Vai ai contenuti

Date da non dimenticare

Il Santuario > Pompei tra Cronaca e Storia

*1887 - In Onore a San Giuseppe

Un Artista per Pompei

La collaborazione tra il Loverini e Bartolo Longo iniziò in occasione della costruzione di una Cappella in onore di S. Giuseppe. Al pittore fu commissionata una tela.
La tela era stata commissionata dal Vescovo e dal clero di Bergamo con l’intento di offrirla in dono al Papa Leone XIII nella ricorrenza del suo giubileo sacerdotale (1887). Il dipinto, portato a Roma, riscosse lusinghieri consensi nell’ambito della Curia, meritando così di figurare nell’Esposizione Vaticana del 1888.
Bartolo Longo in quella occasione ebbe l’opportunità di ammirare l’opera ricevendone un’impressione profonda. Quel "carattere spirituale e devoto" trasfuso nella figura della Santa, suscitava intensa commozione.
Il Maestro, senza mezzi troppi appariscenti e con lo studio profondo dei particolari, era riuscito ad assurgere ad un felice concetto, esprimendo tutta la santità della scena, piena di dolcezza e di mistico e puro senso di tristezza.
Un artista per il Santuario
Bartolo Longo aveva scoperto finalmente l’artista che desiderava lavorasse per il Santuario a Valle di Pompei.
Risoluto gli spedì una lettera da cui chiari traspaiono i suoi desideri e le sue emozioni: "Al Signor Ponziano Loverini, Pittore. Borgo S. Caterina – Bergamo. Chiarissimo Signore, vidi un suo quadro all’esposizione Vaticana, Santa Grata con Sant’Alessandro e fui invaghito dal suo stile e dalle sue concezioni nell’arte. Dissi tra me: l’opera di questo pittore non deve mancare nel santuario Monumentale di Pompei, che è una mostra dell’arte italiana cristiana moderna di fronte alle vestigia dell’arte pagana antica.
Io non ho il bene di conoscerla di persona, né conosco le sue esigenze nei lavori di pittura. Però se ella pensasse, nel suo cuore, come tanti artisti italiani e stranieri hanno inteso un desiderio di visitare quest’opera di religione, di arte e di civiltà che sorge rimpetto all’antica Pompei, sarei ben lieto di comunicarle i miei sentimenti, e, col viso della voce, potremmo accordarci per qualche dipinto, che, usufruendo il lustro di questo Santuario, renderebbe mondiale anche il suo nome. Intanto per farle avere qualche breve ragguaglio di quest’opera che la Provvidenza ha affidato alle mie cure, le mando alcuni quaderni del mio Periodico ed una immagine della nostra Vergine del Rosario. Sono, con profondo ossequio, suo devotissimo Bartolo Longo".
L’incontro con il pittore Loverini fu provvidenziale; Bartolo Longo aveva piena ed urgente necessità di un artista cristiano a cui poter commettere le pale per gli altari che andava man mano erigendo nel novello Tempio dedicato alla Vergine del Santo Rosario. L’occasione gli si offriva propizia per l’erezione dell’altare di S. Giuseppe.
Non conosciamo, purtroppo, la risposta del Loverini alla lettere così lusinghieri di Bartolo Longo.
Sappiamo, però, che l’Avvocato il 29 maggio del 1889 rinnovò l’invito all’artista con termini veramente affettuosi: "Venite a passare qualche giorno a Pompei, facendomi il più grande dei favori. Resterà a mio conto la spesa per il viaggio e starete con noi in quei giorni come persona di famiglia" (B.L.)
La tela e l’altare di San Giuseppe
Il pittore, irretito da un invito così suadente, assicura di essere a Pompei il 24 luglio del 1889.
In quell’incontro Bartolo Longo dovette esporre al Loverini i suoi progetti inerenti i dipinti da sistemare sugli altari e, più di tutto, discussero sicuramente circa la tela rappresentante il transito di San Giuseppe da esporre sull’altare nella grande cappella, a destra della Crociera. Indubbiamente ci fu l’accordo e la commissione, lo apprendiamo da una lettera del Loverini da cui stralciamo: "Bergamo, 7 settembre 1889. Illustrissimo Signor Avvocato, ieri ricevetti la sua gentilissima lettera contenente un vaglia di lire 1.000. A tanta attenzione non posso che ringraziarla immensamente assicurandola che il quadro da lei commessomi: il Transito di S. Giuseppe, convenuto alla somma di lire 5.000, lo consegnerò infallibilmente il 15 aprile 1890".
Il quadro, infatti, spedito puntualmente, giunse per ferrovia, alla stazione di Scafati il 14 aprile 1890; per il trasporto Bartolo Longo pagò 73 lire e 25 centesimi. La grande tela fu sistemata su telaio dal Signor Chiariello "valente costruttore di tele" mentre, "l’artista Pesce, ne ricavò una magnifica fotografia".
Installato il dipinto, rapidamente fu ultimata la magnifica struttura dell’altare e del cappellone. Il 7 maggio, mercoledì del 1890, il Cardinale Guglielmo Sanfelice dei Duchi di Acquavella alle ore 12 benedisse la cappella e consacrò solennemente l’altare.
"Questo altare sebbene non importante quanto quello dell’abside, ne ricorda tuttavia le linee principali ed è degno di osservazioni perché ne risulta un insieme artistico ed altamente religioso.
Un marmo rosso sanguigno (Griotta di Cannes) ne forma l’orditura principale, alternandosi nei fondi con durissime stalattiti di abbagliante fosforescenza.
Nei Capi Altare, invece, i fondi sono di raro marmo multicolore (Serrangolino). Due magnifiche colonnine di marmo nero (breccia africana), calzate da basi attiche con i fregi di bronzo dorato, simili a quelle dei capitelli, sorreggono la mensa che è tutta di un pezzo.
Il Ciborio presenta sul suo fronte un pronato con colonne di stalattiti dalle basi e dai capitelli di bronzo dorato. La trabeazione e la cornice sono di un vivissimo marmo rosso (breccia). La porta e la parte interna del Ciborio sono di bronzo dorato, lavorato con grande finezza.
La predella col sottostante scalino (marmo grigio dei Pirenei) forma base all’altare e si accorda perfettamente con esso.
L’altare è fornito di un parato di candelieri di bronzo massiccio dorato, che, sebbene più piccoli, riproducono nel disegno quelli dell’altare maggiore.
A destra dell’altare è addossata al basamento di un pilastro la mensola per deporvi le ampolline. Essa è composta da una lastra di raro marmo giallo (giallo di Siena) e di una gran mensola scolpita (marmo bianco di Carrara)" (Bartolo Longo).
Abbiamo ritenuto utile riportare l’antica descrizione dell’altare per fornire elementi convenienti per un paragone storico.
Si ricordi che a seguito dell’ampliamento del Santuario (1934-1939), furono affiancate al primitivo corpo centrale del Tempio le due navate laterali. Durante la costruzione di esse fu inevitabile, per validi motivi tecnici e strutturali, modificare notevolmente la linea architettonica originaria sacrificando, in parte, anche il sontuoso rivestimento marmoreo dei due altari del braccio destro e sinistro della crociera.
Bartolo Longo nel Periodico di luglio del 1890 esultante scrive:
"Il Transito di San Giuseppe del Professore Ponziano Loverini: una nuova gloria dell’arte italiana che trae le sue ispirazioni dall’ideale religioso.
L’Artista doveva incarnare un soggetto che va annoverato tra i più sublimi della storia della religione soprannaturale, e che si reputa il più difficoltoso dà grandi artisti.
Come abbiamo notato, la scena non è umana soltanto, ma umana e sovrumana ad un tempo.
I personaggi sono tre, tutti e tre offrono un grado di eccellenza che diventa ineffabile sotto il punto di vista dei rapporti che li uniscono nel compimento di una missione altissima.
Da una parte l’Uomo-Dio, dall’altra Maria e Giuseppe. L’Uomo-Dio entra in relazione sensibile con questi due esseri umani con il rapporto domestico e giuridico di figlio.
Maria, pur riconoscendo la sua inferiorità di natura a Gesù, è madre, e ne esercita il ministero.
Nella morte di San Giuseppe il Loverini, presentando i tre personaggi della scena tradizionale: (il protagonista che sta esalando lo spirito a Dio, la Vergine Santissima e il Divin Figliuolo che assistono), ha saputo con la fantasia variarla in modo nuovo e bello rischiarando la rustica camera del falegname di Nazareth con la luce che viene dal Cielo, e popolando l’aria di angeli lontani, di due che stanno sopra il moribondo con palme e di altri tre inginocchiati al suo fianco destro.
Così, un fatto del tutto conforme alla comune sorte dei mortali, prende carattere ascetico ed entra nei campi del sovrumano, dell’ideale.
(Da: Il Rosario e La Nuova Pompei – Anno 107 – n° 1 – Gennaio/Febbraio 1991)
(Autore: Nicola Avellino)
La prima festa in onore di San Giuseppe
Interessante, a distanza di tanti anni, costatare come il Beato volle sottolineare il momento di festa cittadina con un generoso atto di carità verso i più poveri.
La prodigiosa Immagine del Rosario resterà esposta nella nuova Chiesa sino alla Domenica 13 del Mese (1). Ed in quella Domenica per la prima volta in Pompei del Novello Santuario di Maria, accorreranno i poveri contadini ad onorare lo Sposo Immacolato dell’Immacolata Madre di Dio, il Patrono della Chiesa Universale (2), il Protettore della Chiesa di Pompei, e della nuova Casa del Rosario, e della buona morte (3), il Patrono della Chiesa Universale. I Contadini faranno la Comunione Generale, e vi sarà solennizzata la Prima Comunione dei fanciulli e delle fanciulle assidui al Catechismo. Ed il chiarissimo Missionario apostolico Sac. D. Francesco Scardaccione di Napoli farà il Colloquio della Comunione Generale ed il fervorino nella Benedizione di Gesù Sacramentato. Precederà la festa un triduo di Prediche, che farà il P. Maestro Fra Alberto Radente (4) dei Predicatori nominato dal Vescovo di Nola a Rettore della nuova Chiesa del Rosario in Pompei. La Festa sarà tutta di beneficenza e tutta a spese di alcune dame Napoletane devotissime del Santo Patriarca. Si darà il vestito ed il pranzo ad un vecchio, ad un fanciullo e ad una donna poveri (5), in onore della triade Terrestre. Si distribuiranno tre vestiti di premio a 3 fanciulli più assidui e più diligenti del catechismo festivo, ed altri 3 abiti alle fanciulle, ed un maritaggio di L. 50 (6). Si darà l’elemosina a 15 poveri in onore dei 15 Misteri. E il giorno vi sarà detto il panegirico, dal chiarissimo Oratore Domenicano P. Lettore F. Vincenzo Guida di Napoli.



Pompei il 22 di Aprile del 1883 – Bartolo Longo
Note
(1)
I nostri lettori già sanno; più volte l’abbiamo riportato ed in varie occasioni abbiamo precisato che il Quadro miracoloso della Vergine, nei primordi dell’Opera Pompeiana, fu collocato provvisoriamente e per breve tempo nella vecchia e cadente chiesuola del SS. Salvatore in attesa di essere custodito ed esposto alla venerazione, nella cappella del SS. Rosario ubicato in un piccolo ambiente sulla sinistra per chi entra nell’attuale Santuario. In attesa che si completassero i lavori per la costruzione del grande Tempio e, soprattutto, dell’altare monumentale con il suo trono grandioso, le funzioni si svolgeranno appunto in quella piccola Cappella con naturale disagio per i fedeli, tutti desiderosi di prostrarsi ai piedi della Vergine miracolosa ed implorare da Lei ogni grazia.
Bartolo Longo addirittura fu costretto, specialmente per i pellegrinaggi con numerosi partecipanti, a stabilire un turno di prenotazione al fine di poter consentire a tutti di venerare, anche per breve tempo, più da vicino la Sacra Immagine. In qualche ricorrenza solenne, sempre compatibilmente con lo svolgimento dei lavori, il Quadro veniva trasferito nel Tempio in costruzione e collocato su un altare centrale, provvisorio, contornato da altri cinque altari più piccoli per dare agio ai numerosi sacerdoti di celebrare la Messa ed ai fedeli di raccogliersi in preghiera. Nel 1883, come Bartolo Longo ci testimonia. Il Quadro fu esposto infatti nell’erigendo del Tempio "occupato per metà da anditi; e stuccatori, e marmolai, e pittori, che già intendono a decorare la parte più eccelsa della Chiesa quale è la Cupola, ed i quattro archi maggiori, secondo le regole della buona architettura.
Pertanto i pellegrini entreranno dalla porta maggiore del Tempio, ascolteranno la Messa all’altare a bella posta eretto nel mezzo di esso per venerare l’immagine prodigiosa" (B.L.).
(2) Il Papa Pio IX, con proprio decreto del giorno 8 Dicembre 1870, aveva solennemente dichiarato San Giuseppe Protettore della Chiesa Universale.
(3) Bartolo Longo aveva fondato la Confraternita per gli agonizzanti ed aveva predisposto una speciale schiera di candide orfanelle, chiamate appunto Giuseppine, deputate a recitare particolari fervide preghiere per gli associati moribondi "soccorrendoli in quelle ore angosciose ed estremo bisogno con la prece potentissima dell’innocenza" (B.L.).
Il primo associato alla Confraternita fu proprio Leone XIII che, per felice coincidenza, morì il 20 luglio 1903, il giorno del Transito del Patriarca San Giuseppe da secoli celebrato dalla Chiesa e, per la prima volta, in quell’anno, commemorato e festeggiato nella Basilica di Pompei.
(4) Bartolo Longo profondamente commosso partecipa ai fratelli e alle sorelle del Terz’ordine della Penitenza di San Domenico, la morte del Padre Radente, il loro direttore. "Il nostro dolce, benigno e caritatevole Direttore, padre maestro Fr. Alberto Radente dei Predicatori, il vero sacerdote secondo il cuore di Dio, il degno rappresentante di San Domenico in mezzo a noi suoi figli, il primo Apostolo del Rosario in questa Valle di Pompei, il sottile filosofico, il profondo teologo, l’inarrivabile maestro di spirito, colui che possedette in grado eroico le virtù dell’umiltà, della carità, del disinteresse, della purità, della misericordia, della povertà e della obbedienza religiosa, il tenerissimo amante di Maria, venne a noi rapito da questa terra di esilio il giorno di lunedì 5 di gennaio (1885), nell’ora dei primi vespri dell’Epifania, lasciando noi tutti nel pianto e nell’amarezza… I suoi esempi ed eminenti virtù, le sue massime di una semplice ed insieme alta santità siano vive innanzi agli occhi nostri ed alla nostra mente" (B.L.).
Per inciso si ricordi che la memoria di Padre Radente, in relazione all’Opera Pompeiana, deve restare imperitura e, senza limiti, la riconoscenza. Egli aveva dato alla sua penitente, Suor Maria Concetta De Litala, la vecchia e sdrucita tela della Madonna del Rosario; su indicazione di Padre Radente, Bartolo Longo si recò da quella pia monaca e ne ebbe in dono il quadro che, portato a Valle di Pompei, fu esposto alla venerazione per la prima volta la sera di sabato, 13 Novembre 1875.
(5) Con l’istituzione dell’Ospizio per i figli dei carcerati (1892), la beneficenza ai poveri ed ai fanciulli veniva effettuata da Bartolo Longo in un ambito notevolmente più vasto. La cerimonia del pranzo si svolgeva infatti nel cortile dell’Istituto ed era una offerta simbolica, un piacevole dono fatto dai giovinetti ivi ricoverati, quasi a voler essi offrire un ringraziamento; un ricambio di carità, anzi, una sublime trasformazione: i beneficiati diventavano benefattori. Sul calendario del 1904, Bartolo Longo pubblicò la cerimonia del pranzo offerto il 24 maggio q903 a 100 vecchietti ed ai fanciulli poveri. È una pagina stupenda, la riproduciamo con qualche doloroso taglio.
"Quale caratteristica sfilata! Vecchi e fanciulli indossano abiti puliti, camicie di bucato, e forse in quel mattino avevano curata un poco più attentamente degli altri giorni la personale nettezza. Entravano, uno per volta, sotto il porticato, dove erano ordinate le mense. Tra i vecchi, chi zoppicava, chi poggiavansi su due bastoni; altri trascinavansi innanzi con movenze stentate, altri poggiavansi alla spalla del compagno vicino; qualche infelice, perché cieco, era condotto per mano, i fanciulli, invece, irruppero come un’ondata. Tutti portavano al collo, sospeso con un nastrino, il biglietto di invito fatto a forma di cuore.
Ogni povero aveva innanzi, al proprio posto, il suo tovagliolo, una bottiglia di vino, un mezzo pane bianchissimo, il piatto, il bicchiere e la posata. I Figli dei Carcerati nella loro tenuta di gala si affaccendavano intorno alle tavole; e dalle sale, che mettevano capo nella grande cucina dell’Ospizio, sino alle mense era una processione di fumiganti tondini pieni di saporose e odorose vivande. Era grazioso vedere i fanciulli poveri che sgranavano tanto d’occhi all’arrivo di una grossa porzione di carne. I vecchi guardavano di preferenza le bottiglie, e vi fu pure chi cedette qualche pietanza in cambio del vino, al compagno. Ma la festa raggiunse il massimo brio, quando comparvero delle grosse torte dolci. I Fanciulli invitati, con gioia infantile, applaudirono, seguendo con gli occhi ogni porzione che veniva staccata dal piatto comune e servita per turno. Negli occhi dei vecchi tremolavano lagrime di riconoscenza, i monelli vociando e ridendo erano soddisfatti delle ore passate in tavola. Come ricordo della bella Festa furono donati ai centro poverelli i piatti, la posata, il bicchiere, la tovaglia e il tovagliolo che avevano usati per il pranzo".
(6) Maritaggio: istituto giuridico consistente nell’assegnazione di una somma di denaro o altro bene a titolo di dote per consentire di contrarre un matrimonio, socialmente decoroso, anche a donne non appartenenti a famiglia con adeguati mezzi economici. La somma destinata al maritaggio era di lire cinquanta ed assegnata ad una giovinetta bisognosa e meritevole tratta a sorte tra quelle che avessero raggiunto il quindicesimo anno di età ed a condizione che avessero frequentato l’Oratorio festivo con assiduità e per almeno quattro anni; dovevano, inoltre, aver serbato una condotta di vita lodevole come si conviene ad una fanciulla "educata alla scuola di Gesù Cristo e che abbia fatto profitto nel Catechismo" (B.L.).
Il premio toccato alla prescelta dalla sorte, veniva posto su di un libretto della Cassa di Risparmio e consegnato alla intestataria, con i rispettivi frutti maturati, al compimento del ventiquattresimo anno di età. (Autore: Nicola Avellino)

*24.05.1891 - Nel deserto Pompeiano si consacra il Santuario

Presentiamo le pagine più belle del discorso che Mons. Vicentini, Arcivescovo dell’Aquila, pronunciò per l’occasione. I temi di fondo: rinascita di una comunità, carità, pacificazione tra Chiesa e Stato.
Il Santuario di Pompei tra le molte vocazioni, la prima delle quali è certo quella della carità, ha pure quella di essere tribuna dell’episcopato. Bartolo Longo invitava volentieri gli alti prelati, soprattutto del Sud, affinché toccassero con mano la fonte di grazia e di rinnovamento civile che la Madonna aveva suscitata ai piedi del Vesuvio, e ne diffondessero i valori nelle rispettive diocesi. Per la consacrazione della prima chiesa pompeiana, invitò anche l’arcivescovo dell’Aquila, Mons. Augusto Antonino Vicentini, nato nella metropoli abruzzese nel 1822 e che vi sarebbe morto l’anno seguente, l’11 settembre 1892.
C’erano molte ragioni per cui Bartolo Longo nutrisse venerazione e simpatia per il presule abruzzese, che prima di essere arcivescovo dell’Aquila, era stato vescovo di Conversano, in Puglia, ed era un vero apostolo della Dottrina Cristiana, tanto è vero che insieme a Sr. M. Francesca De Santis aveva fondato la Congregazione delle Missionarie della Dottrina Cristiana, il cui scopo era triplice: insegnare il Catechismo a ogni genere di fanciulli, prepararli alla prima Comunione, assistere vecchi e infermi. Questa Congregazione ancor oggi ha la casa madre e la casa generalizia all’Aquila e case in molte località; nella casa generalizia sono conservati i documenti e i libri del fondatore.
Altro punto di contatto: Mons. Vicentini fondò la rivista “Palestra Aternina” in fascicoli mensili, molto simile a “Il Rosario e la Nuova Pompei”, di cui era lettore abituale; molte antiche copie del nostro periodico sono infatti conservate nelle sue carte all’Aquila. Nella metropoli abruzzese Mons. Vicentini fondò un “Osservatorio geodinamico”, soprattutto per lo studio dei terremoti, che meritò gli elogi di Leone XIII, fu inaugurato il 16 marzo 1884 con un’accademia in cui erano presenti tra gli altri due illustri scienziati, il De Rossi e il P. Denza, che fu amico del fondatore di Pompei. Non è da escludere che al Longo abbia parlato con ammirazione il Card. Monaco La Valletta, primo delegato pontificio di Pompei, nativo dell’Aquila, amico e ammiratore del Vicentini.
Il 7 marzo 1891 il Longo invitava Mons. Vicentini a venire a Pompei; questi rispondeva il 12 dello stesso mese, ringraziando anche per l’invio della ”Storia del Santuario di Pompei”, inviatagli in omaggio e professando umilmente la sua modestia: “Non dissimulo il timore che la mia parola non dovesse esser pari all’importanza della solennità, in paragone d’illustri oratori che la renderanno più splendida con la loro eloquenza”. Presentiamo i punti più salienti di questo discorso, che in verità presenta momenti di rara bellezza ed emotività.
Il Testo del discorso
Il discorso di Mons. Vicentini è intitolato “La Chiesa e l’Italia nella Valle di Pompei”. Fu stampato dalla Tipografia Vecchioni dell’Aquila, della quale il prelato si serviva abitualmente, porta la data del 1891 ed il titolo: “Discorso pronunciato da Mons. A.A. Vicentini, Arcivescovo di Aquila, nel Santuario di Pompei il dì 24 Maggio 1981, pp. 20. Noi mettiamo tra parentesi il numero delle pagine da cui traiamo i brani riprodotti alla lettera.
L’oratore si mantiene su un tono di elevata ispirazione, con richiami alla storia ed all’ambiente, domandando con accenti di caldo amor patrio la soluzione della Questione Romana, che in quei decenni avvelenava i rapporti tra Stato e Chiesa in Italia.
Parte dal ricordo della permanenza di Leopardi sulle falde del Vesuvio e sull’immortale canto di Leopardi intitolato “La Ginestra o il Fiore del deserto”, composto dal Leopardi più o meno una cinquantina d’anni prima, allorché il poeta abitava nella villa che porta anche oggi il suo nome, a pochi chilometri di distanza dal Santuario pompeiano.
Esprime la sua ammirazione per il poeta e la sua arte, ma ovviamente non può condividere il suo pessimismo “sull’infinita vanità del tutto”, che egli vuol correggere appunto completando la visione poetica, che sosta sul deserto, richiamando la fioritura di vita e di profumo che in pochi anni è esplosa attorno alla città di Maria. Alla ginestra si è ora aggiunta la rosa di Gerico, il cedro del Libano, il fiore del Carmelo; là dove c’era dolore e desolazione, c’è ora gioia e benedizione.
L’oratore si domanda: “Donde siffatta trasformazione e da chi? Allo scetticismo desolante d’una filosofia che pietrifica il cuore umano, ecco la fede irradiata di nuova luce ed ispiratrice di più nobili affetti! Alla infelicità della vita ecco il ricambio di più alti destini per lo spirito umano! Alla minacciata rovina della patri e della Chiesa, ecco la speranza di nuovi trionfi alla Chiesa e alla patria! E donde l’augurio? Da questo nuovo fiore germogliato dalla radice di Jesse che apparso in questa valle da quindici anni si chiama Maria del Rosario! Da questa splendida rosa che del suo misterioso profumo riempie la pianura ed il monte! Dalla celeste Regina che ha prescelto sotto questo storico cielo, e di fronte a quel limpido mare il suo padiglione! È stato per Lei che ci troviamo dalla ginestra alla rosa!
E dalla ginestra alla rosa è il passaggio! Dalla Venere Pompeiana alla grande Castellana d’Italia, come l’ha chiamata un idealista dei nostri tempi! Ed è qui il suo nuovo castello. Qui, dove era il deserto, la privilegiata sua sede per spandere agli agitati popoli una nuova vita di fede e di amore, qui il suo Santuario, preludio di nuove glorie alla cattolica Italia!” (p. 5)
La pace sociale e politica
Mons. Vicentini chiede ai suoi uditori di non meravigliarsi se “in una cattedra sacra e in una congiuntura così solenne, in cui si festeggia Maria del Rosario nel nuovo suo Tempio, debbano da me congiungersi insieme due nomi che oggi più che mai si vogliono affatto separati e divisi, la Chiesa e l’Italia” (p. 6).
In questa dimensione sociopolitica della sua catechesi, l’oratore di fatto accoglie in pieno il cuore del messaggio pompeiano, che consiste nel non isolare la religione rispetto alla concretezza circostante, ma nel fonderla con essa, in maniera che la pace civica favorisca la crescita armonica dell’uomo e della società. Egli traccia un affresco storico nazionale, e grandi scorci, dal quale risulta evidente l’armonia dei due poteri, sorretti maternamente dalla presenza della Madonna.
“Solo l’apostasia, egli dice, può ridere di queste tradizioni e di questa fede infusa e tradotta nei costumi e nei sentimenti nativi del popolo nostro”. In questa eredità la venerazione della Madonna gioca un ruolo d’importanza decisiva: l’avvento di Pompei è un punto d’arrivo felice e fortemente producente. Perché?
Qui, Mons. Vicentini accoglie pienamente la tesi di Bartolo Longo, che è poi quella che Leone XIII ha espressa in una dozzina di encicliche dedicate al Rosario: il Rosario, cioè, è l’arma di vittoria contro le eresie e le deviazioni di tutti i secoli cristiani. In verità a questo punto l’oratore imbraccia la spada della polemica e del rigetto della secolarizzazione e della ripaganizzazione d’Italia.
Dice il Vicentini: “Ebbene quando il tramonto del secolo si chiama progresso il ritornare venti secoli addietro all’antica civiltà pagana, quando il naturalismo invade un’altra volta la società e ne prepara inaspettate rovine, quando nuove e più terribili eruzioni minacciano d’inabissare il mondo morale e civile, quando la chiesa si annunzia morta e sepolta, e la patria in preda a convulsioni titaniche: ecco Maria corre un’altra volta in aiuto, e sotto l’antico monte dove il soffio di Dio accese il fuoco dello sterminio, il fuoco di Sodoma e Gomorra, Ella solleva il tabernacolo della misericordia per annunziare una nuova vita alla Chiesa e raffermare la sua predilezione all’Italia” (p. 10).
Questo quadro apocalittico non è tracciato per scoraggiare, ma per rilanciare l’entusiasmo cristiano: ciò tanto nell’oratore, che nel fondatore di Pompei. Infatti è proprio dalla nuova realtà pompeiana che la risurrezione della Patria riprenderà slancio: “Dopo tanti secoli, ecco la Nuova Pompei, nel cielo Campano, nella valle del Sarno, di dolcissimo odore nuovo profumo, che il deserto consola” (p. 12).
La rinascita nazionale
Il nuovo tempio pompeiano è per l’appunto il motore della ricostruzione cristiana della società, cominciando da quella nazionale. A questo punto ci si consentirà di richiamare una bella pagina, piuttosto estesa, del discorso vicentiniano: essa può essere indicata come la dimostrazione del valore sociologico e politico del Rosario.
Egli dice: “Ma chi non ne vede la vera ragione nell’effetto, nella venerazione e nella riconoscenza del popolo italiano a Maria, venerazione e riconoscenza di cui rimarrà monumento imperituro questo Tempio che sarà preludio di novella vita al secolo che si avvicina? E questo dimostra quello slancio universale di fede che in quindici anni è quasi protesta contro i nuovi Iconoclasti ed è segnale di nuovi avvenimenti al secolo imminente!
Quando si proclama che la fede è morta, quando s’intima l’ultima battaglia alla Chiesa, quando da ogni parte si ripete che l’Arca di Dio è caduta in mano de’ Filistei, ecco per altrettanti gradini quanti sono i misteri del Rosario, dai gaudiosi si passa ai dolorosi, e da questi ai gloriosi che nell’itinerario della Chiesa ricorrono come i flutti del mare che dopo la tempesta si ricompongono in una tranquilla bonaccia. Sono i corsi e i ricorsi sui quali ha voluto Iddio galleggiasse la mistica nave, per mostrare a dati periodi la vitalità della Chiesa, e con pari analogia confermare ciò che disse Bonaventura della patri nostra: “Italia tentata aliquando, mutata nunquam! Di qui la sapienza di un Pontefice che di fronte alla lotta medesima ricorre alle armi stesse, e fa appello al Rosario quando tutto il popolo nell’ora del pericolo, come per istinto, ricorre a Maria!” (pp. 13-14).
L’arma del Rosario, egli prosegue, sotto la bandiera di Maria, specialmente quella di Lepanto (1571), “ci diede i grandi guerrieri, gli illustri pubblicisti e i diplomatici più celebrati in Europa”. L’esplosione di grazie che si è verificata a Pompei è la garanzia del rinnovamento di questa fioritura, che nel contempo è religiosa, culturale, sociale e politica. Egli infatti soggiunge: “Era vita e quella è vita intellettuale, che arricchì le nostre biblioteche, vita morale che garantì la libertà dei cittadini, vita sociale che fondò l’indipendenza dei Comuni e le grandi repubbliche. E come col Rosario alla mano la Spagna si liberava dai Mori, col Rosario il Portogallo annunziava la loro sconfitta nelle pianure dell’Alentejo, così l’Italia con l’Ave Maris stella ricacciava la luna Ottomana sui lidi del Bosforo!
Or con siffatte memorie sarà ingenuità la nostra o piuttosto una fondata speranza il credere che intorno a questo Santuario possano rinnovarsi le stesse glorie e gli stessi prodigi? Non dovremmo vedere con gli occhi nostri tante migliaia di credenti, che vengono ogni giorno, a ringraziare Maria, non dovremmo udire intorno a queste mura il canto innocente delle orfanelle che alla regina delle vittorie intrecciano il loro rosario; non dovremmo vedere nuove case di operai che domandano a Maria la benedizione del lavoro, nel momento che altri per scioglier il loro problema ricorrono alla dinamite e al petrolio; non dovremmo ammirare tanti edifici che accennano ad una nuova città che il secolo ventesimo troverà distesa ed ampliata in questa valle che prima era deserto, e la chiamerà civitas perfecti decoris et gaudium universae terrae! E dove ripeteranno i posteri – Benedicti erunt qui teaedificaverunt, e rivolti a Maria canteranno esultanti: tu autem laetaberis in filiis tuis! (pp. 15.16).
L’auspicio per due secoli, anzi per tre
Le legislazioni, soggiunge il Vicentini, negli ultimi decenni, sono state avverse alla fede. Fatica inutile dei legislatori, i quali “possono tradurre in legge la loro apostasia, ma tali leggi non sono che un suggello di cera lacca sopra un vulcano, come disse un giorno il compianto Win dthorst”, vale a dire che la storia e la fede scioglieranno come cera al fuoco queste legislazioni ingiuste. La parte finale del discorso è un auspicio di rinnovamento globale sotto la protezione della Vergine di Pompei. Mons. Vicentini ne invocava la benedizione sull’Ottocento che ormai era alla fine, esattamente cent’anni fa, e sul Novecento, che volge alla fine ora, sotto i nostri occhi. Crediamo sia perfettamente legittimo estendere questo auspicio anche al Terzo Millennio, che già vediamo spuntare all’orizzonte: ci separano da esso appena nove anni.
Mons. Vicentini così concluse il suo discorso: “E l’ordine, la prosperità e la pace per noi, pei nostri nepoti e pei futuri, non è che Maria del Rosario! Essa è la stella dell’alba che fiammeggia sull’oriente e manda alla nuova Pompei il primo suo raggio. Essa è il Sole che nel pieno meriggio riscalda i cuori anche più freddi che non palpitavano di amore.
Essa è la luna novella che nella notte dell’errore viene a dissipare le tenebre che offuscano le menti: e se Maria è sola bellezza ed armonia nell’ordine di natura e di grazia, sarà dessa che darà la consegna del secolo muore e quello che nasce! Non è dubbio che i due secoli fra poco si troveranno di fronte, come i due campi che si contrastano il dominio del mondo – Da una parte i figli dell’Eva antica, i figli della carne e del sangue che nella vecchia Pompei non trovando la civiltà antica e scrutando le vecchie rovine non vi scovrono se non il serpe che vi si annida e vi si contorce.
Come dicea Leopardi, il serpe che si ciba di terra e porta nel suo capo la maledizione di Dio! È il nome dei Babilonesi e degli egiziani, ma non fu mai delle genti latine. Dall’altra parte i figli della fede e della grazia che adorano la Vergine che col niveo piede ha schiacciato quel rettile, ed oggi nella nuova Pompei la invocano aiuto dei Cristiani. Si troveranno così le due città di fronte che raffigureranno l’alta idea di Agostino nelle due città che si disputano l’impero del mondo, la città del male e quella del bene, la città di Satana e quella di Dio, la città della morte e quella della vita, l’una su cui trionfa la giustizia, l’altra in cui domina la misericordia, la prima distrutta dal fuoco, l’altra vivificata dalle acque della grazia.
Insomma la vecchia e la nuova Pompei! Salutiamo dunque nella valle della benedizione la regina delle vittorie che nella valle di Engaddi confonderà i Moabiti ed i Sirii: salutiamo la Vergine che restituirà nuova vita alla Chiesa ed alla patria nell’accordo del laicato col sacerdozio e della civiltà con la Religione: salutiamo il trionfo di cui questo Tempio sarà monumento ai popoli dell’unità della fede e dell’amore!” (pp. 18-20).
Il lettore non si lasci troppo impressionare da questa robusta contrapposizione tra sacro e profano, tra Chiesa e società. È un frutto della situazione storica dilacerata della fine dell’Ottocento. D’Altronde sappiamo che Mons. Vicentini fu uno dei prelati più “dialogici” del suo tempo, e ne avremo una dimostrazione evidente allorché prossimamente ci occuperemo dei suoi rapporti con gli anticlericali e i laicisti del suo tempo.                               
Ma anche l’entusiasmo oratorio aveva i suoi diritti; ed il sacro oratore del 24 maggio 1891 giustamente ne tenne conto.
(Autore: Rosario F. Esposito)
Quel 5 Maggio del 1901
“La Sposa dalla faccia bella”
Con queste parole Bartolo Longo indica l’inaugurazione della facciata della Chiesa di Pompei. Il monumento fu costruito con offerte raccolte in tutto il mondo mediante moduli di sottoscrizione ricoperti da oltre 4 milioni di firme.
"Fratelli e sorelle sparse per l’orbe, il Monumento promesso è già innalzato: io vi aspetto il 5 Maggio, prima domenica del mese sacro alla regina del Rosario di Pompei di questo anno giubilare del Santuario pompeiano (1876-1901).
L’invito, o fratelli, è per voi. Il voto, per me. L’augurio per tutti. Vorrei che la mia lingua sapesse tradurvi tutta la foga dei sentimenti, di speranza, di conforto, di giubilo, di vittorie, che si avvicendano nella mia mente e nel mio cuore ogni volta che mi pongo a pensare quel giorno solenne e memorabile, quando si mostrerà la “bella faccia” di questa novella sposa di Cristo. Io amo la Chiesa di Pompei come sposa dell’animo mio a cui ho consacrato tutti gli aneliti e gli affetti più vivi del mio cuore. Essa è l’oggetto dei desideri per tanti anni nutriti, tra le ansie e le trepidazioni di un cammino arduo e difficile; ed essa sarà la corona della mia vita” (B.L.).
Abbiamo raccolto qua e là degli scritti di Bartolo Longo, pubblicati al cadere del secolo scorso e, di proposito ci asteniamo ad ogni commento per evitare di materializzare espressioni così preziose di intensa spiritualità: l’incanto mistico di un cuore così ardente di fede.
Autore del progetto della facciata, fu il Cav. Giovanni Rispoli, napoletano, “ormai per Lui il Tempio di Pompei è la cosa più cara che abbia al mondo. Che i risultati ottenuti gli siano di sprone a raggiungere quella meta che tanto agogna, e che formar dovrà la pagina più preziosa della sua vita artistica” (B.L.). Il Rispoli, professore onorario del Regio Istituto delle Belle Arti di Napoli, architetto di valore, artista geniale, concepì la grande facciata del Santuario Pontificio Pompeiano con amore infinito; sorretto da fede profonda ne diresse magistralmente i lavori alla guida di uomini di fatica, di operai, di artisti.
“Con sentimenti di ammirazione e di gratitudine segnaliamo i nomi della gloriosa falange di artisti, impresari, capi d’arte e fornitori della Facciata Monumentale del Santuario di Pompei.
Uomini valorosi, cui tributiamo il nostro reverente saluto e quello degli innumerevoli devoti di questo Santuario” (B.L.).
Il materiale per la costruzione, era tutto di origine italiana. Bartolo Longo, con orgoglio quasi campanilistico, in un appunto aveva scritto: “Tutto materiale italiano e lavorato da operai italiani in maggior parte della provincia di Napoli e Salerno”. Per la facciata in prevalenza fu impegnato il travertino. Il calcare fu estratto dai fianchi del Monte Tifata, della catena degli Appennini, presso Capua. È uno dei migliori travertini: basti pensare che di esso si servirono Masuccio II, nel 1328, per la costruzione della famosa torre campanaria di S. Chiara in Napoli e, nel 1752, il Vanvitelli per la famosissima Reggia di Caserta. Le cave però erano state abbandonate; B. Longo, con enorme dispendio, le rinnovò affinché la facciata del Santuario di Pompei fosse costruita con gli stessi materiali già adoperati per il Campanile così famoso e per una Reggia così splendida. Al travertino si aggiunse il granito di Gravellona-Toce, ed il bianchissimo marmo di Carrara. Solo per le due piccole colonne che decorano la loggia papale, fu impiegato, per la prima volta in Italia, il granito rosso di Finlandia. Gli unici due pezzi stranieri sulla facciata del Tempio. A tale proposito B. Longo scrisse: “Anche la Russia ha avuto il suo contingente di benefici: pochi benefici spirituali invero, poiché il suo governo non permette la diffusione di stampe cattoliche, ma la Russia ha mandato le colonne preziosissime di granito rosso della Finlandia che adornano la loggia papale della facciata ed ha ricevuto in cambio l’oro di questo Santuario”. “L’opera pompeiana è l’opera della pace universale, 1900).
La spesa complessiva sostenuta per la costruzione dell’intero Monumento ammontò ad un milione e settecentomila lire; era costruita dalle generose offerte raccolte in tutte le parti del mondo mediante moduli di sottoscrizione ricoperti da oltre quattro milioni di firme. I moduli, rilegati, formano una serie di otto grossi volumi e rappresentano il plebiscito dei popoli per la pace universale, secondo il concetto espresso dal promotore del plebiscito stesso: l’Avvocato Bartolo Longo.
La cerimonia dello scoprimento della facciata era stata fissata per il 5 Maggio del 1901 alle ore 12. Il programma della solenne inaugurazione del Monumento, pubblicato in marzo dello stesso anno, prevedeva, tra l’altro, a grandi linee: L’esecuzione dell’inno della pace universale ed il discorso di Bartolo Longo incentrato sul ringraziamento solenne delle persone che con la fiducia in Lui, con l’offerta e la fede, avevano consentita la realizzazione di un’opera oltremodo ardimentosa. Alle ultime parole dovevano cadere gli ampi velari che coprivano la novella facciata mentre echeggiavano le note della marcia trionfale eseguita dalle bende musicali riunite; in concomitanza, le campane del Santuario, suonando a distesa, avrebbero annunziato a tutta la Valle del Sarno l’inaugurazione del Monumento alla Pace. Non sarebbero mancati i rituali spari di mortaretti e l’accensione di una miriade di bengali. A chiusura, nutriti stormi di colombi viaggiatori, sprigionati dalle arcate della loggia, avrebbero raggiunto, forieri della lieta novella, le città lontane.
Il programma fu rispettato con meticolosa puntualità. Il 5 Maggio alle ore 12 precise, gli ampi velari che coprivano la facciata caddero; immenso fu lo stupore della folla che si accalcava sulla piazzetta antistante, sui balconi, sui terrazzi dei caseggiati; quelli più lontani si erano persino muniti di binocolo. Il discorso di Bartolo Longo commosse tutti; a noi piace riportare testualmente un passo, forse il più accorato. L’oratore si rivolge agli operai. “Operai, fratelli miei che per venticinque anni siete stati a me vicini ed insieme abbiamo lavorato, voi con le braccia ed io con la mente, tutti con amore. Fratelli operai, oggi il nostro lavoro è compiuto. Noi ci dovremmo separare, ma i nostri cuori non saranno giammai separati, tra noi ci sarà un perpetuo legame: Gesù Cristo, il primo operaio che è pure la nostra comune aspettazione. E quando io scenderò da questo luogo e mi avvicinerò a quel Monumento, che voi con tanto amore avete lavorato, io bacerò il piedistallo della prima colonna, e baciandolo intendo baciare ed abbracciare tutti gli operai che hanno messo mano a questo Monumento” (B.L.).

                           

Il Maggio del 1901 compendiava i primi 25 anni di storia dell’opera religiosa e sociale in Valle di Pompei; un’impresa singolare sorta nel mezzogiorno d’Italia tramite l’erezione di un Santuario redimito di prestigiose istituzioni sociali, caritative, educative. Si concludeva il primo grande ciclo dell’avventura pompeiana di Bartolo Longo. Un quarto di secolo storicamente più importante, essenziale, più fruttuoso perché ispirato e guidato dalla Provvidenza. (Autore: Nicola Avellino)

*1901 - Un Monumento alla Pace Universale

“Fratelli, è questo il giorno, ed è questa l’ora segnata dai decreti divini pel compimento di un disegno di ordine mondiale. In quest’ora solenne, noi, grazie alla Divina provvidenza, grazie ai miracoli della Regina del Cielo, grazie al vostro concorso, in quest’ora, tutti noi siamo lieti di dare all’Italia una città nuova, al mondo il Santuario.
È questo il giorno, ed è questa l’ora in cui venticinque anni indietro, accompagnati dal Vescovo di Nola e da trecento signori napoletani, ponemmo la prima pietra di questo Tempio, - di questo Tempio oramai divenuto di fama mondiale -  che forma l’amore e il sospiro di tutti i popoli.
A quel punto, là, ove sorge l’ara massima del santuario, venticinque anni or sono, in quest’ora noi piantammo la Croce di Cristo sulle zolle mosse, in una campagna deserta, presso il dissepolto Anfiteatro pompeiano, a vista del Vesuvio sterminatore. Non vi era qui, nei dintorni della solitaria Pompei, né un albero, né una casa: questo spazio, ove veggo sì eletta folla trepidante di aspettazione e di mille affetti, questo spazio non era che un campo seminato di lupini e di rape.
E su quel campo noi piantammo la Croce incivilitrice dei popoli, e ponemmo una Imagine lacera, che costò tre lire; ma quella era l’Imagine della Regina trionfatrice che sempre vince… ed ha vinto! Oggi, in capo a venticinque anni, la terra che voi calpestate non è più seminata di rape e di lupini, ma è il pavimento di una sacra Reggia, è il suolo di una nuova città: la citta di Maria.
Accanto allo scheletro della Pompei pagana sorge la città novella, la Nuova Pompei, redimita dei portati del moderno progresso, abbellita dal sorriso di Dio, esaltata dai miracoli della Regina dell’Universo. Qui, per opera di questa Regina, le due civiltà – l’antica e la nuova, la pagana e la cristiana – si guardano in faccia.
E voi, fratelli miei e sorelle mie, siete venuti da lontano per testimoniare questo miracolo nuovo, accaduto al tramontare del Secolo Decimonono.
Senonché voi oggi vi trovate qui non solamente come testimoni di questo fatto di ordine mondiale, ma come miei cooperatori e grandi benefattori in quest’Opera cui hanno messo mano e cielo e terra. Perocché quest’Opera è sorta, è vero, per i miracoli della Vergine, ma è pur vero che essa è stata edificata ancora per la vostra fede e per la vostra carità.
Vi ha di più. Voi oggi, oltre a rappresentare il mondo nell’opera della Fede, compiutasi qui a prezzo di venticinque anni di trepidazioni, di ansie, di fatiche, di lotte e di vittorie; voi rappresentate il fiore della civiltà, perché siete venuti i primi ad inaugurare il primo monumento che si erge sulla terra della Pace Universale.
Voi aprite il pellegrinaggio del mondo a Valle di Pompei per la Pace, a questa terra benedetta, ove da cinque lustri si avvera la fratellanza delle nazioni: voi aprite la marcia dei popoli verso la conquista di questo bene sociale che è la Pace. Dietro di voi verranno le nazioni a continuare l’Opera vostra: ma voi eravate designati nel libro dei decreti divini a segnalare questa ora, in cui dopo venti secoli di Cristianesimo, s’inaugura su questa classica terra di Pompei un Monumento degno di stare a fronte ai classici Monumenti della civiltà pagana.
La Facciata, che or ora sarà scoperta ai vostri sguardi, è degno perfezionamento del Santuario mondiale di Pompei…
Fratelli! Il momento è giunto, aspettato da venticinque anni, in cui io debbo consegnare l’Opera di Dio, l’Opera che la vostra fiducia a me affidava.
Ma prima che io mi diparta da voi conviene che vi lasci un ricordo, il mio testamento, nel vero significato ebraico della parola che suona patto, promessa, alleanza: alleanza perpetua tra l’animo vostro e il mio, tra il mio cuore ed i cuori di tutti i miei fratelli sparsi per l’orbe.
Il mio testamento è questo: Vi lascio la pace.
Raccomando a voi questo Santuario. Con quell’amore con cui l’avete edificato, finitelo, custoditelo, accrescetelo.
Raccomando al vostro cuore queste Orfanelle e questi Figli dei Carcerati che insieme abbiamo salvati ...
Sotto lo sguardo della Madonna di Pompei, ed ai raggi benefici della vostra carità, quelle e questi si educhino al bene, all’onestà ed al lavoro: e con la vostra carità cresca ogni dì il numero dei beneficati, salvando tanti altri fanciulli derelitti e miseri.
Non ho altro da aggiungere: mi resta solo invocare su di voi la benedizione della Pace.
Vi benedica Iddio, a cui voi avete innalzato un tempio su questa terra di fronte ai templi della pagana Pompei.
Vi benedica la Vergine Maria, a cui avete eretto un Trono, donde sparge le sue misericordie per tutta la terra.
Vi benedicano gli uomini, che voi avete edificati con la vostra virtù, con la vostra pietà, con le vostre beneficenze.
Vi benedicano gli Angeli, a cui per venticinque anni siete stati spettacolo nuovo di una fede incrollabile, di una speranza inconcussa, di una carità senza confini…”.          
(Avv. Bartolo Longo – da: “Il Rosario e la Nuova Pompei”, 1901, pp. 125-138)
Un’Opera d’arte, di fede e di carità
Nel 1901 veniva inaugurata la facciata del Santuario, il Beato Bartolo Longo commenta con entusiasmo questo evento additandolo come esempio concreto d’impegno per la fratellanza, la concordia tra gli uomini e la Pace universale.
"Mentre gli statisti discutono, i congressisti si radunano, i governanti si impensieriscono, i pietosi sperano, le popolazioni si immiseriscono e le campagne mancano di agricoltori, in Valle di Pompei abbiamo già eretto un Monumento attestante il desiderio dei popoli, la preghiera dei credenti e l’aspettativa di quel bene sociale tanto desiderato ed invocato: la Pace. E sotto gli occhi di tutti è sorto, a testimonianza del desiderio di tutti, il Monumento di arte e di fede, la Facciata del Santuari, attestante il plebiscito dei poveri e dei ricchi per la Pace Universale".
Lo scritto di Bartolo Longo è del marzo 1901 e conserva, purtroppo ancora intatta, la sua cocente attualità. Abbiamo letto il bel passo per ricordare il movente di un’opera insigne in cui l’arte, la fede, la carità e la fraternità si congiungono in perfetta armonia per significare nella pietra il sospiro e la preghiera di ogni uomo per la pace universale.
Il Santuario era nato infatti come opera di fede e di carità: un prestigioso disegno con la mira principale di affratellare gli uomini di ogni razza, di ogni colore, di ogni lingua. Cominciato con l’obolo umile di pochi fedeli, si portava a compimento con l’offerta, spesso generosa, del mondo intero. La Cina, l’India, le Americhe, l’Europa, in special modo, avevano concorso alla edificazione di un’opera di così vaste proporzioni: uomini di origini e di culture le più disparate, avevano univocamente aderito ad un programma che inneggiava alla fratellanza, alla carità, alla pace.
Già nel Febbraio del 1886, dalle pagine del periodico Il Rosario e la Nuova Pompei, Bartolo Longo aveva levato la sua voce suadente invocando il concorso per un’opera religiosa e sociale e ne aveva fatta propaganda in tutto il mondo, con l’intento di ottenere il consenso e l’offerta universale, da spendersi per il Monumento della Pace Universale.
La prima pietra fu collocata il 15 maggio 1893, lunedì, alle ore 10,30. Il rito fu presieduto dal Cardinale Raffaele Monaco La Valletta, decano del Sacro Collegio assistito dai Vescovi delle diocesi limitrofe e dal numeroso Clero Pompeiano.
Alla presenza di una folla immensa di fedeli in preghiera, la prima pietra della nuova e grandiosa facciata del Santuario, fu benedetta e rinchiusa in una teca di marmo pregiato. Nella stessa teca si collocarono tre monete e tre medaglie della Vergine di Pompei, una pergamena che recava scritti i nomi di Bartolo Longo e della Contessa sua Consorte, del Cardinale Monaco la Valletta e di tutti i sacerdoti addetti al Santuario. Il simbolico involucro fu calato nelle viscere della terra come a rappresentare il fertile seme di un’opera tanto ardimentosa. Per un anno e sette mesi, cioè fino a tutto il 1894, si lavorò entro terra per le fondazioni che, per la natura geologica del sottosuolo, la minacciosa vicinanza del Vesuvio e per le pesanti moli di pietra da sovrapporre, esigevano più tempo, perizia, diligenza, e soprattutto, spese ingenti. Ai primi del 1895 si pose mano alla costruzione della parte visibile (fuori terra) della facciata; il lavoro, condotto con alacrità, si protrasse fino al 14 marzo 1901. In quel giorno si installò, al vertice del timpano, l’effige della Madonna e l’opera, davvero grandiosa, poteva considerarsi compiuta.
La statua, alta metri 3.25, rappresenta la Vergine del Rosario in piedi; sulla sua base di marmo aggettante, secondo l’antico desiderio del Vescovo di Nola, Mons. Giuseppe Formisano, si sarebbe dovuto scrivere a grandi lettere di bronzo: "Non nobis, Domine, non nobis; sed nomini tuo da gloriam" (Non a noi, non a noi, ma al tuo nome dà la gloria).
Bartolo Longo per ispirata disobbedienza, fece incastonate, invece, su quel marmo, la parola PAX. E lo fece con profonda convinzione. Più tardi, infatti, scriverà risoluto: "Il mio testamento è questo: vi lascio la pace". Un giovane napoletano, lo scultore Gaetano Chiaramonte, appena uscito dalla scuola della R. Accademia delle Belle Arti di Napoli "l’aveva levata dal marmo": un colossale monolito di Carrara, bianchissimo. Don Bartolo non tralasciò l’occasione per creare una cerimonia significante: la benedizione della statua della Vergine prima che fosse issata sul fastigio della facciata. "Con questa benedizione che cosa intendiamo fare? Noi col benedire questo marmo, che è l’effige della Vergine, della Regina di questa Valle, benediciamo anche gli operai che per 25 anni hanno spese le loro fatiche; i benefattori di tutto il mondo, tutti quelli che ci hanno dato modo per compiere l’opera che Dio affidava al vostro e nostro cuore. È compiuto il Monumento glorioso che porterà ai secoli venturi la memoria e l’attestato indelebile e imperituro della nostra fede e della nostra carità" (B. Longo)
Ed ancora (stralciamo da qualche pagina inedita di ricordi di don Bartolo": "Oh! La cara e indimenticabile festa di ieri! Io non la scorderò più. Era festa dell’arte ma era ancora festa di coloro che hanno dato il loro obolo, il loro aiuto all’opera divina pompeiana; era festa degli operai, era festa dei bambini, era festa di quanti amano Maria, era ancora festa di tutti coloro che sospirano la pace nel mondo. Ieri dunque a Valle di Pompei si faceva opera di inizio di pace, ieri a Valle di Pompei si poneva quasi termine al Tempio per la Pace: il monumento auspicatissimo per la concordia dei popoli. Io assistetti, e, col cuore commosso, mi unii alle lacrime ed agli slanci di tenerezza che vidi balenare sul volto di tanti". Infine, concluse perentorio: "… io intendo prima che la benedizione discenda su tutti coloro che lavorano per questa pace che indarno si aspetta dai governi e dai congressisti. Noi la Pace la vogliamo da Dio e per mezzo della Madonna che è la Regina della Pace". (Autore: Nicola Avellino)

*07.05.1939 - 50.mo Anniversario del Santuario

"Nel 1934 ho iniziato a lavorare, quale scalpellino in architettura, nella Basilica di Pompei, fino al 1939. Ho trattato pietre provenienti da tutto il mondo: dal Belgio, dalla Francia, dall’Australia, dal Canada, dalla Russia, da Trani, da Carrara e dal Piemonte con il suo granito cipollino o rosso".

È la viva testimonianza del sig. Marino Machetti, anni 76, che venne a lavorare per l’ampliamento del Santuario di Pompei, un anno dopo l’inizio dei lavori e che ancora oggi, quando entra in Chiesa, tutte le sere per la Messa prova "una grande emozione nel vedere le colonne" che egli stesso ha contribuito a mettere in opera (30 tonnellate ciascuna), con una fatica certamente improba, se si pensa che i mezzi tecnici non erano quelli attuali.
Dinanzi allo straordinario, crescente, - forse anche inatteso nella consistenza – coinvolgimento dei fedeli, dinanzi all’interesse del mondo per Pompei, l’originario disegno del luogo di preghiera formulato da B. Longo si rivelava ormai inadeguato, insufficiente: di qui il dilemma se optare per una nuova Chiesa o ampliare quella già officiante. Non si trattava, infatti, di semplice problema di spazio, ma anche di rispetto verso l’esistente, e cioè verso quella struttura eretta da B. Longo e consacrata nel 1891, che era costata sudore, sacrifici, impegni, entrata a far parte ormai della memoria della marianità del popolo, costituita oggi dalla navata centrale fino alla crociera.
Prevalse così la seconda ipotesi: l’architetto archepito fi Mons. Spirito Chiappetta, delegato espressamente dal Vaticano. "Con me, prosegue Marino Machetti, hanno lavorato i geometri Rossi e Bellone, proveniente quest’ultimo da Milano, c’erano Masto Michele (Capo ferraiolo), l’assistente Giardini, che curava la muratura  ed Erminio, che curava la carpenteria, c’era Pietro Vitiello che ha fornito puzzolame, breccia, arena e che trasportava tutto il materiale con traini e carrette".
Dietro tutto questo, il Prelato Mons. Anastasio Rossi, Patriarca con la sua fermezza, la piena consapevolezza di dover dare alla preghiera del Rosario e della Supplica un’atmosfera di più ampio respiro, più preziosa persino nei particolari, generosa nei marmi delle colonne, nelle pitture. "I meravigliosi affreschi dell’abside, della cupola e di quant’altro pertinente la lunghezza della Basilica, furono eseguiti in gran parte dall’emerito pittore prof. Landi.
Il rivestimento in rame della cupola centrale e di quelle laterali più piccole, fu eseguito dalla ditta Ascolese da Sarno. Per ampliare fu eliminata la vecchia sacrestia, il corridoio che immetteva nella canonica dei sacerdoti e un ampio giardinetto… anche la scala di accesso per salire in Prelatura fu abbattuta…".
È il prof. G. Clemente che parla con i suoi ricordi, la voce emozionata dei suoi 78 anni. I tempi di attesa i pompeiani li trascorrevano seguendo le trasformazioni che i lavori creavano nel monumento, mentre raccoglievano e ricevevano i contributi che la Provvidenza non aveva mai lesinato. Dall’inizio dei lavori, il 2 ottobre 1933 ultimo dei 15 sabati in preparazione alla festa del S. Rosario, alla consacrazione del 6 maggio 1939, sarebbero passati quasi 6 anni.
"La nuova Chiesa che viene a coprire una superficie di circa 2.000 metri quadrati è cinque volte più grande della precedente che misurava solo 421 mq. La cupola si spingeva a soli 29 metri di altezza, mentre l’attuale innalza la sua croce a 57 metri dalla piazza"; è quanto si legge in una monografia del 6 maggio 1939, quando il Cardinale Luigi Miglione, segretario di Stato di Pio XI, il Papa dei progetti arditi, compie la consacrazione.
Dalle pagine del periodico, nel numero maggio/giugno 1939, parte lòa descrizione del grande avvenimento, ripreso, peraltro, dai giornali del tempo, diffuso radiofonicamente. Si trattò di un momento edificante, perché l'ampliamento del’a Basilica, al di là della sua valenza erchitettonica e della sua preziosità estetica, costituiva la prova tangibile che il messaggio mariano affacciatosi quasi immediatamente nella realtà locale, per essere ascoltato aveva richiesto una casa più grande, un maggior numero di confessionali, una schiera più fitta di nsacerdoti per celebrare, per ascoltare, per diffondere la parola di Dio. Si trattava del miracolo della preghiera, dell’arte, dell’ascolto, della generosità, tutti aspetti che a dieci lustri di distanza si inseriscono in una realtà mariana immutata nello spirito, anche se al passo con i tempi.
(Autore: Luigi Leone)
50° anniversario dell’ampliamento del Santuario
Cinquant’anni fa il Santuario della Vergine del Rosario era cinque volte più piccolo di quello attuale.
Il tempio che lo stesso Fondatore, il Beato Bartolo Longo († 1926), aveva costruito dal 1876, posa della prima pietra, al 1891, si era rivelato insufficiente ad accogliere i devoti che a migliaia affluivano a Pompei. Si rendeva necessaria una soluzione.
All’ipotesi di un nuovo Santuario, si preferì, per ragioni affettive, procedere all’ampliamento di quello già esistente.
Il progetto dell’architetto, sac. Spirito M. Chiappetta, conciliò le varie esigenze. Occorsero sei anni di duro lavoro (1934-1939), ma i risultati furono estremamente lusinghieri. Il 7 maggio 1939, il nuovo tempio fu consacrato e dedicato da Sua Eminenza il Cardinale Luigi Maglione, Segretario di Stato di Pio XII.
Cinquant’anni, da allora, sono trascorsi e milioni di pellegrini e visitatori hanno con diversità di accenti espresso il loro amore alla vergine ed hanno imparato, guidati da Lei, ad essere "pietre vive" dell’edificio spirituale che è la Chiesa di Cristo.
È quanto ha voluto sottolineare il Cardinale Opilio Rossi, Presidente della Commissione cardinalizia per i Santuari di Loreto, Bari e Pompei, intervenuto alla celebrazione dell’anniversario: "Quello dunque che noi ammiriamo qui costruito materialmente deve richiamarci ad una ben più alta realtà, che pulsa all’interno dell’anima nostra; quello che vediamo qui fatto con pietre, deve avvenire, mediante la divina grazia, nei nostri cuori.
Dobbiamo essere consapevoli di appartenere all’unica Chiesa di Cristo e di sentire di conseguenza il dovere di essere pietre viventi sviluppando in noi quelle virtù che ci qualificano veri cristiani di fronte al mondo, forti nella fede, consolidati nella speranza, compaginati nella carità.
Saremo così pietre inserite nel mirabile edificio di Dio, di cui questa nostra sontuosa basilica è immagine".
(Autore: Pasquale Mocerino)

*23.04.1965: 50.mo Incoronazione - Paolo VI, il Papa che incoronò Maria
È il 23 aprile 1965 quando Papa Paolo VI presiedette, nella Basilica di San Pietro, la Messa per l’incoronazione dell’effigie della Madonna di Pompei: Il 19 febbraio precedente, era giunto, all’Istituto di restauro del Vaticano, il Quadro della Vergine, da cui i devoti si erano "staccati" non senza dispiacere. Ma il tempo aveva inferto alla tela le sue inevitabili ferite e quel viaggio era indispensabile a porvi rimedio.
Il Santo Padre tenne, in quella storica celebrazione, cui partecipò un numero straordinario di fedeli, provenienti non solo dalla Campania e guidati dall’allora Arcivescovo Prelato, Monsignor Aurelio Signora, un’omelia meravigliosa, intrisa della profonda cultura fi Papa Montini.
Parole non prive di afflato poetico. "Ci commuove il fatto, che ora devotamente compiremo, - disse nel "plurale maiestatis" dell’epoca – di dovere noi stessi, con mani tremanti, rimettere sulle sacre effigie di Gesù e di Maria, le preziose corone, che la vostra pietà e la vostra generosità, servite da arte squisita, vogliono espressione simbolica del sommo onore dovuto a Cristo, e per suo riflesso alla sua santissima Madre".
Un Papa, il vicario di Cristo sulla terra, che, rispetto alla Madonna, ha "mani tremanti" d’emozione. Ma il ritorno alla bellezza dell’opera d’arte doveva portare ad un’ancor più profonda conoscenza e devozione per la Madonna. "Come il restauro di questo quadro mette in limpida evidenza le sembianze della Vergine, così il restauro della nozione che noi abbiamo di Maria ci deve portare ad una più nitida, più vera, più profonda conoscenza di lei, quale la sacra Scrittura, la Tradizione,
la dottrina dei santi e dei Maestri della Chiesa ci hanno delicatamente delineata".
Nel suo discorso, Paolo VI ricordò anche la figura del fondatore, il Servo di Dio Bartolo Longo (che in seguito sarà beatificato da San Giovanni Paolo II il 26 ottobre 1980) e tornò con la memoria ad una sua esperienza personale.
Nell’aprile del 1907, quando aveva appena nove anni, aveva infatti visitato la Basilica della Beata Vergine con i suoi familiari, insieme ai quali aveva pregato dinanzi al trono di Maria.
Quel Quadro sarà riportato a Pompei in processione, attraversando, tra ali di folla, alcuni quartieri di Napoli ed altre città della Campania: San Giovanni a Teduccio, Portici, Torre del Greco, Torre Annunziata.
"Il Rosario e la Nuova Pompei", il periodico del Santuario, parlerà di "festa di paradiso". È anche per questo che l’annuncio della canonizzazione di Paolo VI, resa nota da Papa Francesco durante il concistoro del 19 maggio scorso, è stata accolta con gioia dai devoti della Madonna di Pompei.

(Autore: Giuseppe Pecorelli)

*50.mo dell'Incoronazione della Vergine del Rosario di Pompei da Paolo VI - 23 aprile 1965
E Papa Montini con "mani tremanti" incoronò la Vergine
Cinquant’anni fa il Quadro della Madonna di Pompei fu incoronato dal Beato Paolo VI. Era il 23 aprile 1965. Il ritorno a Pompei dell’Icona venerata, che da Napoli attraversò i comuni costieri, fu una vera festa di popolo. Ecco i ricordi di Mons. Pietro Caggiano, testimone diretto di quei giorni rimasti nella storia.
È sempre bello ed utile ricordare i compleanni o gli anniversari che, grazie a loro memoria, danno senso anche al futuro. Con piacere riferisco alcuni episodi ed informazioni sull’eccezionale evento riguardante la nostra Icona.
Era il 1965 ed ero sacerdote solo da tre anni, quando si rese necessario il restauro della venerata Immagine. È ben noto che le opere d’arte, ai fini di una buona e lunga conservazione, hanno bisogno di cura e ordinaria manutenzione. Il quadro della Madonna del Rosario fu donato a Bartolo Longo, fondatore del Santuario, nel novembre 1875. Non era in buone condizioni, d’altra parte era stato dipinto circa duecento anni prima ed aveva subito i contraccolpi di un trasporto malagevole durante le missioni popolari dei domenicani dell’Italia del Sud. Quando l’avvocato Longo ricevette il Quadro da Suor Maria Concetta De Litala ebbe da esclamare: "Ohimè! Provai una stretta al cuore al primo vederlo. Era non solo una vecchia e logora tela, ma il viso della Madonna, meglio che di una Vergine benigna, tutta santità e grazia, pareva piuttosto quello di un donnone ruvido e rozzo. Chi mai dipinse questo quadro? Misericordia!". Giunto a Pompei, l’Immagine fu oggetto di una pulizia superficiale ed, in seguito, nel maggio 1879, di un restauro accurato ad opera del pittore Federico Maldarelli.
Nel corso degli anni si moltiplicarono i devoti, sia italiani sia stranieri, che donavano ex voto "per grazia ricevuta". Oggetti d’ogni genere segno di devozione. Alcuni tra i più pregiati furono letteralmente appesi alla Tela, ma il loro peso indebolì o ruppe alcuni fili del tessuto, provocando la caduta di parte della pittura. L’umidità ed il calore del clima locale, invece, influirono nel deterioramento dei colori. Si giunse così al 1965 quando si rese assolutamente necessario un restauro radicale. L’Arcivescovo Aurelio Signora, allora Prelato di Pompei, scrisse a Papa Paolo VI implorando l’intervento di tecnici vaticani, che ne garantissero la qualità e la veloce esecuzione dei lavori. Si voleva così evitare la lunga assenza dell’Icona durante le visite dei fedeli. Ne seguì un’operazione molto delicata per il valore religioso e storico del Dipinto. Le tre fasi essenziali si svolsero alla presenza di Don Mario Pinzuti, monaco olivetano, direttore dell’Istituto di Restauro Vaticano. Furono rimossi "i preziosi" catalogandoli uno ad uno: un adeguato servizio fotografico documentò la condizione del Quadro prima e dopo i lavori. Seguì l’imballaggio ed il trasporto in Vaticano sotto scorta ed, infine, dal 19 febbraio al 20 aprile, fu realizzato il restauro tecnico. Mi impressionò l’attenzione e devozione di coloro che partecipavano, con le più disparate mansioni, all’esecuzione del progetto per il migliore risultato.
Il direttore chiuse così la relazione: "Dopo tale ritocco la venerata Immagine; riacquistato il primitivo aspetto, è tornata alla sua bellezza artistica, senza nulla perdere della tradizione devozionale acquisita". Questo fu il terzo restauro, effettuato a 90 anni dall’arrivo della Tela a Pompei. Va ricordato che nel 2012, per iniziativa dell’Arcivescovo Carlo Liberati, l’Immagine è stata mirabilmente restaurata nei laboratori dei Musei Vaticani.
Sin dall’origine, nel Quadro, la nostra Madonna e Gesù hanno sul capo le rispettive corone d’oro, simbolo della regalità spirituale. Dopo il restauro sembrò naturale la sostituzione delle antiche corone con altre nuove, più adeguate alla sobria presentazione dell’Icona, avendo rimossi la maggior parte dei gioielli. Papa Paolo VI, che aveva approvato e facilitato il restauro e si era costantemente informato sul suo evolversi, volle vedere le corone prima di compiere il rito dell’incoronazione. Fu per me un’esperienza indimenticabile aver partecipato alla loro custodia nel corso dei vari trasporti.
La sera del 21 Aprile il Quadro fu collocato nella Basilica di San Pietro sul trono preparato per la speciale occasione. Seguirono due giorni d’intensa venerazione da parte di migliaia di romani e di pellegrini provenienti dalla Campania. Il 23, alla presenza di cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e laici, il Santo Padre celebrò la Santa Messa ed il solenne rito dell’Incoronazione.
Mi piace citare alcuni passi dell’elevata e calorosa omelia: "Avremo un cenno, che ci sembra doveroso per riconoscenza e per ammirazione, alla memoria del Servo di Dio Bartolo Longo, a cui Pompei deve il suo Santuario, le opere che lo circondano e l’immenso alone di pietà mariana che ne rende famoso nella Chiesa e nel mondo il nome benedetto (…) Né possiamo dimenticare il giorno lontano, nell’Aprile del 1907, quando Noi fanciullo, con i Nostri piissimi Familiari, visitammo per la prima volta il Santuario di Pompei e pregammo davanti alla sacra Immagine, che ora abbiamo il gaudio di vedere e di venerare davanti a Noi. E Ci commuove il fatto, che ora devotamente compiremo, il dovere Noi stessi, con mani tremanti, rimettere sulle sacre effigie di Gesù e di Maria, le preziose corone, che la vostra pietà e la vostra generosità, servite da arte squisita, vogliono espressione simbolica del sommo onore dovuto a Cristo, e per suo riflesso alla sua Santissima Madre, (…) Come il restauro di questo Quadro mette in limpida evidenza le sembianze della Vergine, così il restauro della nozione che noi abbiamo di Maria ci deve portare ad una più nitida, più vera, più profonda conoscenza di Lei, (…) quale la recente parola del Concilio Ecumenico ci ha sapientemente riassunta".
Alle ore 14 si partì dal sagrato della Basilica di San Pietro ed alle 15, sotto una "benedetta pioggerellina", si giunse all’Ospedale San Giovanni dove gli ammalati, a nome di tutti i sofferenti dell’Urbe, diedero il saluto all’Immagine diretta alla Cattedrale di Napoli, dove si vegliò in preghiera e canti tutta la notte. Il 24, nel primo pomeriggio, si avviò il "ritorno a casa" attraversando, come avvenne per la prima volta il 13 Novembre 1875, le vie della città costiere. Dovunque una folla incalcolabile, orante ed osannante, salutava l’Icona su di un carro addobbato a festa con fiori e drappi di velluto e seta.
I pompieri diedero il benvenuto alla Madre con le tradizionali luminarie e i fuochi d’artificio, che squarciarono l’oscurità della notte. All’epoca non mancavano alcune voci, che mal interpretando il Concilio Vaticano II, consigliarono di non eccedere nell’entusiasmo della devozione mariana per "non interferire con il nascente Ecumenismo". Ma la Madre attrasse i suoi figli: furono tremila le persone che parteciparono all’incoronazione per mano di Paolo VI e che "riaccompagnarono" il Quadro a Pompei.
Questo trionfo terreno mi fa pensare ad alcune parole di Bartolo Longo, a commento del quinto mistero della Gloria: "O Regina bellissima, io non pretendo di vederti in terra, ma voglio venire a vederti in Paradiso; e Tu me l’hai da ottenere (…). Ma Tu trionfa finalmente di questa anima a te dedicata, e come tua serva fedeli la proteggi, la difendi dagli assalti de’ suoi nemici, la copri sotto il tuo bel manto, ne rendo felice la morte e beata l’eternità. Così spero, e così sia".
(Da: Il Rosario e la Nuova Pompei di maggio 2015 – Autore: Pietro Caggiano)

*07 Maggio 1987: Centenario dell'Incoronazione della Vergine del Rosario

Un secolo di devozione mariana

La Meravigliosa storia di una città dove tutti sono concittadini
Autorità civili, militari, religiose e migliaia di fedeli hanno partecipato alle celebrazioni centenarie
La visita del Segretario di Stato al Comune di Pompei
Maggio 1987: la città di Pompei riceve il Cardinale Agostino Casaroli, inviato da Papa Giovanni II, come suo Legato, per il Centenario dell’Incoronazione della Vergine del Rosario, in risposta all’invito ricevuto, di persona, dal Prelato Mons. Domenico Vacchiano. Nel maggio del 1887, la nascente Pompei accoglieva il Cardinale Raffaele Monaco La Valletta. Il Legato che Leone XIII inviava nella Valle di Pompei, rispondendo così all’invito rivoltogli dall’Avv. Bartolo Longo e dalla Contessa De Fusco, durante l’udienza ad essi accordata il 14 aprile di quello stesso anno.
Gli eventi si rincorrono e nella sostanza esprimono il percorso della città nel suo nascere, nel suo divenire, nel suo rimanete legata all’antica e nel suo proiettarsi nel futuro. Così, il 7 maggio, il Legato del Pontefice, Segretario di Stato, Card. Casaroli è stato ufficialmente ricevuto dal Sindaco nella sala consiliare di Palazzo De Fusco, accompagnato Domenico Vacchiano, Vescovo-Prelato di Pompei, dal Nunzio Apostolico in Italia S. E. Luigi Poggi e dal Vescovo Mons. Zama.
All’autorevole ospite il Sindaco Marchetti ha rivolto l’indirizzo di saluto, a nome della città, "onorata – ha detto testualmente – dalla significativa presenza del rappresentante del Pontefice nella terra di Maria. Pompei riceve nella Sua persona il Papa e le Sue stesse intenzioni, avvertendo tutto l’impegno e la responsabilità che le derivano nei confronti del mondo, sul piano del cattolicesimo, su quello della cultura e del tessuto civile: esempio, onestà, cristianesimo si coniugano qui nel nome del Rosario, hanno come risposta la carità sociale e la preghiera". I pellegrini, i visitatori, i turisti, chiamiamoli pure come vogliamo, continuano a giungere da ogni dove, sono delle zone limitrofe e di ogni latitudine: il loro numero, indipendentemente dalle stime statistiche, si può evincere dalle particole, che i sacerdoti dispensano durante le celebrazioni eucaristiche: quest’anno ne sono state distribuite 4 milioni.
Un secolo di storia
Cento anni or sono la folla era diversa: c’erano gli indigeni, i fedeli dei paesi vicini, l’aristocrazia napoletana, i rosarianti che si spostavano dalle diverse città d’Italia, dall’Europa. Erano persone che vivevano i problemi e la fede del loro tempo e avvertivano l’esigenza di pregare. È quello che accade anche adesso, in un mondo nel quale il progresso ed il pluralismo delle idee sono la caratteristica più evidente.
"Se per sommo beneficio di Dio Onnipotente… la sacra Immagine della Vergine di Pompei, venne incoronata, a nome del Romano Pontefice, da un suo Legato, anche oggi, con lo stesso ardore e con la stessa devozione vogliamo anche noi, che ne siamo i Successori, non solo ricordare il fatto, ma espressamente vogliamo siano oggetto di speciale celebrazione, sia il titolo sia anche il luogo e ciò diciamo, perché vengano esaltati insieme alla Vergine di Pompei il santo Rosario e il suo glorioso Santuario… Proprio per questo abbiamo pensato a Te, Venerabile Fratello, ad essere il nostro Personale Legato, nel presiedere alle solenni celebrazioni che, in occasione della Supplica del prossimo 8 maggio il Santuario suole organizzare… Sia una celebrazione che ricordi e ravvivi quel primitivo fervore che, auspice il Beato Bartolo Longo, segnò l’inizio della sua opera caritativa e sollievo e istruzione degli orfani…".
Con questo messaggio personale Giovanni Paolo II ha affidato al Cardinale Casaroli l’incarico di essere a Pompei: è lo stesso Pontefice che ha pubblicato l’Enciclica "Maria Madre del Redentore", che ha proclamato Beato Bartolo Longo; è quel Pontefice che, avverando la profezia di Don Bartolo, è venuto a visitare il Santuario Mariano affacciandosi dal balcone della Basilica, benedicendo i presenti, i lontani, i giovani delle Opere sociali, i sofferenti, accorsi per vederlo. Il messaggio porta la data del 13 aprile 1987 e, straordinariamente, ci riporta al 14 aprile del 1887, quando Leone XIII, ricevendo Bartolo Longo, gli annunciava che sarebbe stato presente a Pompei per l’incoronazione di Maria nella persona del Cardinale La Valletta.
La partecipazione dei pellegrini
Per questo la Supplica di quest’anno centenario ha assunto un significato particolare, anche se nulla è stato toccato nel susseguirsi della celebrazione: nelle ore dell’antivigilia, infatti, prima della discesa del quadro, la città si è andata via via popolando soprattutto da parte dei gruppi di fedeli che giungevano a piedi, recitando il Rosario, intercalando i quindici misteri con canti rivolti alla Vergine. Uno spettacolo antico e nuovo, presente anche ora che esiste la possibilità di raggiungere la città più comodante, con mezzi motorizzati pubblici o privati.
Dinanzi al quadro sfilato, si soffermano, pregano persone di ogni ceto e di ogni età durante il giorno, durante la notte: rivive in questo andirivieni lo stesso tipo di risposta che Bartolo Longo ricevette in occasione della incoronazione della Vergine, per un’ora di guardia. Era una guardia d’onore, che doveva compiersi con la recita delle quindici poste del Rosario: "Per tal modo, egli scriveva, in tutta la vigilia del gran trionfo di Maria, questa Cappella sarà trasformata in un Paradiso…".
L’appello viene idealmente accolto ad allora, anche in pieno secolo ventesimo, nell’era del computer e delle conquiste stellari. Esso viene espresso nel raccoglimento, nella devozione, nella commozione, nello stupore dell’essere in tanti, nella fede e nella pietà, mentre si attende il giorno dopo; quando le stesse persone si sono ritrovate, il Cardinale Agostino Casaroli, il Nunzio Apostolico per l’Italia S. E. Luigi Poggi, il Vescovo Vacchiano, il Vescovo di Castellammare di Stabia, il clero, le orfanelle, gli orfani delle Opere, tutti insieme, la notte fra il 7 e l’8 maggio, davanti a Maria.
L’Omelia del Cardinale Casaroli
E si giunge alla concelebrazione eucaristica nella legittima attesa dell’omelia e della recita della Supplica.
L’Omelia viene pronunciata dal Legato Pontificio: dal racconto "incantevole" del Vangelo secondo Luca, il Presule ci ha condotto a Nazareth "il borgo sonnacchioso", dove la gente badava alle proprie faccende "nasceva, moriva, soffriva, si allietava". Qui, a Nazareth, nella "pienezza del tempo" sarebbe giunto il Messaggero a visitare la Vergine "che aveva trovato grazia presso Dio", alla quale avrebbe annunciato la misteriosa quanto sublime maternità. "Eccomi", avrebbe risposto Maria, e pronunciando questo "fiat" avrebbe dato inizio al mistero della Redenzione, di un altro "fiat" altrettanto provvidenziale, nella gioia, come nel dolore, nella morte e nella resurrezione.
"Col Rosario nella mano, Bartolo Longo – ha detto il Cardinale Casaroli -, risvegliò le coscienze dei contadini della Valle, oppressi dalla miseria… trasformò in una terra di risurrezione e di vita una terra di morti… Anche per noi Cristo, e con Lui la sua Madre, restano al centro della storia umana, e della nostra…
Se questo tempio è grandioso monumento di fede intrepida, le Opere che lo circondano sono frutto dell’amore, che della fede è il fiore più bello. Una corona alla vergine, esse sono, non meno preziosa – certo – di quello che, cento anni fa, esattamente, un altro Legato del Pontefice Romano, il Card. Monaco La Valletta, posava sul capo dell’Effige della Madre del Salvatore e del suo Figlio divino. Oggi noi commemoriamo solennemente quell’evento… e ripetiamo, rivolti a Maria: e tu copri con il manto della tua onnipotenza supplichevole la chiesa…; il Papa che è presente qui, oggi, davanti alla tua effige venerata, nell’umile persona del suo Legato; il mondo e l’Italia…".
Da ogni parte, ma concittadini della stessa città
Tutto questo è esplicito ed implicito nella Pompei Mariana: preghiera e carità, un connubio molto prezioso, che assume in sé il senso della giustizia e la regalità dell’amore, che esprime "un secolo di devozione, un secolo di prodigi". E, infatti, tenendo conto di questo connubio fra civiltà, carità e giustizia che tutta la città vive gli eventi della religione e della religiosità sul piano civile: il popolo di Pompei ha mostrato la sua riconoscenza al Legato Pontificio, non solo, ma ha espresso anche il voto di mantenersi degno del Fondatore della città, creando un clima umano e cristiano, dove le diverse civiltà trovano possibilità di coesistenza e di progresso. Si tratta di procedere all’unisono, nei contenuti operativi, con "l’estensione geografica nella quale il popolo cristiano con fede e devozione cerca vivamente di aprire il cuore per un incontro con la Madre di Dio"; si tratta di ripetere il grazie delle nuove generazioni a Bartolo Longo ed a quanti gli furono accanto nella costruzione spirituale e materiale di Pompei; si tratta di rendere omaggio ai Pontefici che da allora continuano a guardare con occhio attento al Santuario; si tratta di riconoscere alle autorità civili il senso di responsabilità che hanno verso questo aspetto della città; si tratta, ancora di essere tutti coinvolti, ed attivamente, in un disegno provvidenziale vissuto quotidianamente, nella assiduità miracolosa dell’amore verso il prossimo.
Il momento della recita della Supplica rientra in questo grande disegno: esso coinvolge il residente abituale, l’uomo della strada, il visitatore italiano e straniero, dal tedesco al giapponese, all’americano e richiama, contemporaneamente, come è accaduto quest’anno, personalità della cultura, della politica, come il Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, On. Antonio Gava, il Prefetto di Napoli, Dott. Agatino Neri, il Sen. Francesco Patriarca, l’On. Carmine Mensorio, e altri ancora, che si mischiano fra la folla e non si distinguono più, nel nome della Vergine del Rosario e del Santuario.
(Da: Il Rosario e la Nuova Pompei di luglio e agosto 1987 – Autore: Luigi Leone)

*1997: Inaugurazione della cappella di San Giuseppe Moscati

L’Associazione dei Medici Volontari San Giuseppe Moscati ha dato inizio alle sue attività culturali con una conferenza sulla figura di "Giuseppe Moscati: medico e Santo", tenuta dal Prof Dott. Luca Steardo, docente presso la facoltà di Medicina dell’Università di Bari, uno dei fondatori dell’Associazione.
La conferenza ha avuto luogo il 22 dicembre 1997, nell’ambito dell’inaugurazione, benedizione e dedicazione a San Giuseppe Moscati di una nuova cappella nel Santuario di Pompei, presiedute
dall’Arcivescovo Mons. Toppi.
La cerimonia è avvenuta alla presenza di numerose autorità, tra cui: Mons. Cece, Vescovo della diocesi di Castellammare, il Prof. G. Donsì, Rettore dell’Università di Salerno, il Prof. R. Pasquino e il Prof. F. De Simone, Presidi rispettivamente della facoltà di Ingegneria e di Farmacia dell’Università di Salerno, il G. Uff. Gen. U. Ianniello dell’O.E.S.S.G. e il Prof. Sandro Staiano, Sindaco di Pompei.
Spinta dalla presenza dell’Associazione nelle Opere di Pompei, Mons. Toppi, ha inteso interpretare un’aspettativa largamente diffusa tra i fedeli e dare testimonianza di una profonda devozione verso questo laico Santo dei nostri giorni, che nella pratica della sua professione seppe in maniera impareggiabile profendere, accanto ai frutti di un altissimo sapere scientifico, luce di fede e ardore di carità.
"Decisione questa particolarmente attesa e da tutti sentita opportuna" – ha sottolineato il Prof. Steardo – "soprattutto se si considerano i rapporti di caritatevole servizio che Moscati intrattenne con le Opere di Pompei. Difatti egli volle prestare come volontario, con la gratuità dell’atto d’amore più autentico, la propria opera di medico a quanti, in qualunque modo, appartenessero alle Opere".
Il relatore ha poi rimarcato come Moscati fosse stato capace di superare limiti della visione dell’uomo del suo tempo. Egli "si formò in un ambiente culturale in cui si operavano i primi tentativi di riduzionismo biologico che desacralizzava la vita e imprigionava l’uomo in schemi classificatori ponendolo alla sommità della scala evolutiva, ma privandolo di ogni dignità di trascendenza. Egli seppe sfidare queste concezioni vivendo costantemente l’impegno di medico che riconosce in Dio l’origine della vita e il suo destino ultimo".
Il Prof. Steardo ha poi continuato ricordando le tappe salienti della carriera accademica e ospedaliera di Moscati, rimarcandone l’originalità delle ricerche, il rigore intellettuale degli approcci e la visione estremamente moderna della medicina che caratterizzarono la sua opera di ricercatore e di clinico.
"Anticipatore con spunti originali di tante scoperte future, Moscati seppe, al tempo stesso, evitare il rischio di scomposizione dell’uomo, insito nella medicina moderna.
(…). Ma Egli seppe resistere ad un rischio ancora maggiore rappresentato da un meccanicismo che disumanizza la medicina riducendo l’uomo al suo fisicismo, escludendo la dimensione spirituale della malattia e negando che essa, al di là del suo substrato fisico, riguarda l’uomo nella sua interezza (…). Soltanto la volontà di cogliere nella sofferenza il senso che travalica il biologico, può introdurre la medicina nel mistero dell’uomo (…).
D’altra parte però, il solo accostarsi all’ammalato con sentimenti di umana solidarietà non
porrebbe l’opera di Moscati al di fuori di una tradizione deontologica del pensiero occidentale che muove dalle posizioni etiche espresse nel giuramento di Ippocrate.
Se si fosse mosso in questo alveo di sentimenti e su questo registro di pensiero sarebbe stato un "medicus perfectus".
Invece fu medico santo perché intuì sempre e in ognuno la sacralità della vita, la sua intangibilità, il suo valore supremo. Fu consapevole che c’è un Dio prima e dopo la vita e che l’uomo di scienza può aiutare veramente l’umanità solo se è capace di conservare il senso della trascendenza dell’uomo sul mondo e di Dio sull’uomo.

Fu santo perché fi credente capace di trovare un fondamento trascendente per l’etica, di radicare l’agire morale ad un pensiero forte, in un Dio personale che si è fatto uomo e si è fatto crocifiggere per la salvezza del genere umano.

E questa capacità di ancorare l’agire medico ad un credo religioso è quanto mai necessaria oggi, dinanzi alle gravi problematiche morali derivanti dai progressi della medicina che scuotono profondamente le coscienze degli operatori sanitari".
Infine, il relatore ha concluso ricordando che "Moscati non è un santo solo per i medici. Egli seppe operare cristianamente in tutte le espressioni del suo agire quotidiano, e la Chiesa lo offre come esempio a tutti quanti intendono percorrere sentieri di vita cristiana nel lavoro, nella famiglia, nella società civile".
Alla fine della cerimonia ciascuno è andato via riflettendo sull’esemplarità della figura di questo medico Santo e considerando che non possiamo rimanere sordi ad una tale chiamata, se non vogliamo venir meno al nostro impegno di essere cristiani.
(Autore: Maria del Rosario Steardo)

*101.10.2022/01.10.2023: Cammino Giubilare Longhiano

Il 1° ottobre è iniziato l’Anno dedicato al Beato, che con il suo esempio era riferimento sicuro per i suoi contemporanei e continua a parlare all’uomo di oggi. Intensissimo il programma, un “viaggio” che si concluderà il 31 ottobre 2023 e sarà percorso tra celebrazioni, momenti di preghiera, incontri, approfondimenti. Un tempo per riscoprire il carisma del Fondatore e l’identità stessa di Pompei.
Ripartire da Bartolo Longo un faro per il nostro tempo
Incontri, approfondimenti, momenti di preghiera, celebrazioni, ma ogni Cammino Giubilare è anche penitenziale, di rinascita. A tal riguardo Papa Francesco, per l’intera durata dell’Anno giubilare, ha concesso l’indulgenza plenaria a chiunque visiti il Santuario o sosti in preghiera dinanzi alle reliquie del Beato Bartolo Longo, alle solite condizioni: Celebrazione Eucaristica, Sacramento della Riconciliazione, recita del Credo e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre. Nella foto accanto, il Decreto della Penitenzieria Apostolica.
Si è aperto ufficialmente, il 1° ottobre scorso, il Cammino Giubilare Longhiano, un Anno speciale indetto per celebrare il 150° anniversario dell’arrivo del Beato Bartolo Longo a Pompei. L’evento, che si concluderà il 31 ottobre 2023, è stato presentato alla stampa, il 28 settembre, nella Sala del - la Curia della Prelatura di Pompei. «Nel mese di ottobre 1872 – ha ricordato l’Arcivescovo, Monsignor Tommaso Caputo – il Beato Bartolo Longo, Fondatore del Santuario, delle Opere di carità e della stessa Nuova Città di Pompei, arrivò per la prima volta nell’allora Valle desolata.
Vi giunse per amministrare i beni della Contessa Marianna Farnararo, vedova De Fusco, che diventerà non solo la sua consorte, ma anche la cofondatrice del Santuario. Possiamo dire che quel giorno, per questa terra, cambiò ogni cosa». «Intorno al Santuario, la cui prima pietra fu posta nel 1876 – ha proseguito il Prelato – cominciò a svilupparsi una vera e propria Città: gli istituti per l’accoglienza degli orfani e dei figli dei detenuti, l’ufficio postale e telegrafico, via Sacra, le case operaie, la sta - zione ferroviaria, la fontana pubblica. Fu sì uomo del - la Madonna, apostolo del Rosario, ma ebbe anche un indiscutibile ruolo sociale e civile. Bartolo Longo parla - va ai contemporanei e continua a parlare all’uomo del nostro tempo».
È proprio per rimarcare quest’aspetto che Monsignor Caputo ha rivolto una Lettera alla Città e ai fedeli dal titolo “Dall’illuminazione interiore di Bartolo Longo un nuovo slancio per Pompei e un model - lo per il mondo”. «Abbiamo bisogno – ha spiegato ancora – di guardare all’esempio del Beato, qui ed ora, in un tempo di difficoltà gravi, dalla guerra in Ucraina alla complessa uscita dalla crisi sanitaria, dalla povertà in continuo aumento, anche nel nostro Paese, alla crescente conflittualità che corrode la società.
Direi anche che abbiamo bisogno delle parole di Longo e, tra i segni di questo anno speciale, ve n’è uno al quale un’equipe di studiosi ha lavorato per anni e con grande passione e impegno. Pubbliche - remo a breve il volume introduttivo all’Edizione Critica degli scritti di Bartolo Longo perché tutti possano attingere alla fonte originale del Beato».
Ad entrare nel dettaglio degli eventi del Cammino Giubilare Longhiano, è stato Monsignor Pasquale Mocerino, Rettore del Santuario, che ha sottolineato come «la Chiesa di Pompei sia una Chiesa per il mondo, una Chiesa ad extra» come confermano le oltre 130 chiese e cappelle intitolate alla Madonna di Pompei, censite in Italia e in decine di nazioni. «Nel corso dell’Anno longhiano – ha detto – proporremo ai pellegrini un focus dedicato alla figura del Beato e coinvolgeremo gli eredi dei compagni di viaggio di Longo a cominciare dagli ordini e dalle congregazioni religiose, innanzitutto le Suore domenicane “Figlie del Santo Rosario di Pompei”, che fondò, e i Fratelli delle Scuole Cristiane, che operano a Pompei dal 1907». L’Anno longhiano ha avuto inizio con un intenso mese di ottobre: la recita della Supplica nella prima domenica; la festa del Beato celebrata il 5; la preghiera del “Buongiorno a Maria” elevata all’alba di tutti i giorni, dal lunedì al sabato.
E ancora, il 19 ottobre, si è tenuto l’incontro dedicato al XX anniversario della pubblicazione della “Rosarium Virginis Mariae”, la Lettera Apostolica di San Giovanni Paolo II sulla preghiera del Rosario, con gli interventi dell’Arcivescovo Domenico Sorrentino, Vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e Foligno, e di Margaret Karram, presidente del Movimento dei Focolari, al quale, insieme al Santuario di Pompei, Papa Wojtyla affidò la promozione della preghiera del Rosario. Il 26 ottobre, poi, il Coro “Mysterium Vocis”, diretto dal maestro Rosario Totaro, e l’Orchestra “Artemus”, diretta dal maestro Alfonso Todisco, hanno proposto in Santuario un concerto in occasione del 42° anniversario della beatificazione di Bartolo Longo. Durante la serata è stato eseguito, in prima assoluta, l’Inno al Beato, composto dal maestro Nicola Hansalik Samale.
Infine, il 29 ottobre, in via Arpaia, la località dove il Beato nel 1872 sentì l’ispirazione interiore: «Se cerchi salvezza, propaga il Rosario. È promessa di Maria. Chi propaga il Rosario è salvo!», si è tenuta una celebrazione commemorativa che ha coinvolto, in modo particolare, le cinque comunità parrocchiali della Città.
Nel corso della presentazione alla stampa degli eventi del Cammino Giubilare Longhiano, don Ivan Licinio, Vicerettore del Santuario, ha annunciato il vincitore del concorso di idee “LO(n)GO design contest”, aperto ai giovani di Pompei dai 18 ai 35 anni, per la creazione di un progetto grafico che, con unico logo, riuscisse a comunicare quanto accadde 150 anni fa. «La storia del Fondatore – ha rimarcato – ha tanto da dire ai nostri ragazzi. È una vicenda esemplare, che saranno i giovani a dover tramandare».
È risultato vincitore il logo di Elio Sorrentino, che mette in evidenza il numero 150 ed esprime, in modo stilizzato, il legame tra Pompei e la Madonna, con il profilo del campanile e la corona del Rosario, di colore rosso pompeiano a sottolineare il riferimento all’antica città romana.
“Dall’illuminazione interiore di Bartolo Longo un nuovo slancio per Pompei e un modello per il mondo”
È questo il titolo della Lettera che l’Arcivescovo Prelato, Monsignor Tommaso Caputo, ha rivolto alla Città e ai fedeli in occasione dei 150 anni dall’arrivo del Fondatore a Valle di Pompei

                 

I n occasione dell’inizio dell’Anno Giubilare Longhiano, l’Arcivescovo di Pompei, Monsignor Tommaso Caputo, ha inteso rivolgere alla Città e ai fedeli una Lettera intitolata “Dall’illuminazione interiore di Bartolo Longo un nuovo slancio per Pompei e un modello per il mondo”. Il testo è introdotto dalle parole dello stesso Fondatore della Nuova Pompei, che racconta, nel volume intitolato “Storia del Santuario dalle origini al 1879”, il suo primo arrivo nella “Valle sconsolata”, definita «solitaria, triste, temuta, fuggita da gente civile». Era l’ottobre 1872 quando il Beato si ritrovò in Località Arpaia, per le strade pericolose di quelle contrade e sentì un’ispirazione interiore: «Se cerchi salvezza, propaga il Rosario». Quel giorno la sua vita cambiò radicalmente e, negli anni, Longo fondò il Santuario, le Opere di Carità e la stessa Nuova Città di Pompei. Un fatto lontano nel tempo, ma che continua a parlare all’uomo contemporaneo, ai cittadini di Pompei così come ai devoti di tutto il mondo, in modo speciale in questo presente così complesso. «Ciò che sentiamo di dover fare oggi, per amore della nostra comunità, della Chiesa di Pompei e di tutti i devoti della Madonna del Rosario – scrive Monsignor Caputo – non è semplicemente sfogliare l’album da quell’illuminazione interiore in poi. Ma vedere come essa possa continuare, oggi, in questo primo drammatico scorcio del terzo millennio, a segnare il nostro cammino e, quel che più conta, diventare paradigma di un “nuovo inizio” non solo per la città di Maria, ma per il mondo intero». L’esperienza mistica del Beato segna, come spiega l’Arcivescovo, “un momento di svolta”. Quella scintilla iniziale diventa, citando il Libro dell’Esodo, un “roveto ardente”, fuoco che genera un nuovo inizio, del quale c’è, anche oggi e ovunque, assoluto e urgente bisogno. «Le crisi d’oggi si chiamano, più spesso, emergenze – considera il Prelato guardando al presente – abbiamo imparato a conoscerne tante e tuttora siamo nel pieno di un’emergenza sanitaria, sociale ed economica, per il Covid che fatica a togliere il disturbo e per un insensato conflitto nel cuore del nostro Continente». L’esempio del Beato e di chi, con lui, non si arrese alle difficoltà, traccia una via da seguire. «Il pensiero – prosegue la Lettera – ritorna a Valle di Pompei. A quella scintilla che diventò fuoco e che incenerì alla fine la sterpaglia che infestava i campi. Bartolo Longo e poi i pompeiani non furono “spaventati dalla crisi”, ricordando che, come afferma Papa Francesco, il “Vangelo stesso è il primo a metterci in crisi”. Sembrano scritte per la condizione di Valle di Pompei, le parole del Papa sulla crisi come prova che passa al vaglio e di fronte alla quale l’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni e dello smarrimento non fa sentire schiacciati». La disperazione non può appartenere ai credenti anche dinanzi alla più grave delle crisi. Ed è per questo che la Lettera dell’Arcivescovo diventa un invito alla speranza, a guardare il futuro con fiducia. L’esperienza del Beato diventa oggi programma anche per la Chiesa e la comunità civile di Pompei. «Via Arpaia – spiega Monsignor Caputo – potrebbe chiamarsi via del Rosario di Pompei o via della fondazione della città di Maria. Quell’attimo è diventato storia. Quell’attimo è cresciuto, via via ad accompagnare i passi di una comunità nuova che si è resa consapevole dell’ineffabile risorsa affidata nelle proprie mani e ne ha fatto tesoro. Era il Rosario a legare Bartolo Longo alla terra che si distendeva davanti a lui a partire da Località Arpaia. Era la preghiera a misura di Pompei, la città di Maria protesa verso il Regno celeste». In quel giorno dell’ottobre 1872 si posero le fondamenta del futuro della città, un futuro edificato nel terreno della fede: «I mattoni del coraggio, il cemento di una rinnovata speranza, la malta di una coesione sociale che si andava manifestando nella carità man mano che il nuovo cantiere prendeva forma». Si deve «riscoprire – esorta l’Arcivescovo – lo spirito di quel tempo, risvegliare l’entusiasmo sopito, ritrovare il gusto di investire sulla speranza». E questo riguarda non solo Pompei “in un nuovo millennio” che “non poteva presentarsi peggio”: «Dopo l’anno di straordinaria quiete del Duemila, quasi un atto di omaggio al Grande Giubileo nel segno della pace e della riconciliazione, ecco il feroce attacco alla Torri Gemelle e, nella scia di altri sanguinosi attentati, la vasta geografia di guerre dimenticate, fino al conflitto scatenato dalla Russia ai danni dell’Ucraina.
La guerra nel cuore dell’Europa e, prim’ancora, per quasi tre anni, il tormento di una pandemia che ha seminato lutti e sconvolto un mondo sempre più smarrito e disorientato». In tal senso quel che accadde in Località Arpaia «può essere modello per una rigenerazione a doppia mandata: culturale e sociale sì, ma in primo luogo spirituale» in un mondo che sembra aver accantonato il Vangelo, in un’Europa che assiste al tramonto della “christianitas”, «anima stessa di un continente per il quale il richiamo alle radici cristiane si estendeva ai due grandi polmoni dell’Oriente e dell’Occidente e, in senso geografico, dall’Atlantico agli Urali». Guardare a tutto questo è prendere atto della situazione, ma mai motivo per «indietreggiare o lasciarsi prendere dallo sconforto» perché «la via Arpaia di Bartolo Longo e le vie di salvezza sparse per il mondo, tornano a ricongiungersi alla luce del Vangelo, “lampada dei passi” per l’intera umanità».
C’è bisogno di persone che portino la Parola di Dio al mondo e questo ha anche un ritorno evidente sulla stessa società. Le comunità parrocchiali pompeiane sono chiamate a rendere possibile l’incontro tra le persone e il Vangelo. Lo stile dei credenti deve essere quello di Gesù, fatto, come esorta Papa Francesco, di tenerezza, incontro e vicinanza. E Monsignor Caputo ricorda anche la specificità propria di Pompei, sorta come «Città della Carità, dell’accoglienza dell’infanzia abbandonata». «Oggi più che mai abbiamo il dovere di guardare oltre e più lontano per mettere in pratica nella vita concreta e piena di ogni giorno, accanto ai fratelli e in primo luogo a chi soffre, la ricchezza di un’eredità che non può passare tra le nostre mani senza “ungerle” dell’olio buono della condivisione.
Non siamo stati chiamati a montare la guardia a un bel monumento, bensì ad essere le “sentinelle” di ogni nuovo mattino, che in questa nostra Chiesa locale, è annunciato dal canto a Maria». Solidarietà da un lato, evangelizzazione dall’altro.
È il modo in cui Pompei accoglie il messaggio che viene dall’evento dell’ottobre 1872 che cambiò, in Località Arpaia, la storia di questa terra. (Autore: Giuseppe Pecorelli)
Torna ai contenuti