendere una pianta fruttifera. Nel contesto dei rapporti sociali si tratta di adottare allora lo stesso principio di intervento e valorizzazione, a compenso, a supporto dell’esistente attivo, perché ogni possibilità di devianza venga, per così dire, preventivamente considerata nelle finalità educative ed affrontata nei mezzi, nei contributi esterni, rispetto all’alunno (metodo sperimentale) nell’ambiente naturale ed umano che lo circonda. Si tratta soltanto di fare proprio ed applicare il principio per il quale l’elemento morale e civile di un paese passa attraverso l’azione educativa, che ha come fine ultimo l’esaltazione della singola persona. Un principio sul quale stiamo ancora oggi riflettendo e che i contemporanei del Longo cercano di ostacolare con ogni mezzo.
Contro i positivisti e la loro scuola, Bartolo Longo afferma il diritto alla formazione e documenta le influenze positive che l’educazione dei figli esercita sui padri. È quanto si evince dalla lettera che qui pubblichiamo, dove il giudizio negativo sulla scienza che non ha cuore è inappellabile.
Lettere e strazi –
Fratelli, io pubblico alcune di quelle lettere. Leggetele, e dopo direte se io m’inteneriva come debole femminetta, ovvero s’io mi commoveva com’uomo che ha cuore.
Ill.mo Sigg. Avv. Bartolo Longo, Chi scrive è il condannato S… S… di… Santo Vitolo Capo, pr. Di Trapani, ora rinchiuso nella casa di Custodia di Reggio Emilia per espiarvi la lunga pena di anni 18, la quale non ha termine che il 13 Gennaio 1908!
Ha lasciato nella miseria sua moglie con sei figli.
La prega di collocare nel suo Istituto almeno due dei più teneri, che sono Pietro di anni 6 ed Angela di anni 7. Così verrebbe sollevata non poco la misera sua moglie che dovrebbe stentare a procurare il pane ad altri quattro figli.
Comprendo che la S.V. sarà assediata di domande, ma se volesse benignarsi tener presente anche la preghiera del sottoscritto disgraziato, è certo che farebbe l’opera più misericordiosa verso un misero padre di famiglia, colpito dalla sventura, e che ha moglie con sei figli, che si trovano nella più squallida miseria, ecc.

Dalla Casa di Custodia di Reggio Emilia.
Suo dev. Servo – Firmato S. S.
Risposi:
- Amico! Son dolente: ma non posso ora far nulla pei vostri sei figli. Non posso distrarre quel danaro, che gli oblatori mi mandano per costruire il grande edifizio.
Appresso, allo sventurato che avea numerati i giorni del suo dolore, e attende per la sua liberazione il secolo venturo, seguì un altro più sventurato, perché si reputa innocente, e nel silenzioso orrore della sua segreta conta gli spasimi de’ figli suoi.
Leggete:
Ill.mo Signor Avvocato. Un povero carcerato il quale deve scontare 12 anni di reclusione a cui fu condannato dalla Corte di Assise di Viterbo, fa umile e sottomessa domanda al generoso cuore della S. V. acciò voglia concedergli il beneficio di collocare in qualche luogo di carità, due teneri pargoli, uno maschio e l’altro femmina: i quali senza veruna colpa, ed innocenti come sono, languiscono nella più cruda miseria. Attualmente essi sono abbandonati nel mezzo di una vita a motivo che la stessa povera madre, priva del marito e senza mezzi di sussistenza è incapace di dar loro aiuto di sorta, e non sa a qual Santo volgersi per mitigare lo strazio di questi poveri e sventurati figli.
Per tanto strazio, miseria e dolore il detenuto supplicante si prostra genuflesso ai piedi della S. V. Ill. acciò voglia con cuore di vero padre assumere la tutela di queste sventurate creature cui fu tolto il proprio padre condannato ad una enorme pena, innocentemente. Pazienza! E sia fatta così la volontà di Dio e della madonna… L’umile supplicante passa a sottoscriversi della S. V. Ill.
Dal Carcere Giudiziario di Soriano nel Cimino.
3 Dicembre 1892.
Dev. Ed Um. Servo – Detenuto Y. Y.
Nato in Ronciglione (Viterbo) luogo in cui presentemente domicilia.
Anche a costui risposi
- Amico, non posso ora piegare il mio cuore a compassione veruna, perché il mio animo è tutto rivolto alla edificazione del grande Ospizio che dovrà un giorno accogliere molti infelici simili a’ vostri figliuoli.

***

Non avea firmata ancora cotesta lettera, quando me ne giunse un’altra da Vercelli, scritta da un Reverendo Vice Curato, che conficcò il chiodo più addentro al mio cuore.
Trattavasi di un povero fanciullo orbato d’ambo i genitori: del padre, perché la madre di questo diseredato lo ha poi ucciso; della madre, perché la legge l’ha segregata dal civile consorzio.

Positivisti di buona fede – Ponete mente a siffatti oppositori: essi si appellano Positivisti sociali.
Ora cotesti Scienziati che vorrebbero distrutta l’Opera nostra, dividiamo in tre classi:
In Positivisti di buona fede.
In Positivisti fieri
In Positivisti di mala fede.
La 1ª classe di Positivisti ci ha detto:
- Voi, Bartolo Longo, non concluderete nulla, perché chi nasce delinquente deve morir delinquente.
Domando io:
- Questa Scienza su di che è fondata?
Si risponde:
- Essa è fondata su legge fatale: essa è da natura.
- Dunque?
- Dunque? Domandiamo noi, che cosa bisogna fare?
- Non bisogna prender cura di questa genìa malnata.
Lasciatela in preda alla benefica selezione naturale.
Cioè fateli morire questi sciagurati nel lezzo e nella miseria e nel ludibrio in cui son nati.
- Ho! Com’è brutta questa Scienza che si chiama Positiva!...
Questa Scienza è senza cuore. Al vostro medesimo cuore ripugna. Ammesso pure che i poveri sventurati nascano con la bozza della delinquenza, dunque bisogna abbandonarli?
Per contrario la conclusione delle vostre promesse dovrebb’essere la seguente:
- Se cosiffatti fanciulli nascono cattivi, sforziamoci a farli divenir meno cattivi, e possibilmente buoni; pongano ogni opera a migliorarne la condizione.
E poco fa abbiamo notato la nuova Scuola Positiva progredita, che fattasi accorta di cotesto errore, già ammette la possibilità dell’educazione dei fanciulli, purché siano sottratti all’abbruttimento che li avvolge.
Noi quindi sforzandoci ad educare monelli cosiffatti, operiamo secondo i postulati della scienza Positiva.
Ma senza la Scuola francese io aveva già determinato di accogliere cotesti sciagurati per educarli, e ne avea stabilita l’età dell’ammissione dai sei agli otto anni.
Ma io rispondo direttamente a questi Scienziati. Il medico abbandona egli mai il fanciullo che nasce tisico? – no.
I medici anche Positivisti, non lasciano mai abbandonato un bambino che nasca coi germi della tisi.
Anzi lo accompagnano e lo circondano di tutte le cure; lo tolgono dal luogo infetto, gli fan respirare altr’aria più salubre, più mite, più elevata. E come si sforzano i medici a prolungare di un’ora la vita di un tisico!
Ora non si abbandonano i nati tisici, che portano il germe della morte precoce nel corpo; e volete poi abbandonare i poveri fanciulli, perché dite che portano dalla nascita i germi della morte morale!
Appresso il botanico che prende una piata selvatica, e vuol renderla fruttifera, non fa che trapiantarla in altro giardino, la coltiva e l’innaffia; così da una pianta sterile ne cava buon frutto.
E perché non possiamo noi prendere queste piante selvatiche, questi esseri affetti dalla tisi della immoralità, e ridurle piante fruttifere nel campo sociale?
Io ho questa speranza.

(da Bartolo Longo, Per la educazione morale e civile dei figli  dei carcerati. Pompei 1894, pp. 84-86; 123-125)
(A cura di Luigi Leone)

*Miracolo pompeiano della carità, civiltà e santità

L’Opera per l’accoglienza e l’educazione delle figlie dei carcerati (1925) diventa per il Fondatore di Pompei il compimento dell’impegno a favore dei figli dei carcerati iniziata nel 1892. Qui il Longo indica i principi fondamentali della sua metodologia educativa.
Dopo aver introdotto i problemi esistenziali delle orfane della legge, Bartolo Longo si rivolge
nel suo scritto ai contemporanei ed ai posteri per chiarire meglio e far comprendere il ruolo che attende questo suo ultimo "voto del cuore". Il nuovo luogo di accoglienza, di educazione e di formazione, egli afferma, vuol essere "la degna corona dell’opera di salvezza a pro dei Figli dei Carcerati ponendosi come opera di perfetta carità" e di "verace civiltà": un’opera sulla cui "santità" si era espresso lo stesso Pontefice Pio X, in un incontro con il Padre Antonio Maria Losito, direttore spirituale di Bartolo Longo.
Nella sua prosa, come vedremo, Bartolo Longo si sofferma con insistenza sui diversi aspetti che caratterizzeranno l’Istituto del Sacro Cuore: si tratta – egli afferma – di rendere "perfetta" la carità, elevandola alla "santità", una carità non circoscritta ad assicurare la semplice sopravvivenza o guidata dalla compassione.
La carità di cui parla Bartolo Longo è ispirata alla "verace civiltà": civiltà vera è quella che preclude ad ogni giudizio p pregiudizio, è quella che rispetta, che accorda fiducia, che utilizza le risorse individuali e permette loro di manifestarsi e di crescere.
È in questo senso che si può parlare di "miracolo" pompeiano della carità suggerito ed impostato in tutta la sua costante straordinarietà dal Beato Bartolo Longo.
Un miracolo, aggiungiamo, destinato ad assumere forme diverse, adeguate alle richieste del nostro tempo, perpetuando gli intenti stessi che lo hanno determinato (L.L.)
L’Opera di educare i Figli dei condannati attendeva il suo compimento, la sua degna corona, con un’Opera nuova; nuova non in quanto all’obiettivo, ma nuova quanto alla sua estensione. E noi presentivamo questo degno compimento dell’Opera, tanto che nel concludere il nostro libro: "Vie Meravigliose della Provvidenza" – volemmo aggiungere questo capitolo: "Il coronamento dell’Opera. – Un Istituto proprio per la salvezza e l’educazione delle Figlie dei Carcerati".
L’Istituto della Carità cristiana e del Sociologo che veniva a visitare o studiare queste Opere di beneficenza, trovava qui un vuoto penoso, trovava un’ombra su cui desiderava la luce, trovava una insistente domanda a cui desiderava una risposta.
- Perché la benefica Opera si restringe ai soli fanciulli, Figli dei Carcerati? – Perché non abbraccia ancora le Orfane della Legge, le Figlie dei Carcerati?
- Perché non si pone questa magnifica corona su tutte le Opere di beneficenza educatrice che Dio fece sorgere in questa Valle di Maria? – Ha incontrato un limite la Provvidenza del Signore? – Ha avuto un ristagno la carità di Gesù Cristo?
No: l’ora di Dio non era ancora suonata…
L’Opera dei Figli dei Carcerati aveva incontrato, al suo sorgere, le differenze del Positivismo scientifico e dell’Antropologia criminale, che ammettevano come "domma di delinquenza atavica" e la incorreggibilità di essa nonostante la luce e la forza dell’educazione. Ma il nostro Ospizio educativo diede coi fatti una solenne smentita alla Scienza positiva, e riscosse il plauso di persone colte, di penalisti e Magistrati di ogni confessione, non solo d’Italia, ma anche dell’Estero, ridestando un vero incendio di Carità in tutti i cuori sensibili alla sventura.
Allo stesso modo questa nuova Istituzione a pro delle Figlie dei Carcerati incontrava ancora non poche difficoltà per la sua pratica attuazione in Valle di Pompei.
Era un’impresa irta di difficoltà, segnatamente per la singolare varietà dei casi pietosi che presentano le dette fanciulle, sia per la loro diversa età, sia per le loro diverse condizioni morali…

La nuova Istituzione è Opera di perfetta carità
O fratelli e sorelle, per farvi meglio conoscere la importanza di questa nuova Istituzione, dovrei rivelarvi le tristi condizioni di queste infelicissime creature.
Oggi comincerò a svelarne qualche cosa.
Queste miserrime fanciulle ho quanto più dei maschi, hanno bisogno di essere tratte dal fango morale, per opera sollecita della Carità di Gesù Cristo!
Esse, molto più dei maschi, sono esposte a mille insidie; e diventano – per l’ambiente malsano in cui sono abbandonate, massime nelle grandi città – più facile e ricercata preda della mala vita…
dell’inferno!
Cadono – assai più presto dei fanciulli -  negli artigli di infami sfruttatori, che ne fanno turpe mercato a scopo di lucro, che le vendono finanche, come una
(Foto a destra: Bartolo Longo e i Figli dei Carcerati accolti nel 1897)
merce umana -  vera tratta di schiave bianche!
E quelle poverine, fin dall’infanzia, cadute sotto la schiavitù di uomini soverchiatori, sono avviate alla più triste abiezione: - al furto, - nella vita perduta, - per andare a finire o nelle corsie dei pubblici Ospedali, dopo aver menato alla rovina la propria e altrui salute, o nelle Carceri, a raggiungervi il padre o la madre torturati dai rimorsi…
È opera di verace civiltà
Anche da un lato puramente umano, lo studio e le fatiche per la loro salvezza, saranno una delle più importanti Opere di profilassi sociale!
Chi ha vissuto, a scopo di apostolato, negli infimi strati sociali, in cui pullulano queste tenere vittime della umana delinquenza, ha potuto osservare lo straziante e ributtante spettacolo che esse presentano…
Rimaste senza del padre o della madre, che sono in carcere, immediatamente quelle poverine sono accolte dalle società della malavita, cui appartenevano i genitori.
A questa malavita esse sono predisposte perché, anche in tenera età, hanno vivi dinanzi agli sguardi gli esempi turpi del domestico focolare, i discorsi equivoci, le scene scandalose o di sangue, l’arresto di uno dei genitori, le quali cose restano profondamente scolpite nella vergine fantasia, magari in una maniera confusa, senza averne conosciuto tutta la gravità; ma raggiunto l’età di dieci o dodici anni tutto si riprodurrà vivo nella memoria e sarà da esse a poco a poco compreso.
Nelle grandi città, già da otto anni sono avviate alla scuola del borseggio, come ladre da tasca e di borse, e come ladre di frutta per le vie, o di verdura, latticini ed altro in danno di venditori all’uscio delle botteghe o ai posti di vendita.
A dieci anni debbono rubare, altrimenti sono crudelmente battute dal Cristiano; (così in gergo blasfemo della malavita napoletana chiamasi il ribaldo sfruttatore delle sventurate); che prende pure l’altro nome di ricottaro per corretta etimologia della parola ricatto!
Le disgraziatissime fanciulle sono condannate alla frusta, sono sempre battute.
Battute dai loro padroni, battute dai venditori ambulanti o dai negozianti quando sono colte in flagranza dei piccoli furti; battute dalle guardie quando vengono acciuffate…
A tredici anni cominciano poi la vera e propria carriera della malavita. Quindi, la sera, se non portano al Cristiano il frutto della turpe giornata di lavoro, sono martoriate e battute con apposito scudiscio.
La santità dell’Opera
O fratelli e sorelle, mettetevi una mano sul cuore, e poi considerate:
- salvando in tempo queste inconscie vittime del male prevenendo l’orribile corruzione in queste anime di Dio battezzate, quanti peccati non si impediscono nel mondo?
Un religioso amico mio, maestro di spirito ed uomo di grande esperienza, per darmi conforto nel mio ideale, mi faceva osservare:
- quale è il male che possono fare a sé ed agli altri cento Figli di Carcerati, in paragone di quello che può fare una sola fanciulla figlia di madre o padre carcerato?
Quale trofeo di anime salve, più ambito e più ricco di questo, potrebbero mai conquistare l’apostolato cattolico e la Carità cristiana? Ecco la santità di quest’Opera redentrice di anime!
Il compianto dilettissimo mio Direttore di spirito, il Padre Antonio M. Losito, liguorino, morto da poco in concetto di santità, mi raccomandava senza posa quest’Opera.
Ed era così convinto della santità di essa, che financo morendo, mi lasciò come in testamento due incarichi:
1°) di proseguire il movimento intrapreso per la definizione del Domma dell’Assunzione inculcatomi dal venerato P. Leone nel 1900;
2°) l’Opera salvatrice delle figlie delle madri carcerati.
Egli soleva ripetermi con un tono di autorevole sentenza: - "Chi concorre a quest’Opera avrà scritto il suo nome in Cielo, perché essa non solo salva anime, che andrebbero inevitabilmente perdute, ma concorre direttamente a far diminuire i peccati e le offese di Dio, che è l’Opera più grande dell’apostolato cattolico, di pura gloria del Signore!".
Questa sentenza del P. Losito era confermata dall’altro santo sacerdote, costante amico mio, Don Donato Giannotti di S. Maria di Capua.
Prima che questi morisse, io per mezzo di un ottimo sacerdote, comune amico, e da lui diretto nello spirito, gli mandai il mio umile lamento;
- Passano gli anni; io più m’invecchio, e nessuna luce apparisce per l’Opera nuova delle Figlie dei Carcerati.
La sua risposta per mezzo del suo medesimo penitente fu:
-
Questa è Opera superiore a tutte le altre. Quando suonerà l’ora di Dio, nessuno potrà più opporsi. Intanto ne conservai il desiderio come un mazzo di fiori nel tuo petto e ogni giorno tu lo rinfrescherai con le acque del Cielo, cioè con incessanti e sempre più fervorose orazioni.
(da Bartolo Longo: L’ultimo voto del mio cuore – La nuova opera di carità e di salvezza sociale per le Figlie dei Carcerati. Valle di Pompei – Scuola tip. Pontificia per i figli dei carcerati fondata da Bartolo Longo – pp. 11-15)
(A cura di Luigi Leone)

*Moralizziamo le Carceri!

Abbiamo accennato nei precedenti contributi al fatto che le preoccupazioni di Bartolo Longo nei confronti degli orfani della legge riguardavano anche i loro genitori rinchiusi nelle carceri, in un regime restrittivo che non lasciava sperare per un loro rinsavimento: l’atmosfera, infatti, continuava ad essere permeata di violenze e di inquietudini deleterie.
In questa ottica Bartolo Longo pensa di entrare fra quelle mura "per mezzo dei nostri libri
religiosi e morali, che i piccoli Figli dei carcerati stampano nella loro scuola tipografica per l’educazione civile e religiosa dei detenuti".
L’iniziativa, che consisteva nel creare vere e proprie biblioteche circolanti nelle carceri del Regno, non solo sorse, ma si diffuse rapidamente: la lettere viene, cioè, proposta come mezzo educativo, in grado di assolvere le menti in tempi di conoscenza e capace di essere essa stessa un modo per comunicare con l’altro, nel confronto, nei momenti di raccoglimento e per offrire la possibilità di non fossilizzarsi nei ricordi del passato o di pensare a possibili vendette.
I libri costituivano, in altri termini, un ponte fra le mura della cella ed il mondo esterno, così come lo erano le migliaia e migliaia di copie dei periodici stampati a Pompei ed i libretti di santa lettura: in quel mondo esterno dove vivevano i congiunti, i figli, gli amici, i detenuti potevano ritrovare una parte di se stessi.
Il Fondatore di Pompei si adoperò con entusiasmo per l’educazione dei figli dei carcerati e la loro promozione umana.
Comprese che attraverso essi poteva raggiungere e redimere i loro genitori: solo la voce dei figli avrebbe potuto squarciare, come un raggio di sole, il buio del loro animo abbruttito dalle colpe e dalla detenzione e avrebbe potuto dare loro nuova speranza.

Ciò che altra volta si è detto di questo nuovo trionfo del nostro Ospizio Educativo, è stato anche confermato, e in maniera meravigliosa e consolantissima, in questo ultimo anno 1900-1901.
Per mezzo dei nostri libri religiosi e morali, che i piccoli Figli dei Carcerati nella loro Scuola Tipografica stampano per l’educazione civile e religiosa dei detenuti, nello scorso anno avemmo la fortuna di stabilire ventiquattro Biblioteche circolanti nelle carceri del Regno, e nel presente anno siamo arrivati a stabilirne quarantatré.
Quindi con le nostre pubblicazioni e con i libri, che cuori benefici d’ogni città, aderendo al nostri invito, caritatevolmente c’inviano per le Carceri, abbiamo potuto concorrere all’effettuazione ed al compimento delle disposizioni del Governo, che prescrive dover ciascun stabilimento Penitenziario avere la sua Biblioteca circolare.
I Direttori e i Cappellani carcerari, gli Ill.mi Prefetti e Sottoprefetti, che in diverse Provincie d’Italia temporaneamente tengono la Direzione di alcuni Stabilimenti di Pena, vedendo che noi facevamo veramente opera patriottica, dispiegando la nostra azione benefica di moralizzazione nelle Carceri, hanno avuto la bontà di ringraziarci, con cortese e nobili lettere, elogiando il nostro disinteressato concorso.
Intanto i miei Figli di Carcerati, salvati nel nostro Ospizio divenivano essi medesimi i salvatori dei loro padri e dei compagni dei loro padri. Le menti dei carcerati si svolgevano ansiose a questa Valle, ed i loro cuori si volgevano fidenti alla Vergine di Pompei implorandone aiuto e protezione.
A migliaia ci giungevano le lettere dei poveri prigionieri chiedenti ansiosi stampe e libri che fossero loro di aiuto per mantenersi nei buoni propositi.
Allora, sebbene accasciato dal lungo giornaliero lavoro, mi accinsi a scrivere appositamente un libro per il carcerato, dal titolo: La Guida del Carcerato alla sua morale riabilitazione.
Le tremilaseicento copie della prima edizione spariscono come per incanto; onde ponemmo subito mano ad una seconda edizione di diecimila esemplari, i quali sono già sul finire.
Questa azione riflessa nel nostro Ospizio, intraveduta da noi fin dagli inizi dell’Opera salvatrice dell’Infanzia più misera ha avuto la sua massima efficacia nel corso del corrente anno.
I Figli dei Carcerati educati nell’Ospizio di Valle di Pompei, moralizzano e salvano i Padri nelle loro prigioni
Nessuna legge positiva umana può penetrare nel cuore del carcerato, e nessuna severità di pena può piegare al bene l’animo di un detenuto, che, lontano per forza dai figli e dalla moglie, non rumina altro
se non che vendetta e disperazione.
Solo una voce è potente a scuoterlo fin nell’animo sordo ed oscuro: la voce del figlio.
È questa voce gli giunge oggi in mille guise, ma sempre qual raggio di sole, qual balsamo salutare. Sapeva egli che il figlio suo era rimasto in mezzo alla via, avvilito, disprezzato, scacciato dalla società stessa che aveva condannato lui, suo padre; ma aveva poi saputo che cuori compassionali avevano raccolto quell’innocente e, che altr’anime buone sparse per il mondo, versavano con mano sollecita il loro obolo, affinché fosse salvato ed educato.
E quando, a mezzo dei libri di Valle di Pompei, libri che gli parlano del figlio, libri che il figlio suo ha stampati, ascolta la voce del figlio, allora egli sente tutta la potenza di questa voce per lui arcana, perché della natura intessa, e piega il capo, abbraccia con rassegnazione la pena, e piange (…).
Il Carcerato è redento: la moralizzazione delle Carceri è un fatto compiuto.
Ora tutto ciò si è avverato.
Questo beneficio nuovo nelle carceri d’Italia si diffonde a mano larga; moltissimi Carcerati sono ridati al bene, all’ossequio delle leggi, all’obbedienza ai loro Direttori, alla sottomissione alla disciplina degli Stabilimenti; insomma ogni detenuto concorre, mercè il benefico irraggiamento dell’Opera Civile e sociale dei Figli dei Carcerati di Valle di Pompei, all’ordine di tutto l’Istituto Penitenziario.
La Legge Penale ottiene in tal modo ciò che difficilmente può ottenere da se stesso: l’emendazione del reo.
Avremmo migliaia di lettere di ringraziamento di solerti Direttori Carcerari, di zelanti Cappellani, di Illustrissimi Prefetti e Sottoprefetti da poter pubblicare come attestati di fatti meravigliosi della nostra opera.
L’intera collezione di queste lettere formerà un’apposita Monografia, che, stampata dai nostri Figli di Carcerati, manderemo al Ministero di Grazie e Giustizia ed a tutti gli scienziati italiani e stranieri: sociologi, antropologi e criminologi, nonché a tutti i Congressi Penitenziari che dalle nazioni civili si terranno per conseguire il sublime scopo della Legge penale, qual è l’emendazione del reo.
Oggi ci è dato poter ringraziare tutti coloro che rispondendo al nostro invito vollero porgerci la mano per rendere più efficace la nostra propaganda mandandoci in dono libri scolastici per stabilire le Biblioteche nelle carceri.
Ringraziamo ancora tutti gli Illustrissimi Direttori delle carceri e tutti coloro che sono a capo delle case di pena d’Italia che ci hanno incoraggiato, con le tante lettere e con la loro efficace opera, a proseguire nella santa via intrapresa e che a noi costa comprese le non lievi spese postali, circa duemila lire in ogni mese.
Moralizziamo le carceri! Faremo opera eminentemente umanitaria, eminentemente civile, eminentemente patriottica.

(da Bartolo Longo: L'Ospizio educativo per i Figli dei Carcerati in Valle di Pompei e la moralizzazione delle carceri. Scuola Tipografica Pompei 1901, pp. 97-99)
(A cura di Luigi Leone)

*Niente è più convincente della carità all'opera

Una straordinaria esperienza di apostolato nelle carceri, vissuta secondo gli insegnamenti di un maestro della carità: il Beato Padre Ludovico da Casoria, che interpella, ancora oggi, l’animo umano ad accogliere l’invito evangelico: "Ero in carcere e mi avete visitati".

(A cura di Luigi Leone)

Un giorno mi trovavo a visitare le Carceri femminili di S. Maria Apparente in Napoli. L’ottima Superiora delle Suore della Divina Provvidenza e dell’Immacolata Concezione del Belgio, che presiedono a quelle Carceri, mi presentò una povera donna, robusta, con le guance e con gli occhi rossi dal pianto che aveva deterso col dorso della mano, ma in quel punto senza lacrime: tacita espressione di un dolore disperato! Mi disse che era da un anno colà rinchiusa.
La sventurata, in un alterco tra parenti, vide uno di essi immergere il coltello nel cuore del marito. Non seppe contenersi nella giusta ira, e, robusta com’era, con quel coltello ammazzò l’uccisore di suo marito.
La poveretta non sapeva rassegnarsi alla crudeltà dell’uccisore, che aveva tolto l’unico sostegno a lei e ai figlioli; e all’inumanità dei giudici, - essa diceva – che l’avevano strappata alla guida di un
figlio di undici anni e di una piccina sui dieci anni rimasta in balia dei nemici, per un atto che ch’essa legittimava come una giusta rivendicazione.
Era passato un anno; ed ella viveva di continuo in uno stato di esasperazione, sempre con il cuore esulcerato, inaccessibile a qualsiasi conforto, riluttante ad ogni pensiero di rassegnazione e di perdono, sempre con il pensiero fisso alla sorte dei figli, e segnatamente, alla sua cara piccina, Maria.
Quelle vigili ed esperte Suore avevano un bel metodo, che a me riuscì nuovo, di educare e piegare l’animo delle Carcerate all’ordine, alla disciplina, con il mezzo del canto.
Le Carcerate cantano sempre: cantano nella ricreazione, cantano quando lavorano, cantano in chiesa, cantano dappertutto. Non si lascia mai tempo che esse possano confabulare tra loro delle loro prodezze o delle loro prodezze o delle loro sventure – e però con l’innocente e gentile occupazione del canto vengono temporaneamente distratte dai ricordi del tristo passato.
Nella Cappella era una bella Immagine del Cuor di Gesù, dinanzi a cui le carcerate venivano a pregare. - È da un anno – mi osservò quella santa Superiora – che raccolgo queste sventurate dinanzi a quella immagine, e fo cantare il moretto: "Dolce cuor del mio Gesù, addolcite il cuore delle povere Carcerate".
- Ma il cuor di questa madre disperata – continuò con tono il dolore – no si è mai addolcito! La detenuta mi parlò del figlio Totonno, un monello, di quelli che a Napoli chiamano scugnizzi, che sarebbe riuscito un emerito membro della malavita napoletana nel rione del Ponte di Tappia, dove la seguiva ogni giorno, quando dal suo paese andava colà per vendere i polli.
E mi narrò, con sconfinata angoscia, della sua Maria lasciata in mezzo alla strada nel paesello nativo.
Io pensai subito al mio caro Maestro della Carità, il Ven. Padre Ludovico da Casoria, che mi istruiva:
- "Quando vuoi convertire una persona, e indurla a Dio, non dirle mai a prima giunta: - ti vuoi confessare? – ma invece le farai prima vedere la carità in atto. Dalle del pane – del danaro per i suoi bisogni – comprale medicine se inferma – rifà alche il suo letto – offriti a scrivere ai suoi parenti. In questo modo, vedendo che tu non sei un ciarlatano della Carità, ma badi veramente al suo bene, essa ti scolterà e farà ciò che tu dici".
E però, senza parlare a quella misera madre di rassegnazione, di perdono, di ritorno a Dio, (sarebbe stato tutto inutile), le rivolsi queste due semplici parole:
- Piglierò io i tuoi figliuoli e li educherò sotto il manto della Madonna di Pompei. Porrò il maschio nell’Ospizio Educativo pei Figli dei Carcerati, e la tua cara bambina tra le Orfanelle della Vergine del Rosario.
La donna non parlò, ma i suoi sguardi che mi rivolse parlarono più chiaramente che le sue labbra. Le sue guance erano ancora arrossite; ma i suoi occhi d’un tratto divennero dolci, velati da malinconia, esprimenti amorevole gratitudine. La Superiora chiamò in cappella tutte le Carcerate.
Quando giunsero a cantare l’usato motto: "Dolce Cuor del mio Gesù, addolcite il cuore delle povere carcerate", la desolata madre scoppiò in pianto e in singhiozzi… La carità di Gesù Cristo l’aveva trasmutata!
Domandò poi il perdono di Dio, e chiese di ricevere quel Gesù che porta nel Sacramento dell’amore la pace e la vita dell’anima. Così, rassegnata, la poverina passò alle Carceri di Trani per finire di scontare la sua pena, e là le benemerite Suore della Carità che assistono a quelle Carceri, furono sempre contenere, anzi ammirate dalla sua condotta.
Come fu liberata dalle carceri, immantinente volò qui a Valle di Pompei a baciare la sua Maria, divenuta già una graziosa e giudiziosa giovanetta; e abbracciò il suo figliuolo già scugnizzo del Ponte di Tappia, che aveva fatto progressi nell’educazione, nello studio, nell’arte.
Oggi la gioventù è collocata presso una buona famiglia di Torre del greco, e il figlio vive onestamente, dedito al lavoro. Ambedue sostentano la povera e stanca loro madre.
Chiunque voi siate, uomo o donna, giovane o vecchio, nelle cui mani la Provvidenza ha fatto cadere questa pagina, prostratevi dinanzi ad un’immagine di Maria.
E coll’animo conquiso da tenerezza e da gratitudine ringraziatela fervidamente, poiché Essa ha
aperto una nuova via di salvezza all’anima vostra, col fondare in Valle di Pompei questa nuova Opera di riscatto morale, non altrimenti che nel secolo XIII aveva in Ispagna fondato l’Opera a sé intitolata, di S. Maria della Mercede, pel riscatto dei cristiani schiavi. La medesima Vergine oggi parla al vostro cuore e vi dice: - Visitate mio Figlio nelle Carceri.
Non potete recarvi nelle Carceri? – E voi fate opera migliore: salvate le povere figlie dei Condannati! – E nelle carceri voi consolate il cuore delle madri con la carità che fate alle figlie!
Vi aspetta il premio promesso da Gesù: Ero in carcere e mi avete visitato! Venite, benedetti dal Padre mio!
O fratelli e sorelle ringraziate la Madonna che dà il mezzo a ciascuno di voi di divenire un apostolo, concorrendo a quest’Opera che raccoglie tutti gli elementi dell’Opera santa, che salva le anime, che conforta il prossimo, che pone un argine all’invadente immoralità della terra, che restringe e combatte il regno di Satana, che dilata e feconda il regno di Dio!

(Bartolo Longo da "L’ultimo voto del mio cuore" – pp. 17-20-Valle di Pompei, Scuola Tipografica per i figli dei Carcerati, 1925)

*Norme per guidare la crescita dei minori

Per il Fondatore della città mariana era necessario un percorso educativo capace di promuovere la crescita integrale dei ragazzi.
Ecco alcune norme relative all’educazione fisica, civile, morale e religiosa.

Altri aspetti della formazione dei giovani che verranno accolti nelle opere educative riguardano "l’educazione fisica", "l’educazione civile", "l’educazione morale" e "l’educazione religiosa".
Le norme, come si vedrà, investono la persona dell’allievo nel suo processo di sviluppo, di crescita, di affermazione dei tratti della sua personalità: sono previsti momenti specifici
sul piano fisico, su quello alimentare ed alcuni accorgimenti di prevenzione rispetto ai pericoli che la vita comunitaria può presentare.
Particolare attenzione è data alle buone abitudini da assumere per la tenuta degli effetti personali, per il comportamento da tenere nel refettorio durante i pasti, circa i rapporti di amicizia.
Una lezione attenta ad assicurare atteggiamenti di rispetto per sé e per gli altri nelle diverse circostanze quotidiane: per gli educatori si tratta di vigilare, prevenire, motivando gli interventi sulle eventuali trasgressioni ed intervenendo con l’autorevolezza dell’esempio e con il riserba dovuto ad ogni essere umano.
Sono indicazioni precise, che considerano i tratti psicologici della diversità, per fornire pedagogicamente, sul piano della didattica, elementi strutturanti della personalità nel periodo dei cambiamenti evolutivi.
I Signori Prefetti sorveglieranno a tutto ciò che riguarda l’educazione fisica, civile, intellettuale, morale e religiosa dei giovani.
Educazione fisica
1.
Veglieranno sulla sanità dei giovani loro commessi, e se ne vedranno qualcuno lievemente infermo ne avvertiranno subito il Padre Ministro.
2. Non permetteranno che durante la ricreazione si facciano giuochi pericolosi, e si pratichino sforzi o salti smoderati.
3. Nessun giuoco tanto d’igiene quanto di ginnastica possa essere aggiunto da chicchessia a quelli stabiliti dal Commendatore, senza che il P. Rettore ne abbia richiesta e ricevuta l’approvazione dallo stesso Commendatore.
4. Osserveranno, durante i pasti, che niuno mangi con troppa prestezza, onde evitare ad essi la facile indigestione.
5. Eviteranno, nelle ore di passeggio, i luoghi fangosi ed umidi, né passeranno per balze e posti pericolosi, e faranno mutare scarpe e vestimenta a coloro che portino al ritorno o troppa umidità o imbrattature, avvertendone il guardarobiere.
6. Non si lasceranno mai avvicinare ai pozzi, ai fiumi e salir sui muri, ove siano in pericolo di cadere, né li faranno camminare sbandati, ma possibilmente uniti, e sopra tutto non mai lontano o fuori di vista.
7. Dovranno far rientrare all’Ospizio le rispettive squadre all’ora prescritta dall’apposito orario: non ottemperando a questa disposizione saranno puniti con multa.
8. Guarderanno molto più che non usino sbadatamente coltelli e temperini, o trattino vetri senza cautela.
9. Non permetteranno, per quanto è possibile, che alcuno dorma supino o bocconi o sul lato sinistro, ma bensì sul destro.
Educazione civile
1.
Faranno osservare esattamente a tutti quanto è prescritto nel regolamento disciplinare e di civiltà, e correggeranno i trasgressori nei modi più sotto indicati.
2. Veglieranno a che nessuno muti la biancheria nei giorni prescritti o quando ve ne sia altrimenti bisogno; e che non smetta mai le mutande.
3. Assicureranno ogni mattina che tutti si lavino per bene mani, orecchie e collo, e siano in ogni tempo puliti nel corpo e nel vestito tanto in casa che fuori.
4. Sorveglieranno perché siano rispettosi con tutti, e rendano o facciano il dovuto saluto ai Superiori ed alle persone in dignità o notabilmente distinte.
5. Non permetteranno che preferiscano parole grossolane e sconvenienti, e tanto meno che si appongano soprannomi, parole offensive e ingiuriose tra loro, e che si parli in dialetto.
6. Impediranno che si mettano tra loro le mani in dosso, neppure per celia, e vigileranno per troncare le amicizie particolari, che nei giovani sono sempre fatali.
7. Procureranno che i giovani in Refettorio stiano composti, che parlino in modo che sentano solo i compagni vicino, e che mangino i cibi secondo le regole prescritte dalla buona creanza.
8. Pretenderanno che tutti mantengano puliti ed in ordine i propri vestiti, ed avvertiranno il P. Ministro quando qualcuno fosse negligente nella pulizia.
Educazione morale
1.
Sarà cura principale dei Signori Prefetti di impedire che qualcuno stia ozioso in tempo di ricreazione, astenendosi di prender parte ai giuochi nei quali gli altri fossero occupati.
2. Non permetteranno crocchi di due o tre a parlare insieme in lungo, da cui non possono essere uditi i loro discorsi.
3. Veglieranno attentamente che nessuno abbia con altri amicizia e confidenza particolare, e si intrattenga con questi più volentieri e più di frequente che con gli altri. Molto più dia buon esempio in questa cosa il Prefetto, dimostrandosi uguale e imparziale con tutti.
4. Staranno oculati per vedere se i giovani faranno segni di convenzione, se qualcuno si allontani (ciò che mai dovrà avvenire in tempo di ricreazione) o se malinconico o triste sdegni la compagnia degli altri. A questi segni di particolari tendenze o relazioni ne avviseranno al più presto il P. Ministro ed anche il P. Rettore. Li avvertiranno inoltre se scoprissero altri segni di cattive abitudini, se non vorranno essere responsabili innanzi a Dio ed agli uomini dei danni gravissimi che produrrebbero il loro silenzio o la loro negligenza.
5. Sarà loro cura speciale d’invigilare se alcuno abbia stampe, giornali o libri nuovi fra le mani, che non sieno permessi dal Superiore. La stessa attenzione avranno per gli scritti, e guarderanno se qualcuno ne legga o scriva di nascosto, o con aria di sospetto e di timore, onde aver ragione di vederlo e conoscere cosa contiene.
Educazione religiosa
1.
Sarà cura dei Signori Prefetti d’ispirare un grande amore per la Religione, la quale, se è ben sentita, è fine precipuo e mezzo efficacissimo di retta educazione. Ciò faranno prima con l’esempio, e non permetteranno mai che si parli con irriverenza di cosa o persona ad essa attinente.
2. Non permetteranno che si metta in ridicolo cosa alcuna di sacro, di fatti, di miracoli o pratiche di pietà, né tanto meno che se ne mormori.
3. Osserveranno che si faccia da ognuno la preghiera in positura composta, e non mai con precipitazione e sbadataggine, obbligando tutti a dire nel medesimo tempo le stesse parole.
4. Veglieranno perché tengano un contegno devoto e raccolto in Chiesa, e vi entrino e ne escano compresi dalla maestà del sacro luogo, con questo avviso: Ecclesiam ut Coelum adi, et nihil in ea aut loquere aut age, quod terram sapiat.
(Dal regolamento dell’Ospizio Educativo compilato dal Prof. Francesco Massimelli ed approvato dal Fondatore Avv. Comm. Bartolo Longo – Valle di Pompei – Scuola Tipografica Bartolo Longo 1903 – pp. 7-11)
(A cura di: Luigi Leone)

*Organizzazione e accoglienza dei minori

Le diverse tipologie dei personaggi e la minuziosa documentazione conservataci dal Fondatore di Pompei ci rivelano la sua attenta e scrupolosa partecipazione agli iter didattici ed educativi.
Dalle linee e dai principi globali passeremo ai particolari, ai dettagli, entrando negli ambienti che Bartolo Longo creò ed organizzò per accogliere e seguire l’educazione dei "diversi" del suo tempo. Il nostro lavoro potrà così offrire un quadro completo e
dimostrare come i contenuti teorici trovano riscontro nella didattica e nella metodologia, ambedue considerate nel loro ordinato svolgersi quotidiano.
Attraverso i diversi personaggi e lungo la documentazione esposta minuziosamente dallo stesso Fondatore, cercheremo di dimostrare come Bartolo Longo sia non solo un acuto pedagogista a cavallo tra due secoli, ma anche un educatore attento e scrupoloso, dandoci lezioni di didattica, intesa come scienza dell’educazione. In questo nostro percorso avremo modo di avvicinare anche personaggi coinvolti, testimoni ed interlocutori del progetto longhiano; apriremo l’annata riportando i tratti essenziali del Regolamento per i figli dei carcerati, compilato dal prof. Francesco Massimelli e da lui stesso approvato.
Nel primo capitolo emergono i principi dell’autorità liberatrice e dell’autorevolezza che gli educatori debbono guadagnarsi "con un serio e nobile contegno, procurandosi il rispetto di tutti i giovani".
Ai Signori Prefetti è confidata la sorveglianza disciplinare, immediata e continua dei giovani, sia nell’Ospizio che nelle varie sezioni della Tipografia. Devono quindi essere penetrati dall’importanza del loro ufficio e dall’obbligo specialissimo che loro incombe di guidare i fanciulli ed i giovani alla vera virtù e Religione.
Per ottenere questo fine devono essere, e mostrarsi con la loro condotta, ad essa affezionati, cogliendo perciò ogni favorevole ed opportuna occasione d’insinuarne l’amore nei loro affidati.
Suol dirsi, che i giovani sono quali si vogliono. Date esempi, ed essi vi seguono. Saranno quindi divoti, se voi lo siete: civili e morigerati, se l’urbanità e la buona grazia li guidano; volenterosi e benevoli, se bandita ogni asprezza, non vedranno che affabilità ed amore.
Cercate che non avvenga quindi ciò che disse Alessandro del generoso Bucefalo: Heu qualem isti perdunt, per imperitiam et mollitiem illo uti nescientes!

Capo I
Regole Generali
Il P. Rettore ha l’alta sorveglianza e l’alta direzione su tutte le persone dell’Ospizio e sugli uffici di ciascuna, tanto sugli alunni, quanto sui Maestri, sui prefetti, sui Confessori, sul Medico, sui Camerieri e su tutti. Su di lui cade la responsabilità della esatta esecuzione del presente Regolamento. Il Ministro, sotto la dipendenza del Rettore, ha la sorveglianza e la direzione immediata di tutto il personale dell’Ospizio, della scuola Tipografica e delle annesse officine.
È ufficio dei Prefetti aiutare specialmente il P. Ministro a mantenere, aumentare e perfezionare nei giovani dell’Ospizio l’ordine, la disciplina, il buon contegno, l’applicazione, l’urbanità ed una solida pietà. Per ottenere tutto questo è necessario che essi primieramente diano esempio di queste molteplici virtù, e che abbiano sempre presenti le norme contenute in questo regolamento.
1. Nessun Prefetto può essere ammesso all’Ospizio Educativo senza il consenso del Fondatore Comm. Bartolo Longo. Anche l’allontanamento dei Prefetti dall’Ospizio sarà comunicato dal Padre Rettore al medesimo Commendatore.
2. I Prefetti dipendono immediatamente dal P. ministro, in quanto concerne l’ordine e la disciplina della loro squadra nell’Ospizio, e dall’Ispettore in ciò che riguarda la sorveglianza nelle varie sezioni della Tipografia.
3. I Prefetti non dovranno contrarre familiarità con persone esterne di qualsiasi condizione, e tanto meno ne introdurranno alcuna nell’Ospizio senza licenza del P. Rettore o del P. Ministro.
4. Tratterranno civilmente con tutti, e con i giovani parleranno sempre l’italiano.
5. Accoppieranno alla mansuetudine e dolcezza che ispira confidenza, la gravità ed il contegno che genera rispetto.
6. Si accosteranno frequentemente ai SS. Sacramenti, e interverranno a tutte le pratiche di pietà prescritte ai giovani dell’Ospizio.
7. Eseguiranno gli incarichi e le commissioni che riceveranno dal P. Rettore e dal P. Ministro e dai Maestri. Qualora però l’incarico sia compatibile col loro dovere per l’ora o per altro motivo, lo manifesteranno con ogni riguardo alla persona che lo darà, o si recheranno dal P. Ministro, volendolo eseguire, per chiederne il permesso.
8. Cercheranno di far propri i doveri del P. Ministro, ispirandosi ad essi, onde poterlo sostituire, nella sua assenza, entro la sfera delle loro attribuzioni, e dovranno conoscere a perfezione tutti i doveri dei giovani per far sì che li adempiano scrupolosamente. Si studieranno perciò assiduamente di vigilare, vedere ed evitare tutto ciò che il P. Ministro non potrà talvolta osservare ed evitare personalmente.
9. In tutti i luoghi ed in tutte le ore di vigilanza giammai si distrarranno in conversazioni, letture o in altre cose che impediscono l’adempimento del loro importante dovere.
10. Dovranno procurarsi il rispetto di tutti i giovani, non esigendolo da loro con asprezza di modi, ma guadagnandoselo con un serio e nobile contegno, senza dar loro troppa confidenza o prestarsi ai loro capricci, ne servir loro di mezzano per ottenere qualche cosa dai Superiori.
11. Tutti i giorni dovranno alzarsi prima dei giovani per sorvegliarli ed assistere alla loro vestizione: cioè alle 5 e ½ nei giorni festivi, ed alle 5 in quelli di lavoro. La sera poi non dovranno coricarsi mai prima che tutti dormano, ed impediranno che qualcuno si fermi più del necessario in camerino o tenga in letto positura poco decente. Inoltre, dopo le 21 e ½, non dovranno mai star riuniti in due o più nelle camerate o in altri luoghi.
12. Faranno osservare la più scrupolosa decenza nello spogliarsi e vestirsi, e veglieranno acciocché i ragazzi non prendano in modo alcuno abitudine poco onesta, senza mai però avvicinarsi al loro letto.
13. È loro espressamente vietato di comprare pei giovani qualsiasi oggetto o di farne la permutazione senza il permesso del P. Ministro.
14. Fuori del tempo destinato alla vigilanza dei giovani non dovranno uscire dall’Ospizio senza chiederne prima il permesso al P. Ministro; e ottenutolo, debbono passare dal P. Rettore per averne la conferma.
15. Fuori del tempo dovranno essere puntuali nel trovarsi al proprio posto nelle ore indicate dall’apposito orario. Quando qualche Prefetto, per un caso straordinario, fosse impedito di trovarvisi, dovrà avvertirne subito il P. Ministro, il quale provvederà per la supplenza.
(Dal Regolamento per l’Ospizio educativo e per la scuola tipografica Bartolo Longo, compilato dal Prof. Francesco Massimelli ed approvato dal Fondatore avv. Comm. Bartolo Longo. Valle di Pompei, Scuola tipografica Bartolo Longo per i figli dei carcerati, 1903. Pp. 3-7)

(A cura di: Luigi Leone)

*Pioniere della solidarietà senza confini

Nel complesso e difficoltoso progetto educativo che Bartolo Longo andrà realizzando sul piano strettamente strutturale e didattico-formativo, l’attenzione non si fermerà soltanto alle mura di casa nostra, ma raggiungerà sponde più lontane, riuscendo così a creare una rete di interferenze produttive per giovani ed adulti, oltre i confini nazionali. Si trattava, cioè, di far capire "la vera missione della beneficenza moderna": e questo invito a capire doveva coinvolgere il maggior numero possibile di persone, religiosi e/o laici, con responsabilità civili legalizzate, pensatori ed educatori. I fenomeni derivanti dagli errori paterni e/o materni, quelli che scaturiscono dalla miseria e dalle deprivazioni più elementari sono fenomeni presenti in ogni angolo della terra, destinati ad assumere, tra l’altro, forme diversificate in rapporto ai tempi, alle nuove situazioni ed esigenze che lo stesso progresso dell’umanità presenta rispetto ai desideri, ai consumi, all’immaginario collettivo. In questa ottica, Bartolo Longo, dopo aver gettato le basi dell’Ospizio educativo, parla della "prima istituzione accessoria" rivolta alla schiera internazionale e presenta alcuni casi di bambini stranieri accolti a Pompei.

Così tutto quello che era apparso audace ed impossibile e per alcuni persino "disumano ed immorale". Diventa, invece, antisignano incentivante e, per certi aspetti, provocatorio rispetto alla concezione di una carità statica, impersonale, discriminatoria, incapace di rendersi visibile e qualitativa nei suoi risultati.
Bartolo Longo accoglieva, infatti, nella sua istituzione ragazzi che non parlavano la nostra lingua, che avevano altri usi ed altri costumi, che, per di più, erano portatori di situazioni socio-affettive particolari e condizionanti; e faceva tutto questo, anticipando certe problematiche correnti, senza considerare le oggettive difficoltà che questa accoglienza avrebbe presentato. Questo problema, Bartolo Longo se lo è posto e ha cercato di risolverlo subito, 1000 anni or sono; ora all’inizio del terzo millennio, noi stiamo cercando di affrontarlo (L.L.)
La grandezza del Fondatore di Pompei nel servizio di carità e di accoglienza dei minori in difficoltà, è dimostrata anche dalla geniale esperienza della "Schiera internazionale" fondata nel 1896, cui appartenevano i ragazzi dell’Ospizio Educativo, provenienti dall’Austria, dall’Ungheria e dalla Francia. Qui, il caso del ragazzo tirolese Silvio Zenoniani.
In questa Valle di Pompei, ormai celebre e famosa pel mondo, tutto parla di universalità (…). Come le nazioni hanno accomunato le loro preci nel glorificare la dolce Sovrana della risorta Pompei, così debbono accomunarsi nel godere la dolcezza dei benefizi che Ella profonde. Come da ogni parte del mondo affluiscono i soccorsi che hanno reso possibile l’attuazione di una idea, che pur fu giudicata, audacissima utopia, così ad ogni parte del mondo debbono estendersi i vantaggi che derivano dalla filantropica istituzione. Pel luogo dove è sorta, pel modo come si è venuta formando, per le risorse che l’alimentano e le danno vita, l’Opera di Pompei deve essere scuola alle nazioni, e deve mostrare alle genti la vera missione della beneficenza moderna (…).
Per tutte queste ragioni non tardammo ad istituire nell’Ospizio Educativo una Schiera Internazionale, e sin dal 1898 ad essa appartenevano: Silvio Zenoniani, da Tessullo (Tirolo-Austriaco). – Giuseppe Cristiano, da Buda-Pest (Ungheria). – Gustavo Franchi Villerez, da Dammarie-les-Lys (Seine et Marne, Francia).

Il piccolo austriaco
Silvio, il vivace tirolese nativo di Tassullo, ha una storia triste e breve. Breve come tutte le vere tragedie, triste come tutte le sventure che colpiscono l’infanzia. Ai pari di tutti i grandi e veri dolori, la si racconta in poche parole. Suo padre Carlo Zenoniani, contadino di San Zenone, nel Tirolo Austriaco, nel 1886 andò nella svizzera insieme con un suo compagno. Al ritorno, giunti alle Chiuse presso Bressanone (Briscen), o per antichi rancori o perché il compagno aveva intascato alcune centinaia di fiorini. Carlo non pensò più alla moglie che lo attendeva ansiosa, alle due figliolette, l’una di quattro anni e l’altra di due anni, al piccolo Silvio che aveva sei mesi appena, e si lasciò vincere e dominare da un tristissimo pensiero, da un terribile proposito. Con un pretesto attirò l’infelice compagno in un luogo solitario, lo colpì replicate volte sul capo, lo spense. Poi, volle distruggere la prova del suo misfatto, e con sforzi indicibili e con quel terrore che segue la colpa ed è più tormentoso della morte, trascinò la disgraziata sua vittima sull’orlo di un fosso e, raccogliendo le sue forze, puntandosi disperatamente al suolo ve lo traboccò. Passarono alcuni mesi (…) e Carlo fu arrestato.
Tratto innanzi al tribunale Distrettuale di Cles, poi a quello Circolare di Bolzano, cominciò a negare. – Ma come con lui era coinvolto nell’accusa il proprio suo padre, che correva grave rischio di essere condannato ingiustamente, si lasciò piegare dalla pietà filiale e confessò ogni cosa. Gli toccò una pena terribile: la morte per capestro. Ma, come egli era stato umano col suo genitore, la grazia imperiale discese su lui, tramutò l’impiccagione nella condanna a vita, ed ora sconta il suo delitto nella casa di Pena di Gradisca.
Tristissimo era l’avvenire riserbato a Silvio, il figlioletto del condannato a morte. Fanciullo ancora avrebbe dovuto stentarsi un pane scarso ed amarissimo, venendo a fare in Italia lo spazzacamino; e nell’abbandono completo in cui si trovava, era certo che in lui avrebbe trionfato l’inclinazione al male, e che di delitto in delitto avrebbe finito col raggiungere il genitore.
Ma l’atto generoso del misero forzato, che, rivelando il proprio delitto, aveva salvato il genitore da una ingiusta accusa, non doveva restare senza premio anche su questa terra. E forse per quel tratto di pietà filiale la Vergine di Pompei gli dava la consolazione di veder salvato suo figlio e di vederlo strappato da una mano provvida all’imminente catastrofe.
Il reverendo parroco di Tassullo, Don Luigi Borghesi, tanto seppe insistere che Silvio fu ammesso in questo Ospizio; ed egli, in uno slancio di vera carità, volle accompagnare di persona il fanciullo e lo fornì di un abituccio nuovo. Pure, nel viaggio dal Triolo a Roma, fu sempre in tal movimento, si sospese
agli sportelli in tale maniera, che perdette cappello e cravatta, e fece dell’abituccio, che pure era costato al buon parroco qualche quattrino, un cerchio lurido ed in brandelli.
Dal Tirolo Silvio aveva portato seco una gran fame, una fame insaziabile, che al principio parve addirittura bulimia. Una doppia, una tripla razione gli bastavano appena, e messagli innanzi la vivanda, si affrettava a divorarsela tra il sospetto ed il timore che potesse restar senza cibo. – Chi sa, - si pensava a vederlo inghiottire con tanta voracità – quante volte aveva dovuto digiunare!
Il mattino, appena si destava, non apriva gli occhi e subito la mano correva ad afferrare sotto il guanciale un pezzo di pane. Ed ogni sera era bene attento a riserbare dalla sua porzione quel tozzo di pane che doveva essere il primo pensiero della sua giornata.
Quella era un’abitudine da non tollerarsi e sul principio si volle correggerlo. Ma senza il pane Silvio non chiudeva occhio e dava in tali smanie, che si aveva paura non ammalasse. Lo si lasciò fare, quindi, e poiché era inquieto e turbolento, ad ogni monelleria si minacciò di farlo andare a letto senza pane, una minaccia che gli strappava lacrime di notte. Similmente, ogni volta che lo si voleva premiare, gli si lasciava avere doppia porzione sotto il capezzale.
Perocché, nei primi tempi del suo arrivo, Silvio pareva addirittura incorreggibile: sembrava un lottatore e spiegava la massima solidità del pugilato.
Ai pugni frequenti accompagnava i calci e talvolta adoperava anche i morsi.
Ciò, segnatamente, avveniva, quando i suoi compagni non comprendendo il suo linguaggio ad essi straniero, tutto che italianizzato, ma pronunziato fra i denti, provavansi a ridere con aria di beffa. Ma una volta che al rapporto domenicale, alla presenza di parecchi visitatori, furono riferite tali cose a colui che scrive queste brevi notizie e che per volere della Provvidenza fa da padre ai Figli dei Carcerati, egli fece intendere al fanciullo che siffatti costumi paesani non si usavano in valle di Pompei. Lo esortò a smettere la triste abitudine e gli promise che in dono avrebbe ottenuto tre pezzi di pane sotto il guanciale (…).
Fanciullo, del resto, di una semplicità e di una innocenza infantile che incantavano, quando udì che alcuni suoi compagni erano ammessi alla prima Comunione, perché sapevano il catechismo alla perfezione, stabilì di essere anche lui tra quelli.
Cominciò a studiare in un modo tutto nuovo. Si sedeva in un canto, con innanzi il catechismo, coi gomiti poggiati sulla tavola, e con la fronte tra i pugni chiusi, contratti. E stringeva stringeva, quasi volesse per forza ficcare nel capo ciò che leggeva.
La sua tenacia venne premiata. Nella seconda domenica di Ottobre del 1896 Silvio Zenoniani fece la sua prima Comunione. Come era bello, quando fissava i suoi grandi occhi in volto a chi detta questi ricordi, udendolo parlare di Gesù Cristo che, Re dei re, Re della gloria, scendeva a bella posta dal cielo per venire ad albergare nel suo cuore. E quando sentiva che la Madonna, la Madre di Gesù era Lei che lo aveva chiamato a questo Tempio, al suo prediletto Santuario, per comunicargli il suo Figliolo divino. Allora il volto di Silvio appariva qual lucida fiamma e gli occhi limpidi pareva riflettessero tutto il candore dell’anima sua.
E da quel giorno un mutamento radicale ed improvviso si fece nel fanciullo ed ora egli è una delle più nobili speranze dell’Ospizio Educativo.

(Bartolo Longo, L’Istruzione a pro dei Figli dei Carcerati e l’Ospizio educativo, Valle di Pompei, Scuola Tipografica 1898, pp. 40-45). Ual è la conclusione?- Lasciateli Qual è la conclusione?
(A cura di Luigi Leone)

*Preghiera e lavoro i pilastri dell'educazione

Mentre affrontava, sul piano delle proprie idee, il confronto con le correnti positiviste del suo tempo. Bartolo Longo programmava e metteva in atto il suo progetto educativo a favore degli orfani della legge: contenuti, obiettivi, modalità del rapporto fra i docenti e ragazzi, la didattica operativa, gli strumenti idonei, i tempi occupati ed il tempo libero.
Si trattava, cioè, di seguire un metodo di lavoro: i giovani che egli accoglieva avrebbero dovuto essere educati ed educarsi, avendo come colonne portanti preghiera e lavoro.
Pensare ad apprendere in funzione del "saper fare", per conquistare progressivamente padronanza di mezzi, abilità creative che, mentre impegnavano alla realizzazione di un prodotto finito, che era l’espressione stessa delle loro personali capacità.
Quel metodo, che nel tempo ha allargato i suoi campi di attività, in rapporto al mutare delle richieste-esigenze delle nuove economie, rimane ancorato ancora oggi al principio che ogni settore ha una sua intrinseca ed insostituibile validità e tutti i settori, senza distinzione, richiedono quell’impegno etico che Bartolo Longo considerava basilare per essere se stesso ed operare pensando che ogni uomo è un valore nella sua stessa diversità, tessera necessaria per rappresentare l’umanità tutta.
Le officine dell’Ospizio, dove lavoravano gli apprendisti sarti o i falegnami o "lavoratori del libro"; la musica, che tutti gli ospiti delle opere avvicinavano, lasciando scoprire le loro vocazioni, restano un riferimento suggestivo, soprattutto mentre si insiste, oggi, sulla formazione preventiva e sul supporto da offrire agli studenti rispetto alle loro scelte occupazionali.
Dei concetti che regolano e determinano la educazione degli Orfanelli della legge, e del felice risultato derivato dalla loro costante applicazione, trattammo a lungo nel Discorso da noi pronunciato in occasione della solenne Festa Civile celebrata in questa Valle il dì dell’Ascensione del 1895.
Diremo qui solamente che il criterio cui s’informa l’educazione degli infelicissimi fanciulli raccolti nell’Ospizio, consiste nell’avvicendare con convenevole successione lavoro e preghiera.
In conseguenza, essi lavorano nella misura che a ciascuno è consentita dalla età, dallo stato di salute, dalla intelligenza più o meno svegliata; e dalla loro operosità ritraggono inestimabile profitto sia rispetto alla formazione del loro carattere e della loro coscienza morale, sia rispetto allo sviluppo del loro corpo e delle loro forze fisiche.
Nessuno tra i cento Orfanelli della legge rimane inoperoso. Ciascuno è avviato a quell’arte, a quel mestiere, pel quale è meglio disposto; e l’attività, il moto di tutti i giorni, di tutte le ore fa sì che nell’Ospizio regni sempre una letizia grande, un buon umore consolante, una fratellanza veramente ammirevole tra tanti fanciulli così differenti di natali, di patria e di condizioni.
Senza dire poi che l’appetito di questi piccoli divoratori se ne avvantaggia considerevolmente, con sommo nostro compiacimento e con rammarico dei cuochi e dell’economo, costretti sempre, qualunque sia la quantità del cibo apprestato, a ricorrere alle razioni supplementari.
Ma che volete?
A questa età quando si è sani e si è continuamente in esercizio, si divora con appetito insaziabile.
E poi, a mensa, ciascuno di quei piccolini è lietissimo, perché sente di aver meritato il pasto, di essersene reso degno col suo lavoro.
Intanto, nell’Ospizio si sono formate varie officine, nelle quali i fanciulli compiono il loro tirocinio ed imparano a procacciarsi il sostentamento col proprio lavoro. Attualmente sono perfettamente
coordinate le officine dei Sarti, dei Calzolai, dei Falegnami e quelle dei Lavoratori del Libro, tra cui sono compositori, impressori e legatori.
Molti fanciulli lavorano nella Tipografia, e già con molta sollecitudine ed esattezza. Ne è prova una nitidissima ed assai elegante pubblicazione illustrata, da loro egregiamente stampata sotto il titolo QUARANTA FIGLI DI CARCERATI.
Similmente corrette, nitide ed eleganti sono le PICCOLE LETTURE che essi stampano e che si danno a loro beneficio e di cui i volumetti messi fuori hanno meritato unanimi lodi da centinaia di giornali e sono assai ricercati dai bibliofili. Anche il presente libro è opera di questi Orfanelli della legge, che si vanno esercitando nella nobile arte della stampa.
Assai più numerosa è la sezione dei legatori, perché in essa sono allogati, in via di esperimento tutti i fanciulli, appena sono dichiarati idonei al lavoro, e da essa, secondo gli indizi che danno della loro capacità, passano ad altre arti e ad altri mestieri (…).

La Banda musicale
Tutti i fanciulli che sono nell’Ospizio, meno, s’intende, quelli che vi sono assolutamente negati, studiano la musica. Desideravamo, in principio, che la divina arte dei suoni fosse per loro un mezzo e non già un fine: bastava che concorresse a disciplinare e ad inseguire i piccoli Orfanelli, e più tardi, al tempo del servizio militare, loro procacciasse qualche vantaggio, facendo ammetterli come bandisti nei concerti musicali dell’esercito.
Ed anche ora la musica è nell’Ospizio come uno svago, come una ricreazione: nessun fanciullo è da essa consacrato completamente.
Ad onta di ciò, e malgrado questi piccini abbiano impreso lo studio musicale a date diverse, secondo sono entrati nell’Ospizio, nondimeno è stato possibile riunire i più provetti e formarne una banda (…).
Come abbiamo detto poco sopra, i piccoli virtuosi che costituiscono questa Banda – delizia della cittadinanza valpompeiana e degli innumerevoli visitatori del Santuario – non cessano di esercitare l’arte o il mestiere che a ciascuno di essi è assegnato.
E sì che alcuni di loro sono giunti a tale perfezione artistica, che, con la guida di valente maestro, hanno intrapreso lo studio del contrappunto; e nella grande festa Civile del Maggio 1897 ed in quella del 1898, Emmanuele De Carolis da Ascoli Satriano e Antonio Iannone da Mercato San Severino hanno dato belle prove della loro valentia, eseguendo al pianoforte ed all’Armonium scelti e difficili pezzi. Grandi sono la bontà e la virtù di questi due Orfanelli, ma il secondo, specialmente, merita di essere conosciuto, specialmente, merita di essere conosciuto.
La squisitezza dell’animo, la sensibilità del cuore, la spontanea pietà religiosa sono in lui tali, che, per consenso unanime di quanti lo conoscono, egli è stato dichiarato l’Orfanello dal cuore di artista.

Antonio Iannone
Questo fanciullo, da Mercato San Severino, non solo è buono e intelligente, ma è ricco altresì di tante grazie e di tante delicate gentilezze, che non lo si direbbe figlio di un galeotto, ma di un gran signore: Egli, come si è detto, riesce singolarmente nella bella arte dei suoni; ma ciò non impedisce che si consacri con la massima diligenza e solerzia anche all’esercizio della sua arte di tipografo compositore, e vi faccia ogni di maggiori profitti.
Ciò che in lui è soprattutto notevole è la facilità di commuoversi al dolore altrui; una delicatezza di animo che gli si rispecchia bellamente negli occhi ingenui e nei lineamenti gentili.
Giuoca con i suoi compagni alle nocciole e vince.
Ebbene, non si può fare a meno di dare ascolto al generoso sentimento del cuore, che lo avverte di aver cagionato al suo amico un gran dolore. Non sa resistere al dispiacere di vederlo accorato e col broncio. Pertanto gli si avvicina, e lesto, con quel suo garbo tutto semplicità, gli restituisce la posta della partita.
- Sono due nocciole! – si può obiettare: - ma quanto dicono quelle due nocciole! Sono così fatti i ragazzi che, quando per un abile giro di mano dell’avversario perdono qualcuna di queste miserabili ricchezze, sulle quali chi sa quante speranze avevano collocate, si addolorano, si accorano, giungono a piangere dirottamente.
E non mancano di quelli che guadagnano al gioco, e conservano, accumulano le spoglie opime con una premura e con un’avidità tali, che finiscono per meritare qualche rabbuffo.
Assai diversamente agisce Antonio (…).
Noi ci avvedemmo della sua estrema bontà sin dai primi giorni della sua venuta. Una sera – era di Giovedì Santo – dopo avere assistito alle meste funzioni con cui la Chiesa, immersa nel lutto, piange la morte del Divin Redentore, gli Orfanelli ci furono tutti intorno, pregandoci di narrar loro qualche tratto della Passione di Gesù.
E noi che di tutto ci valiamo per istillare nei loro animi sani principi e per suscitarvi buoni sentimenti, non ce lo facemmo dire due volte, e cominciammo a raccontare l’ultimo giorno di Gesù.
Allorché si giunse allo spergiuro di Pietro, quando Gesù, uscendo dal Sinedrio, rivolse al discepolo che lo aveva rinnegato poc’anzi, uno sguardo così profondo e tenero che Pietro non seppe più reggere ed
uscì fuori e pianse amaramente; vedemmo che il piccolo Antonio ascoltava ben diversamente dagli attenti suoi compagni.
A lui difatti silenziosamente pendevano dagli occhi due grosse lacrime, mentre con la più viva attenzione dipinta sul viso fatto pallido dalla commozione, procurava non perder sillaba della pietosa storia (…).
Sicché non è difficile comprendere quante consolazioni egli ci procuri con la sua condotta, col suo profitto, e con quale effusione noi benediciamo sempre alla carità di coloro, i quali ci hanno dato modo di custodire gelosamente la virtù di questo Orfanello che, senza la loro beneficenza, sarebbe stato ineluttabilmente avvolto e stritolato tra le spire invincibili del bisogno.
Chiunque viene a visitare l’Ospizio Educativo Bartolo Longo nelle mattine di Giovedì e di Domenica resta meravigliato e intenerito oltremodo nel vedere seduti al Pianoforte i due piccoli Pianisti, Figli dei Carcerati, che con tanta precisione ed espressione suonano un pezzo a quattro mani.
Essi sono: Emmanuele De Carolis e Antonio Iannone: dai loro volti e più dagli occhi dolcissimi fanno intravedere e sperare due futuri artisti.

(da Bartolo Longo: L'istituzione a pro dei Figli dei Carcerati e l'Ospizio educativo, pp 53-60. Valle di Pompei - Scuola Tipografica 1898)
(A cura di Luigi Leone)

*Principi del metodo educativo di Bartolo Longo

Il Fondatore di Pompei ebbe la consapevolezza che ogni esperienza educativa deve essere rispettosa della dignità della persona ma dovesse fondarsi su consolidati orientamenti educativi.
A questa esigenza rispondevano i criteri della necessità dell’educazione religiosa, l’apprendimento di un lavoro, e, soprattutto, la diversificazione delle esperienze lavorative nelle diverse arti e mestieri.
Signori, senza volerlo fui profeta: la Carità che è luce e amore, intravede tutti i bisogni sociali; e l’Opera salvatrice dei figli dei carcerati non fu per nulla a me dettata dalla Scienza, né dall’amore di rinomanza; ma fu ispirata dalla Carità di Cristo. (Bartolo Longo da: Quaranta Figli di Carcerati)
Religione.
– L’amore di Dio ha strappato alla miseria questi derelitti Orfanelli della legge, ha coperto la loro nudità, ha soddisfatto la loro sete e la loro fame, ha mutato in carezze e in cure le percosse e il disprezzo, quindi è che l’amore di Dio, la speranza di un futuro premio, che sarà un godere eterno, il sentimento religioso insomma, forma la base di tutto il nostro sistema educativo.
È per questo che noi ci sforziamo di istillare i principii di Religione così profondamente nelle loro anime, e di avvezzarli in modo alle pratiche religiose, che essi non dimentichino giammai gli uni, e non arrossiscano delle altre.
È per questo che i nostri buoni orfanelli sentono la Messa e recitano il Rosario tutti i giorni; fanno mattina e sera la loro preghiera in comune, prendono parte alle principali funzioni che si celebrano in Santuario, e pregano insieme pei loro benefattori.
Tutte queste pratiche religiose, delle quali si sono educati a intendere perfettamente il significato, unite alla Confessione e alla Comunione frequente, e alle quotidiane istruzioni "pratiche facili e semplici", date loro dal Direttore Spirituale dell’Ospizio, concorrono a formare il carattere religioso di questi giovanetti, e li preparano per tempo a resistere alle tentazioni che il mondo in prosieguo offrirà loro.

Lavoro. – Fin dal bel principio della nostra Istituzione non avemmo un solo momento di esitazione intorno all’indirizzo da darsi al Figli dei Carcerati.
La società oggi non ha solo bisogno di gente colta nelle arti belle e nelle lettere e nelle scienze, ma ha molto maggior bisogno di onesti ed abili operai.
E poiché, d’altra parte, al numero strabocchevole di operai che rifugge dalla fatica dei campi e della professione modesta delle piccole arti non sono sufficienti gli immensi stabilimenti industriali seminati nel mondo, noi abbiamo creduto di dedicare la maggior parte dei nostri ricoverati appunto alle modeste arti che fioriscono in tutti i paesi di provincia, senza escludere tuttavia le arti più nobili di meccanico, di tipografo, di elettricista per quelli che, per condizioni speciali di famiglia e di ingegno, mele si piegherebbero alle fatiche materiali dell’ascia o del badile.

Insegnamento Professionale. – Crediamo utile esporre alcune delle ragioni che ci indussero a fondare le diverse scuole-officine, tenute tutte in economia, dove lavorano con tanto profitto i Figli dei Carcerati.
In principio era nostro intendimento di applicare tutti i fanciulli da noi ricoverati al "Lavoro del libro" nelle diverse sezioni della Tipografia perché oggi questa è l’arte più comune. Ma ci accorgemmo subito, dopo pochi mesi di prova, che quella "uniformità di lavoro" avrebbe nociuto assai al buon andamento dell’Opera, e ai ricoverati medesimi. A fare questa arte occorrono attitudini speciali che non tutti possedevano. E di più pensavamo che tutti quelli i quali non hanno nel rispettivo paese uno stabilimento tipografico, compiuta la loro educazione si sarebbero trovata preclusa la via per ritornare alle loro case, poiché noi educhiamo questi fanciulli sempre tenendo presente, che un giorno essi dovranno ritornare ai loro paesi nativi ritornandovi anche onorati.
Ciò equivale a creare dei girovaghi e degli spostati.

Ritenuti quindi i fanciulli più intelligenti e meglio disposti in Tipografia, avviammo gli altri "All’agricoltura".
Nuovi inconvenienti ci hanno indotto, almeno per ora, a mutare indirizzo.
Alcuni erano di costituzione troppo delicata per maneggiare la vanga, e avviarli all’agricoltura sarebbe stata una crudeltà.
Altri cresciuti in città e da genitori operai ed avviati a un mestiere, odiavano questo lavoro
forzato della marra, tutti costoro malcontenti e contrariati ci erano spesso cagione di dolori e di sconforto.
Perocché è manifesto che se l’arte o il mestiere, e in genere se il lavoro cui si dedica un fanciullo non risponde alle sue attitudini sia fisiche sia intellettuali e anche morali, questi non solo non riuscirà mai un buon operaio, ma, quel che è peggio, si demoralizzerà, e voi non avrete creato che un infelice e un miserabile di più.
Ma quando all’opposto egli ama il lavoro e se ne fa un bisogno, non può divenire che onesto e buono; e ove di cotali fanciulli se ne incontrino molti sotto il medesimo tetto, l’Istituto che li raccoglie sarà naturalmente ordinato ed efficacemente Educativo.
Bisogna mettere i fanciulli nella loro sfera, non già votarli a un destino superiore, o inferiore, perché l’opera della educazione produca i suoi effetti.
Così quest’anno abbiamo aperto tre nuove Scuole-officine, cioè, quella dei meccanici-aggiustatori, quella degli elettricisti, e la terza dei conduttori di caldaie a vapore.
Abbiamo ancora ampliato le officine dei falegnami, e dei ferrai, i laboratori dei calzolai e dei sarti. E poiché di anno in anno con l’allargarsi nel mondo la devozione alla Vergine SS.ma del Rosario di Pompei e col dilatare le nostre pubblicazioni Pompeiane nelle Carceri, negli Ospedali, negli Orfanotrofi e nelle Scuole popolari Italiane, e perfino nelle Missioni Straniere dell’Africa, dell’America e specialmente dell’India e della Cina cresce a dismisura il lavoro di propaganda da compiersi, si dovettero aggregare altre sale alla Tipografia e alla Legatoria.
Ma se questi miglioramenti materiali non vanno trascurati, perché l’officina deve essere il tutto pei nostri fanciulli, molto più importante è per noi il pensiero di sopraintendere al buon andamento generale delle Scuole-Officine sia dal punto di vista della educazione come da quello della istruzione nell’arte.
A questo scopo alle visite che deve fare periodicamente una commissione di persone competenti e tecniche da noi appositamente nominata, si sono aggiunte quelle quotidiane degli educatori per sorvegliare l’alunno in tutte le ore del giorno.
La sera poi ciascun orfanello deve rendere conto del lavoro fatto all’Ispettore delle Scuola-Officine.
Sappiamo che ad ovviare alla gravissima iattura del lavoro uniforme vi sono Istituti che, mentre provvedono al ricovero e al sostentamento dei fanciulli, ricorrono per l’insegnamento professionale a scuole d’arti e mestieri estranee all’istituto medesimo.

(Bartolo Longo: Congrès pènitentiaire international de Brixelles, Valle di Pompei, Scuola Tipografica Bartolo Longo per i figli dei carcerati, 1900, pp. 6-9)
(A cura di Luigi Leone)

*Salvare un innocente in pericolo è un atto di giustizia!

"L’ora di Dio è sonata, nessuno manchi all’appello"! Questo invito con cui il Beato Fondatore di Pompei conclude il brano che abbiamo riportato è un grido di dolore la cui attualità è sotto gli occhi di tutti, vista la drammatica condizione in cui versano tanti ragazzi e ragazze del mondo intero.
Nel nostro itinerario di lettura questa volta incontriamo altre pagine, nelle quali il Beato Bartolo Longo parla di "voci di implorazioni e di raggi di carità", nel particolare momento in cui si rivolge al mondo per realizzare l’ultimo voto del suo cuore, l’Ospizio per le Figlie dei carcerati. Quel voto, cioè, che lo stesso pontefice Benedetto XV, negli ultimi giorni della sua vita, aveva fatto suo con un "Breve", intessuto "con indimenticabili parole di commozione e di tenerezza".
Per richiamare l’attenzione del mondo Bartolo Longo chiariva i motivi che dovevano sostenere
quel contributo affermando che salvare un’innocenza in pericolo voleva dire compiere un atto di giustizia, superando ogni barriera e disponendo l’animo a condividere un destino avverso e le proprie forze morali e materiali a sostenere quelle esigenze che nascono dalle disgrazie.
Diciamo che potremmo parlare in termini attuali di quella solidarietà auspicabile quando soprattutto i più piccoli, gli innocenti sono in pericolo.
Alla voce dell’innocenza in pericolo Bartolo Longo associa quella, non meno dolorosa ed umana dei colpevoli, mentre recitano il loro "mea culpa", cadendo nella più profonda disperazione, pensando ai loro figli soli in mezzo alle traversie del mondo.
Per Bartolo Longo la carità deve dimenticare le colpe per interessi di questo dolore, per immaginare gli incubi della disperazione, sostituendo ad essi la speranza che nasce dalla solidarietà: "la riabilitazione dei colpevoli scaturisce, infatti, dalla dolcezza della speranza". (L.L.)
Da questa Valle di Pompei ogni grido di fede si diffonde dovunque nel Mondo, ha echi d’universalità. Dal profondo della nostra anima levammo a voi, o fratelli, la nostra voce invocando pane e soccorso per l’infanzia più abbandonata e più in pericolo, per le misere Figlie dei Carcerati. E voi avete sentito, o fratelli, che quella voce raccoglieva le disperate invocazioni di mille madri, i gemiti e i singhiozzi di mille bimbe, e il cuore vostro si è commosso e si è aperto a magnifici slanci di generosità cristiana.
Oggi è già un fuoco che si è acceso e divampa; domani sarà un incendio; oggi sono le prime schiere di benefattori, le avanguardie della carità; domani sarà tutta una milizia dell’amore che si leverà in difesa di queste fanciulle, di queste innocenti! Le quali non lottano solo ahimè! Troppo presto con la fame, ma lottano precocemente con l’insidia del vizio; non domandano solo il pezzo di pane, ma più ancora, di fronte al male che vuole asservirle e travolgerle, domandano l’aiuto e la protezione della vostra fede e del cuore vostro.
(…) La miseria, che noi v’invitiamo a soccorrere, è una miseria ben grande, specie nei piccoli paesi del Mezzogiorno, dove è così vivo il sentimento di famiglia, dove anzi la famiglia è il più geloso, il più tenace di tutti i sentimenti, tutti fuggono queste creaturine che stanno in pace con Dio, ma non con la Società; che hanno candida la coscienza, ma non sempre la fede di nascita. Queste innocenze pare che abbiano sulla fronte l’ombra di un delitto. Agli sguardi dei concittadini non sono delle creaturine ingenue, delle creaturine povere, ma sono semplicemente la figlia del rapinatore, la figlia dell’omicida, la figlia del condannato. Quello che è una sventura diventa invece una colpa. Quello che dovrebbe muovere alla compassione, muove invece alla ripugnanza.
(…) Povere creaturine, che male hanno fatto? Qual è la loro colpa? È una colpa forse non avere avuto genitori che le educassero con la loro virtù ancor prima che con la parola? È colpa non aver potuto imparare che cosa sia la bontà nel sorriso dolce di una madre, che cosa debba essere l’onestà nel lavoro forte e dignitoso del proprio genitore? È una colpa l’essersi incontrato nella fame invece che nell’agiatezza, aver avuto troppo presto lo spettacolo del vizio, invece che quello dell’amore? No, no: queste creaturine sono delle innocenti, e se le condannassimo all’abbandono e alla fame, i colpevoli saremmo noi.
(…) La carità è un’opera di giustizia sociale. Chi non benefica non attua in sé l’ideale del giusto, secondo il valore evangelico di questa grande parola.
Avete voluto essere giusti nel condannare i padri; siate egualmente giusti nel salvare le figlie. Noi non vi domandiamo per esse soltanto il pane della Carità; le figlie dei Carcerati, sono un’innocenza in pericolo. Bene, noi vi domandiamo per l’innocenza in pericolo il pane della giustizia.

La voce del dolore nelle carceri
Un’altra voce d’implorazione invoca la salvezza delle misere Figlie dei Carcerati, ed è la voce dei padri loro, delle madri che gemono nelle orride mura delle prigioni.
Non sdegnate d’ascoltarli, perché colpevoli; la voce del dolore è sempre sacra, anche se viene da un carcere, o da un patibolo.
Il mondo morale non è fatto solo di giustizia, è fatto pure di carità. La carità non domanda a un padre, molto meno a una madre, qual è il suo passato, domanda soltanto qual è il suo dolore.

Il dolore di un padre carcerato, di una madre non si descrive. Sua figlia è nell’abbandono… soffre la fame… è in pericolo! Fosse almeno un maschio, fosse almeno un fanciullo; i fanciulli possono provvedere più facilmente a se medesimi. Essi, il carcerato, la carcerata, hanno un pezzo di pane, hanno una zuppa; forse quella creaturina, quell’innocente ne desidera i residui.
Forse – pensa il carcerato nella desolazione della sua cella – per quella creatura che è sua figlia, non solo vi sarà la fame, ma il disonore; sarà soccorsa, ma a condizione che il suo pane sia quello dell’ignominia.
Sua figlia che ha fame! ... Sua figlia nel pericolo… ecco lo spettro di tutte le ore, ecco la condanna di tutti gli istanti, ecco l’avvoltoio che rode il suo cuore, le sue viscere! …
È vero, se quelle bimbe sono nella miseria, se sono nel pericolo del disonore, la colpa è dei genitori. Una voce tremenda dice nel cuore al padre, alla madre: "Tu sei stato il peggiore dei carnefici, carnefice di colei che era carne della tua carne, sangue del tuo sangue; tu non solo hai rapito agli altri, ma hai rapito a tua figlia il pezzo di pane; tu non solo hai ucciso un uomo, ma hai ucciso la tua figliuola".
Questo però è un pensiero che esaspera. Questo è un pensiero che può condurre sino alla disperazione. La disperazione è per l’uomo il peggiore dei suicidi, perché è il suicidio della sua anima.
La disperazione non è il dolore che eleva verso il Cielo, ma il dolore che fa precipitare nell’abisso. La disperazione è l’inferno in questo mondo; non solo è la morte della speranza, ma è la morte del pentimento; per l’uomo che dispera è impossibile il pentimento, ed è impossibile la riabilitazione.

La voce della pubblica moralità
Vi sono nel mondo gli speculatori delle anime, peggiori dello Scyloch descritto da Shakespeare, che in cambio d’un pugno di oro domandano un pezzo di cuore. Non un pezzo di cuore soltanto, ma tutto il cuore d’una donna, anche d’una fanciulla, per gettarla nel fango dell’ignominia.
Sole, senza pane, senza famiglia, senza una voce che parli loro di Dio, le misere Figlie dei Carcerati spesso per vivere sono costrette a vendersi a simili mostri. Diventano schiave, e viene loro imposto un obbligo turpe ed infame. La loro sorte è peggiore di quella dei bruti: i bruti servono all’uomo ma in cose degne e oneste, queste fanciulle invece devono anch’esse servire all’uomo, ma pure fra le abominazioni del vizio…
Oh se in nome della Carità di cristo una mano si fosse stesa a tempo verso queste creature
infelicissime! Se prima che altri offrisse il pane dell’ignominia, si fosse offerto loro il pane dell’amore, se, prima che fosse giunta ad esse la parola della corruttela, si fosse detta loro la parola della purezza!
Che in Valle di Pompei, nella Valle delle più teneri misericordie di Maria, la Carità accolga dunque queste creaturine, queste innocenti sotto le sue ali ampie come il cuore d’una madre, e candide come il cuore d’una vergine! L’Opera salvatrice delle Figlie dei carcerati è Opera di pubblica morale e di sociale previdenza…
In questa Opera nuova noi fummo incoraggiati dalla parola del Sommo Pontefice Benedetto XV, che negli ultimi giorni della sua vita, con un memorabile Breve, fece suo il Voto del nostro cuore e raccomandò a tutto il Mondo, l’Opera per le Figlie dei Carcerati con indimenticabili parole di commozione e di tenerezza.
Fratelli e sorelle sparsi per l’Orbe, fatevi tutti cooperatori, zelatori di quest’Opera grande, che è fra le più benefiche che abbia mai tentata la Carità di Gesù Cristo.
L’ora di Dio è sonata, nessuno manchi all’appello!

(da Bartolo Longo: L’ultimo voto del mio cuore –Valle di Pompei – Scuola Tipografica per i figli dei Carcerati, 1925 – pp. 54-59)
(A cura di Luigi Leone)

*Studiosi ed interlocutori stranieri del Fondatore di Pompei

Leggendo gli scritti del santo avvocato, ci si imbatte facilmente nei rapporti, diretti o indiretti, che egli ebbe con personalità straniere in merito alle opere educative create a Pompei.
A tal riguardo è stupefacente la chiarezza delle sue argomentazioni come dimostra, in questo caso, la lunga lettera scritta al Segretario Generale delle Prigioni parigine.

Nel corso di questa nostra rilettura delle opere più significative scritte dalla mano del Beato
Bartolo Longo abbiamo ricordato i rapporti diretti ed indiretti che egli ebbe con personalità straniere in merito alle opere educative create a Pompei: ci riferiamo in particolare ad una lettera che l’Avvocato-Commendatore Bartolo Longo indirizzava nel novembre del 1899 a Monsieur A. Rivière, segretario generale della Società Generale delle Prigioni "Rue d’Amsterdam, 52 Parigi.
Diciamo lettera, ma sarebbe più giusto dire che si trattava di lunga serie di riflessioni, che la scuola tipografica Bartolo Longo per i figli dei carcerati pubblicava nello stesso anno in un opuscolo di 21 pagine. Con il suo scritto Bartolo Longo intendeva presentare al destinatario "illustre e caro" i suoi "doverosi ringraziamenti" e "scrivere a lungo ed in maniera esauriente" anche al "giudizio ed intelligente autore Pagés dell’ottimo articolo che la Revue Pénitentiaire consacrava a questo Ospizio Educativo".
Dopo aver sintetizzato esistenza ed attributi delle opere fino a quel momento operanti a Pompei, Bartolo Longo si rivolge all’articolarista straniero per confutare, sia pure con molta discrezione e comprensione due sue "obiezioni", assai amabilmente sollevate alla fine della sua scrittura.
È interessante vedere le argomentazioni di Bartolo Longo per confermare4 il nostro apprezzamento sulla loro chiarezza.
L’Ospizio Educativo, dove ora sono raccolti e convenevolmente educati centosei Figli dei Carcerati, non è che una delle Opere sorte e fiorenti in questa Valle. E sì che tra le cure da consacrare alla educazione ed alla istruzione dei detti fanciulli, alla direzione della Banda Musicale ed al buono andamento delle Officine, e quelle richieste dei lavori dell’edificio che, per essere di mole grandissima, è ancora in costruzione, tanto più che tutto ciò che non si opera e compie con rendite certe e determinate, ma con limosine offerte della carità, che conviene sollecitare e richiede un complesso e gravissimo lavoro di corrispondenza.
Più antico dell’Ospizio, esiste in questa Valle l’Orfanotrofio della Vergine di Pompei, alimentato coi medesimi mezzi, e nel quale hanno trovato sicuro rifugio ed amorevole protezione centocinquanta Orfanelle scelte tra le più infelici e diseredate d’Italia.
Gravi sono le cure imposte anche da questa Istituzione, e diventano più gravi pel fatto che si è riuscito a fare entrare nelle consuetudini del paese quella che le famiglie agiate, probe, ma senza prole adottano come proprie queste figliuole della Madonna…
Ciò, naturalmente, raddoppia il lavoro e l’opera che si debbono spendere intorno a tale Istituto, ma tutto questo viene larghissimamente compensato e premiato dall’essersi tanto diffusa tale consuetudine, che ben 145 fanciulle sono sì collocate in tal guisa, con un doppio importantissimo vantaggio, quello di aver ridato una famiglia a sì gran numero di Orfanelle che ne erano affatto prive, e quello di aver potuto, per l’uscita di tante misere creature, accoglierne e salvarne altrettante.
Nello stesso tempo è necessario provvedere alla Scuola Tipografica, dove dieci celerissime macchine sono in continuo movimento, sebbene nulla vi si stampi che non concerna questa Valle e la divozione per la Vergine che da essa trae il suo titolo.
E venendo prima di tutto all’ottimo studio su questo Ospizio, inserito nella sua Rivista, esso mi fu annunziato dal gentile Signor Rosenfeld da Berlino, mentre da Londra se ne congratulava con me assai vivamente il caro Signor Tallak, Segretario della Howard Association ed amico costante ed affettuoso di queste Opere di carità e di beneficenza. La lettura poi di siffatto lavoro coscienzioso e benevolo sui fogli staccati da lei stesso con somma cortesia favoritimi mi ha vivamente commosso e fortemente incoraggiato.
Di che sono più che gratissimo al Signor Pagès, estensore dell’articolo; ed a lei che ne permetteva la pubblicazione in una Rivista di riconosciuta autorità europea. Su tal proposito, anzi, ho scritto
un’altra lunga lettera al gentile Signor Pagès e mi permetto accluderla in questa mia, sia perché, ignorando l’indirizzo di detto signore, debbo fare appello alla sua gentilezza e bontà, affinché gliela faccia pervenire: sia perché desidererei che Ella stessa si compiacesse di leggerla, prima di mandarla a destinazione.
In tal modo, senza che mi prolunghi a ripetere ciò che ho scritto altrove – e, trattandosi di ben meritate lodi e ringraziamenti, il Signor Pagés non potrà, per fermo, aversene a male – ella, illustre e caro Signore, vedrà quanto mi è riuscita gradita la bella azione cui Ella ha prestato il suo autorevole concorso. E vedrà pure ciò che io penso intorno alle due obiezioni assai amabilmente sollevate dal Signor Pagés alla fine della sua scrittura. L’una dipende da differenze di opinioni religiose e filosofiche: ma l’altra è cagionata dalla valutazione un po’, direi quasi, mal sicura delle particelle italiane quasi, come, come se, le quali fanno sì che il discorso non abbia una forza categorica ed assiomatica, ma noti semplicemente un riscontro, che può essere fornito.
Così, se a pag. 20 del quaderno di Maggio del "Valle di Pompei" è detto: - A guardare lo stato di servizio di questi sciagurati genitori a canto a quello degli ottimi loro figliuoli, pare, quasi, che questi sieno nati per risarcire la Società dei danni e degli scandali per opera di quelli. – E non è necessario insistere sul valore generale della frase, per metter sott’occhio, poiché si vede agevolmente, la limitazione che danno al significato di essa quel pare e quel quasi. La medesima osservazione può farsi ogni volta che nei miei scritti ricorre la stessa proposizione.
Tutto questo però ha ben poco o nessun valore, quando si considera il tono generale così benevolo della monografia e l’affettuosità cortese con cui perfino quelle due obiezioni sono presentate; né io né discorrei, se alcuni lettori, tralasciando le belle pagine che le precedono, non si fossero fermati solamente a quelle.
Sennonché, se allo studioso e dotto scienziato straniero si può condonare che non abbia inteso in tutta la sua delicatezza l’uso di talune difficili particelle, non si può col concittadino usare la medesima indulgenza, a meno che, per conoscere le cose della sua patria, egli non abbia creduto opportuno informarsene fuori. Ed appunto così ha dovuto accadere al Dott. Sante de Santis, il quale
non ha né meno guardato le pagine assennate e lusinghiere del Signor Pagés ed in tutto il lungo articolo non ha trovato null’altro degno di considerazione oltre quelle due obiezioni, sicché nella relazione sull’asilo scuola per fanciulli deficienti di povera condizione, che in Roma – relazione favoritami dall’Illustre Prof. Sergi della Università di Roma e stampata in quella città – tranquillamente asserisce.
Non credo con l’autore dell’Emilio che "tout est bien en sortant des mains de l’Auteur de la nature" come non divido l’ottimismo di Bartolo Longo, il quale, basandosi sugli eccellenti risultati educativi ottenuti nell’Ospizio pei Figli dei Carcerati, afferma che tutti i fanciulli sono naturalmente buoni e arriva al paradosso che "la colpa del padre è compensata in egual misura dalla virtù del figliuolo".
Ora in questo paradosso almeno sono innocente. Tutto ciò, ripeto, non impedisce che io sia e mi professi gratissimo all’autore dell’accurato studio ed a lei che lo accoglieva nella sua Rivista; ed al primo quaderno che verrà pubblicato del "Valle di Pompei", non mancherò di porger loro pubblica attestazione dei miei sentimenti.

(Dalla Lettera dell’Avv. Comm. Bartolo Longo a Monsieur A. Riviére Valle di Pompei Scuola Tipografica Bartolo Longo per i figli dei carcerati – 1899 – pp. 3-7)
(A cura di: Luigi Leone)

*Un Voto Segreto del nostro animo

La Vergine del S. Rosario di Pompei occupa un ruolo essenziale nel progetto d’educazione e di fede programmato dal Beato Bartolo Longo, un ruolo che fa da filo conduttore, il quale si collegano i momenti e le iniziative che la storia del Santuario e delle Opere presenti. Anche gli scritti di Bartolo Longo testimoniano questo legame: in essi l’autore non perde nessuna occasione per ricordare a se stesso ed agli altri che “tutto” quello che egli pensa e realizza è affidato alla produzione della Madonna ed è quella del Figlio suo. Sono questi i due interlocutori diretti, chiamati in causa costantemente perché il mondo dei credenti si faccia sostenere della carità e di una beneficenza intesa come offerta di valorizzazione della persona umana nascosta e pure presente in ogni orfano della legge.
Così, quando nelle sue lunghe ore di riflessione, Bartolo Longo pensa a costruire l’Ospizio per i Figli dei Carcerati: quando penserà ad edificare quello per le orfane della legge, anche allora egli trova nella penna il mezzo per scrivere pagine di una umanità profonda, universale che permettono al lettore di entrare nelle pieghe più intime dell’animo dell’Autore, che lo coinvolgono e gli aprono nuovi orizzonti, per la semplicità stessa che le distingue: non dobbiamo dimenticare l’epoca in cui Bartolo Longo avvia a realizzare il suo piano socio-pedagogico, né – come avremo modo di vedere – le “ingiustizie” e le “incomprensioni”, che egli avrebbe dovuto partire per tenere fede ai suoi  ideali educativi e religiosi, sostenuto, sempre, dalla presenza vigile ed avvertita della Madonna, riletta quotidianamente nei misteri del Santo Rosario.
In questa ottica è possibile capire il miracolo della dimensione mariana di Pompei.
A undici anni dall’inaugurazione dell’orfanotrofio femminile, Bartolo Longo manifesta al mondo intero un progetto da tempo coltivato e non pensato da nessuno: un’opera a favore dei figli dei carcerati. Tutto è affidato alla protezione della Vergine e del suo Figlio Gesù. È, in una mirabile sinergia, si fondano insieme pietà cristiana, devozione mariana, solidarietà e promozione umana.
Fratelli! Abbiamo donato a Dio un Tempio, ed alla Madre di misericordia una Reggia, donde spargere i suoi tesori di beneficenza per coloro che gemono ed affannano. Abbiamo eretto accanto al Tempio della Fede, il Tempio della Carità, ove abbiam messo in salvo le anime di creaturine infelici, di povere orfanelle, che sono anch’esse altrettanti templi dello Spirito Santo.
Ma la Carità di Cristo, che è fuoco vivo, intende a dilatarsi sulla terra, e non guarda confini. – Il campo della Carità è così vasto (soleva dire il santo Padre Ludovico da Casoria), che produce svariati, belli e giovevoli frutti di salvezza alla civile famiglia.
Oggi, o fratelli, ci pare giunto il momento opportuno di manifestare (non senza una certa esitazione), un voto segreto del nostro animo, che da tempo chiudiamo gelosamente nel cuore con una perplessità, a volte dolorosa, la quale nasce dal desiderio ardente di attuarlo, e dall’evidente insufficienza, e, direi quasi, impossibilità dei mezzi, per venirne a capo.
Il gesto indimenticabile degli 8 Maggio 1887, in cui la regina delle Vittorie entrò solennemente incoronata a prender possesso del suo Trono, elevatole in questo Santuario dalla pietà dei figli suoi sparsi nel mondo, io deposi là, nel Cuore pietoso di Lei, il mio desiderio, di raccogliere intorno a quel trono la classe delle bambine più abbandonate, che si aggirano vagando tra le vie della nostra Italia col prossimo pericolo della perdizione. E cosiffatta schiera d’innocenti sventurate, pareva a me, che avesse ad essere la Corte eletta della Regina della Misericordia sulla terra di Pompei, che da mane a sera La inneggiasse con la corona del celeste Rosario. E sì iniziai l’Orfanotrofio femminile, il quale tolse nome dalla Vergine di Pompei.
La Madonna benedisse l’opera caritatevole: e oggi settantacinque orfanelle vivono ricoverate qui, mediante l’inesauribile pietà vostra, o fratelli dilettissimi. Quale prova più certa, che veramente la Madonna ci aveva messo in cuore la santa risoluzione di sposare al culto la beneficenza? Entrando oggi, nell’anno Quintodecimo, il cuore divino del Figliuolo della Vergine a prendere il possesso del trono anche a lui apparecchiato, io mi sento sospinto da un’altra forza nuova e occulta a mettere fuori una parola, che è pure un desiderio intenso, una fiamma, un voto, che depongo in quel Cuore di bontà sconfinata, e nel cuore pietoso dei miei amati fratelli.
Io ragiono a questa guisa. – Se entrando la Madre di misericordia in questo Santuario si scelse a sua corte una corona formata delle fanciulle più abbandonate; entrando il Figliuolo dell’Uomo, che presenta il suo Cuore riboccante di paterno amore e di compassione agli uomini, vuol certo beneficare alla classe dei fanciulli più abbandonati; di quei fanciulli di cui egli soavemente diceva: - Lasciate che i pargoletti vengano a me! Or qual è, a mio credere, la classe più abbandonata dei fanciulli in Italia e fuori?
- Sono i figli dei Carcerati, e segnatamente i figli dei forzati, i quali condannati a quindici, a vent’anni di pena, e talvolta alla galera per tutta la vita, non vedranno mai più i loro figliuoli, se non forse quando questi, per effetto di loro delitti, andranno a raggiungere i loro genitori nelle prigioni! ...
Cotesti fanciulli non sono orfani; e quindi non han diritto a godere dei benefizi civili, e dei ricoveri ed orfanotrofi provinciali o comunali. Sono in condizione peggiore degli orfani, perché invisi ai propri cittadini in odio dei loro colpevoli genitori, portano, senza colpa, il marchio dell’infamia dei loro parenti; e lasciati con una madre per lo più povera, (più infelice di essi, che non è vedova, e pur di fatti è più che vedova), senza educazione, senza freno, coi pravi esempi paterni dinanzi agli occhi, fra poco si daranno al vizio, e quindi al delitto. E presto o tardi il tetro carcere sarà inevitabilmente la loro casa. Il pane nero dello Stato sarà il loro alimento perenne.
E la patria nostra? – lungi dal diventare modello di civiltà e di buon costume alle altre nazioni d’Europa, conforme il posto che Dio le ha assegnato tra le nazioni della terra, va a questo modo ad accrescere il numero dei delinquenti e dei facinorosi!
Oh, io depongo oggi nel Cuore di Gesù Cristo, e nel cuore dei miei amati fratelli e sorelle, questo mio focoso desiderio, questo voto, di fondare qui, all’ombra del santuario, sotto il materno manto di Maria, un’Opera di educazione morale e civile pei figli dei carcerati, per quegli esseri abbandonati, che la sciagura de’ genitori gitta a languire nella via con tutti i disagi e le amarezze dell’orfano, senza averne il carattere esterno, comunemente riconosciuto, per godere de’ pietosi provvedimenti istituiti a salvare l’infanzia abbandonata.
Questo ramo di beneficenza cristiana esercita sul mio cuore un’attrattiva irresistibile, e mi apparisce davvero degno della più viva sollecitudine.
Che avviene in fatti di una povera famiglia, quando per qualche orrendo misfatto, il padre è condannato o a perpetuo carcere, o a venti anni di pena? La madre, forse giovane ancora, vedova desolata vivente tuttora il marito, vedendo mancare il pane in casa, è costretta a mendicare per non morir di fame lei e i figli, e diviene a sua volta vittima della seduzione o della prepotenza! E i figli? Misere creature! Innocenti del delitto paterno, ne sentono tutto il peso, tutto il dolore, in quegli anni teneri, in cui han bisogno dell’appoggio de’ genitori, e di una amorevole educazione!
Ora una istituzione cristiana che intenda a salvare cotesta classe di fanciulli veramente abbandonati, è altamente benemerita della civiltà e della patria: dappoiché eserciterebbe anche, nel medesimo tempo, un’azione altamente educativa e moralizzatrice delle carceri e dei bagni di pena.
Quando uno sciagurato (il quale, comunque lo consideri, è sempre un infelice) vien condannato ad essere segregato dal civile consorzio per quindici o venti lunghi anni, sottoposto a dure ed obbligatorie fatiche (non dico per quei condannati a vita, da cui l’animo rifugge), il primo effetto che risente dalla sua condanna è la più orrenda disperazione.
Considerando lo stato suo presente senza libertà, senza dimani, ricordando la moglie, i propri figli, fanciulli ancora; bestemmia la società, che lo ha scacciato, bestemmia Dio che lo ha creato, bestemmia sé stesso che non sarà mai più felice. I più grandi educatori delle carceri mi hanno attestato, che la loro opera sociale non fa alcun frutto in cuori invasi dalla disperazione.
Ora se in tale stato d’inferno il povero condannato ode che la sua famiglia, i figli suoi, non sono al tutto abbandonati; che vi ha uomini pietosi i quali prestano la mano fraterna al loro soccorso; che la Vergine di Pompei, qual madre tenerissima, li raccoglie sotto il suo manto; oh, allora un raggio di luce squarcia quel fitto tenebrore. L’infelice galeotto, al pensiero che vi ha al mondo degli uomini che pensano a lui! Ai suoi figli! Che egli non è da tutti abbandonato; senza avvedersene, diventa più rassegnato, più calmo; obbedisce a’ superiori, ottempera alle leggi che dapprima gli parean durissime e ingiuste. Che è avvenuto? – Un raggio di conforto è disceso a mitigare l’inferno del suo cuore. La preghiera a Maria, quella preghiera che era stata abbandonata dal primo giorno in che fu avvinto da catene, ritorna spontanea sulle labbra.
Il lavoro forzato quindi innanzi, al rammentare i figli, associa involontariamente la memoria di essi con la memoria di essi con la memoria della Vergine che li ha presi a custodire. E ogni volta che li chiamerà a nome da lungi (senza speranza di risposta), invocherà ancora quel Nome benedetto che forma il conforto di tutti i tribolati. E l’amore de’ propri figliuoli gli detterà nel cuore una fervida preghiera alla celeste Consolatrice degli afflitti.
(…) È questa l’idea, da cui sono potentemente dominato. È questa un’opera cristiana al tutto nuova, di cui insino ad oggi non vi ha esempio né in Francia, né nel Belgio, né in altre cattoliche nazioni. L’Italia sarebbe la prima a possederla.
In Spagna, è vero, nel passato anno, un Frate Francescano iniziò l’opera di patronato dei carcerati, che prende cura della riabilitazione morale dei detenuti nel tempo dell’esperienza, e del loro collocamento dopo l’uscita dalle carceri. E ne riscosse ampia benedizione del Sommo Pontefice Leone XIII. Ma pei figli dei carcerati, pei figli dei galeotti, fanciulli abbandonati all’ozio ed alla occasione del delitto, né gli Spagnoli, né altri popoli cristiani vi han rivolto il pensiero. Vi ha pensato la Madonna di Pompei!

(da Bartolo Longo: L’Istituzione dei Figli dei Carcerati e l’Ospizio educativo in Valle di Pompei; Scuola Tipografica “B. Longo”, 1898, pp. 11-16)
(A cura di Luigi Leone)

*Un proficuo ed interessante stratagemma educativo

Merita una particolare attenzione uno dei tanti mezzi ausiliari che il Fondatore di Pompei, l’avvocato Bartolo Longo, utilizzava nei suoi percorsi formativi. Si tratta di un compenso economico offerto ai ragazzi per aiutarli ad una saggia amministrazione del denaro.
Una riflessione a parte merita un altro dei mezzi ausiliari che Bartolo Longo utilizza nel suo programma educativo: si tratta di quel piccolo compenso che si riconosce ai ragazzi in cambio del lavoro svolto.
Ed a questo proposito sarà bene chiarire subito che l’uso di questo stratagemma vuole offrire
alcune opportunità, quale può essere quella di abituare i ragazzi all’economia, a valorizzare il denaro come mezzo e sostegno della propria dignità; amministrando le proprie entrate, riflettendo sulla scelta fra spese utili e spese voluttuarie, organizzandosi per la realizzazione di un intento particolare in una determinata occasione.
Nell’istituto circola una moneta speciale, fittizia, in carta che verrà convertita in denaro vero, settimana per settimana a seconda delle ore di lavoro e depositato quasi totalmente su libretti intestati.
Siamo di fronte ad un’esperienza nuova, che, all’atto pratico, poteva permettere anche di conoscere alcuni lati del carattere, quelli che l’uso del denaro può mettere in mostra, positivi e/o negativi che siano.
Evidenti anche i riflessi sulla disciplina, con il pagamento di una multa e con il risarcimento di un danno apportato alle cose che, per il cattivo uso, possono rompersi.
Mercede dei Figli dei Carcerati
Da circa un anno diamo ai Figli dei Carcerati un lieve compenso per il lavoro che fanno nelle rispettive officine. In principio temevamo che il denaro dato ai nostri fanciulli potesse in qualche modo turbare la serenità dei loro pensieri e dei loro affetti con grave danno della educazione.
Però non volevamo neppure rinunziare ai tanti benefici che speravamo da questo sistema; primo fra tutti quello di non lasciarci sfuggire l’opportunità di avvezzare i nostri fanciulli all’economia, al risparmio, onde premunirli contro la miseria, fonte al presente di tanti guai e di tanti delitti; e nell’intento di educare i nostri fanciulli sul modo di amministrare il denaro e di correggere le tante
passioni che hanno a movente la fame dell’ori, ci decidemmo a dare una mercede al Figli dei Carcerati.
A quest’uopo e per evitare ogni possibile commercio tra i ricoverati con le persone di servizio ed esterne, abbiamo coniato una moneta speciale in carta che ha corso solamente nell’Istituto, e che all’occorrenza solo il Direttore converte in denaro vero.
Fissata quindi una retta individuale per ogni fanciullo si cominciò nel novembre del 1898 a retribuire ogni fine di settimana i Figli dei Carcerati.
La retta individuale, che per i più provetti è di 7 centesimi all’ora, varia da ragazzo a ragazzo, e oltre che all’età risponde piuttosto alla maggiore o minore valentia di ciascuno nell’arte sua.
Al Sabato ciascun capo Officina paga i fanciulli a lui affidati in ragione delle ore di lavoro da essi fatte, ritenendo a beneficio di un’Opera di carità un centesimo per ogni voto di condotta o di applicazione da essi perduto.
Il denaro poi che percepiscono i Figli dei Carcerati vien depositato da ciascuno di essi, ritenuti per sé pochi centesimi, nella cassa postale del risparmio su libretti intestati a ciascun figlio di Carcerato.
Soltanto all’uscita dall’Istituto potrà l’alunno ritirare il libretto e riscuotere i depositi, purché non sia stato congedato per ragioni di condotta, nel qual caso viene escluso dal beneficio.
Ed oggi dopo quasi due anni di esperimento possiamo dire di essere ben contenti del sistema adottato, perché i temuti inconvenienti, che considerati teoricamente ci spaventano e ci tenevano perplessi, in pratica sono sfumati e han lasciato posto invece a un numero grandissimo di benefici dei quali vogliamo dare una idea.
Primieramente ci accorgemmo subito di aver messo per avventura il dito su di una piaga latente ma sanabile.
Fu organizzata in poco tempo una società di credito clandestina che esercitava su larga scala una specie di usura non ancora udita. Si prestava il denaro al cento per uno e peggio ancora. Scoperta, si
potè fare intendere agli uni l’ingiustizia fenomenale dell’usura che non avevano mai compreso a dovere, agli altri il brutto partito a cui si troveranno nell’avvenire se, come ora, non sapranno custodire e amministrare il denaro secondo l’entrata.
V’ha chi spende il suo denaro per comperarsi un libro di lettura, o gli istrumenti del suo mestiere, altri che comprerebbero sempre giocattoli, palle, saponette profumate, e simili futilità; alcuni invece non spenderebbero mai un soldo anche quando è necessario spenderlo; alcuni altri non fanno nessun conto del denaro.
E tutto ciò offre a noi larga mese di osservazioni psicologiche importantissime, che ci mettono meglio in grado di dare ai nostri fanciulli quella direzione che richiede la loro indole e le inclinazioni della loro natura.
Non mancò chi si lasciò attirare a porre la mano sul denaro altrui, per l’avidità di accrescere il suo capitale: abbiamo gli avari, il buon massaio, i prodighi, e le infinite gradazioni della passione dell’oro svolgentesi appunto quando si è ancora in tempo a spegnerla. Ecco dunque un campo che sarebbe stato inesplorato e incolto.
Con gravissimo danno dell’educazione impartita ai nostri Fanciulli se non avessimo tentato per tempo la prova felicemente riuscita.
Non meno importante è il vantaggio che ne ricava la disciplina. Una multa data opportunatamente, ottiene maggior effetto che un castigo anche grave, senza averne l’odiosità.
Abbiamo potuto adottare per il pranzo i piatti di porcellana, i bicchieri di cristallo, le bottiglie di vetro invece di usarli di metallo come si faceva prima con grave danno dell’igiene e della pulizia, e la ragione si è che i ricoverati pagano tutto ciò che rompono, ed essi perciò tengono conto di tutto.
Finalmente, per non dire altro, si è dato loro agio e modo di entrare a parte di alcune opere di beneficenza alle quali concorrono con vero slancio di carità. Così, per esempio, quando morì nell’Ospizio un loro compagno, Giovanni Tommasoni, tutti a gara fecero una colletta per celebrare le esequie all’estinto loro confratello.
E un modesto e devoto funerale fu fatto nella cappella dell’Istituto, in cui egli ogni giorno insieme con i suoi compagni pregava il Signore e recitava il Rosario alla vergine di Pompei per i suoi Benefattori.
Tutti poi nelle principali solennità religiose dell’anno, come Pasqua o Natale, mandano ai loro Genitori nelle Carceri, o alla madre misera e sola nel paese natio, oggetti di devozione e qualche lira, affinché possano anche essi almeno in quelle ricorrenze, sentir meno pesante la privazione del Carcere e dell’abbandono, e confortarsi nel pensiero che possono già godere del frutto delle fatiche e della buona condotta del loro adorato figlio.
Così i nostri fanciulli mentre del ricevuto beneficio si servono per beneficare altrui ne ricevono essi stessi uno nuovo ed inestimabile, quello della educazione del cuore.

A cura di: Luigi Leone
(Bartolo Longo: Congrès Pènitentiaire International de Brixelles – Scuola Tipografica di Pompei, 1900, - pp. 18-20)

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