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Storia del Santuario dalle origini al 1879

Il Santuario > Storia del Santuario scritta da B.L.

Libro Ottavo - pag. 431

Contraddizioni e letizie, umiliazioni e conforti
È questo, il titolo caratteristico di un intero anno di storia, del 1879, grave di avvenimenti, ora dolorosi ed ora prosperevoli, con straordinario intervento divino: anno di ricordanze tenere e funeste, e insieme di grande fede degli uomini e di sovrana gloria della Regina di Pompei.
Poiché è dovere di uno storico tramandare ai posteri la memoria delle persone eccellenti e benefattrici, concedi, o benigno lettore, , come debito di vicendevole carità, un sospiro ed una benedizione a quei cari nostri fratelli, i quali, primi a largheggiare di cura e di spese pel Tempio di Maria, primi sono spariti dalla terra dei viventi per vivere in seno a Dio. Anche a te, o fratello, o sorella, sarà serbato il compianto e la preghiera di migliaia di fratelli, cui unisce il vincolo universale e benefico della “Società del SS. Rosario”, diffusa per tutto l’orbe. E col citarne alcuni, intendiamo commemorare e benedire tutti gli ascritti già trapassati in quei primi anni della nostra Confraternita di spirito.
Il primo oratore che ardì nel 1876 (ed allora era un vero ardimento!) annunziare e promuovere dal pulpito di Montesanto l’umile ed ascosa intrapresa di un Tempio cattolico di costruirsi a Pompei, fi il P. Maestro Fr. Raffaele Cocoz, domenicano. Questo apostolo di Dio, onore del pergamo napoletano, e decoro dell’ordine dei Predicatori, insigne teologo, letterato, filosofo, poeta, bramato e venerato dalle prime città d’Italia e fuori, sparì ai viventi nell’anno 1879. La sua Madre e regina del Rosario lo incoronò, come ne abbiamo viva speranza, delle sue rose, che mai non appassiranno nella città dell’eterno amore.
Il P. Giuseppe Altavilla della C. di G. l’oratore spontaneo, eloquente, affettuoso, popolare, cui Napoli tutta desiderava nelle Chiese quando voleva lagrimare o eccitarsi a straordinarie imprese di religione: fu il primo predicatore d’una Chiesa a Pompei, nel 24 Maggio del 1876 in S. Domenico Soriano. Con la sua patetica parola suscitò quel giorno centinaia di zelatori per la novella Chiesa, ed ispirò il genio dell’esimio artista Comm. Federico Maldarelli a dipingere il primo quadro …
(Vedremo, come il Comm. Maldarelli non dipinse il Quadro dell’altare maggiore, conforme aveva promesso, perché questo era il posto destinato al Trono dell’Immagine portentosa della Vergine del Rosario; ma dipinse invece la bellissima tela dell’estasi di S. Caterina da Siena).
… per l’altare maggiore. Il lettore ricorderà che il 12 di Ottobre dello stesso anno sulle ruvide fondazioni del Tempio in Pompei il P. Altavilla disse parole di fede e di amore, e non lasciò mai più di propagare le meraviglie della Vergine del Rosario e la necessità del Tempio di Pompei, in qualsiasi chiesa o luogo si recasse a predicare. Anch’egli nell’anno 1879 riceverà da Maria il serto celeste delle sue mistiche rose.
E scomparve anche la insigne benefattrice della nascente chiesa, la nobile Contessa Rosalia Pignone del Carretto nata Lucchesi-Palli. Madre benefica di tutte le opere pie, la donna di verace e rara carità cattolica e letterata insieme, la quale, ammetteva tutti in sua casa, ricchi e poveri, niuno rimandando con le mani vuote. Parimenti non fu più tra le benefattrici viventi la nobile e pia Terziaria Domenicana Duchessa di Capracotta discendente dalla specchiata famiglia dei Marchesi D’Andrea che era illustrata da un santo e benefico Cardinale del medesimo casato. Ella era cresciuta sotto gli occhi e la protezione di quel gran Servo di Dio. Fra Antonino fratello converso domenicano, tanto noto pei suoi continui prodigi in Napoli, le cui ossa sono in deposito canonico nella Chiesa di S. Domenico Maggiore. Ella era consorte del nostro intimo amico che fu il Duca Piromallo Di Capracotta, anch’egli volato all’eternità, lasciando però a noi un costante benefattore nella persona di suo ottimo fratello il Conte Giacomo Piromallo.
Pace, o Signore, a tutte quelle anime che somministrarono una pietra per erigere il Tempio Santo tuo in Pompei!
Nel rievocare la tenera memoria dei morti di quell’anno 1879, non posso trascurare un altro ricordo personale: io stesso che scrivo questa storia, riposta tutta nella mia mente, fui d’un passo lontano dalla tomba, e ne scampai per singolare favore della nostra Regina. Fu la nostra amabile Signora che nei giorni di mia grave e lunga infermità m’ispirò e mi aiutò a scrivere la sua Novena per impetrare le grazie nei casi più disperati, esprimente l’ultimo anelito e l’ultimo desiderio di un peccatore moribondo che si afferra al lembo del manto materno per venire sottratto alla suprema sciagura. Mi risovviene l’ultimo cantico che risonò sulla bocca del vegliardo Simeone, che fu il cantico della tomba e della speranza, della rassegnazione e del riposo avvenire.
Ancora, furon quelli i giorni deplorati da ogni credente in cui per la Francia e per l’Italia venne festeggiato il centenario di Voltaire e di Rousseau, portandosi in processione il cuore di quell’uomo che non ebbe mai cuore.
E fu quello anche l’anno in cui tra i ruderi della dissepolta Pompei venne festeggiata la centenaria ricordanza della sua distruzione, che era avvenuta precisamente nel 79 dell’era cristiana.
Ma procediamo con ordine la narrazione dei fatti. Una mattina di quel Gennaio, da Pompei ci giunge improvvisa la nuova dolorosa che il Municipio di Torre Annunziata aveva inflitto un grave balzello sulla calce e sulle pietre della costruzione della nuova Chiesa. Era questa una spesa impreveduta che avrebbe raggiunto il valore di molte centinaia di lire ogni anno, e avrebbe assorbito buona parte delle elemosine che con fatica si andavano raccogliendo soldo a soldo.
Altro giorno, ci pervenne da Valle di Pompei un’altra notizia più rincrescevole. Il recinto delle mura della sorgente Chiesa non era chiuso da veruna porta, e ciò fu un incentivo ai ladri di queste contrade di perpetrare, nel breve intervallo di otto giorni, due furti. Lì dentro si trovavano per la fabbrica come in un piccolo cantiere, funi, travi, ferri, chiodi e quanto altro era di bisogno: ci spogliarono di tutto, finanche della calce e degli strumenti de’ muratori.
Ma la maggior pena ci fu cagionata dal furto che avevano fatto delle puleggie nuove tornite e delle grosse funi che servivano per tirare su grossi pesi, come: pietre, travi, ferri.
Queste puleggie non erano nostre, ma si appartenevano invece all’Amministrazione degli Scavi di Pompei, e che uno dei custodi di Pompei, il soprastante Pietro Paolo Vitiello di cara memoria, acceso dallo zelo di veder subito finita la nuova Chiesa, nascostamente ce le aveva prestate. Questa notizia ci apportò grande desolazione.
Alla distanza di quarantacinque anni possiamo oggi senza scrupoli citare questo fatto e il nome di lui, che, nonostante l’apparenza d’un abuso commesso, resterà sempre in benedizione per noi.
Pensammo subito al danno morale e materiale che sarebbe provenuto a quel povero custode. E si accresceva in noi la pena nel riconoscere l’obbligo nostro di ricomprare ad ogni costo e immantinente quelle puleggie e funi nuove per la restituzione; e nell’ora medesima vedevamo la necessità di acquistare per noi altri argani e manovelle per tirare su pesanti pietre, pali e ferri, e tutto l’occorrente alla costruzione.
E lo sgomento si faceva maggiore al considerare che tutto sarebbe stato infruttuoso se non avessimo costruita una porta grande per chiudere il vasto recinto delle mura del Tempio, e così custodire e mettere in salvo gli attrezzi, e impedire nuove aggressioni di ladri. Se non che il costruire una porta, vuoi pure rozza e pesante, esigeva la spesa per lo meno di lire quattrocento, che per noi, a quei primi tempi valevano gran cosa e assottigliavano le entrate delle Offerte destinate alla costruzione della Chiesa.
(Autore: Bartolo Longo)
Libro Ottavo (pag. 435)
Un’altra contraddizione e più grave! La fabbrica del Tempio, venuta su con tanto entusiasmo e con febbrile attività, era giunta alla sia massima altezza, al punto da potersi coprire col gettare la volta della navata.
Ma non potevano fabbricarsi gli archi e la volta del Tempio, senza prima costruirne la forma in legno, ossia le centine, che esigevano prontamente la non lieve spesa di lire diecimila, tra legnami, attrezzi, pali e chiodi e funi, il che voleva dire la raccolta faticosa di offerte di un anno intero.
Né si poteva metter mano alla fabbrica degli archi e della volta lavorando riprese, man mano che sarebbero venute le offerte; perché, come sanno gli appaltatori e gl’imprenditori, avviene che la parte costruita, massime se in està, si asciuga, e aggiungendovi poi una fabbrica nuova, la primitiva, già solida, si ritira, si distacca dal nuovo, e si formano così le fenditure per le quali s’infiltra l’acqua che produce le macchie dell’umidità al soffitto.
Per fabbricare dunque tutto in un tempo e senza interruzione gli archi e la volta, bisognava aver fatta la forma, e per questa aver pronti diecimila franchi.
Eravamo quindi, nostro malgrado, costretti a sospendere tutti i lavori dopo tanto calore d’impresa e tanta premura di venirne a capo, per cominciarsi la celebrazione in qualche Messa.
Il lettore, certamente, a questo punto non può soffocare una giusta curiosità che gli è sorta spontanea del come riuscimmo a provvedere a tutti questi bisogni urgenti.
- Chi comprò le puleggie per restituirle agli Scavi di Pompei?
– Chi costruì la prima porta per chiudere le mura del Tempio?
– Chi ci sollevò dal nuovo balzello comunale sulla calce e sulle pietre della costruzione?
– Chi ci fornì tanto danaro per non farci sentir la penuria?
– Chi ci somministrò le diecimila lire per non interrompere i lavori fervidi della costruzione del Santuario? In conclusione: La Madonna non operò nessuno di quei portenti con cui Essa suole confondere i giudizi dei figliuoli del secolo?
Lettor mio, attendi a seguire pazientemente ciò che ora scriverò, e medita profondamente le opere di Dio! E quando apprenderai i nomi di quei prescelti dalla Vergine del Rosario a sovvenire la prediletta opera Sua, e togliere noi da tante preoccupazioni esclamai con sincera convinzione: - Avventurati! … Costoro furono i primi ad essere contrassegnati dal favorevole sguardo della regina del Cielo!
Oggi soltanto accade bene di ribadire la nostra assertiva, cioè: che in mezzo a queste onde di dolore e di sconforto, rifulse il raggio di giorni migliori, e apparve subito la mano potente della Madre celeste che doveva provvedere a tutte le nostre necessità. E quale fu il maggiore conforto e il novello coraggio che in noi si ridestò?
Il Signore, secondo il suo solito di operare, per mezzo di umiliazioni e contraddizioni, ci disponeva a fatti straordinari e a grazie nuove della portentosa nostra Regina.
(Autore: Bartolo Longo)
Libro Ottavo (pag. 437)
Sovente, sotto un cielo tetro, tra le nubi minaccianti una procella, scappava fuori un raggio di sole, che rallegrava la nostra esistenza. Ed ecco che, all’aprirsi dell’anno 1879, si aprì pure questo lembo di cielo e ne scese un raggio amico di sole a conforto degli animi oppressi.
Il giorno
15 Gennaio la SS. Vergine del Rosario di Pompei concede in Napoli due grazie alle signore Lucia ed Elisa Ricciardi, che ci porgono la straordinaria offerta di L. 150.
Il giorno 20
di quel medesimo Gennaio, la Signora Gioconda Manzi, abitante in Napoli in via Margellina num. 84, per ringraziamento di un suo figliuolo moribondo per bronchite, risanato alla invocazione della Madonna di Pompei, dona alle consuete offerte, un paio di candelieri di argento per la Chiesa in costruzione.
Nel medesimo giorno,
20 Gennaio,
la Duchessa di Nevano, domiciliata in Napoli a Piazza Dante, ottiene una grazia; e oltre una offerta straordinaria, dona dieci sedie per la nuova Chiesa ed alcuni oggetto di oro per la corona che dovrà adornare l’Immagine miracolosa.
Il 7 febbraio.
– Dalla Signora Maria Lauro di Napoli, per grazia avuta, una straordinaria offerta, oltre le iscrizioni mensuali.
Il 14 Febbraio.
- Dalla Signora Folgori Marchesa di Ducenta in via Bisignano N. 4, per due grazie, oltre alle ascrizioni manuali L. 40.
10 marzo.
– Dal dottor Giuseppe Colucci di Martina Franca per varie grazie L. 40.
10 Marzo.
- Dalla Signora Carolina Miccio, nata Migliaccio, una crocetta d’0ìoro.
10 Marzo.
-Dalla Marchesa Celentano di Foggia, per mezzo della zelatrice sig,ra Maria Irbicella, per grazia ottenuta L. 50.
24 Marzo.
– Dal dottor Alceste Longo in Portici e sua consorte sig.ra Anna Fuortes, per grazia impetrata L. 100.
24 marzo.
– Dalla Duchessa di Paganica in Napoli, Largo Garofalo a Chiaia, per ringraziamento, una lampada d’argento e dal Duca L. 50.                              
(Autore: Bartolo Longo)
Libro Ottavo (pag. 439)
Essendosi divulgata per Napoli la non lieta notizia che era stata interdetta nel passato anno la Cappella della Madonna dei Flagelli, da Mons. Formisano, Vescovo di Nola, fu troppo agevole alle lingue malediche e ai cristiani poco devoti, spargere per le famiglie e per le chiese, nuove insinuazioni e false interpretazioni, seminando ovunque il ridicolo e il sospetto.
Si scambiava facilmente la cappella dei Flagelli di Boscoreale, con la Chiesa del Rosario di Valle di Pompei, ambedue appartenenti alla medesima Diocesi e ambedue sotto la giurisdizione di un medesimo Vescovo, quello di Nola. E poiché il fatto e l’operato del Vescovo era vero e non poteva in alcun modo occultarsi, l’equivoco cominciò a dilagare e a produrre delle tristi impressioni sull’animo dei devoti e degli associati alla nostra nascente Opera.
Il motto e il giudizio sarcastico erano questi:
- la Chiesa di Pompei è stata interdetta dal proprio vescovo! … Eh! Così doveva finire l’opera di due secolari! … di quell’Avvocato ozioso e vagabondo! …
Altri, i meno avversi o più fedeli, con un’aria di mesto compatimento, per scusare, conchiudevano:
_ Eh! Così tutte le opere nuove in Napoli: cominciano col fuoco e finiscono col gelo! Non era poco il rincrescimento che provavano i nostri amici ed i veri devoti e benefattori.
In me cresceva il grave fastidio di dover cominciare un’altra volta il lavoro di chiarire a ciascuno l’equivoco che era sorto. Avrei dovuto dimostrare con gli scritti alla mano, come il medesimo Vescovo Mons. Formisano che aveva interdetto la Cappella della Madonna dei Flagelli, s’era dichiarato, nella sua Lettera Pastorale, protettore, anzi collettore per la nuova chiesa di Pompei, e assicurava i fedeli della veracità dei miracoli della Vergine del Rosario di Pompei, che andavano propagando i due fondatori secolari.
L’effetto amaro lo risentimmo poi che tornando con la Contessa nelle Chiese, per raccogliere offerte, presentavamo una nuova disposizione scritta dell’Arcivescovo di Napoli, Sanfelice, con la quale ordinava che, nella prossima Quaresima, in tutte le Chiese della città, si facesse una questua particolare a pro della nascente Opera Pompeiana.
Taluni però, tratti in inganno dall’equivoco dell’interdizione, apertamente ci gittavano in viso quest’accoglienza poco confortante:
- Ma il nostro Arcivescovo, invece di pensare alle Chiese di Napoli che hanno tanto bisogno, si studia di diminuire le offerte per le sue chiese e provvedere quelle a lui estranee?
Non pertanto vi furono molti e generosi rettori di Chiese e Parrocchie che ci accolsero con gran benignità e bontà, e permisero che si facesse una questua nella loro Chiesa. Fra queste, scegliemmo, in quella Quaresima, la bella e graziosa Chiesa di S. Carlo all’Arena posta nel centro della spaziosa via Foria, ufficiata dai RR. PP. Delle Scuole Pie, miei antichi amici e miei educatori.
Scegliemmo una giornata di gran folla che era quella del Venerdì di Passione, nell’ora in cui si celebravano le Tre Ore di Maria Desolata.
(Autore: Bartolo Longo)
Libro Ottavo (pag. 440)
Nessuno potrà immaginare quali siano stati i primi passi e i primi tentativi di quella propaganda diffusasi in seguito in tutto il mondo cattolico, e che, voluta e benedetta dalla Provvidenza, come appare evidentemente, ha potuto alimentare le nostre ardite iniziative, col concorso d’un vero esercito di ascritti, agli associati e di benefattori, ha sostenuto e sostiene, negli angoli della terra ancora da quarantanove anni continui, le Opere multiformi di Valle di Pompei.
Le escogitazioni non furono poche, ma qui, per seguire la nostra storia, ci occorre parlare d’una soltanto di esse.
V’era e v’è tuttora, nelle chiese di Napoli, un’usanza, la quale forma in qualche maniera le risorse di tutte le istituzioni, e le opere di beneficenza prive di rendita.
Nelle Prediche dei giorni festivi e particolarmente nelle chiese più frequentate, a un dato punto della predica, alla seconda parte, l’Oratore, espone al suo uditorio l’Opera nuova, che egli vuole raccomandare alla loro carità, e i Rappresentanti dell’Opera raccomandata girano per la Chiesa, presso ogni fedele, raccogliendo l’obolo dei generosi.
Si alimentano così l’opera delle Chiese Povere, quella dei Poveri Vergognosi, quella dei Sordo-Muti, quella delle varie Leghe di moralità e perfino quella dell’Obolo di San Pietro.
Ora la Contessa, che a quell’epoca era già una fenomenale propagandista della nascente chiesa di Pompei, pensò di valersi di buon’ora anche di questo mezzo efficace.
Se non che, nei primordi, l’Opera era presso che ignota, né pochi erano gli scettici ed i malevoli contrari.
Intervenne, come è detto, l’autorità del Cardinale Sanfelice, di venerata memoria: soltanto così ci fu permesso girar per le chiese e raccogliere l’obolo dei fedeli.
Ma all’aiuto umano, si aggiunse quello del Cielo che non solo spiano maggiormente la strada, quanto la rese meravigliosamente feconda di carità.
Il Sacerdote naturalmente si deve servire delle sue semplici ragioni e di parole che dalla mente debbono scendere al cuore. La Contessa, al contrario, si serviva non di parole, ma di fatti evidenti, e parlando, per così dire, agli occhi, arrivava fino al fondo del cuore.
Da poco si era avverata la prodigiosa grazia operata dalla Madonna di Pompei a favore della gentile e buona creatura signorina Clorinda Lucarelli, grazia oramai nota a tutti quelli che conoscono, anche sommariamente, la Storia del nostro Santuario. La Contessa pensò quindi di valersi di questo fatto per la nuova forma di propaganda.
Si faceva accompagnare da quella buona e signorile giovanetta che era guidata dalla propria Zia che le faceva da madre, la signorina Anna Maria Lucarelli e, additandola tacitamente al popolo, dopo la parola viva del Sacerdote, compiva la più efficace delle perorazioni e otteneva effetti meravigliosi.
La presenza della graziata, della salvata dal pericolo di morte, era la più convincente predica e traeva le folle non solo a dare, ma anche a sperimentare ciascuno per conto suo la potenza della Regina del Rosario.
Fu così che mi sentii anch’io spinto a imitare da parte mia e con maggiore audacia la Contessa.
Se di lei s’era servita la provvidenza nei primordi del Tempio (nel 1876) per una grazia portentosa in casa Lucarelli, s’era servita della mia povera persona per operarne un’altra tre anni dopo, non meno strepitosa, in casa del Sig. Giuseppe Schettino, per ottenere cioè il ritorno dalla morte alla vita del fanciullo Eduardo Raffaele, col semplice apporsi sul petto di lui la Immagine della vergine di Pompei, secondo che è stato da noi ampiamente raccontato nel Capitolo della presente Storia intitolata: Sulla riva fiorita di Posillipo.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo VI – Il 5 aprile 1879 - Venerdì di Passione - Nella Chiesa di S. Carlo all’Arena

Libro Ottavo (pag. 443)
Mi presentai quindi ai genitori del piccolo guarito, Signor Rosario Raffaele e sua Consorte, e lì scongiurai, col miglior modo che mi fu possibile, di permettere che il loro Eduardo mi accompagnasse nel giro di quella santa propaganda che anch’io intendeva intraprendere per le chiese e anche per qualche nobile casa, in Napoli e fuori.
Ragionava così a quei Signori:
- La Madonna vi ha ridato il figlio: è giusto che lo diate a Lei almeno per poche ore, nei giorni festivi, sia in città, sia nei dintorni.
Quegl’impareggiabili devoti della Vergine del Rosario non seppero dirmi di no. Ed eccomi -, il giorno sacro ai Dolori di Maria, il Venerdì della Desolata, 5 Aprile 1879 – nella monumentale Chiesa di San Carlo all’Arena di Napoli.
Predicava quel giorno in quella bellissima rotonda un giovane e dotto sacerdote napoletano, già in fama di valente oratore, voglio dire Don Gioacchino Taglialatela.
Egli non ancora s’era ritirato nella Casa di san Filippo, il glorioso Oratorio di Napoli, fondata da San Filippo Neri medesimo e che a quei tempi accoglieva un numero considerevole di Padri tutti illustri per santità e dottrina, onde la casa dei Girolamini di Napoli era veramente un Seminario di vescovi e di Santi.
Non andò guari che anche Don Gioacchino Tagliatela, come venne poi sempre chiamato, fece parte di quell’Oratorio; e dedicandosi con più intenso amore agli studi storici e archeologici lasciasse un nome indimenticabile tra le persone dotte e competenti.
I Padri Scolopi mi presentarono a D. Gioacchino Tagliatela prima della predica: ed io gli feci vedere il fanciullo graziato e gli narrai in succinto quanto si andava operando a Valle di Pompei. Lo pregai di dirne qualche cosa tra una parte e l’altra delle “Tre ore di Maria Desolata”, e domandar la limosina per la costruzione della nuova Chiesa.
Ed ecco che quell’ottimo sacerdote, al secondo punto della sua predicazione, comincia a parlare con mirabile eloquenza e sentita convinzione dei prodigi della Madonna di Pompei, soffermandosi a descrivere più particolarmente quello avvenuto in persona del giovinetto presente, Eduardo Raffaele.
Voi lo vedrete in questo momento, - diceva l’oratore, - accompagnato per la Chiesa dall’Avvocato Bartolo Longo, iniziatore dell’opera della Madonna di Pompei, per raccogliere il vostro obolo, o fedeli.
Questo fanciullo nella sera del 18 agosto del passato anno 1878 spedito dai medici, trovavasi nella casa del signor Giuseppe Schettino, sulla collina di Posillipo, e il mattino seguente si trovò guarito mercè la semplice apposizione dell’immagine della Vergine di Pompei avuta da questo avvocato! ...
L’occasione era più che propizia. I cuori erano come un terreno favorevolissimo ad accogliere quella santa semenza, predisposti com’erano dalla evocazione dei Dolori e degli strazi del Cuore materno di Maria.
Quando Eduardo da me accompagnato, apparve nella folla fu un vero scatto di commozione e di pianto …
La carità affluì abbondante in quella Chiesa, e ne fui incoraggiato a domandarla sotto quella forma di umiliazione, in altre chiese di Napoli, affrontando spesso amarezze, ma acquistando pure schiere innumerevoli di benefattori e di ascritti, dalle più umili persone del popolo, fino ai signori della più alta borghesia.
Il medesimo P. Gioacchino Tagliatela, sia detto ad onor suo, ora che egli da un tempo è volato all’eternità, divenne da quell’ora uno dei più infaticabili predicatori delle glorie della Madonna di Pompei ed un entusiasta mio seguace e valevole coadiutore delle Opere nostre Pompeiane.      
(Autore: Bartolo Longo)
Libro Ottavo (pag. 445)
1 - Il fatto che abbiamo ora narrato ne richiama un altro ugualmente importante e caratteristico, che ci capitava a breve distanza, nel giorno della pasqua seguente a quel Venerdì di Passione.
A questa data si riaffaccia nella nostra mente una delle più grosse e industriali terre circonvicine a Napoli, vale a dire la città di Afragola. Quante memorie si risvegliano nel nostro pensiero a questo nome!
Il compianto mio fratello Alceste ed io, con altri amici venuti insieme con noi per ragioni di studio e di professione dalle Puglie a Napoli, contavamo colà non pochi conoscenti.
Ma in modo speciale io era stretto in grande e fervorosa amicizia con le famiglie più cospicue di quel paese, quali: la famiglia del Giudice Geofilo che aveva per moglie la signora Gabriella Muti di Napoli, la famiglia dei signori De Rosa e le famiglie dei signori Maiello, Fiore ed altre.
Mi occorre dire qui, almeno di sfuggita, a mia confusione e anche per ringraziare la divina Provvidenza, che mi richiamò da una vita di errori ad una vita dedicata, in seguito, alla difesa e diffusione della Religione cattolica, che la città di Afragola era stata, prima della mia conversione, uno dei più preferiti luoghi di convegno.
Ivi mi recavo con brigate di giovani e allegri amici per divagarmi dai gravi studi, con amene passeggiate e passar le sere tra musica, canti e danze, senza astenermi, nelle occasioni, dal rendere palese il mio spiritismo.
Ma dal giorno 29 Maggio 1865 che il Signore per sua infinita misericordia mi ebbe richiamato a sé, lasciai tutte le brigate di divertimento mondano e tra queste le famiglie di Afragola: ma era vivo nell’animo mio il desiderio di mostrare agli antichi amici e conoscenti, che la mia vita era mutata e che adesso a tutt’altro io era dedicato.
Erano passati quattordici anni: molte vicende e mutazioni di cose erano succedute. Il Tempio di Pompei toccava il quarto anno della sua edificazione. Mi valsi quindi della felice riuscita della predica della Desolata, nella Chiesa di San Carlo all’Arena, per tentare qualche cosa di simile in mezzo a quelle famiglie di Afragola.
Per attuare tutto ciò prescelsi il giorno di Pasqua.
Ma come avrei fatto a condurre con me, e lontano anche da Napoli, il giovinetto Eduardo Raffaele, che giustamente i genitori custodivano come una reliquia, e da cui non sapevano staccare gli occhi? E poi, giusto il giorno solenne della Pasqua! Dovevano essi assidersi a mensa e non vedervi il caro e idolatrato figliuolo?
Era non solo un’audacia, la mia ma un fatto assurdo. Eppure non venni meno nel mio proposito.
Mi presentai ai due coniugi, tra una parola e l’altra ricordai il loro dovere di riconoscenza alla Madonna e azzardai coraggiosamente la mia richiesta …
Il padre non aggiunse parola in contrario; ma la madre mi parve sbalordita.
Io non mi perdetti di animo e tanto aggiunsi e tanto insistei che, finalmente, anche quell’ottima signora disse di sì.
Ottenuto quel consenso mi pareva che non spuntasse più il giorno seguente.
Quando Iddio ispira un’Opera sua ad un povero mortale, lo accende di tale amore verso di quella che notte e giorno il pensiero non sa staccarsene.
E la Pasqua arrivò bella e radiosa.
Verso le prime ore del mattino io ero già a casa di Eduardo col mio bravo cocchiere o, per essere più esatto, con un altro che doveva supplire quello di cui mi serviva abitualmente.
È necessario indugiarmi sopra questo particolare.
Nei miei frequenti viaggi, e nelle gite ch’io era costretto a fare, ora in un paese, ora in un altro, per propagare i primi prodigi della Vergine di Pompei, e per raccogliere oboli e nuove iscrizioni, avevo sempre a mia disposizione un giovane, ardito, esperto e fedele cocchiere, che sapeva a menadito tutte le vie e i palazzi di Napoli e dei dintorni e conosceva anche tutte le mie abitudini, e mi prestava un servizio eccellente.
Ma quella mattina egli era infermo, e mi convenne servirmi dell’opera di suo padre, un buon vecchio, vetturino di mestiere anche lui, ma soverchiamente inoltrato negli anni e abbastanza ciarlone, qualità, d’altra parte, non difficile in un fiaccheraio napoletano.
Dopo mille affettuosi consigli della Signora Raffaele al figliuolo Eduardo e mille raccomandazioni a me, finalmente si partì.
Il viaggio fu felicissimo, e il vecchio automedonte si fece davvero onore.
Arrivati ad Afragola, la prima visita fu alla famiglia del Giudice Geofilo. È facile immaginare quale sorpresa e quale meraviglia dovesse destare in quegli affezionati cuori la mia presenza, dopo quattordici anni; e lo stupore si accrebbe oltremodo più nell’udire spiegato dalla mia bocca, le ragioni per cui io piombava, inaspettatamente e il giorno di Pasqua, in mezzo a loro.
In quella famiglia ero tutt’altro che sconosciuto e nuovo, ma mi ero sempre recato colà per tutt’altri scopi, se non soverchiamente mondani, certo abbastanza remoti di una propaganda di religione, e nessuno poteva immaginare che andassi là per raccogliere danaro per un Santuario che andavo innalzando io, che per lo passato avevo, come ho accennato, professato errori, e cercato solamente svaghi e divertimenti.
Ma subito dalla meraviglia e dallo stupore, si passò ad un’amabile ammirazione, e il Giudice volle che uno dei suoi figliuoli medesimi mi accompagnasse per il giro che avevo divisato di fare per le case di amici e di conoscenti, a patto però che sarei tornato da lui per prendere parte al pranzo pasquale di famiglia.
Ci avviammo dunque in tre, Eduardo, io e il figliuolo del Giudice.
La prima conoscenza che il signor Geofilo mi procurò fu quella di un giovane elettissimo di Afragola, di ottima famiglia, il cui nome e le cui virtù mi rimasero scolpite nell’animo e di cui, oggi, dopo quarantacinque anni, mi gode l’animo di rammentare e rendere ostensivo il nome della Storia della Madonna di Pompei: il Cavaliere Angiolino Maiello. Fu costui l’angelo mio Custode quel giorno di Pasqua in Afragola; e mi accompagnò sempre e mi presentò a famiglie da me conosciute e ad altre non conosciute, ma doviziose o benestanti. Dovunque fui accolto con grande bontà e confortante frutto di offerte e di iscrizioni. Io parlava molto e con tutto il fervore e lo slancio d’un convertito recente, e anche con la mia foga abituale. Ma più delle mie parole.
Riusciva efficace la predica del miracolo vivente ch’io recava con me, del buono e paziente fanciullo Eduardo. Di cui descriveva a vivissimi e impressionanti colori l’infermità, la fiducia nella Madonna di Pompei destatasi nei cuori dei suoi genitori, per l’intervento della mia persona che la Provvidenza aveva predisposta in quella famiglia, e finalmente, dell’inaspettata e strepitosa guarigione avvenuta con la semplice apposizione dell’Immagine della SS. Vergine sul petto.
Tra le visite ad antichi e stimati miei amici vi fu naturalmente anche quella ai Signori De Rosa e i Signori Maiello, i quali accoppiarono, al piacere di rivedere un vecchio amico, la gioia di riscontrare in esso un convertito che era mosso a rivederli per un principio di riparazione.
La messe quindi fu copiosa, ed io col cuore ricolmo di gioia e benedicendo il Signore, mi affrettai a far ritorno in casa dell’ottimo amico, il Giudice Geofilo.
Superfluo dire quanto allegro e cordiale fosse riuscito quel banchetto pasquale.
Avremo occasione di ricordare ancora questa gita di propaganda in Afragola per i fatti straordinari che ne seguirono, segnatamente nella famiglia del Sig. Gennaro Maiello.
Verso il tramonto mi convenne far ritorno in Napoli.
Ci scambiammo innumerevoli saluti e strette di mano e promesse di rivederci presto, e si partì.
2 – Il ritorno a Napoli
Il tempo rigido si disponeva alla neve, e di quando in quando già si vedeva qualche lento fiocco cadere qua e là: ma il cocchiere faceva schioccare allegramente e sonoramente la frusta e si mise subito al trotto.
Era certamente desiderio anche suo di arrivare presto a Napoli, ma a questa ragione non era estranea anche l’altra di qualche soverchio bicchiere che aveva bevuto e che gli era stato con singolare prodigalità offerto in casa Geofilo.
Del resto, senza voler malignare, né calunniare il vecchio guidatore, fatto si fu che arrivammo a un quadrivio largo e spianato dove innanzi a noi si aprivano quattro ampie strade diverse. Il cocchiere si ferma di botto e, come uno che tutto ad un tratto si sia accorto di trovarsi in luogo sconosciuto e strano, si volge a me e dice in preda a una certa preoccupazione:
- Signurì, nui avimmu sbagliato a via! …
Sarebbe stato poco. A questa inaspettata confessione egli ne fece seguire un’altra: quella cioè di non saper più addirittura dove si trovasse e di non sapersi raccapezzare per mettersi sulla via diretta a Napoli.
È facile immaginare il mio sgomento, non per me, ma per quel gentile ragazzo che la mamma non avrebbe voluto, a nessun costo, togliersi dal fianco, e anche per la responsabilità che pesava sopra di me.
Il povero Eduardo non fiatava, ma gli si leggeva lo spavento nel viso…
Il mio pensiero era corso subito alla buona sua madre, Che cosa dirà quando vedrà farsi buio con questa serata rigida e di neve, e non vedrà ritornare l’adorato figliuolo, secondo che io stesso lo aveva promesso e giurato?
Mi vidi quasi perduto, ma subito si riaccese in me la fiducia e cominciai a pregar con tutte le forze dell’animo mio la Vergine benedetta di Pompei e chiamare le sante anime del Purgatorio, che mi togliessero da quel serio imbarazzo.
Ed ecco, poco dopo, si sente lontano un certo strepito di ruote e un indistinto schioccar di frusta…
Aguzzo gli occhi, tendo l’orecchio da quella parte, e tra il nevischio che rendeva il crepuscolo più oscuro, scorgo un calesse slanciato a corsa vertiginosa che veniva alla nostra volta.
Balzo in piedi nella vettura: il cocchiere mi imita dalla sua serpa, e tutti e due ci mettiamo a gridare che per carità si fermino un momento per indicarci quale fosse la strada che menava a Napoli.
Ma il furioso veicolo non accennava a rallentare la corsa, e soltanto quando ci passò rasente, colui che guidava il cavallo e che fortunatamente aveva afferrato a volo la nostra domanda, ci fece un segno con la frusta e col braccio steso che c’indicò di andare diritti per arrivare a Napoli. Poi tirò di corsa per un’altra delle quattro vie e scomparve alla nostra vista.
Ringraziammo il Signore che forse ci aveva mandato qualche anima del Purgatorio per avvisarci a tempo: e contento delle indicazioni ricevute, ordinai al cocchiere di tirar subito per quella direzione. Seppi dopo che avevamo presa non la via che conduceva a Napoli, ma l’opposta, cioè quella spaziosa antica via che da Napoli menava alle Puglie, prima che fosse costruita la ferrovia.
Se non che, si era appena usciti da quel frangente, quando il cocchiere che s’era messo al trotto, sia per l’oscurità che oramai cominciava a infittire, sia per quella tale ragione dei probabili soverchi bicchieri di vino, non vede un grosso canale che fiancheggia la strada a destra e fa scivolare la vettura in esso con le due ruote laterali, mentre le ruote di sinistra e il cavallo restano sul selciato, e la vettura a metà capovolta.
Fu un vero miracolo se noi due e il cocchiere non fummo sbalzati al suolo.
M’ingegnai con tutta la precauzione possibile a smontare, o per dir meglio, a saltare dalla vettura e aiutai subito il povero Eduardo a scendere anche lui; poi mi rivolsi al cocchiere per dargli una mano a tirar per le briglie il cavallo, nella speranza di rimettere in questo modo la vettura sulla strada.
Il cavallo mezzo imbizzarrito cominciò a scalpitare furiosamente: dall’attrito dei ferri sul selciato formato di pietre vulcaniche si staccavano numerose scintille che nel buio della sera impressionavano fortemente.
Il giovinetto, che fino a quel momento aveva conservato una relativa tranquillità, fu preso da un grande spavento e gli parve che la strada si aprisse e che ne cominciasse a venir fuori del fuoco. Anzi alla fantasia quasi infantile, come poteva ritenersi la sua si associarono altre idee confuse, per cui gli parve addirittura che di sotto a quelle selci della via si nascondesse il Vesuvio e ora fosse sul punto di vomitare la sua lava …
- Il Vesuvio! Il Vesuvio! – si diede a gridare, come invasato dalla paura. – Don Bartolo! … Il Vesuvio! …
- Ma no, no figliuol mio, di che Vesuvio vai sognando?!
- mi affrettavo io a ripetergli – Sono scintille che si sprigionano per l’attrito dei ferri del cavallo sulla selce vesuviana.
Ma Eduardo non intendeva più la mia voce, e sempre in preda a uno sgomento inenarrabile badava a replicare:
- Altra volta per una paura che ebbi, mi ammalai gravemente, e vedrete che anche questa volta avrà un’altra malattia.
Io non sapeva più come raccapezzarmi. Tra una parola d’incoraggiamento a lui e un aiuto al cocchiere andavo recitando qualche preghiera, invocando nuovamente l’aiuto della Madonna.
A questo modo, dopo alquanti stenti e affanni, si riuscì a mettere la vettura sulla strada.
Salimmo di nuovo in essa: imbacuccai Eduardo nel mio passamontagna, e di nuovo ci mettemmo al trotto.
Ristabilitasi appena la calma, io, che con rapido pensiero aveva preveduto un facile e dispiacevole inconveniente, mi affrettai con le migliori maniere che mi riuscisse e ancor la più simulata indifferenza a far questo discorsetto ad Eduardo:
- Senti, caro mio: ora che andiamo a casa, non dir nulla alla mamma di quanto è accaduto. Non è stato nulla alla fin fine, ed essa potrebbe immaginare qualche cosa al di là delle vere proporzioni, spaventarsi, anche vedendoti sano e salvo, e soffrire in salute. È meglio non parlarne. Non pare anche a te così?
Il ragazzo ne parve persuaso e promise di non parlare.
Finalmente ci accostammo a Napoli e, quando il Cielo volle, fummo anche a casa del sig. Rosario Raffaele.
Si arrivava con un considerevole ritardo.
Tutte le mie promesse erano fallite.
La povera signora, in preda alla più logica e naturale preoccupazione, aspettava presso la porta, anzi sul pianerottolo della scalinata.
- Eccolo sano e salvo il vostro figliuolo! – esclamai io come la vidi.
Ed entrati, m’industriava a trovar qualche espressione efficace di scusa e di assicurazione che nulla c’era stato di sinistro; quando il ragazzo, come uno che non vedesse il momento di dire ciò che da molto tempo aveva trattenuto a stento, cominciò a gridare:
- Mamma! Si è rovesciata la carrozza in un canale!
- Ma no, ma no, signora, aggiungeva io, si tratta d’un piccolo incidente … D’una piccola incarratura…
- Mamma! – gridava più forte il ragazzo, - abbiamo visto il Vesuvio!…
- Ma quale Vesuvio! Quale Vesuvio!  - E mi sforzavo a ridere, sperando di ottenere lo stesso effetto negli altri:
- Eduardo ha visto sprigionarsi alcune scintille di sotto alle zampe del cavallo che scalpitava sul selciato di pietre vesuviane e ha creduto che nientedimeno fossimo arrivati sul Vesuvio…
E ridevo ancora, o meglio mi sforzavo di riuscirvi.
La signora parve acquietarsi alle mie parole, ma potete immaginare come ella restasse dentro di sé.
Anch’io restai male, ma, pensando all’opera che la Madonna voleva da me e ch’io presentiva, mi contentai di quella parte dispiacevole ed amara e non pensai per nulla a smettere la mia propaganda e le mie fatiche per raccogliere offerte, adesioni e iscrizioni, ma senza condurmi più i figli degli altri, come saviamente mi consigliava di poi il mio fido amico il Duca di Vietri.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo VIII - La prima grazia della Vergine di Pompei in Afragola nel maggio del 1879, nella casa del Sig. Gennaro Majello
Libro Ottavo - pag. 454

Ecco il primo benefico effetto della nostra gita in Afragola.
Notammo che dopo il furto da noi sofferto nel recinto delle mura del nascente Tempio, s’imponeva il bisogno di far costruire una porta di legno massiccio per custodirne l’entrata e difenderci dai ladri. Pensai subito di fare un piccolo avviso a stampa con cui annunziare a quei primi associati la nostra pressante risoluzione.
Non avevamo ancora in quei tempi la nostra Tipografia in Valle di Pompei: e però feci stampare in Napoli, nella Tipografia e Libreria di Andrea e Salvatore Festa, il seguente manifesto:
Agli Associati del nuovo Tempio di Pompei
Essendosi commessi dei furti nel recinto aperto del costruendo Tempio di Pompei, siam venuti nella determinazione di chiuderlo con una porta che costerà non meno di lire cinquecento.
Invitiamo perciò i devoti della Vergine a voler offrire qualche straordinaria limosina per sopperire a questa nuova spesa.
Napoli, via Pignatelli a S. Giovanni Maggiore n. 24, 1879.
Avv. Bartolo Longo
Naturalmente mandai parecchi di questi inviti ad Afragola ai nuovi Associati, per mezzo del bravo zelatore Sig. Angelino Majello, il quale alla sua volta ne consegnò a suo cugino Sig. Gennaro Majello.
Quest’ottimo mio amico era tribolato perché suo figlio Carlino si trovava in grave stato, a cagione d’una febbre perniciosa-algida.
Letto il mio invito, egli fu preso da tale fede nella potenza della madonna di Pompei, esclamò fra lagrime:
- Vergine SS. del Rosario di Pompei, io ti farò la porta del tempio, se tu mi darai mio figlio! ...
Fatta questa promessa, mi scrisse di proprio pugno:
Mio caro amico, Avv. Bartolo Longo,
Ho ricevuto il vostro invito per concorrere alla costruzione di una porta pel nascente Tempio.
Io ho bisogno urgente di una grazia della madonna: ho mio figlio Carlino gravemente infermo. Se la Madonna mi guarirà questo mio amato figliuolo, verrò di persona a portarvi tutte le lire 500 che servono per costruire la porta.
Afragola, 20 Maggio 1879.
Vostro
GENNARO MAJELLO
Quand’ebbi questa lettera, non mi stancai di mostrarla a tutti quelli che incontrava o visitava: - Ecco – andava predicando, - prima che avessi terminato di distribuire i miei avvisi, La SS. Vergine ha già provveduto per la prima porta del suo tempio.
Di già io, fiducioso nella protezione della Madonna, aveva ordinata la porta, anzi è stata messa a posto. Da un giorno all’altro, ne sono sicuro, pagherò l’operaio che l’ha costruita.
Non passarono infatti che pochi giorni, e il Signore Gennaro Majello venne a trovarmi in Napoli, e tutto giulivo e festante mi raccontò come, fatta appena la promessa alla Madonna di donar L. 500 per la porta, aveva ottenuta la grazia desiderata.
E di presente mi consegnò le 500 lire promesse. Per mostrare poi anche pubblicamente la sua grande riconoscenza alla vergine Benedetta, egli venne pure a Valle di Pompei nel mese di Ottobre, nel giorno che facevamo la festa del Rosario, e offrì altre lire 200.
E così la prima porta al Tempio Pompeiano fu costruita per una grazia concessa dalla Madonna di Pompei in Afragola.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo IX - Il ritorno della pia pratica dei "Quindici Sabati"
Libro Ottavo - pag. 457

Non erano ancora passati due anni da che avevamo lanciato in mezzo ai primi associati e benefattori del nascente Santuario il libro dei Quindici Sabati del SS. Rosario, che già si era deciso nel cuore di tutti il desiderio di possederlo, e nell’animo nostro era fermato con entusiasmo il proponimento di ampliarlo e menarlo a compimento.
Fin dalla prima edizione, che vide la luce nel giorno dell’Assunzione del 1877, la SS. Vergine aveva benedetto il nostro lavoro, poiché non solo tanto e tante lagrime erano state asciugate, tanti dolori leniti e tante benedizioni celesti attirate sulla terra, ma di più s’era accesa in migliaia di cuori la fiducia nella potente efficacia della divozione del santo Rosario, scopo precipuo a cui mirava il nostro libro.
In quei due anni, mentre si avvicinavano senza posa lotte e vittorie, dolori e consolazioni celesti, difficoltà e amarezze felicemente superate, evidentemente la regina nostra lavorava calma e serena anche Lei: e, osiamo dire, che Ella medesima curasse, a via delle grazie, di far penetrare nei luoghi che proclamava le sue glorie e i suoi trionfi.
Abbiamo un documento storico di quel tempo.
Oggi, dopo quarantasei anni, (1879-1925) rileggiamo con non poca tenerezza un manifestino redatto dal pio e valoroso artista pittore Comm. Federico Maldarelli per incitare i fedeli e intervenire alla pratica dei Quindici Sabati del Rosario, che dovevano cominciare il Sabato, 28 Giugno, nella Chiesa dei Professori di Belle Arti in S. Giovanniello a via Costantinopoli in Napoli.
Nel manifestino, piccolo, ma vibrante di nobile e santo entusiasmo, dopo l’esposizione del programma e dell’ordine delle funzioni religiose, seguivano infiammate parole che contengono per noi un documento per la storia del Santuario.
“Napoli, ognun lo dice, è la città di Maria: ma è tale perché l’antica e soda divozione al Rosario di S. Domenico non è venuta mai meno nel petto dei veraci figliuolo di Essa.
Se non che oggi che la Vergine benedetta è oltraggiata e la Fede nei più ha fatto naufragio, la stessa Madre di Misericordia riaccende negli animi dei suoi figli l’amore alla Corona delle sue mistiche Rose con avvenimenti novissimi. Il rapido divulgarsi della pratica dei “Quindici Sabati” in Lombardia.
In Piemonte, nella Liguria, nelle nostre Province meridionali e perfino in Costantinopoli, nello spazio di un solo anno, e il succedersi incessante delle grazie e dei miracoli da tre anni in qua, a favore di coloro che concorrono all’edifizio del Tempio del Rosario in Pompei, ci raffermano voler Maria osservare anche oggi le promesse fatte a S. Domenico e al B. Alano, fra cui è consolantissima la seguente; L’affetto al Rosario è un gran segno di predestinazione”.
La pia pratica dei Quindici Sabati, dunque, nel 1879 era fiorente in molte province della nostra Italia e perfino nel cuore delle terre ottomane: a Costantinopoli.
E dobbiamo aggiungere che chi scriveva siffatte parole, cioè il Comm. Federico Maldarelli, seguiva da presso le nostre fatiche, e aveva conoscenza particolareggiata ed esatta di quanto avveniva in valle di Pompei sotto la protezione del Cielo.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo X - Maldarelli ritocca il vecchio e logoro Quadro della Vergine
Libro Ottavo - pag. 458

Quanto più ripensiamo ai primi tempi della storia di questo monumento odierno dei miracoli del Rosario, tanto più scorgiamo le prime trame del grandioso disegno che la provvidenza aveva prestabilito di compiere in Valle di Pompei.
La Vergine benedetta aveva già cominciato a diffondere le sue grazie. Avvenimenti meravigliosi e preternaturali si erano già compiti e si compivano tutti i giorni, facendo divampare le prime fiamme di quel vero incendio di divozione al santo Rosario, che andò poi man mano diffondendosi in tanti milioni di cuori, in ogni parte del mondo cattolico.
Ma di qual mezzo umano si servivano la provvidenza e la Madonna per impadronirsi dello spirito di tanti fedeli?
Un’immagine bella ed artistica, il volto d’un pregevole simulacro spesso commuovono e scuotono, e non fa meraviglia, che nell’anima nostra, che ha bisogno di cose sensibili per comprendere e perfino per sollevarsi a Dio, si suscitino sentimenti santi e salutari.
Ma quale era l’Immagine a cui tanti occhi lagrimosi, o stanchi di piangere, e tanti cuori torturati dall’ambascia si rivolgevano?
Le descrivemmo nel Primo Volume di questa storia, e conchiudemmo che faceva orrore al solo vederla.
Il povero pittore, autore di quel quadro, che costò la somma di tre lire e quaranta, forse dimorava in qualche piccola borgata campestre e non aveva modelli adatti: aveva dovuto indubbiamente ispirarsi a tipi non solo poco estetici e spirituali, ma addirittura goffi e volgari.
Il volto della Vergine, dicemmo, era quello di un donnone ruvido e rozzo. Essa infatti aveva gli occhi dilatati e sembravano volessero schizzar dalle orbite, e un mento arcuato, come di chi non abbia più un sol dente in bocca.
In luogo dell’attuale Santa Caterina da Siena v’era Santa Rosa da Lima. Ma questo sarebbe stato poco, se in vece della gentile e candida Terziaria Domenicana, Santa Rosa, che fu, come canta la Chiesa, il primo fiore di santità dell’America, il pittore non avesse pensato a riprodurre la faccia d’una grassa e rozza contadina, con un fascino di grosse rose sulla fronte. Finalmente l’eroico e nobile Santo Istitutore del Rosario era il ritratto autentico d’un idiota da trivio, con una barba ispida e rossiccia.
Si era appunto nel mese di Maggio di quell’anno, quando un bel giorno l’esimio pittore Comm. Federico Maldarelli, osservando da una parte tanta devozione suscitarsi nei fedeli, e considerando dall’altra quanto quell’immagine fosse sdrucita e deforme e quasi indegna di culto, fu tocco nel cuore, e ci manifestò il suo pio e generoso desiderio:
- Io voglio ritoccare gratuitamente – ci disse -  l’Immagine del Rosario di Pompei che desta più orrore che divozione.
A noi non parve vero che quel valente Pittore si offrisse a ritoccare la tela gratuitamente e, senza esitare un istante, gliela consegnammo. Solamente io fui ardito di pregarlo di ingentilire il viso della Madonna, di rendere più umani il volto di San Domenico e quella di Santa Rosa da Lima.
E poi, fattomi più ardito.
- Commendatore, - aggiunsi – la faccia di S. Domenico vi prego ridurla ad un viso di gentiluomo, e la faccia rossa e grossa di S. Rosa assottigliatela in modo da comparire una S. Caterina da Siena, la più gran donna italiana e Terziaria Primaria di S. Domenico, mutando quella grossa corona di rose in una corona di spine che è la nota caratteristica della nostra eroica vergine di Siena.
Il Comm. Maldarelli prese il quadro e lo tenne nel suo studio per tre mesi, dal Giugno all’Agosto, e vi lavorò attorno con la diligenza di una artista e con la passione di un’anima divota della Madonna. Dopo tre mesi mi riconsegnò il lavoro. Il quadro non era più quel di prima.
Il volto della Madonna, che era così repellente nella vecchia tela, aveva acquistato un attraente e dolce atteggiamento di pietà che moveva a pregare chiunque la guardasse.
L’aspetto di S. Domenico era stato discretamente ingentilito, e S. Rosa da Lima s’era tramutata, per quanto lo consentivano gli originali e gravi difetti, in una bella immagine di S. Caterina. La vecchia tela logora, bucherellata e rozza, era stata sostituita da una tela nuova più alta di oltre venticinque centimetri.
Il pittore, senza prevederlo, apparecchiò quello spazio, voluto dall’arte, ma che nei divini disegni doveva servire fra non molto per essere rivestito di brillanti e pietre preziosissime e da una corona di dodici stelle, attestanti le innumerevoli grazie che la regina del Rosario avrebbe ogni di più diffuse tra i fedeli del mondo.
Il questo lavoro d’ampliamento della tela l’insigne Pittore era stato coadiuvato da un altro noto artista napoletano, il Professor Francesco Chiariello, specialista nel distaccare le antiche pitture delle vecchie e logore tele per apporle, con arte e perizia meravigliosa, su nuove tele.
Una cosa soltanto ricordava la vecchia immagine con un difetto a cui forse pochi badano, ma che è in piena contradizione con la gloriosa storia del Rosario.
E risaputo che fu la Vergine a consegnare la Corona del Rosario a San Domenico, come arma invincibile contro gli Albigensi e tutti gli eretici; invece in quel quadro era dipinto il Bambino Gesù che porgeva la Corona a S. Domenico, mentre la Vergine porgeva una seconda Corona a S. Caterina. Ma in ciò non vi era rimedio; non si trattava più di ingentilirle ed abbellire: si sarebbe dovuto far da capo, e tutto ciò non era possibile.
Aggiungiamo in ultimo per la verità, che quello sguardo materno, velato di dolce malinconia, quel fascino celeste ch’esercita oggi la soave Immagine della Vergine di Pompei, non rimonta a quel giorno che il Maldarelli ci consegnò il quadro ritoccato: ma sì invece a due anni dopo, cioè quel giorno dell’Immacolata – otto Dicembre 1881 – per un fatto straordinario che avvenne nella prima Messa che si celebrava in Pompei innanzi a quella Effigie, come narreremo quando saremo giunti a quell’anno.
Il pittore Maldarelli, esemplare cattolico, da parecchi anni è defunto, e abbiamo fiducia che goda la visione della sua Regina in Cielo: e Francesco Chiariello invece è vivo ed è in Napoli. Ed io voglio con questi ricordi storici eternare i loro nomi.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XI - La prima Corona d'oro sul capo della Regina del Rosario di Pompei
Libro Ottavo - pag. 462

Mentre che il Comm. Maldarelli aveva nel suo studio la nostra Immagine della madonna di Pompei per il necessario ritocco, la Contessa ebbe un’idea geniale, di porre cioè sul capo della prodigiosa Vergine, una corona di oro e di gemme, attestante le molte grazie che si erano moltiplicate in Napoli e altrove.
E andando attorno per riscuotere le offerte dalle nobili famiglie napoletane, essa chiedeva a questo scopo qualche oggetto di oro.
E con la sua attività venne a raccogliere in breve tempo tanti oggetti preziosi che poté affidare al noto orafo napoletano Sig. Sodo la commissione di questa prima corona.
E stabilimmo che la privata incoronazione della nostra Immagine dovesse avvenire il giorno in cui la Vergine benedetta era stata incoronata Regina del Cielo e della terra cioè quello dell’Assunzione.
Non avevamo altri da invitare per questa nostra privata funzione, se non il nostro Direttore spirituale che ci aveva dato quel quadro, cioè il P. M. Radente, Domenicano.
Ed egli compì la sua religiosa cerimonia circondata da alcuni contadini e donne pompeiane, nella piccola e crollante Chiesa parrocchiale.
Ma io non vi potei assistere, perché quel giorno ero a letto, consumato dalla febbre dell’ileo-tifo: non mancai però di scrivere nella prima Storia del Santuario di Pompei queste precise parole:
“Il 15 Agosto in Pompei!
La prodigiosa Immagine che sin dall’origine era stata dipinta senza diadema sul capo, veniva incoronata dai suoi devoti in Pompei con una corona di oro e di gemme, dono di 35 famiglie del patriziato napoletano.
E ciò nel dì sacro all’Incoronazione di Maria in Cielo, il 15 di Agosto del 1870, per mano dello stesso Padre Domenicano”.

             

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XII - Il primo apparire della "Novena alla SS. Vergine del Rosario di Pompei per impetrare le grazie nei casi disperati

Libro Ottavo - pag. 464

Quest’anno 1879 doveva essere per eccellenza l’anno memorando, perché non solo continuava a fiorire in modo meraviglioso la pratica dei Quindici Sabati del Rosario, di quella divozione a cui, come ancora di salvezza, si attaccavano tante anime naufraghe nel mare delle sofferenze o del male, ma doveva apparire, per materna ispirazione della celeste Regina, un altro efficacissimo aiuto per le anime, quale è la Novena alla SS. Vergine del Rosario.
Il piccolo libro della Novena e l’opuscoletto caro ai cuori lagrimanti, le cui parole risuonano sul labbro dei fedeli, anche lì dove la religione di Cristo comincia appena ad albeggiare; è il manualetto di cui per bontà e misericordia della provvidenza si moltiplicano a milioni gli esemplari ed in molte lingue.
Per rilevare le origini di questo modesto libricino, noi attingeremo le notizie dalle parole che ponemmo come prefazione alla prima edizione di esso.
“Dopo sette anni (dal 1872) che oscuro ed ignoto lavoravo in questa Valle con la pura intenzione di salvare me stesso col propagare il Rosario tra’ poveri contadini; il Signore per suoi misericordiosi disegni mi ridusse per una fiera infermità presso la tomba”.
Da queste prime parole si rileva che esse erano l’espressione d’un cuore oppresso, di un’anima straziata non solo per le sue gravi ed acute sofferenze fisiche, ma anche dalle sue morali torture; ma era la voce d’un figliuolo smarrito e dolorante e che non vede altra salvezza se non nell’amore e nella pietà della Madre sua.
“Si era giunti al mese di Luglio del 1879.
“Molti associati per la costruzione del novello Tempio desideravano un modo di pregare uniforme non solo in privato, ma anche in pubblico per impetrare grazie dalla regina del Rosario di Pompei, la quale tacitamente le prodigava alle famiglie dei suoi devoti.
“In quel mese di Luglio, io mi trovava sfinito di forze per aver corretto l’ultimo foglio dei QIUINDICI SABATI. È vistomi in sul morire, mi avvisai scrivere come ultimo lavoro della mia vita, cinque preghiere, a cui posi il titolo di Novena alla prodigiosa Vergine del Rosario di Pompei per impetrar le grazie nei casi più disperati.
“E vi spesi presso a due mesi. E rammento che quasi ogni giorno dopo le ore meridiane, tuttochè affranto dall’ostinato ileo-tifo che mi consumava fatalmente, me ne andava nella cadente chiesetta parrocchiale del SSD. Salvatore, ove era esposta la venerata immagine; e in quel luogo solitario, in quell’ora di silenzio, ad alta voce rileggeva una delle cinque parti della preghiera che andava pian piano compiendo. Dinanzi al quadro faceva le mie correzioni. E quando, nel rileggere, mi sentiva mosso il cuore ed aprirsi una vena di lagrime che giungeva a bagnare lo scritto, allora io credeva che la cosa potesse andare.
1 – La grazia della mia vita
“Venne il giorno dell’Assunzione, 15 Agosto del 1879.
“Fu posta la prima volta una corona di oro a letto con peggiore ricaduta.
“Tutti gli amici attorno, e tra gli altri il compianto P. M. Radente, pregavano la Madonna per la mia vita.
Non vi era raggio di speranza.
“Allora io pensai non esservi altro espediente per far cessare le febbre tifosa che un solo: prendere il quadro della Vergine dalla piccola Parrocchia e porlo nella mia stanza da letto. Fu fatto. I circostanti ripetevano:
“– Allora noi crederemo ai miracoli della Vergine sotto questo titolo, quando costui risani.
“Ed io mi rivolsi con confidenza a Santa Caterina da Siena, e le dissi così:
“- Mia cara sorella, io ho scritto di te nel libro dei QUINDICI SABATI, che “Tu dal Cielo ti lamenti come siano pochi i tuoi devoti nel mondo che ricorrano a te per grazie, come se fosse diminuito in Cielo quel potere che Tu avesti da Gesù in terra. Ora, come i miei lettori presteranno fede alle mie parole, se io pel primo, che le ho scritte, non ricevevo da te la grazia? E come crederanno ai miracoli della Vergine del Rosario di Pompei, se la Madonna lascia che muoia colui che promuove la edificazione del suo tempio e ne pubblica i miracoli.
“Bontà ineffabile di questa Madre! Esaudì le preci di Santa Caterina.
“A mezzanotte io aprii gli occhi: il dolore della nuca e della spina dorsale era scomparso insieme con la febbre, sì che il primo raggio del giorno mi ferì gradevolmente le pupille, la prima volta dopo tanto tempo che per il dolore non reggevano a sostenere la luce!
“E l’umile scrittore della Vergine di Pompei, il devoto di Santa Caterina, contro ogni umana aspettazione, visse e vive ancora, e scrive fino a sostenere il peso della pubblicazione del Periodico bimestrale, IL ROSARIO E LA NUOVA POMPEI, e del CALENDARIO ANNUALE delle Orfanelle, dei Figli e delle Figlie dei Carcerati, e di svariate opere ascetiche. Non è questo un evidente prodigio?
2 – Altre grazie
“Ma la Madonna che vuole in questo Santuario di Pompei fare ampia mostra del suo potere presso il divin suo Figlio, e della misericordia verso i peccatori, per allettare i quali ha posto il suo trono degl’idoli e dei demoni, si piacque di gradire le intenzioni e le fatiche di quel povero peccatore, e di concedere grazie a chiunque la pregasse con la Novena scritta dal moribondo suo devoto.
“Ed ho, Cuore amoroso di Maria! Si degnava Ella di apparire alla figliuola del Commendatore Agrelli di Napoli e ripeterle quelle dolcissime parole: - Ogni volta che vuoi grazie da me, fammi tre Novene con la recitazione delle quindici poste del Rosario ed altre tre Novene per ringraziamento. – E la giovane Fortunatina Agrelli eseguì tutto per ordine, e risanò prodigiosamente.
“Ed a suo esempio, fatte le tre Novene, prodigiosamente risanavano ed ottenevano singolarissime grazie migliaia e migliaia di persone in Italia non solo e in tutte le regioni d’Europa, ma anche nell’America, nell’Africa, e fino nelle Indie e nella Cina. Le quali relazioni di grazie e di miracoli conseguiti per la recitazione di questa Novena, autenticati da regolari Processi Canonici, con esame di privati testimoni e di certificati di Medici, fatti da vari Vescovi di lontane Diocesi, si leggono nel periodico IL ROSARIO E LA NUOVA POMPEI dell’anno 1884 insino ad oggi.
“Per giunta, quella Novena, che fu scritta da un peccatore moribondo, conquistato da Maria; quella Novena, che la regina del Rosario, si è degnata di gradire e di benedire con effusione d’innumerevoli grazie, veniva sin dal 29 Novembre 1887 approvata ed arricchita d’indulgenza Plenaria dal S. P. Leone XIII, confermata in perpetuo dal S. P. Pio IX.
“Oltre di ciò, la clemente Regina delle Vittorie si degnava con un altro portento nella città di Arpino dare la sua celeste approvazione a questa formula di preghiera per implorare le sue grazie interponendo S. Caterina da Siena, Sorella Primaria nel terzo Ordine di S. Domenico.
“Il 2 marzo 1894, S. Caterina da Siena, la santa che è dipinta a piedi della regina del Rosario, e che ha nel Santuario di Pompei un altare, apparve ad una giovane moribonda, e le inculcò recitare la NOVENA ALLA VERGINE DI POMPEI per ottenere la guarigione.
“Cosa stupenda! La Santa medesima si compiacque di recitare insieme con l’inferma l’umile Novena; finita la quale, la morente si trovò perfettamente guarita.
“Quel che giova rilevare si è, che come furono giunte alla terza parte della Novena, Santa Caterina voltarsi all’inferma, le dice: “- Ripeti due volte queste parole: “Tu già promettesti a S. Domenico che chi vuol grazie, col tuo Rosario le ottiene: ed io, col tuo Rosario in mano, ti chiamo, o Madre all’osservanza delle tue materne promesse”.
“Da ciò argomentiamo di prendere novella fiducia ed istruzione per ottenere novelle grazie dalla SS. Vergine, in primo luogo, innanzi d’incominciare la Novena alla vergine Santissima di Pompei è utile pregare S. Caterina che ci assista e avvalori la nostra preghiera, come fece con la giovane inferma di Arpino.
“In secondo luogo, come giungiamo alla terza parte della Novena, ripetiamo anche noi due volte quelle parole rivolte alla Vergine di Pompei, che la Santa volle si ripetessero: “Tu già promettesti a S. Domenico che chi vuol grazie, col tuo Rosario le ottiene: ed io, col tuo Rosario in mano, ti chiamo, o Madre all’osservanza delle tue materne promesse”.
3 – Le copiose edizioni di questa Novena
Di questa Novena si sono stampate, dal 1870 al 1925, seicentoquarantotto edizioni, di circa sette milioni di copie.

   

Si è tradotta e stampata in ventidue lingue diverse: in Cinese, in Maleyalam, in Arabo, in Temil e Telega, in Polacco, in Spagnolo, in Portoghese, in Greco, in dialetto sardo Logodurese, in Maltese, in lingua Slava Croata, in Wallona, in Indostano, in lingua Dravidica, in Inglese, in Tedesco, in Francese, in Albanese, in Urdù, in Singalese, in Latino ed in lingua Siriaca.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XIII - Il numero delle grazie ottenute per questa Novena
Libro Ottavo - pag. 470

Chi potrebbe dire quante febbri mortali e contagiose, quante incurabili malattie, quanti morbi ribelli a tutte le cure e a tutti i ritrovati della scienza, quante disavventure, quante violente tentazioni o di re
e passioni o di disperazione sono sparite in virtù di questa Novena?
Non si darebbe mai fine al racconto, se si volesse rammentare tutti i funesti accidenti, ogni genere di morte dai quali l’umile Novena ha preservati i veri servi di Maria!
Basti il ricordare che per la pubblicazione di queste grazie e favori della celeste Madre fondammo nel sette marzo 1884 un apposito periodico intitolato IL ROSARIO E LA NUOVA POMPEI.
E sono già quarantadue volumi, quante sono le annate di questa periodica pubblicazione, che per quarantadue anni continui, senza interruzione alcuna, hanno conservato non solo il titolo e la forma dei quaderni, ma, che è più coscienziosamente si sono attenuti ad un unico soggetto quale è l’esporre le grazie sempre nuove ed incessanti, che la Regina delle Vittorie si è compiaciuta di far piovere sull’afflitta umanità per il corso di tanti anni.
Ma oltre di questa prova, ve n’è un’altra evidente come la luce del giorno.
Sono state di tal numero le anime beneficate dalla nostra celeste Madre per mezzo di questa prece recitata o da solo o in famiglia o in Chiesa, che il cuore degli uomini e delle donne di varie nazioni si è dischiuso ad una carità senza limiti, in virtù della quale abbiamo potuto erigere un Tempio sontuoso di oro e di marmi e fondare una nuova città intorno al Tempio, ricca di opere di Beneficenza Cristiana si rende la metà di tanti pellegrini da lunghi lontani e diversi, di tante visite di famiglie Nobili e di Autorità Civili, Militari ed Ecclesiastiche.
E infine per colmo della divina misericordia, questo Santuario non ha per suo capo Il Capo di tutta la Chiesa Cattolica, il Romano Pontefice?
Ecco il frutto di una umile preghiera: la Novena alla Vergine di Pompei per impetrare le grazie nei casi più disperati.
S. Paolo della Croce, Fondatore dei Passionisti, aveva continua sul labbro la parola di lode e di ringraziamento a Dio, prendendola dal Gloria che cantano i Sacerdoti nella Messa:
- Noi rendiamo grazie a Te, o Signore, per la tua maggior gloria. E questa frase ripeteva in tutti gli eventi, favorevoli o sfavorevoli, lieti o dolorosi. E chiuse la sua vita di apostolato ripetendo il suo motto favorito: Noi rendiamo grazie a Te, o Signore, per la tua maggior gloria!

                         

Il motto di questo gran Santo, ci piace farlo nostro alla fine del presente racconto dell’origine della Novena alla Madonna di Pompei, e invitiamo tutti i nostri lettori a ripeterlo in questo momento: Grazie, o Signore, ti siano rese da tutti i tuoi figli per la grande gloria a cui hai levata Tu la Vergine di Pompei!

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XIV - I primi raggi del pensiero divino sull'Opera Pompeiana
Libro Ottavo - pag. 471

Oramai era giunto l’ora in cui i disegni della Misericordia di Dio intorno al Santuario di Pompei dovevano svelarsi in tutto il mondo.
Mentre il pensiero dell’uomo si era limitato alla speranza d’una modesta chiesa per il bene spirituale di poche centinaia di contadini d’una Valle povera, squallida e sperduta: il pensiero dell’Altissimo abbracciava i dolori e i bisogni d’una sterminata moltitudine di anime, sparse in ogni angolo della terra, e decretava un tempio sontuoso e degno di glorificare la potente Regina delle Vittorie.
La prova evidente l’abbiamo desunta dallo studio di talune note che scrivemmo in quei primi tempi, e ci arreca anche oggi meraviglia il veder fiorire e moltiplicarsi allora grazie e prodigi straordinari in città diverse e nella medesima ora.
Abbiamo la ventura di possedere un elenco di ben Cinquantasette grazie largite dalla nostra potente Regina nello scorcio di quell’anno 1879: di esse, quarantotto a signori di Napoli, e nove a persone di città lontane.
Di queste ultime, una a Francavilla Fontana, alla Signora Clementina Forleo Brayda moglie del Signor Nicola de’ Baroni Argentina.
Un’altra in Roma, alla gentile fanciulla Ida Souvan, e fu la prima che la Vergine di Pompei concedesse nella città capitale del Cristianesimo, come andremo esponendo.
La terza in Foggia, alla Marchesa Celentano.
La quarta in Cerignola, della medesima Provincia di Foggia, alla Signora Angela Rosa Cirillo, vedova Paliero, che offrì lire 50.
L’altra in San Severo (Capitanata) al Signor Giuseppe Damiano, che ottenne varie grazie e segnatamente la guarigione di suo figlio, onde spedì l’offerta di lire 62: ben misera cosa, se si tiene presente l’attuale valore della moneta, ma che per noi rappresentava non piccola provvidenza, quando gli immensi lavori procedevano quasi col ricavato della famosa iscrizione di un soldo al mese.
Finalmente, la più meravigliosa, in Oria, Provincia di Lecce, con l’apparizione della SS. Vergine di Pompei seguita da guarigione istantanea, nella cospicua famiglia dei Signori Martini.
Nel medesimo tempo incominciò la nostra misericorde Regina a manifestare i raggi della sua potenza in Lombardia. Troviamo infatti notata al 15 Agosto 1879 la prima grazia in Cremona alla nobilissima Principessa Elena di Soresina Vidoni, per la conversione di un moribondo: e la seconda alla Contessa Carolina Mocenico Soranzo.
Parimenti in Milano il giorno 28 del medesimo mese di Agosto, otteneva una bella grazia Suor Giuseppina Brambilla, Suora della Carità do Lovere (Fondazione della Venerabile Bartolomea Capitanio): quella Suora Brambilla che fu la prima e la più grande propagatrice della divozione dei Quindici Sabati del Rosario in Lombardia, onde molti ottennero segnalati favori del Cielo.
Troviamo notato tra gli altri nomi, quello della Signorina Adele Perinoti di Milano, con la sua offerta, per grazia ricevuta.
2 – In Napoli
Napoli fu la prima città ad essere benedetta e a provare l’effetto delle celestiali misericordie della Vergine di Pompei, perché fu la prima sia per il numero dei fedeli e divoti, sia per la generosa ed entusiastica gara che divampò nei cuori delle più elette e nobili famiglie, per vedere al più presto portato a termine il suo Santuario.
Ricordiamo che quando cominciavano appena a sorgere le mura del Tempio, era uno spettacolo commovente assistere all’intervento devoto e fervoroso delle più aristocratiche famiglie napoletane cattoliche, nelle feste annuali. Il compiacimento di quella vista cresceva al pensare che quelle dovevano affrontare non lievi disagi, non essendovi a quei tempi nessuno degli attuali e molteplici mezzi di trasporto, ed essendo ancora Valle di Pompei una vera landa desolata.
Sembra di vedere ancora, in quei giorni di festa, intorno alla nascente Chiesa, le lunghe file e i gruppi di carrozze signorili, venute da Napoli, da Capodimonte, da Posillipo, da Portici, da S. Giorgio a Cremano ed altri luoghi circonvicini. Spesso per ripararsi dal sole non c’era che una semplice tenda, , e non poche volte avvenne pure che le famiglie intervenute fossero colte da fenomenali i indimenticabili acquazzoni.
Possiamo infine asserire che il numero delle famiglie aristocratiche, che portavano il loro concorso, fu tale che, da principio, il nuovo Santuario veniva chiamato la Chiesa dei Signori.
Questo slancio di fede fu premiato con innumerevoli grazie, come si desume dalle relazioni di quel tempo.
Rileviamo infatti dalle memorie di quel tempo che, nel mese di Aprile 1879, la marchesina Mariannina Brancia abitante alla Cisterna dell’Olio, offriva L. 25 per grazia ricevuta.
Nel giorno 25 Maggio, il Sig. Battistino Ravel, per ringraziamento di evitata operazione d’una fistola lagrimale nell’occhio di sua moglie, conforme a promessa fatta alla Vergine di Pompei, c’invita L. 127,50.
Il 12 Giugno, la bambina Maria Giardullo offriva, in segno di grazia ricevuta, il suo braccialetto di oro e lire cinque. Il giorno seguente Cristina Varrazzi, cameriera nel Vico Volpicelli a S. Chiara N. 2, offriva da sua parte Lire 7 ed un voto di cera.
Nel mese di Luglio ci pervennero quattro offerte da quattro famiglie, tra cui la Sig.na Elisa Marra (in Via S. Pantaleone N. 8) per grazia ricevuta da una sua amica, offriva un laccetto con breloque di oro.
Il 15 il Signor Ettore Maldarelli inviava due sterline in oro.
Nel medesimo giorno il Signor Francesco de Lieto, abitante a Palazzo Cito al Museo, offriva una Teca di argento e L. 55.
Il 22 la marchesa di Lauriano, ci faceva pervenire, per grazia ottenuta, un paio di cerchioni di oro.
Il giorno 15 Settembre, la Signora Giovannina Muti offriva per ringraziamento alla vergine di Pompei lire 50, più una pianeta e una lampada di argento da servire per la Festa del Rosario che era per celebrarsi in valle di Pompei il 19 del prossimo mese di Ottobre.
Il giorno 25 la Signora Luisa Azzariti nata Fumaroli, abitante in via Costantinopoli N. 104, veniva in Valle di Pompei a ringraziare la vergine e offriva L. 100.
Il 29 la Marchesina Imperiali di Latiano, sposa dell’esemplare giovane Marchese Camillo Imperiali, veniva in Valle di Pompei per ringraziare la Madonna, ed offriva L. 100.
Il 30 la Signora Teresina Correale Giusso (Resina) offriva uno spillo di oro.
Nel medesimo giorno la Duchessa di C. per grazia ricevuta L. 200.
3 – La prima grazia in Francavilla Fontana, nella casa del Sig. Nicola dei Baroni Argentina. Settembre 1879.
Francavilla Fontana, spaziosa e ricca città del leccese, risveglia sempre nell’animo mio profonda e tenera commozione. Essa può dirsi per me una seconda patria. Per l’affetto e tanti e tanti amici di quel caro paese e per la fiducia che io aveva in non poche persone pie e generose, io mi recai colà il giorno 25 Marzo del 1876, prima ancora d’intraprendere qualsiasi giro in altre città per raccogliere offerte per la cristianizzazione della valle di Pompei, e prima ancora che si fosse benedetta solennemente la prima pietra del Tempio.
La mia grande speranza non fu delusa. Tra i molti che vollero concorrere alla mia opera incipiente, vi fu il preclaro giovane, Nicola de’ Baroni Argentina, già mio antico compagno nel collegio dei Padri delle Scuole Pie, letterato di forti studi e di grande cultura.
Io non mancai di fargli un particolareggiato racconto dell’abbandono in cui giaceva questa Valle e dello stato miserando in cui versavano i suoi contadini per la grande ignoranza religiosa, e di manifestargli il pensiero che aveva di far sorgere un tempio dedicato alla regina delle Vittorie, di fronte ai ruderi dell’Anfiteatro e della pagana Pompei.
Alle mie parole quel nobile e pio giovane si accese siffattamente d’entusiasmo nell’animo suo, che, non pago dell’offerta che mi largì, quel giorno 25 Marzo nell’elenco dei primi Francavillesi, volle qualche tempo dopo veniva di persona qui, con la sua ottima consorte, Signora Clementina Forleo Brayda a visitare la terra in cui io lavoravo per la gloria di Dio e della Madre sua Divina.
A quei tempi, per fare opera di santa propaganda, avevamo fatto stampare una immaginetta della Madonna di Pompei, in nero, economica ma punto bella e attraente. Con tutto ciò la figurina era andata a ruba, e per mezzo di essa si destava nei cuori la fede e si ottenevano non poche celestiali consolazioni. All’immaginetta usavamo accoppiare una piccola medaglia, in numero ben limitato.
Quando venne il Barone Argentina in Pompei, ne avevamo ancora qualcuna, e con grande piacere ci affrettammo ad offrirne una a lui e una alla sua compagna.
Venne il Settembre del 1879.
La notte degli 11, la cara e rispettabile famiglia del mio amico in Francavilla Fontana era immersa in grande desolazione.
In una camera di quella casa, posta in Via del Carmine, lì ove due giorni innanzi la Signora Clementina Forleo Brayada era stata allietata dalla nascita di un figlioletto, regnava ora un triste silenzio, interrotto a quando a quando da voci fioche e lamentevoli. Quella giovane madre era martoriata da dolori strazianti per grave complicazione di mali sopraggiunti e che quasi le facevano smarrire la ragione.
Le persone che l’assistevano erano dominate dal più profondo sgomento.
Più affranto degli altri era l’affettuoso consorte che guardava con occhi pieni di lagrime la culla ancora infiorata in cui dormiva il neonato bambino, ed il letticciuolo dove riposava un’altra sua figlioletta di due anni, due povere anime innocenti che forse fra breve non avrebbero più goduto dei baci materni.
I medici avevano in quella sera coscienziosamente dato il loro giudizio, che la scienza non aveva più altri mezzi da somministrare. L’unica crisi favorevole sarebbe stata forse l’apparir del sudore, ma per quanti rimedi si apprestassero, il benefico sudore non appariva.
La perpetua intanto, anche in tale stato, non si dimenticava della Vergine del Rosario di Pompei. Ne aveva letto i prodigi, le si era sovente raccomandata, e nella Chiesa nascente là, a Pompei, essa l’aveva visitata ed aveva avuto sin d’allora il pensiero di farsi scrivere quale benefattrice. Forse nessuno più di lei conobbe in quel punto quanto fosse pericoloso il suo stato: nessuno forse più di lei poteva sentire amore alla vita, ch’era presso a finire! ...
Nel silenzio tristissimo e profondo che le regnava intorno e nel mare delle sofferenze in cui si sentiva immersa, la buona signora si volse nell’intimo del suo cuore alla SS. Regina del Rosario.
D’un tratto, come presa da viva ispirazione, chiamò il consorte:
- Porgimi! – gli dice con tono risoluto – la mia medaglia, la medaglia della Madonna che ebbi a Valle di Pompei!
- E dove posso frugare a quest’ora – rispose il marito, - per ritrovarla? Ti darò invece la mia, che porto addosso – e gliela diede.
La sofferente con fede la prese e la baciò ardentemente. Poi come ristorata da interna ed arcana forza esclamò:
- Recitiamo le Litanie della Madonna! Ed ella stessa rispondeva alle preci con voce chiara e distinta.
Ed ecco, giunti che furono alle ultime invocazioni, l’inferma si sente come risorta, come libera dal peso del male e delle sofferenze che la schiacciavano, e come fuor di sé per la gioia, grida:
- “La Madonna mi ha fatto la grazia!”.
La grazia infatti erasi ottenuta. Apparve il benefico sudore di cui oramai non si aveva più speranza. I dolori scomparvero, la febbre declinò, e un sonno tranquillo sopraggiunse a rinfrancare la povera puerpera.
Al terzo giorno contro tutte le umane previsioni e contro tutti i giudizi dei medici, che indubbiamente aspettavano l’aumento della febbre, l’inferma, signora Clementina Forleo Brayda, si levava dal letto completamente ristabilita.
Con suprema gioia di due famiglie e di molti amici, veniva ella ridonata ai suoi teneri bambini ed al suo diletto sposo, che vedevano così fugato il letale malore, mercé la Medaglia benedetta della Vergine SS. di Pompei.
Questo fatto fu scritto di proprio pugno, nell’attestato a noi trasmesso, dal pio e colto marito della medesima signora Clementina.
E quando nel Settembre del seguente anno 1880, ci recammo a Francavilla Fontana, udimmo nuovamente ripetere dalla loro bocca tra il giubilo e la venerazione di tutta la famiglia, il fatto prodigioso e ne riportammo, come attestato di gratitudine, una offerta straordinaria per la fabbrica della casa della Madonna.
4 – La prima grazia in Roma - Ida Souvan
Due cari gemelli, Arturo e Ida, rendevano meno dura la vita di esilio ai due coniugi cristiani, Carlo Souvan e Fanny Ravel abitanti in Roma, in Via del Babbuino N. 52.
Quei due bambini sembravano due angioletti per la vaghezza delle loro forme e destavano meraviglia e ammirazione, perché più savii che nol permettere l’età infantile di sei anni e stretti d’un vicendevole e tenero affetto. L’affettuosa loro madre spendeva tutta se stessa nelle cure più amorevoli, assidue e diligenti per coltivare la mente e il cuore delle sue belle creaturine.
Ma la felicità non dura su questa terra!
Un crudele morbo, la scarlattina, accompagnata da tifo ed altri ausiliari di morte, che infierivano contro i pargoletti in Roma, nell’Aprile del 1879, penetrò nella pacifica e lieta casa dei Souvan e spezzò bruscamente dal tenero stelo il bel fiore della vita di Arturo, strappando senza pietà alle braccia della tenerissima madre quel vago angioletto.
Sarebbe impossibile descrivere lo strazio di quei due genitori. La disperazione li avrebbe certamente vinti, se l’animo loro non fosse stato fortemente sorretto dalla fede^
A questa fede si aggiungeva un fortissimo amore e divozione alla Vergine Madre di Dio e questo amore e questa fede salvò da disperazione e da novella catastrofe l’addolorata famiglia di Carlo Souvan.
Quasi non bastasse all’esacerbato spirito quel primo inenarrabile dolore, il Signore volle mettere a più dura prova quei buoni e virtuosi genitori.
Non era infatti sedato ancora il pianto per l’amara perdita del diletto figlio Arturo, quando la povera sorellina Ida anch’ella fu attaccata dallo stesso ferale, inesorabile morbo. I medesimi sintomi, le stesse sofferenze: febbre violenta, gonfiore al capo, sordità, congestione progressiva alla spina dorsale, tutto prediceva una seconda catastrofe, una novella più acuta spada al cuore dei desolati genitori.
Pareva che i due spiriti gemelli creati a un’ora belli e puri dalla mano purissima di Dio, e nati insieme a respirare la vita dei mortali in iscambievole amore, non potessero restar tra loro per lunga ora disgiunti.
Il biondo e gentile viso di Ida mostrava negli affanni dell’agonia le ansie dello spirito anelante di raggiungere il suo Arturo nel celeste soggiorno. Come fare? A chi ricorrere, esauriti tutti i mezzi umani della scienza e dell’arte?
In quel buio di pensieri e di agitazioni senza posa, un raggio di luce balenò alla mente annebbiata dell’infelice madre. Appare al suo pensiero la speranza dei naufraghi, la Mattutina Stella. Fu un baleno, che squarcia la profonda caligine di una notte oscura, e addita il porto non lontano.
Senza porre più tempo in mezzo, la buona madre spicca un dispaccio telegrafico ai suoi parenti in Napoli:
Signor Battistino Ravel – Piazza S. Carlo N. 35 – Napoli.
Si preghi la vergine di Pompei che mi salvi la povera Ida dalla morte!
FANNY RAVEL
Nel momento che questo telegramma giungeva nella casa dei Signori Ravel, io medesimo colà mi trovava, e forse non senza una preordinazione divina. A leggere forse non senza una preordinazione divina. A leggere quell’annunzio doloroso e all’udire i teneri fatti della famiglia di Roma, fui mosso a compassione per quegli afflitti. Cercai prima di confrontare la buona famiglia di Battistino, mio amico, e di infervorarla alla fiducia in Maria; poi, seguendo una buona e felice ispirazione, spedii per posta, a Roma, una copia del mio piccolo libro intitolato Storia, Prodigi e Novena alla SS. Vergine del Rosario di Pompei, con una immaginetta.
Quando l’addolorata madre, la Signora Fanny Ravel, in Roma, vide in sua casa, divenuto albergo di lutto e di gemiti, giungere il libro dei prodigi di Maria, lo accolse come venuto dal Cielo, siccome un pegno di protezione della Regina delle misericordie e animata da viva fede, e da fervida speranza, esclamò:
- Oh, la mia Ida, no, non morrà! La Vergine benedetta di Pompei mi farà la grazia! Ecco il suo pegno!
Più col cuore che con le labbra quindi si rivolse alla madonna di Pompei, cominciando la prodigiosa Novena per impetrare le grazie nei casi disperati.
E dal Cielo infatti la grazia non tardò a discendere e a ravvisare qual celeste rugiada, quella pianta inaridita.
Ida fu salva.
Testimoni principali: - CARLO SOUVAN, padre di Ida – FANNY RAVEL, madre della stessa – SILVA ICARD, avola – ROSALIA MASTURZO nata RAVEL – PAOLINA RAVEL – GENNARO CAMPANILE – CRISTINA CAMPANILE nata RAVEL. BATTISTA RAVEL – GIULIA SOUVAR.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XV - Il mese di Ottobre del 1879
Libro Ottavo - pag. 482

Nel cuore di ogni cristiano vi sono dei nomi che da se stessi bastano a suscitare palpiti di tenerezza e sentimenti di sacro entusiasmo. Chi potrebbe esprimere infatti la folla dei pensieri, delle memorie, dagli affetti che si risvegliano in noi, al semplice ripetere o sentir proferire il nome del bel mese di Ottobre consacrato nella storia della Chiesa di Gesù Cristo come il mese de’ più grandi ed imperituri trionfi?
Al ricordo d’una strepitosa e liberatrice vittoria, quale fu la Vittoria di Lepanto che mise in fuga l’insegna della Mezzaluna, e assicurò a tutta l’Europa il dominio della Religione del Vangelo e il cammino della civiltà, si associano mille personali e carissime rimembranze della vita. L’ottobre fu sempre per i nostri avi, il mese della preghiera. Nell’anima nostra risuona ancora l’eco delle loro fervorose preci, della recita del Santo Rosario e delle devote contemplazioni sopra i suoi sublimi Misteri.
Potremmo dire che i nostri occhi commossi sono tuttora pieni e pervasi dalla visione di quelle sontuose e solenni processioni della prima Domenica di Ottobre, con i loro altissimi pennoni dai più vivi colori con i labari delle confraternite, con la Statua della regina del Rosario portata in trionfo sotto piogge di fiori, tra la festa delle campane e il continuo echeggiare dei fuochi d’artificio, se non pure del rombare del cannone, come avveniva, nei tempi andati, nella città di Napoli.
Nella festa del Rosario, al sincero sentimento di fede, di pietà e di religione, si accoppiava sempre un sacro orgoglio di Patria, ricordando quanto l’umanità debba a quel sublime Pontefice ed Italiano figliuolo dell’Ordine del Rosario che fu San Pio V, a cui si deve l’opera della difficile formazione della Lega che sterminò a Lepanto il nemico della nostra fede e della civiltà cristiana.
Con tutti questi sentimenti e ricordi nel cuore, come mai potevamo noi restare indifferenti all’avvicinarsi della prima Domenica di Ottobre? Come potevamo farla passare inosservata e silenziosa, tuttochè viventi nella solitudine di Valle di Pompei, quando coi palpiti di Cristiano Cattolico e d’Italiano si fondevano oramai in me i palpiti di Rosariante e di Terziario Domenicano?
Ecco perché, anche in quei tempi che la Chiesa di Pompei era appena nascente e la taumaturga Immagine si trovava come rifugiata nella screpolata vecchia e cadente Parrocchietta rurale, aveva io costante il pensiero di festeggiare in un modo qualsiasi, ed a mie spese il giorno stabilito da Gregorio XIII come Solennità del SS. Rosario, in memoria della Vittoria di Lepanto.
Manco a dirlo, il mio entusiasmo era infiammato alla vista della folla di signori e di fedeli che in quel giorno venivano qui a ringraziare la vergine benedetta. Essa infatti si degnava di mostrare senza intermissione il suo materno e celeste compiacimento con una pioggia più abbondante di grazie divine.
Non passò mai una Prima Domenica di Ottobre senza celesti favori e sorrisi materni di Maria santissima invocata sotto il titolo di Madonna di Pompei.
La prima Domenica poi in quell’anno 1879 che capitò il giorno 5 Ottobre, la nostra Regina fu più larga di segnalati carismi.
Sfogliando e ripassando appunti e memorie di quel tempo, troviamo notato un confortante numero di nomi e di persone che attestano di aver ottenuto invocati benefizi, precisamente in quella giornata storica, dalla nostra potente Regina. Eccone alcuni:
A Napoli – il 5 Ottobre giorno della Solennità del SS. Rosario – il Signor Emmanuele Murena conseguiva la sua sospirata guarigione, e inviava per riconoscenza L. 105.
Ancora, il 5 Ottobre da Napoli il Signor Pasquale Iengo, a quel tempo abitava a Strada Campane a S. Eligio, ci faceva pervenire L. 50 per la guarigione di sua figlia Giulia.
Contemporaneamente il 5 Ottobre, da cremona, la nobile Principessa Elena di Soresina Vidoni affermava di aver ricevuto una grazia riguardante una sua figliuola e donava L. 50.
Il 5 Ottobre parimenti, nella medesima città di Cremona, la Contessa Carolina Mocenigo Soranzo otteneva un celeste favore per la divozione de’ Quindici Sabati: e per voto fatto, inviava L. 100.
Altre quattro grazie si ebbero pure a Napoli in quel giorno.
La prima fu concessa al Sig. Giuseppe Schettino, dimorante ai Guantai Nuovi, N. 46 e che inviò L. 50.
La seconda toccò alla Signora Giuseppina Pucci d’Aragona. Essa oltre al procurare molte iscrizioni per la Nuova Opera di Pompei, donava, in riconoscenza, un paio di orecchini di argento.
Apprendiamo dai nostri manoscritti al terzo luogo una Signora di Resina (Napoli) la quale non volle si pubblicasse il suo nome, e per ringraziamento offriva L. 200.
Infine il 5 Ottobre ottenne la guarigione una bambina del Signor Giuseppe Abbronzini, dimorante a via Forcella N. 63 ed il padre inviava l’offerta di L. 25.
Accrebbe la nostra letizia quest’altro fatto.
Due giorni dopo, cioè il mattino di martedì 7 Ottobre, giungeva da Roma a valle di Pompei la famiglia dei Signori Souvan con la fanciulla Ida, prodigiosamente guarita dalla nostra SS. Vergine, come innanzi abbiamo narrato, accompagnata dalla propria madre Fanny Ravel e dalle pie Signorine Ravel, zelatrici di questo Santuario in Napoli.
Tutti furono larghi di offerte, e l’avventurata fanciulla si spogliò anch’essa di ciò che aveva di più caro, del suo braccialetto e delle medaglie d’argento che aveva ricevute in premio nella scuola. E le ottime Signorine Ravel consegnarono una bella tovaglia da esse lavorate da adornare l’altare della vergine nella prossima festa di Valle di Pompei.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XVI - La Festa del Rosario tra le grezze mura del nascente Santuario di Pompei
Libro Ottavo - pag. 486

Intanto ci apparecchiavamo all’annuale festa che solevamo celebrare insieme ai contadini della valle del Vesuvio. Era stata già annunziata con pubblico bando (cioè per mezzo di una donna che andava gridando per le campagne) per la Terza Domenica di Ottobre, che in quell’anno cadeva ai 19 del mese.
Questo spostamento nel giorno stabilito dalla Chiesa per la solenne rievocazione delle glorie della regina delle Vittorie a Lepanto, aveva per noi un’importante ragione. Si era all’inizio della fabbrica del Santuario e si lavorava naturalmente allo scoperto, perché della chiesa che doveva un giorno attirare i fedeli di tutta la terra, non si vedevano che le scabre pareti laterali sprovviste ancora di volta per cui occorrevano somme per noi allora stragrandi. Col sopraggiungere dell’inverno si sospendeva la costruzione. Accadevano lunghi giorni piovosi in cui non era possibile eseguire alcun lavoro; e poiché si pagavano gli operai alla giornata, si sarebbero spese tutte le offerte raccolte senza ottenere buon frutto.
D’accordo col Vescovo di Nola, con la Contessa e col Rev.do D. Gennaro Federico, che allora ci assisteva in tutto, eravamo perciò venuti nella ferma determinazione di dar fine ai lavori dell’anno con una festa da celebrarsi alla terza o alla quarta Domenica di Ottobre, perché generalmente verso quel periodo di tempo è quasi sempre sperabile il sereno.
Tale festa popolare e campestre aveva due note singolarissime ed immancabili. La prima, senza dubbio, era opera dello spirito del male, che prevedendo i trionfi di Maria in questa terra, un tempo di suo completo dominio, destava nei cuori di gente priva di fiducia in Dio e proclive a malignare, sentimenti ostili e invidiosi verso quanto si andava compiendo in Valle di Pompei.
Avveniva così che all’avvicinarsi della nostra festa nella terza Domenica di Ottobre, venissero messe in giro voci sospettose o denigranti che, direttamente o indirettamente, tendevano a gettare la sfiducia ne’ cuori dei fedeli e ad allontanarli dal loro intervento e dalla loro generosità. Tali fatti ci affliggevano non poco, osservando che, per tali dicerie, si ostacolava un’opera di bene e si moltiplicavano le difficoltà per l’erezione del santuario.
Ma cotali periodiche amarezze erano compensate dai segni evidentissimi che la vergine benedetta si degnava di largire come prova del suo celeste compiacimento, diffondendo con più larga copia grazie, prodigi e segnalati favori, precisamente nel giorno della nostra festa di Pompei.
Quest’anno pure si erano suscitate dolorose tempeste ed amarezze per l’animo nostro, ma ne fummo ricompensati con una più larga e generosa profusione di consolazioni, come ora esporremo.
1 – L’Altare improvvisato
Nel recinto di quelle ruvide mura, e precisamente sotto il centro della futura cupola, allo scoperto, avevamo fatto costruire un altare di legno con ricco addobbo di serici drappi.
Sopra di quell’altare ponemmo un grazioso e artistico tosello, sotto cui era esposta la prodigiosa Effige della vergine. Una bella tenda bianca copriva l’immagine e l’altare.
Fin dalla sera innanzi, vigilia della festa, con la Contessa avevamo fatto venire a bella posta da Napoli un nostro amico e zelante sacerdote, rigoroso rubricista, il Sac. D. Federico Caprioli di nobile famiglia, che metteva tutte le sue cure a far riuscire con ordine perfetto le solenni funzioni, anche in mezzo alle pietre, alla calce e tra le zolle dell’aperta campagna.
Quella sera di Sabato, con più fervido entusiasmo il nostro Don Federico si era messo all’opera, parando un altare più bello e più sontuoso del solito. Aveva disposto con bell’ordine e con vero gusto di arte su di esso lunghe serie e gruppi di ex voto: - calici, lampade di argento, pissidi, fiori ed arredi – e quant’altro di prezioso la Madonna aveva ricevuto in dono dai suoi figli, per grazie largite nel corso di quei primi quattro anni della costruzione del suo tempio.
Insieme con lui era giunto un altro nostro indimenticabile amico il valoroso e pio Artista Pittore, Comm. Federico Maldarelli, il cui nome non torna nuovo al lettore, quel Pittore cioè che aveva gratuitamente ritoccato il quadro della SS. Vergine. Egli si era assunto e disimpegnava con grande cortesia e perizia l’ufficio di cerimoniere per ricevere e collocare ai loro posti le nobili signore che sarebbero venute il mattino seguente con gli altri invitati. Anch’egli aveva reso il suo valido contributo allineando e disponendo con ordine e con previggenza le numerose sedie che avevamo preso in fitto a Torre Annunziata e a Pagani.
Il terzo che non poteva mancare alle nostre riunioni era il caro e fedele mio amico, Prof. Achille Monarca.
Non si creda però che questi tre nuovi amici avessero fra di loro qualche somiglianza: anzi al primo vederli ognuno scorgeva le loro notevoli dissomiglianze. Il rev. Caprioli era secco, alto, slanciato, alquanto nervoso, era maestro di scuola presso i Padri Barnabiti al Collegio Bianchi e insegnava anche ai piccoli figliuoli della Contessa. Il Prof. Maldarelli era aiutante della persona, pingue, viso pieno senza barba, fronte spaziosa, serena, di naturale calmo ma operativo.
Il Prof. Achille Monarca al contrario, in opposizione del suo nome eroico, era piccolo di statura ed esile nella persona, , di naturale timido e reso doppiamente tale dalla sua squisita gentilezza. Ma per le sue nobili doti di animo e per le sue radicali virtù cristiane di modestia, di umiltà e di carità, era carissimo al Venerabile Padre Ludovico da Casoria che lo volle come professore di lettere nel famoso suo Collegio della Carità: ed era ricercato come insegnante privato nelle aristocratiche famiglie napoletane in cui vigeva l’usanza di non mandar alle scuole fuori di casa né figliuoli né figliuole.
Ancora, il Professore Monarca per la conoscenza che aveva con le più nobili e rispettabili famiglie di Napoli e per la stima che godeva presso di esse, diventava un prezioso collaboratore del Prof. Maldarelli nel ricevere con i dovuti onori le signore che sarebbero venute da noi in quel giorno.
Oltre di che egli era da noi deputato a raccogliere le offerte durante lo svolgimento delle funzioni religiose, o al termine di esse, compito, che disimpegna con speciali attitudini, garbo e signorilità.
Finalmente altre persone e parenti avevano voluto anticipare la venuta. Tutti naturalmente non potevano essere ospitati in casa nostra, bisognava mandarli in qualche Albergo delle vicinanze.
2 – Nell’Albergo del Sole
A quei tempi, dalla lontana Stazione di Pompei Scavi, ove era un restaurant ad alti prezzi per i forestieri che ivi arrivavano, sino al luogo dove noi edificavamo la Chiesa, non vi era nessun Albergo, tranne uno solo – l’Albergo del Sole.
Oggi l’Albergo del Sole esiste tuttavia, ed è uno dei principali tra i molti che si sono costruiti dopo, lungo la via Nazionale e la Nuova Pompei. Ma al tempo della nostra storia, non era certo di primo ordine.
Il sito era piuttosto poetico e sorridente. Da esso si godeva il magnifico panorama e la vista del dissepolto Anfiteatro, degli Scavi e delle macerie dell’antica Città: ma le poche camere dell’Albergo fabbricate di fresco, e con non molta profusione di danaro, (come ce lo confessava il Dotto. Francesco Morlicchio di Scafati, prestatore delle somme occorrenti) non erano ancora ben difese contro i capricci e le improvvise sfuriate del tempo.
Non essendovi dunque verun altro albergo, colà inviammo a pernottare i nostri tre amici.
Quell’anno l’Ottobre era stato incredibilmente mite e soleggiato, se non che alla vigilia della nostra festa, il cielo cominciò a mostrare il broncio.
Non ce ne davamo nessun pensiero, anzi ci sentivamo al colmo della gioia nell’osservare che questa volta i preparativi nella Chiesa nascente erano riusciti più solenni del consueto, e che l’Altare e il tosello erano d’una ricchezza non ordinaria. Ci confortava pure il pensare che si era riusciti a proteggere dalle intemperie oltre l’Altare e la tela della Madonna per mezzo di una solida e ricca tenda, anche la folla dei devoti con un tendone molto ampio e resistente che avrebbe difeso i fedeli dai raggi del sole.
Dalla vicina Scafati erano giunti venditori ambulanti con caffè, liquori, biscotti, pane ed altro. Fra essi non scarseggiavano gli immancabili venditori di castagne, nocciole, (andrite) torrone e tarallucci (ciambelle ruvide).
Veramente queste persone ci erano di aiuto perché mancando a quei tempi ogni luogo di ristoro, e non essendovi stabilmente qui neppure che vendesse un bicchiere d’acqua, erano una vera provvidenza per i poveri pellegrini che arrivavano digiuni per accostarsi alla Mensa Eucaristica, e dovevano tornarsene digiuni ai loro paesi.
I venditori si erano anch’essi attendati e avevano cercato di fissare alla meglio con funi e con pietre le loro mobili baracche.
Sopraggiunse infine la sera e poi la notte, e nessun presentimento o preoccupazione, neppure lontana, turbava l’animo nostro. Quando all’improvviso fummo scossi dallo scoppio d’un fragoroso tuono. A questo ne seguirono altri ed altri accompagnati da abbagliantissimi lampi. Di tanto in tanto violente raffiche sferzavano le invetriate delle finestre lanciandovi contro furiosi nembi di pioggia; e in breve si scatenò un formidabile uragano, quale mai forse avevamo visto in vita nostra.
Mentre non sapevamo raccapezzarci a quello improvviso e impreveduto ribellarsi di tutti gli elementi, una scena tragicomica si svolgeva nell’interno dell’Albergo del Sole, dove erano stati accolti per pernottarvi i nostri amici.
I primi due dormivano in una medesima camera, l’altro invece si era adattato in un attiguo stanzino.
Al primo scoppio fragoroso del tuono, il Comm. Maldarelli e Don Federico Caprioli, si destarono di soprassalto. Lungi dall’immaginare una tempesta, cominciarono a chiamare il vicino Prof. Monarca per domandargli se non si fosse improvvisamente destato il Vesuvio e se non incombesse il pericolo d’una tremenda eruzione.
- Dormite! … dormite pure! … - rispose mezzo assonnato il Prof. Monarca, che, quantunque timido non si preoccupava molto delle intemperie. – Si tratta d’un temporale: e qui a Valle di Pompei i temporali si scatenano sempre con simili veemenza.
Gli altri due cercarono di rassicurarsi, ma non vi riuscivano: lo scroscio della pioggia succeduto al tuono era così fitto, così rumoroso e così minaccioso che non sembrava loro prudente dormirsela in pace.
Passò perciò lungo tempo, durante il quale il pensiero del reverendo Caprioli ricorreva insistente, fisso, triste all’Altare, al Quadro della Madonna, ai candelieri, ai pannilini e a tutte le sue fatiche della sera precedente.
Era così forte la paura d’un possibile disastro, che non osava neppure farne un accenno all’amico.
Il Comm. Maldarelli da sua parte non godeva nessuna tranquillità: si sentiva come pervaso da un misterioso presentimento. Cessato alquanto il frastuono della pioggia, volle scendere dal letto per avvicinarsi alla finestra e osservar alla meglio che cosa accadesse di fuori.
Gettò quindi le coperte e si accinse a mettere i piedi a terra, ma, ad un punto, mandò un grido. Gli era sembrato di affondare nell’acqua.
- Don Federico! … - gridò – che cosa è mai questo! – Qui c’è acqua, qui siamo in mare. Per carità accendete un fiammifero, vediamo di che cosa si tratta!
Don Federico fu lesto a contentarlo, e appena quella fiammella rischiarò la stanza si presentò loro il più impreveduto spettacolo. L’acqua per le imposte mal chiuse e per le tettoie non finite e mal protette, era entrata nella camera in tanto abbondanza che s’era formato un piccolo lago, su cui galleggiavano, come una minuscola flotta, gli stivaletti del Comm. Maldarelli e gli scarpini da prete di Don Federico Caprioli come due barchette piene di acqua che minacciavano di affondare.
Sarebbe impossibile descrivere il loro sgomento al pensiero che non avevano altre scarpe, che l’alba oramai si avvicinava e dovevano levarsi e che non c’era mezzo neppure di farle asciugare alla meglio.
Anche questa volta cercarono di destare il Prof. Monarca e di domandargli qual sorte avessero subito le sue scarpe; ma egli rispose placidamente che, prevedendo una simile sorpresa, aveva pensato a metterle in salvo sul comodino.
Don Federico s’era addolorato per i suoi scarpini galleggianti, ma in verità la sua grande pena era la certezza del disastro avvenuto nel recinto delle mura del Santuario.
- E il Quadro della Madonna? … e l’Altare? … ripeteva sottovoce con tono di dolore: - povere fatiche mie! …
È superfluo dilungarci nella descrizione degli effetti della notturna tempesta e dello spettacolo che si presentò al nostro sguardo, quando, appena fattasi un po’ di luce mattutina e calmatasi l’ira degli elementi, uscimmo per osservare che cosa ne fosse dell’altare, del tosello e di quanto era stato preparato il giorno innanzi.
Tutto era stato abbattuto, rotto, travolto! Perfino la resistente tela che doveva servire da velario, era stata portata via, e l’acqua aveva allagato il pavimento formato di pietre, di calce e di terriccio.
Immaginarsi il disastro dei poveri venditori ambulanti: chiacchiere, caffettiere, biscotti, bottiglie di rosolio, bicchieri e bicchierini tutto infranto e trascinato dalla lava. La loro rovina fu tale che io mosso a compassione, cercai di indennizzarli per non lasciarli pure con un pessimo ricordo di quella giornata.
Sennonchè il nostro sgomento, alla vista di quell’inopinato disastro, doveva essere non solo rapido e passeggero, ma anche compensato da una gioia quasi inenarrabile, quale la bontà infinita del Signore e l’immensa misericordia della celeste Regina dovevano donarci in quel giorno.
In mezzo a quel rovinio, a quel finimondo, a quel naufragio universale, una cosa sola era rimasta al suo posto intatta, asciutta e immune da qualsiasi danno: - Il Quadro della Madonna! …
3 – La festa
L’uragano della notte era stato spaventevole, ma ora, nelle prime e fresche aure mattutine, il cielo terso e tutto d’un purissimo azzurro, annunziava una giornata di meravigliosa bellezza.
Un’aura piacevole, ma anche efficace, andava rasciugando il suolo e le cose circostanti.
Confortati da quella promessa di luce e di calma, tutti ci mettemmo all’opera per riparare alla meglio i guasti.
L’infaticabile ed abile D. Federico Caprioli, quasi in un batter d’occhio, ricostruì l’altare, improvviso un nuovo tosello e dispose ogni cosa per la celebrazione della messa e della festa.
Subito, di dietro ai monti che ad oriente e a mezzodì cingono come una corona la valle di Pompei, sorse un sole meraviglioso che inondò la vivissima ma mite e dolce luce il cielo, le campagne circostanti e le mura della nostra chiesa nascente.
Le nobili famiglie napoletane non si erano sgomentate per il temporale della notte. Spinte da ardente divozione alla loro cara Madre e regina, erano partite di buon’ora da Posillipo, da Capodimonte, da Napoli, da Portici e già cominciavano a giungere con le loro signorili ed ampie carrozze.
In breve fu un ininterrotto allinearsi di vetture e di altri mezzi di trasporto lungo la Via Nazionale e un vero riversarsi d’un incredibile e inaspettata folla di devoti.
Giunsero da Napoli gli altri nostri inseparabili compagni il Prof. Tarquinio Fuortes con le sorelle e con il venerato genitore Cav. Michele Fuortes, il Prof. Antonio Cua l’architetto gratuito della Chiesa di Pompei, e altri di sua famiglia.
Il Commendatore Maldarelli, con la sua abituale dignità e cortesia riceveva tutti e tutti collocava in posti il più possibile adatti per assistere alla festa in onore del SS. Rosario.
Più tardi sopraggiunse l’amato e zelante Vescovo di Nola, Mans. Formisano, e presto si poté dar inizio alla celebrazione della Messa. Egli intonò la recitazione pubblica del Rosario. La festa riuscì oltre ogni dire fervorosa e commuovente.
Alle manifestazioni di pietà le famiglie intervenute aggiunsero le loro generose offerte per far che al più presto si riprendessero i lavori di edificazione.
4 – Gli echi dell’Ave Maria di Mercadante sulla terra di Pompei
Non voglio passar sotto silenzio un singolare e caratteristico avvenimento che non solo accrebbe la bellezza e la devozione della festa, ma fu un vero presagio, un meraviglioso annunzio d’una bellezza caratteristica che doveva perpetuarsi nella futura Casa della Madonna di Pompei, e di cui doveva servirsi la provvidenza per scuotere i cuori, facendo che l’arte dei suoni e del canto li spingesse a ritrovare il perdono de’ falli, la pace dello spirito e la benedizione nelle sofferenze.
Quel giorno, fra tanti fedeli e pellegrini, v’era un pellegrino nuovo e straordinario; un grande artista, anzi un vero signore del canto che a quei tempi faceva risonare la sua dolcissima voce tutte le chiese di Napoli.
Era il tenore Francesco Caracciolo, noto a tutti col familiare nome di Ciccillo Caracciolo, ricercato segnatamente quando si eseguiva lo Stabat Mater del Pergolesi nella storica Congregazione dei Dottori e Cavalieri presso i Padri dell’Oratorio di Napoli detto dei Girolamini, e quando si eseguiva la nota e bellissima Ninna Nanna del famoso Maestro Giordano nella Chiesa di S. Domenico Maggiore e durante la Novena di Natale.
Questo bravo e pio artista volle dunque alla Vergine di Pompei portare il contributo della sua dolcissima e incantevole voce. Vi venne col comune amico, il Signor Salvatore Festa che lo accompagnò col suo Harmonium.
Dopo la Comunione, mentre tutti i cuori erano assorti in profondi sentimenti di fede e di amore, mentre intorno regnava un indescrivibile silenzio, non interrotto che da qualche leggero stormire di foglie, ecco darsi principio a quel soave arpeggio con cui cominciava la famosa Ave Maria di Saverio Mercadante, il vecchio cieco Direttore del famoso Collegio Musicale di S. Pietro a Majella in Napoli: composizione negletta oggi che il gusto è stato abituato non più a melodie italiane, ma a ibride composizioni straniere, ma che forse non ancora è stata superata per effetto e per un certo fascino per cui scendeva al cuore e lo commuoveva fino al pianto.
Se alla dolcezza della musica si aggiunga la valentia del cantore e la soavità della sua voce, è facile immaginare quale commozione si destasse dal fondo dell’anima de’ fedeli e de’ devoti fin dal primo echeggiare delle prime note: Ave Maria!
L’artista riportò un vero trionfo e rese un grande omaggio alla sua celeste Regina, ma quella sua geniale iniziativa non fu senza un arcano presagio.
Quel canto tra le mura ancora nascenti di questo Santuario preludiava al dolcissimo coro di cento e cento voci di fanciulle, le orfanelle della Madonna di Pompei, che non si stancano di inneggiare mattina e sera alla vergine col soave saluto dell’Ave Maria, e di pregare col canto per mille e mille cuori trafitti.
Quel medesimo harmonium preludiava al maestoso e dolcissimo Organo plurifonico, uno de’ più pregevoli, se non forse il primo fra tutti, quell’organo che toccato prima dalla mano d’un cieco ardente di devozione alla Madonna, il carissimo Maestro Giacinto Liucci, e poi da tanti altri illustri Maestri, è diventato non poche volte, ne’ disegno della Provvidenza, strumento di conversioni veraci.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XVII - Il più bel fatto avvenuto nell'anno 1879. Un'apparizione della vergine di Pompei nella casina de' Signori Martini di Oria
Libro Ottavo - pag. 498

Tra i rigogliosi giardini di fichi, di ulivi e di vigneti nella terra di Oria in Provincia di Lecce, è posto il casino dei Signori Martini, famiglia delle più nobili, cospicue e pie della vetustissima città.
Era presso a spuntare l’aurora del giorno 9 Ottobre dell’anno 1879.
In quel casino, a quell’ora, regnava silenzio e quiete. Era la stanchezza e l’abbattimento di ben tredici giorni e tredici notti. Dormivano tutti, tranne la gentile giovanetta Mariannina cui il beneficio del sonno più non scendeva a ristorare le stanche pupille.
Essa giaceva supina, esangue, sul letto dei suoi dolori, perché oramai non poteva più adagiarsi a verun dei lati.
Presaga la sua prossima fine, con gli occhi semispenti, col viso stranamente macchiato tra il giallo e il lividi, la sofferente era cruciata da continui e dolorosi attacchi al cuore, e ne sentiva ella stessa di quando in quando sospendersi le pulsazioni.
Rassegnata e dolente ripeteva con voce fioca: - Mi sento mancare la vita”.
Ma che cosa soffriva essa mai?
Lo raccontava la desolata madre, signora Giuditta D’Electis, alla quale sei lunghi anni di cure assidue e di lacrime e di preci non avevano potuto ridonare l’unica figliuola sua Mariannina.
Lo sapevano gli affettuosi fratelli di lei, signori Nicola, Pasquale, Giacinto, Giuseppe e Vincenzo Martini, i quali vigilando dì e notti intere presso il letto della dolce loro sorella, avevano spese tutte le loro cure e tutte le loro tenerezze.
Lo conosceva infine la povera inferma, che da sei anni aveva perduto il brio della fiorente giovinezza; ed aveva visto seguire alla ilarità dei suoi giorni un cumulo malaugurato di dolori, di convulsioni, d’operazioni chirurgiche, di sofferenze di ogni specie. Che non avevano tentato i suoi cari per risanarla?
Per ultimo spediente nel mese di Agosto l’avevano trasportata a Napoli per consultare i migliori medici, tra cui l’illustre Prof. Cantani. Ma dopo i bagni termominerali dei Bagnoli, ordinati da quell’egregio scienziato, tutti gli antichi mali erano riapparsi con maggiore intensità. Le scoppiò la febbre con inappetenza, con forti dolori al capo, e fiamme al volto e tosse e sofferenze, per guisa, che i suoi fratelli, temendo qualche sinistro lungo il viaggio di ritorno al paese natio, sollecitarono il medico curante ad accompagnarla sino al loro casino di Oria.
Stando nel casino di Oria, la tosse divenne sì fiera e profonda, che ben dava a temere la rottura di qualche vaso sanguigno, come difatti avvenne dopo alquanti giorni. Tutti i rimedi più energici della scienza moderna furono vani. La morte era presso al capezzale dell’inferma. A notti di angustie succedevano giorni angosciosi.
Il medico sentiva il dovere di ordinare i Sacramenti, ma gli mancava il cuore di aggiungere dolori e dolori alla desolata famiglia.
In questo stato li sorprendeva l’aurora del 9 Ottobre, allorquando seguì il fatto straordinario che noi non sapremmo meglio esporre, se non con le parole semplici e sincere della medesima signorina Mariannina Martini.
Queste parole furono consacrate con giuramento nel processo iniziato alla Curia di Nola, presieduta da S. E. Mons. Formisano ai 16 di febbraio dell’anno seguente 1880, sulla relazione giurata del medico curante signore Oronzo Biasi e dei fratelli della graziata, signori Giacinto e Pasquale Martini.
Nel giorno 9 Ottobre 1879 mi accadde questo fatto straordinario.
“Trovandomi nel mio casino in Oria gravemente inferma, dopo sei anni continui d’indicibili sofferenze, mi sentiva ad ogni istante mancar la vita per gli attacchi al cuore. L’aria mi veniva meno e mi si oscurava la vista. Passavo le notti insonni per i continui patimenti: soffrivo una completa inappetenza e quindi debolezza estrema con tosse violentissima.
“Pochi giorni innanzi, mio fratello Giacinto aveva scritto all’Avvocato Bartolo Longo in Pompei che si facessero delle preghiere alla SS. Vergine del Rosario, q quivi fu fatta una novena.
“Sopraggiunse la festa del Rosario del 5 Ottobre, ed io peggiorai per modo, che la notte precedente il giorno 9 mi sentiva presso a morire, nonostante tutti i farmaci che mi faceva apprestare il mio medico curante, venuto da Napoli, Dottor Oronzo Biasi. Quando, in sull’alba di quel giorno, essendo io svegliata, come quasi sempre, abbattuta ed esinanita, con gli occhi aperti e supina, non potendo posarmi a verun lato, tutto ad un tratto vidi la mia stanza inondata di luce chiarissima, ed al lato destro del mio letto presentarsi una bellissima Signora, che io subito conobbi per la madonna … A tale apparizione rimasi stupefatta.
Aveva Ella statura giusta, il viso gentile d’un bianco roseo, e due occhi neri che lucevano come due stelle.
Capelli neri, sciolti; sul capo aveva una corona di foglie verdi frammezzate da qualche rosa bianca. L’abito splendente, le mani aveva congiunte, e dalla destra pendeva un Rosario di quindici poste come di oro. Io non fissava gli sguardi ad un punto determinato, ma anelava di guardarla tutta intera.
“A tale apparizione la mia vista, che prima era attutita, ma si fece chiara ed intera. Notai l’aspetto della Madonna essere maestoso, ma affabile ed amorevole, ed il sembiante alquanto mesto.
“Subito cominciò a parlarmi, ma con una voce così dolce, così soave, che per quanto mi sforzo non so trovare verun suono di istrumento cui possa somigliarla:
- Mariannina! Tu vuoi vivere, o vuoi morire?
Io risposi semplicemente: - Come vi piace.
“E quella a me: - Io sono la Madonna del Rosario di Pompei. Se vuoi guarire, devi venire alla mia Chiesa a Pompei. E prima di entrarvi, devi scalzarli: e quattro passi prima di giungere al mio altare, verrai in ginocchioni.
Io le risposi; - Per me è impossibile far tutto questo: piuttosto andrei in Oria stessa nella Chiesa di S. Domenico la quale è sotto il titolo del Rosario.
- No, - riprese la Madonna: - osserva quel che ti è ordinato e guarirai certamente. Dal giorno undici al giorno dodici spariranno tutti i tuoi antichi mali: e pel giorno quindici starai perfettamente bene. Ed il tuo medico curante ne farà l’attestato. E così potrai venire da me a Pompei. Ma non far passare un mese dalla tua guarigione senza osservare quel che ti ho imposto.
Detto questo, disparve agli occhi miei. Ma la luce rimase impressa nelle mie pupille per tre giorni continui insieme con l’immagine della SS. Vergine. Sicché ai miei fratelli, a mia madre ed al medico, tutti afflitti per grave mio stato, io altro non faceva che ripetere spesso in tono giulivo:
- “State allegri che non passerà il giorno undici, ed io starò bene”.
L’effetto dell’apparizione portò nell’animo mio la certezza della guarigione datami dalla vergine del Rosario, ed una pace ed una calma interna che io non so descrivere.
“Quei di casa erano titubanti, altri mi credevano illusa. Venne il tramonto del Sabato, giorno undici, tanto aspettato, e tutti erano nella massima sfiducia, e più di tutti erano nella massima sfiducia, e più di tutti il medico, che aveva prognosticato esser quella l’ora del tramonto di mia vita. Solo mia madre, devotissima del Rosario, non aveva perduta la speranza. “Ed ecco, sul cadere di quel giorno, m’intesi d’un tratto ridonata la vita, fugato d’un colpo quel malore che mi teneva afflitta da anni e rifluirmi il sangue per le vene, e sparire le macchie dal volto ed ogni segno d’infermità.
“Feci chiamare il medico, il quale all’avveramento di quel prodigio che contraddiceva tutti i principi della Medicina e della Terapeutica, rimase quasi fuori di sé.
Tutta la mia famiglia, e tutte le persone presenti si posero allora e ringraziare la misericordia della SS. Vergine.
“Se non che il lunedì seguente, 13 Ottobre, mi si chiusero per modo le fauci, per spasimo così detto esofageo, da non potere inghiottire verun cibo, neanche liquido. Ed in questo stato durai tre giorni, sentendo una fame forte e come rabbiosa, sino al mattino del giorno quindici.
“Ora avvenne, che mentre il medico aspettava la sonda esofagea per intromettere nel mio stomaco qualche cibo, ecco, sull’albeggiare del giorno quindici, (Mercoledì) presentarsi novellamente nella mia stanza la Madonna con la stessa luce e con lo stesso portamento della prima volta.
“Come io la vidi esclamai: - Io sto peggio di prima!”
E la Madonna rispose: - Come ti promisi, oggi sei guarita.
“E ciò dicendo, stese la sua mano, la poggiò sul mio petto e soggiunse: - Alzati e mangia ciò che ti piace. Riprendi le tue abitudini come per lo innanzi: ma eseguisci ciò che ti ho detto, cioè di venire a Pompei. – E disparve.
“Il primo mio movimento per assicurarmi della perfetta guarigione, fu di stendere la mano sotto il guanciale e prendere un pezzetto di cioccolata e qualche confetto che il medico stesso faceva porre nella speranza ch’io lo potessi, in qualche momento propizio, inghiottire da me. E sentendomi bene veramente e riacquistare le forze da poter facilmente inghiottire, chiamai tutti di famiglia per rilevare questa seconda apparizione con una prova così evidente.
“Il medico non credeva agli occhi suoi, e per assicurarsi del fatto mi fece apprestare un ciotolone di latte e caffè con pane di Spagna, e me lo fece trangugiare alla presenza di tutti, mentre tutti piangevano per tenerezza.
“Io era perfettamente sana, e quel giorno pranzai con la famiglia cibandomi anche il pasto grossolano e di fritture. Anzi contro le previsioni del medico, che mi assegnava lo spazio di un mese per poter gradatamente ricuperare le perdute forze e camminare, io, dopo tre giorni, passeggiava pei giardini, sentendomi così vispa ed allegra, come quando era fanciulla a dieci anni. Ripresi financo l’esercizio del pianoforte e delle mie giovanili abitudini”.
(Firmati) Testimoni: - GIUDITTA D’ELECTIS, madre della signorina Mariannina Martini – Signori NICOLA, VINCENZO, GIACINTO, PASQUALE E GIUSEPPE MARTINI, fratelli – DOTT. TOMMASO CORRADO, domiciliato in Oria, medico della famiglia – DOTT. ORONZO BIASI, domiciliato in Napoli Via S. Maria Antesaecula N. 37 – Signor DAL BONO, Superiore del PP. Della Missione di Oria.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XVIII - Il 21 Novembre e chiusura dell'anno 1879
Libro Ottavo - pag. 504

1. La Provvidenza intreccia insieme due grandi consolazioni per il nostro cuore
Venne il giorno della Presentazione di Maria al Tempio di quell’anno 1879, anno così ricco di avvenimenti tristi e lieti.
La provvidenza aveva sempre fatto seguire ai nostri dolori inaspettate e grandi consolazioni, ma l’animo nostro era lungi dall’immaginare ciò che ci riserba in quella fausta giornata.
Mentre ci trovavamo ancora a Valle di Pompei, intenti alle nostre abituali occupazioni, e il pensiero correva dietro a mille idee e progetti per i bisogni urgenti del nascente Santuario, ci fu annunziata una visita inaspettata.
Era la piccola comitiva de’ nostri amici intimi venuti da Oria la famiglia de’ Signori Martini con la buona giovanetta graziata Mariannina. Essi recavano scritto in volto tutto il fervore e tutto l’entusiasmo di chi è compreso da grande e da grande devozione.
Ella, per osservare esattamente l’ordine della SS. Vergine, e per consiglio del suo Direttore Spirituale, Signor Dal Bono, Superiore dei Signori della Missione in Oria, malgrado il rigore straordinario del freddo di quell’anno, le nevicate e i venti gagliardi, aveva intrapreso quel viaggio per ringraziare la Madonna.
La consolazione mia e della Contessa fu al colmo. E dopo averle rivolte le più commosse congratulazioni, dopo averle fatto narrar di nuovo il prodigio dell’apparizione della Vergine, l’accompagnammo fino alla taumaturga
Immagine, innanzi alla quale ella, scalza e ginocchioni, in preda alla più viva commozione, tra lagrime di tenerezza, sciolse il voto del suo cuore.
Dopo un’intera giornata di ringraziamento, di preghiere e di promesse, Mariannina Martini sana e lieta ritornò con la sua buona famiglia a godere le dolci rimembranze di quegli avvenimenti nel suo casino in Oria; e colà a memoria perenne della potenza e dell’amore della madonna di Pompei, in quella stessa stanza ove la vide apparire e ne riebbe la vita, le fece dedicare una devota Cappella.
Oggi che rammentiamo questa storia, dopo quarantasei anni da quel giorno faustissimo, tutta quella numerosa famiglia dei Signori Martini è spenta; sopravvive solo Mariannina che fu tanto singolarmente favorita dalla Vergine del Rosario di Pompei. E la Cappella eretta nella sua camera di moribonda esiste tuttora al medesimo posto. Colà la pia e zelante signorina superstite fa celebrare le messe alla Madonna e anche, ogni primo Venerdì del mese, una Messa in onore del Cuore Santissimo di Gesù.
2. Allegra chiusura dell’anno 1879. La prima offerta di Diecimila lire
Mentre si svolgeva qui a Valle di Pompei la scena consolantissima della venuta della eletta giovane graziata di Oria, un’altra scena d’indole diversa, ma operata dalla Provvidenza per l’incremento del Santuario, aveva luogo in quel medesimo giorno e in quella medesima ora, nella città di Nola.
Nell’ora medesima infatti di quel mattino che giungeva qui da noi la famiglia Martini, si presentava a quel degno e zelante Vescovo che fu Mons. Formisano, un signore ignoto chiedendogli di potergli esporre un suo desiderio.
Lo sconosciuto visitatore era un signore piuttosto alto della persona, tra il bruno e il rossiccio, de’ capelli folti, corti e brizzolati, dalla barba accuratamente rasa, vestito di nero con eleganza ma esprimente, nell’insieme, una rigida signorilità.
Sarebbe sembrato più un italiano, se non l’avessero tradito l’accento prettamente meridionale.
Appena alla presenza del Vescovo, egli, dopo sobri convenevoli, gli domandò senz’altro se avesse autorizzato l’Avv. Bartolo Longo e la Contessa Marianna De Fusco e costruire un tempio a Pompei. - Sicuro, - rispose il buon Vescovo: - Anzi li abbiamo noi stessi autorizzati a ciò, e, non contenti ancora, li abbiamo raccomandati con tutte le forze del nostro cuore a’ nostri diocesani, nell’ultima e recente nostra Lettera Pastorale.
- Ebbene – soggiunse allora il misterioso visitatore: - avendo letto dell’urgente bisogno che essi hanno d’una forte somma per gittar la volta della Chiesa, ho divisato di venir io in aiuto. Ecco una mia offerta di lire diecimila che prego Vostra Eccellenza di far loro pervenire.
Così dicendo, il signore cavò di tasca un elegante portafogli, ne trasse un pacchetto di biglietti di banca da L. 1000 ognuno, e cominciò a farli cadere sotto gli occhi dell’attonito Prelato: due, quattro, sei, otto, dieci …
Anche oggi diecimila lire rappresentano qualche cosa, ma ai tempi in cui avveniva questo fatto quella somma si considerava come favolosa, e più favolosa sembrava che venisse offerta per la volta d’una chiesa che sorgeva in una campagna.
Tutto ciò quindi al buon Vescovo, educato da lunghissima esperienza e, per suo naturale, uso ad essere più che guardingo e prudente, non parve schietta farina …
- Certamente – pensò – costui dovrà essere un egregio furfante. Questi biglietti saranno falsi, ed egli ne vorrà trarre un abile ricatto, esigendo da un momento all’altro una buona somma da me, e minacciando di denunziarmi, quand’io li avessi accettati.
Intanto come regolarsi? Poteva egli mai manifestare il suo sospetto? Ebbe un’idea.
Chiamò il cameriere e gli ordinò di servir subito una chiacchiera di caffè al Signore. Poi tra una parola e l’altra, trovò il mezzo come trarre in disparte il cameriere medesimo e dirgli in un orecchio che corresse all’Ufficio postale, facesse osservare quei biglietti: e nel caso che si trattasse di biglietti falsi corresse subito dal Tenente de’ Carabinieri per farlo venire da lui.
Il cameriere si precipitò per eseguire l’ordine del padrone, e Monsignore, per prendere tempo e fare che arrivassero i Carabinieri, ed abile com’era, intavolò una lunga chiacchierata col misterioso oblatore.
Ogni momento sembrava eterno. Finalmente il cameriere ritorna. In preda alla più indicibile meraviglia esclama:
“Monsignore! … sono tutte buone! … Tutte buone! …
L’ottimo Prelato fu dolente del suo primo pensiero, e per ripararvi non solo si effuse nelle più paterne e eloquenti benedizioni; ma volle anche dare qualche suo ricordo a quell’eminente benefattore. E gli offrì la sua lettera Pastorale in cui parlava dei Miracoli della Madonna di Pompei, ed anche altri libri da lui editi per uso del suo Seminario, tra i quali la Teologia Morale che egli pazientemente e magistralmente aveva tradotta in italiano.
Gli venne pure il desiderio di conoscere il nome del benefattore, ma questi, scusandosi garbatamente, disse che desiderava serbare l’incognito.
Lo sapemmo noi in appresso e lo conoscemmo di persona: si trattava del Cav. Michele Pepe gentiluomo napoletano, di cui è tuttora vivente un degno nipote, il rispettabile P. Pepe dell’Oratorio di Napoli detto de’ Girolamini.
Partiti appena il visitatore, Mons. Formisano si affrettò a scriverci che ci recassimo al più presto da lui.
Due giorni dopo la Contessa ed io ci mettemmo in viaggio, e un po’ confabulando, un po’ ruminando dentro di noi, cercavamo di indovinare che cosa mai volesse dirci Monsignore. Nuovi lamenti? Nuove denunzie? Nuove minacce? Chi sa?!
Il nostro cervello galoppava, galoppava, ma il cuore nostro era calmo e come presago d’una buona notizia.
Infatti come fummo alla presenza del Vescovo, guardandolo in faccia, lo scorgemmo insolitamente lieto, giocondo e sorridente.
- Monsignore – gli dicemmo, - avrete forse saputo della venuta della miracolata, della Signorina Mariannina martini di Oria a Valle di Pompei? Che grande miracolo è stato questo!
- Sì, è vero: - soggiunse il buon Vescovo – sarà grande e consolante, ma io ho un’altra consolazione da darvi …
E così per filo e per segno ci fece il racconto dell’accaduto, un po’ deridendosi da se stesso del temerario sospetto, un po’ piangendo di consolazione, un po’ ringraziando e incitandoci a ringraziare la Provvidenza di cui si poteva cantare, per gloria della madonna: - fecit nobis magna: - ha operato per noi cose davvero grandiose.
La madonna infatti aveva provveduto per dar principio alla volta del suo tempio e per assicurare il lavoro per tutto il nuovo anno 1880.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XIX - Appendice Seconda

Epilogo (pag. 511)
1. La Storia continua
Quanto Bartolo Longo ha scritto è se non la Storia delle origini, fino al 1879.
Certo gli inizi sono importanti perché fanno presagire il futuro. Trattandosi poi di un’opera di Dio è ancora più importante osservarne lo sviluppo iniziale, perché esso è garanzia di autenticità e perpetuità. Un’opera di Dio – sia essa istituzione o vita di una persona – è come “la casa fondata sulla roccia” di cui parla Gesù: né venti né tempesta potranno distruggerla.
Dio ha voluto offrire, qui a Pompei, un altro segno della sua Bontà e Potenza.
Maria, Madre di Dio e della Chiesa, si prende cura – maternamente – di “amministrare” questa divina Bontà e Potenza.
Le Opere – gli Istituti assistenziali, il santuario e la stessa città – ne sono il segno tangibile.
Gli uomini – residenti o pellegrini – sono per quest’opera di Dio i docili strumenti. Il loro lavoro ed il loro obolo si intrecciano, nelle mani della provvidenza, a formare quel tessuto che chiamiamo storia: la storia di Pompei.
Qui di seguito, in attesa che sia scritta una più degna storia, riportiamo “dei dati” che offrano una pallida idea di come l’opera pompeiana stia sviluppandosi. La storia continuerà. E siamo certi che la futura narrazione dirà sempre di più quanto il Beato B. Longo, per volontà di Dio, ha compiuto a Pompei.
Quel seme ha portato – e porterà – rigogliosi fiori e abbondanti frutti.
2. Le Opere di Carità
Gli Istituti Pompeiani fanno singolare corona il santuario. Sono i fiori della carità cresciuti alla luce della fede e della devozione a Maria, Madre di Dio e della Chiesa.
Nati dalla fervida mente e dal caldo cuore di Bartolo Longo si sono modificati ed ingranditi, nel corso degli anni, per meglio rispondere alle esigenze di uno sviluppo umano e religioso sempre più armonico.
Moderni criteri pedagogici hanno suggerito di non tenere più la divisione tra “orfanelle” e “figlie di carcerati”, ma fonderle in una sola grande famiglia, raggruppate per età: le alunne delle classi elementari separate da quelle della scuole superiori. Per tutti gli alunni non ci sono limiti di età sulla loro permanenza, potendo essi fermarsi a Pompei anche per tutta la vita.
A queste opere sono destinate le offerte dei fedeli, che sono le uniche fonti di finanziamento per la vita di mille assistiti, ai quali dedicano assidue cure sacerdoti, suore e fratelli delle scuole Cristiane.
L’Orfanotrofio femminile
È il primo degli Istituti di beneficenza sorto all’ombra del Santuario, La data di fondazione, 8 maggio 1887, coincide con la prima incoronazione della vergine del Rosario. In quello stesso giorno i pii Fondatori, obbedendo ad una soprannaturale ispirazione di creare accanto al monumento della Fede, il monumento della carità, accolsero la prima orfanella. Il nuovo edificio, vicino alla prima sede, si affaccia sull’immenso piazzale dedicato al Papa Giovanni XXIII.
Istituto maschile “B. Longo”
L’imponente edificio sorge poco lontano dal Santuario. Il 24 maggio 1891, con una fede, di raro esempio nella storia, Bartolo Longo levò il suo grido per la salvezza dei bimbi, orfani della legge. Il mondo ne fu commosso: la carità trionfò.
L’istituto accoglie circa 300 ragazzi che si preparano alla vita con lo studio, il lavoro ed una solida formazione religiosa. L’Opera vanta una rinomata scuola tipografica, degno frutto dei primi sforzi di B. Longo in questo settore. L’Istituto fu affidato nel 1907 alle cure dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
Per gli stessi motivi pedagogici, gli alunni delle elementari sono stati affidati alle cure delle Suore. Per loro è stato costruito un apposito Istituto, che porta il nome della generosa benefattrice Assunta Ponzo.
Le Suore “Figlie del Rosario di Pompei”
L’ultimo edificio sorto a Pompei (1975) è il nuovo Monastero. Ma l’Istituzione e alle origini della vita delle Opere di Carità. Aumentando il numero degli ospiti era naturale che si pensasse anche ad un personale dedicato e specializzato. Perciò, dopo matura riflessione e consiglio, Bartolo Longo avviò la formazione della Congregazione delle Suore “Figlie del Rosario di Pompei, sotto la regola del Terz’Ordine di S. Domenico” (1897).
È caso più unico che raro questo di un laico che “fonda” una congregazione di Suore. Oggi più di cento “Figlie del Rosario” si prodigano per la conduzione di Istituzioni Pompeiane.
Istituto Femminile “Sacro Cuore”
Ecco ancora “un voto”, l’ultimo voto, del cuore grande del Beato Bartolo Longo. La prima idea venne manifestata nel 1921 al Papa Benedetto XV. Il Papa approvò. Il 15 ottobre 1922.
Il voto comincia ad essere realtà, con la benedizione della prima pietra. Nello stesso giorno vengono accolte “quindici bambine orfane della legge”: la “prima Corona”. La sede, grande e accogliente è a Piazza dell’Immacolata.
Il Seminario “B. Longo”
Tale opera si inserisce armonicamente nello sviluppo dell’Opera Pompeiana.
L’assistenza religiosa a milioni di pellegrini che affollano il Santuario e la formazione cristiana degli Alunni degli Istituti non sarebbero possibili senza l’opera del sacerdote. Allo stesso B. Longo, che aveva aiutato decine di giovani seminaristi, balenò l’idea di fondare a Pompei un “suo” Seminario. Ma ciò si realizzò solo più tardi, nel 1949.
L’indefettibile generosità dei Benefattori rese possibile la costruzione, sul colle S. Abbondio, di una sede razionale e definitiva, inaugurata nel 1965.
La Fondazione “Marianna de Fusco-Longo”
Il 9 febbraio 1965, anniversario della morte di Marianna de Fusco, furono benedetti i locali di questa ultima opera pompeiana. Essa porta il nome della consorte di B. Longo. Lo scopo è ben preciso: accogliere le donne sole, che desiderano trascorrere a Pompei gli ultimi anni della propria vita. Tutti conoscono le preoccupazioni di questo particolare periodo della vita. Alleviare tali difficoltà è la nota caritativa dell’Istituzione. Ed è proprio per questo che a Pompei trova il suo ambiente naturale.
La Prelatura di Pompei
L’antica parrocchia di Valle di Pompei apparteneva alla diocesi di Nola. Fu Mons. Formisano, vescovo di quella Chiesa, ed incoraggiare e, poi, difendere Bartolo Longo agli inizi dell’Opera Pompeiana.

                                                   

Ma quanto capitava a Pompei non sfuggì al Sommo Pontefice Leone XIII, il quale – per felice coincidenza – pubblicava già nel 1883 la sua prima Enciclica sul Rosario. Ed infatti mostrò la sua compiacenza per Bartolo Longo ricevendolo in udienza privata nel 1884. Più tardi, nel 1890, nominò il Card. Monaco La valletta Protettore del Santuario.
Il “grande anno” nei rapporti tra il Vaticano e Pompei fu il 1894. Bartolo Longo offrì al Papa la proprietà del Santuario, con tutto ciò che conteneva. Leone XIII accettò il dono e con il Breve “Qua Providentia” staccò il Santuario dalla diocesi di Nola, dichiarandolo Pontificio e ponendolo sotto l’immediato governo della Santa sede. I Fondatori furono nominati amministratori a vita: tale eccezionale investitura fu la risposta alle voci maligne sulla gestione di B. Longo.
Nel 1897 il Card. Mazzella fu nominato Protettore del Santuario, in sostituzione del defunto predecessore.
Il 1900 segnò la prima apoteosi di Pompei. Felice la coincidenza dell’Anno Santo, celebrato in Roma, con il primo Giubileo celebrato a Pompei. Papa leone diventò l’araldo delle meraviglie operate a Pompei, esortando i pellegrini: “Andate a Pompei: andate a pregare per il Papa nel Santuario del Papa!”.
La gelosia per lo sviluppo del Santuario e delle Opere spinse alcune persone – tra cui anche religiosi -  a darne un’interpretazione errata e maligna. Si cercò di travolgere i Fondatori e la loro Opera. Tali voci arrivarono ancora una volta all’orecchio del Papa. Erano tempi difficili per la Chiesa, soprattutto per l’eresia modernistica. Tutto questo “allarmò” Pio X, che ricevette i Fondatori il 24 novembre 1903. Bartolo Longo soffrì tanto e scrisse questa “giustificazione”: “il mio unico scopo in 33 anni di lavoro, è stato quello di salvare l’anima mia e quella del prossimo diffondendo il SS. Rosario ed educando figli di carcerati, orfanelle della vergine di Pompei, e fanciulli della nascente città Pompeiana”.
Nel 1906 B. Longo compì il distacco finale dalle sue opere, a favore della Santa Sede. Finalmente la tempesta si calmò. Obbedendo al comando del Papa: “Voi non dovete morire, dovete lavorare …” coopererà lealmente con Mons. Augusto Silj, capo dell’Amministrazione e Rappresentante della S. Sede.
L’8 maggio 1926, Mons. Carlo Cremonesi diventò Delegato Pontificio e primo “Prelato della Praelatura nullius”, cioè immediatamente soggetta alla S. Sede. Alla morte di B. Longo – 1926 – l’assetto giuridico del Santuario ed Opere annesse era completo e definitivo.
La successione dei Delegati Pontifici per il Santuario – i quali sono anche Prelati di Pompei – diventò fatto di ordinaria amministrazione.
Così nel 1928 il Patriarca Antonio A. Rossi venne a Pompei e vi restò fino alla sua morte, il 29 marzo 1948.
Fu Lui a curare l’ampliamento del Santuario.
Il 15 agosto dello stesso anno entrò il nuovo delegato Pontificio, Mons. Roberto Ronca. Durante la sua permanenza furono costruite nuove opere: la casa del Rosario, il nuovo Orfanotrofio, l’Istituto Grafico.
Per due anni, 1956-1957; la prelatura fu retta da Mons. Giovanni Foschini, in qualità di Amministratore Apostolico.
A lui succedette Mons. Aurelio Signora, fino al 1978.
In questi venti anni furono costruiti: il Seminario, il pensionato Marianna De Fusco, il monastero e furono rinnovati altri edifici.
Dal 1978 regge la Prelatura Mons. Domenico Vacchiano. Con la sua elezione si è avuto un cambiamento dell’ordinamento giuridico. La Prelatura non è più “immediatamente soggetta alla Santa Sede” ma viene a far parte – come le altre diocesi -  della Conferenza Episcopale Campana. Così l’accento è stato posto sull’aspetto pastorale più che su quello amministrativo. Il Prelato di Pompei diventa anche Delegato Pontificio per il Santuario e le Opere.

(Autore: Bartolo Longo)

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