Vai ai contenuti

Storia del Santuario dalle origini al 1879

Il Santuario > Storia del Santuario scritta da B.L.

*Capo I - Il disegno del Santuario

Libro Quinto - "I fondamenti del Tempio" - Il Maggio del 1876
1. Il disegno del Santuario (pag.164)
La prima pietra dell’edificio, che un giorno sarebbe diventato Casa del Signore nella campagna di Pompei, era solennemente posta sotto terra, come a base di novella Arca noetica, la quale, senza che noi ne avessimo pure un lontano presentimento, era destinata a riconciliare con Dio le colpevoli generazioni dell’ultima parte del secolo decimonono, non che quelle del secolo ventesimo.
A noi, nella foga dei desideri ond’eravamo accesi e trascinati, pareva di avere felicemente superato le maggiori difficoltà che sin dalla prima ora si erano presentate, ed essere pervenuti a quel giorno sospirato, di gettare le basi di un tempio di Dio vero sulla terra dei falsi dèi!
Ma poi che le feste furono passate e la freddezza del consiglio ebbe preso luogo, cominciammo a intravedere le difficoltà, che mai innanzi non avevamo trovate tante.
Ed in prima: - quanto sarebbe per essere ampia questa nuova chiesa? – quanto lunga? – quanti altari, quante cappelle?
La prudenza evangelica consigliava di non porre mano a cosa superiore alle nostre forze, e un avviso del santo Vescovo di Nola era a quella conforme. – Non spendete più di quanto possedete, - ci aveva egli suggerito.
Ma d’altra parte risuonava ancora nei nostri occhi un’altra sentenza, frutto della lunga esperienza di quel saggio Prelato: - Quando si ha da fare dalle fondamenta una chiesa non si deve guardare al numero presente degli abitatori di un luogo, ma sì al numero ascendente di venti anni appresso. – Perciò la preveggenza consiglierebbe si facesse una chiesa ampia si da contenere un duemila persone, tenuto conto dell’aumento di dieci volte in più della popolazione presente.
Come conciliare le due opposte sentenze?
Il medesimo Monsignor Formisano aveva trovato questa semplice soluzione. – Fate le fondazioni non tutte d’un tratto, ma a spizzico, secondo che vi basterà il denaro. Poi innalzerete due mura su quei pezzi di fondazioni, quindi un arco, una volta. Tra quelle due pareti laterali eleverete una terza temporanea di fronte, che li chiuda; ed ecco bella e fatta una chiesuola. L’anno vegnente demolirete le pareti di mezzo, e continuerete le fondamenta, e poi due altre mura su, con archi e volta, ed avete sbandito il dubbio della lunghezza, così di anno in anno, sfondando ed erigendo, voi allungherete la chiesa, finché avrete voglia e denaro.
A noi, stranieri affatto all’architettura, parve quello un saggio consiglio, tanto più che metteva in salvo la prudenza e favoriva l’antiveggenza del futuro accrescimento di popolazione.
Ma ad ogni modo sorgeva un’altra incognita.
Le fondamenta avrebbero a costruirsi tutte d’un getto, a tela, come dicono, per essere più solide, ovvero ad archi e pilastri per essere più economiche?
È dato pure che si avesse a considerare l’economia, di quale larghezza sarebbero per essere questi archi e questi pilastri?
Ancora, edificando un Tempio per duemila contadini a venire, quale forma era da prescegliere più acconcia a contenere popolo villereccio? Era conveniente costruirlo a colonne, oppure a pilastri? – ad una navata, ovvero a tre? – a croce latina, o a croce greca? – con vòlta di fabbrica, oppure con solaio a tetto ed a legname? Tutto questo per me, era n problema di difficile soluzione.
A dir corto, vi era bisogno di un disegno architettonico, secondo il quale cominciare le nostre operazioni.
Ma, invitare un architetto! Ohibò: la Marchesa Filiasi e Monsignor Formisano ci avevano messo nell’animo un gran timore di chiamare architetti per una chiesa rustica di poveri contadini, quando, a pagar diritti e spese e viaggi di architetto, vi avrebbe voluto la metà delle offerte raggranellate con tanto stento. Le spese per un architetto era meglio adoperarle in fabbrica, per accelerare il compimento della chiesa. Anche questo era entrato nella mente mia a modo di convincimento.
Ma intanto un disegno era indispensabile. Come fare?
Ossequiosi sempre alle parole dell’antico Pastore, ci conformammo al tutto ai suoi consigli. Deliberammo di fabbricare a pezzi: a questo modo avremmo schivato la prima morsa che ci stringeva, cioè di dovere definire di presente la lunghezza dell’edificio. Ma, e la larghezza di esso? Non poteva farsi di meno di determinare sin dal principio la larghezza per poter incominciare i cavamenti laterali.
Non ismarrii. In cima a tutti i miei disegni era quello di innalzare un Tempio al Dio vero in questa desolata piaggia, e fare da un popolo nascente invocare a propria tutela, la regina delle vittorie con preziosa Corona del suo Rosario. Qualunque disegno o genere di chiesa mi avrebbe menato a questo risultato: era quindi inutile darsi pensiero di ciò. Quattro mura imbiancate di calce, una volta semplice, anch’essa bianca, ecco tutto il bisognevole: ed il popolo entrerebbe senza disagio ad adorare e lodare il Signore.
Oltre di me, a me passava per la mente un altro pensiero. Avevo visto presso Scafati una chiesa spaziosa abbastanza, capace di contenere oltre a mille persone, dedicata alla Madonna così detta dei "Muroli", ad unica navata, a croce latina, tinta a calce, la quale tinta le dava un’aria allegra e pura. Ed oh, come mi sarei reputato felice, se avessi avuto una chiesa somigliante nella mia Valle! Tosto cercai di informarmi; e mi si disse che quei cittadini vi avevano durato attorno non meno di trent’anni a costruirla, e vi avevano speso non meno di trentamila lire!...
Trent’anni di fatiche! Trentamila lire di contanti!
Vi era ragione da sgomentare ai primi passi. E, che avrebbe raccolta questa somma in Valle di Pompei tra poveri contadini? E poi, chi mi assicurava la vita dopo tanti anni, essendo io tanto infermiccio?
– Non siate egoisti, - aveva più volte ripetuto il nostro Vescovo: - non vogliate pensare per voi, ma per i posteri. Voi incominciate, gli altri finiranno.
Queste parole risuonavano sempre nell’animo nostro. Noi dovevamo incominciare, senza pure pensare di vederne il compimento. Dunque, fiducia nell’aiuto della Provvidenza e avanti! Noi cominceremo, gli altri finiranno. La chiesa della Madonna dei Muroli attira i nostri sguardi? E la chiesa dei Muroli sia il modello, a cui si conformerà, benché più poveramente, la futura chiesa di Pompei.
Fermato questo divisamento, non sapendo far di meglio, invitammo il nostro capo muratore di Scafati, Pasquale Vitiello, a recarsi con noi a quella chiesa. Ed un bel giorno, andammo con lui e con un Sacerdote amico e con la Contessa. E, messici dall’un dei lati della predetta chiesa, prendemmo con una cordicella le dimensioni quanto a lunghezza ed a larghezza.
Quindi accortomi che il prete mio amico aveva una propensione naturale all’arte del disegno, lo sollecitai di fare una pianta, un disegno topografico di una chiesa che fosse al tutto simile a quella di Scafati. Ed egli fu presto a contentarmi; e tracciò su di un foglio di carta un edificio, che voleva dire chiesa, foggiata ad unica nave con quattro cappelle.
A dir vero quel disegno doveva essere qualche cosa di grottesco, perché mostratolo appena a qualche perito dell’arte, destò l’ilarità come di uno scherzo puerile. Ma a noi, cui bolliva il sangue nelle vene, ed a cui crucciava ogni ora d’indugio, quello schizzo parve più che sufficiente per dare inizio al lavoro.
Il medesimo D. Gennaro mi propose, per ottenere maggiore economia, di dare le costruzioni non a cottimo, si bene, come qui si usa, in economia, cioè pagare i lavoranti a giornate; ed egli, insieme con suo padre, che vedemmo presente alla funzione della prima pietra e che aveva fatto voto di sovrintendere gratuitamente alle costruzioni, vi avrebbe diligentemente sovrastato i lavoratori, curandone il modo di pagamento.
Venne infine tra noi risoluto, che i fondamenti, per risparmio, sarebbero fatti ad archi e pilastri.
2. Le prime pietre portate sulle spalle (pag.169)
Per menare innanzi l’Opera con poco danaro ed insieme con grande alacrità il vecchio Parroco Cirillo, che presentammo ai lettori per primo Parroco di Pompei, propose di invitare nella prossima domenica tutti i coloni e i vetturali della Valle a offrire ciascuno, chi l’opera sua in giorno di festa, e chi un carro di pietre, o n carretto di terra vulcanica detta "pozzolana", o un po’ di calce ed altro materiale da servire alla costruzione.
Era stata, a cinquecento metri da quel luogo, e propriamente sull’angolo occidentale del fondo De Fusco, aperta una piccola cava di pietre vulcaniche da un custode degli Scavi di Pompei, chiamato Pietro Paolo Vitiello, il quale a proprie spese e per fabbricare una sua casa aveva fatto lui stesso una provvigione di quei sassi. E allorché fu spettatore della commuovente funzione della prima pietra del Tempio, dispose in cuor suo di offrire per l’opera santa dodici metri cubi di pietre vulcaniche, ed aspettava i carretti che le trasportassero.
Venuta la domenica, seguente il dì 8 di maggio, la quale cadde in quell’anno ai 14 del mese, essendo radunato tutto il nascente popolo pompeiano, quel Curato si levò su a predicare loro, dicendo tra le altre cose: - Che Dio si era mosso a pietà di essi, disponendo che si edificasse una chiesa ove potessero tutti raccogliersi insieme, e udire la Messa e farsi buoni Cristiani; e che gran merito era all’uomo l’innalzare una chiesa a Dio. Quindi doversi ognuno ritenere onorato assai di porre con le sue mani una pietra alla edificazione della Casa ove era per abitare il Signore. E poiché il Custode della vecchia Pompei aveva offerto delle pietre, aggiunse, che sarebbe stata opera meritoria, di pietà e di penitenza, il trasportarle sulle proprie spalle, quasi a dichiarazione di servitù verso il Signore del Cielo e della terra.
La parola del Sacerdote non cadde su terreno sterile. Ogni persona che qui era, maschi e femmine, grandi e piccoli, seguitarono i desideri  e gli esempi del proprio pastore.
Mosse in capo a tutti il vecchio Curato, e dietro di lui seguivano, a modo di processione, i due fratelli sacerdoti Federico, e poi la Contessa con i suoi quattro figli, e tutti i servi della casa e tutti i coloni, e poi i fanciulli e fanciulle e il popolo Pompeiano frammisto. Ed era un tenero spettacolo a vedere tante persone di ogni età tornarsi, per la via provinciale che da Napoli va a Salerno, tutte curve sotto il peso di sassi che si portavano addosso con una fede umile e sincera, ma ad un tempo forte e sprezzatrice di ogni umano rispetto.
Anche io, del numero degli avventurati, portai sulle spalle il mio sasso; e forse quella nobilissima umiliazione mi ha fruttato la sorte di vedere, in capo a venticinque anni, compiuta la Chiesa del Signore!
La Contessa pure, e la sua figliuola Giovannina trasportarono un sasso; e quest’ultima, dodici anni dopo di quel giorno, scampava la morte per quella chiesa a cui aveva portato sulle braccia una pietra!
Anche il primogenito; il Conte Francesco De Fusco, ebbe quest’onore; e chi lo avrebbe detto? Dopo quindici anni anch’egli per quella chiesa sarebbe tornato da morte a vita! Oh, come largamente ricompensa Iddio anche quaggiù chi a Lui serve; ed oh, di quale speciale predilezione guarda il Signore tutti quelli che concorron L'Architetto Antonio Ruao ad innalzargli templi ed altari sulla terra, nei quali Egli si possa comunicare con le sue creature!
Ciascuno di noi in quel momento era compreso da una fede inesprimibile: il nostro pensiero non antivedeva certo i futuri destini di questa chiesuola che allora si faceva per i contadini. No: il pensiero dominante era: "fare adorare Dio in questo luogo dove non era convenevolmente adorato, e rendergli gli atti di lode, di adorazione e di amore, che ogni creatura deve al suo Creatore e Signore.
Oh come ci sentiamo oggi felici tutti noi che ricordiamo l’atto di umiltà e di penitenza che avemmo la ventura di compiere in quel giorno di misericordia! Ripensare che noi, con le proprie mani abbiamo messo un sasso alle fondamenta di un tempio del Signore!... e di quale tempio? Di quello che al quindicesimo anno dalla sua origine sarebbe stato qui consacrato e dedicato alla Regina del Santissimo Rosario; e tre anni dopo era posto sotto l’immediata giurisdizione del Capo di tutta la cristianità, e però dichiarato "Santuario Pontificio", e poco dopo, nel 1901, "Basilica" pari a quelle dell’alma Roma.
Se in quella domenica, 14 di maggio 1876, qualche incredulo ci avesse visto sulla via provinciale Napoli-Salerno, curvi sotto il peso di un sasso, trafelati e molli di sudore, sotto i raggi di un vivido sole, fermarci di quando in quando a riprendere lena, posando la grossa pietra sul parapetto della via, e indi a poco riabbracciare il peso e compiere frettolosamente il cammino, come se un padrone ci sollecitasse alla schiena; quell’incredulo ci avrebbe riso indubbiamente in faccia. Noi, quel giorno, compresi da unico sentimento, dalla fede, certo non gli avremmo data risposta. Ma oggi, dopo quarantatré anni da quel giorno, dopo tanti manifesti segnali di misericordia dati al mondo da Maria da questo tempio, oggi avremmo lanciata quella pietra sulla sponda della via, e saremmo corsi a lui, e lo avremmo abbracciato, e con dolce violenza di affetto lo avremmo trascinato qui ai piedi di nostra Madre, a vedere i prodigi del Signore sulla terra che fu dei Gentili. Lo sguardo sereno e dolce della nostra Regina non lo avrebbe fatto tornare indietro senza una benedizione. E la benedizione di Maria è sempre apportatrice di fede e di pace, anche quando sembri recarvi un martirio. Oh, beato colui che ama ed onora così dolce Regina.
3 – Falsi principii e lamentevoli conseguenze
Così fu fatto il mucchio delle prime pietre da gettare per i fondamenti della chiesa di Pompei. E dopo il dono del pio custode degli Scavi, l’esempio venne imitato da carrettieri, da proprietari di pietre, e da venditori di calce, si che nulla ormai mancava che si desse inizio a cavar le fosse e riempirle. E senz’altro, il lunedì seguente fu messo mano ad aprir le viscere di questa terra che è figlia di varie eruzioni vulcaniche. E qui pare utile dire qualche cosa intorno alla natura del predetto terreno, affinché  il lettore comprenda più chiaramente il fatto che saremo per narrare.
Il suolo, in questo punto della Valle, è fatto a strati; ma un metro appena profondo, ed in alcuni luoghi anche meno. La terra, formata di cenere vomitata fuori dal Vesuvio nelle eruzioni posteriori all’anno 79 dopo Cristo, è stata resa fertilissima, nei secoli a noi vicini, dall’industria ostinata di poveri coloni, per mezzo di ripetuti concimi e delle frequenti irrigazioni del Canale Sarno, onde questo terreno, caldo per sua nativa origine e rinfrescato da copiose acque, che tutto in seno assorbisce in poco d’ora, rende al paziente coltivatore quattro raccolte l’anno.
Codesto strato fertilissimo e sovrapposto a uno strato di terreno sodo, massiccio, che qui chiamano tuono, e i naturalisti tasso: anch’esso è formato di cenere e di ferro impastati ad acqua bollente piovuta dal Vesuvio nella famosa eruzione del 79.
Su questo tuono, o pancone, costumano i Pompeiani odierni mettere le basi delle loro case.
Sottoposto a questo primo tasso giace sepolto un monte di lapilli, piccole pietruzze bianche spumose, leggerissime che a pesarle non non varrebbero un grammo, e pure furono bastevoli a seppellire una intera vasta città! Tanto che fu grande la copia che il Cielo irato fece piovere dall’ignivomo monte sulla lussureggiante città dalle mollezze gentilesche.
Questo monte di lapilli è alto tre o quattro metri, frammezzato anch’esso di quando in quando da qualche strato di tasso, o tuono, dello spessore di mezzo metro, formato da altra cenere piovuta frammista ai lapilli in quei giorni di pioggia ferale.
Il gran cumulo di lapilli riposa qui sulla terra coltivata dagli antichi Pompeiani, terra rossiccia, fertile, sulla quale ho trovato sparse varie cose, come monete, scheletri di uccelli, ed anche uno scheletro di uno schiavo, a giudicarne dalle catene che aveva ribadite agli stinchi. Dallo stato in cui si trova questa terra antica messa a cultura, si rileva il modo onde gli antichi Pompeiani la zappavano, dividendo cioè il terreno a larghe nappe o strisce, divise da canaletti e rigagnoli, non altrimenti che si osserva oggi nette paludi prossime alla città di Napoli.
Sotto i lapilli, e talvolta in mezzo ad essi, serpeggiano delle vene di acqua, la quale in taluni punti è fresca e potabile, in altri è veramente acqua minerale, in cui abbonda principalmente il ferro e la magnesia.
Premesse queste nozioni non affatto inutili, veniamo alla nostra storia.
Giuseppe Federico, uomo intraprendente ed esperto negli affari, aveva osservato che i maestri muratori di Scafati erano più cari di quelli di Boscotrecase; per la qual cosa venne chiamato per la costruzione dei primi pilastri sotterra un capo muratore di Bosco, a nome Luigi Cirillo.
Ma costui, non ponendo mente al peso che sarebbe gravato su quei pilastri, li fondò non più che a due metri e mezzo di profondità, cioè sopra il secondo tasso, il quale, come innanzi abbiamo veduto, non ha altro solido fondamento che un secondo strato di lapilli.
L’animo nostro, come avviene in chi non è perito in un affare che ha tra le mani, era sempre incerto e titubante se si facesse bene.
Ci sentivamo costretti a consultare un architetto.
Per buona ventura la Contessa conosceva in Napoli un vecchio ingegnere, il Signor Francesco Aratore, un sant’uomo, architetto della nuova casa della madre Caterina Volpicelli, fatta da questa edificare per le Ancelle del Sacro Cuore. Informatici del suo indirizzo, andammo una sera da lui.
Come quel saggio uomo seppe delle vie che tenevamo nella costruzione, si meravigliò molto che noi procedevamo senza il consiglio e la direzione di un uomo dell’arte.
Lo pregammo che si degnasse di venire almeno un giorno a dare uno sguardo alle fondamenta di fresco aperti. Ma egli si scusò allegando la sua infermità e vecchiaia, profferendosi di mandare in vece sua un suo giovane assistente.
Di fatto, due giorni dopo, questi fu a Pompei sul luogo degli intrapresi cavamenti.
È superfluo il dire che egli disapprovò al tutto quel modo e quella misura tenuta.  
– I pilastri di fondazione, - egli osservò, - bisogna poggiarli sull’acqua per essere saldi e immobili. Era mestieri quindi tornare a rifare i pilastri e allargare i muri sotterranei almeno sino a metri 2,70; e girare le volte sotto terra affinché fossero incrollabili.
Ancora, per una chiesa da servire per duemila persone quei pilastri erano deboli e gli archi molto superficiali. Insomma era stato se non danaro sprecato, almeno tempo perduto.
Il cuor nostro sentì allora un’acuta punta.
Come avviene in chi non è esperto in certi negozii, se si trova arruffato in essi, non trova via di acquietarsi finché non apra l’animo suo a persona che goda tutta la sua fiducia; noi ricercavamo nella mente nostra chi potesse essere la persona fidata.
Il buon Vescovo di Nola era tale per noi; e a lui subito mandammo il prete D. Gennaro a narrare per ordine quanto avevamo fatto, veduto e udito.
Il povero Vescovo in sulle prime allibì anche egli; e non sapendo a qual partito appigliarsi, ricorse a un prudente e bello ritrovato.
– Sospendete tutto, - egli rispose, - finché non vi manderò io mastro Salvatore. Egli deciderà il da farsi. E poi verrò io di persona.
4. Sulla breccia
Chi era questo mastro Salvatore?
Salvatore Taddeo era un muratore di Nola, più sui settanta che sui sessanta, uomo assai probo e perito nell’arte sua, onde di lui si era valso Mons. Formisano per compiere alcuni restauri del Seminario; e lo aveva in grande amore, stima e fiducia per modo che in ogni costruzione quel santo Prelato non sapeva dar cominciamento, od uscirne, senza ricorrere all’autorevole consiglio dell’antico e fidato suo fabbro. Ma dall’altra parte il Taddeo per la grande venerazione che aveva per il Vescovo di Nola non sapeva scostarsi un’acca dalle parole che questi proferiva.
Nel giorno adunque ordinato, convenimmo insieme sugli orli delle vaste fosse cavate, la Contessa ed io, la famiglia del Federico padre e figli, e il capo muratore di Boscotrecase Luigi Cirillo, e mastro Salvatore Taddeo come l’oracolo in capo.
Il lettore avrà giusto di udire i discorsi fatti sulla breccia, per riposarsi anch’egli in questo punto, e per trarre, da ogni benché lieve fatto, un novello argomento del come il Santuario di Pompei sia proceduto sempre sopra gli umani accorgimenti; che se fosse stata opera di uomo, esso a quest0ora sarebbe ancora alle fondamenta.
– Che ne dite , mastro Salvatore: queste fondamenta così poste, sono ben fatte? – domandai io.
– Eh, si che son buone!  
- Ma il giovane dell’architetto Aratore ha osservato che son superficiali, e quindi è necessità rifarle.
– E… già, sono veramente superficiali!
– Ma pensate voi, che rifacendo gli archi più profondi, e fabbricando sotto ai pilastri siamo sicuri di andar bene?
– E si! Che si va bene. – Ma il timore del nostri Vescovo è ben fondato? Il Vesuvio con qualche scossa potrà far crollare l’edificio posto su queste basi?  
– E si! Che vi è timore che cada tutto a causa del Vesuvio.
– Ma allora è da preferirsi il sistema di fare i fondamenta a tela, come voi dite, cioè tutti d’un getto? E così non temeremo punto scossa del Vesuvio?  
– E si! Allora non vi sarebbe timore.
– Ma noi non sappiamo regolarci di quale lunghezza e larghezza fare i muri di tela: poiché Sua Eccellenza ha detto: «Fate la fabbrica a pezzi: oggi due mura, l’anno venturo proseguite e allungate le mura, e così anno per anno, secondo che la Provvidenza manderà il danaro: voi allargherete la chiesa secondo fa bisogno». Voi che ne dite? – Eh si! Sta bene.
Ci volle non poco a contenermi e a non farmi scappar via un residuo di pazienza che mi ero sforzato di contenere in fondo al cuore.
Per non recar dispiacere al vecchio fabbro con qualche parola meno che moderata, mutai la cosa in gioco: e cantarellando e ammiccando gli altri miei compagni, me ne andai da quel luogo, e me ne partii per Napoli chiudendo in cuore un vivissimo rammarico.
5 – Come il professore dell’Università di Napoli, Ingegnere Antonio Cua, si offre a dirigere gratuitamente i lavori del Tempio (pag.178)

Mentre che io mi vedeva in tanto ginepraio, la Provvidenza, che invisibilmente guidava la file dell’opera sua, mi trasse d’impaccio in modo cui meno pensavo.
Mi recai a casa di un intimo e cordiale mio amico, il cav. Tarquinio Fuortes, Professore di matematica al Collegio militare della Nunziatella, giovane allora, ma di fine gusto artistico e di severa critica, e, sopra di queste cose, di animo nobilmente sincero, onde io lo aveva, siccome l’ho tuttora, in grande stima ed affetto.
È superfluo il dire che egli con tutta la sua famiglia era stato un uno dei primi Associati alla futura chiesa di Pompei. Abitava in Via Settembrini n. 44.  
Quel mattino che andai da lui, lo trovai circondato dai suoi di famiglia, che facevano liete accoglienze ad alcune signore e ad un signore, grave di aspetto e di età, a me affatto sconosciuti.
A me non pareva di meglio che trovar persone nuove in casa di amici per fare novelli associati. E quindi senza molti preamboli e senza aspettare che fossi a quei signori presentato, occupato l’animo di un unico pensiero, entrai a discorrere dei fatti occorsimi a Pompei.
Quello sconosciuto, poi che mi ebbe udito alquanto nella mia fervorosa concione:  
- Chi è l’architetto, - interruppe, - che dirige i vostri lavori?
– Eh, - risposi io con un risolino, scuotendo il capo: - noi non abbiamo architetti.
– Come! – osservò meravigliato quel signore: - per una chiesa che costruite di pianta, non avete un architetto che vi guidi? Avete almeno un disegno sul quale regolarvi?
– Oh, questo sì, - risposi io.
– E chi ve l’ha fatto?
– Noi stessi… cioè un giovane prete mio amico di Pompei, il quale l’ha ritratto da una chiesa ivi presso.
– Vorrei vedere questo disegno, - soggiunse l’incognito con una certa aria di superiorità, come di un maestro verso il discepolo che è trovato in fallo. Ed io, che sempre avevo il disegno addosso pronto ad ogni occasione a mostrarlo per suscitar voglia, misi le mani in petto, e ne trassi quel foglio istoriato che i lettori sanno.
Come ebbe quel signore veduta quella sconciatura dell’arte architettonica, non seppe ritenere un sorriso di compassione.
– Ma perché, - soggiunse, - in un’opera di arte non valersi dell’uomo dell’arte?
- Perché il compenso e le spese di un architetto assorbirebbero metà delle somme che raccogliamo con stenti e disagi.
– Oh, questo è esagerato! – ripigliò l’altro facendosi serio nel viso. – Oltre di ciò vi potrebbero essere anche degli architetti che si offrissero gratuitamente.
– E questo non l’accetterei, - interruppi io. – Il Vescovo di Nola e la Marchesa Filiasi, nonché il Padre Ludovico da Casoria si sono trovati impigliati in tanti intrighi, perché avevano architetti gratuiti…
- Bisogna distinguere, - osservò l’altro: - non tutti gli uomini sono uguali, né tutti i casi sono i medesimi. Date a me quel disegno, ed io ve lo rifarò secondo l’arte, senza discostarmi punto da quel che avete piantato.
Io, che era imbevuto di pregiudizi contrari agli architetti, per effetto  d’ignoranza e d’imperizia in queste cose, e non conoscevo quell’incognito, non fui meno sconcertato alla esibizione fattami, di rifare artisticamente e gratuitamente il disegno.
– Mi volesse costui fare un tiro, - pensai maliziosamente tra me medesimo, - dicendo offrirsi gratuito e poi richiedermi la ricompensa?
– E guardai con significazione negli occhi del mio amico Tarquinio. Costui mi lesse nell’animo, e con volto ilare e sorridente per quietarmi,
- Bartolo, - esclamò: - questo signore è il Cav. Antonio Cua, illustre professore di matematica nella regia Università di Napoli, ed è uno degli uomini più buoni di questo mondo.
Egli si offre gratuitamente, e vivi tranquillo che avrai un bel disegno.
Questa fu per me una rivelazione. Aprendo e piegando un po’ la testa, dissi sommessamente: - Capperi! La Provvidenza mi ha fatto imbattere in un ingegnere, ch’è professore anziano dell’Università!
Mi parve allora che il Cielo mi avesse dato un segno visibile della sua protezione. Quella inaspettata provvidenza era stata un gran sollievo per me. Stupefatto dapprima. – Ecco un filo, - pensava, - un filo che Dio mi mette nelle mani; e senza che io sognassi neppure di cercarlo!
Così ruminando balbettai alcune parole di ringraziamento. Poi fattomi tutto fuoco, cominciai a enumerare tutti i meriti che l’uomo acquista nel costruire un Tempio al Signore, e quanti prodigi la Vergine di Pompei aveva operati in poco tempo a tutti quei che avevano concorso all’opera sua di carità e salvezza.
Quel nobile intelletto, cui rispondeva un cuore anch’esso più nobile, animandosi viemaggiormente a più sublime slancio, - Perocché fate una chiesa a poveri contadini ed a furia di soldi elemosinati, - esclamò – io non solo vi darò il disegno gratis, ma ancora verrò ad assistere senza ricompensa di sorta alla costruzione, e ci rimetterò le spese dei viaggi ogni volta che occorrerà di recarmi a Pompei.
Io non toccava terra con i piedi, ero fuori di me per l’allegrezza. Scrissi incontanente a Valle:
“Mio caro D. Gennaro,
“Sospendete tutti i lavori! Il Signore mi ha steso la sua mano per aiutarmi. Mi ha fatto trovare un Ingegnere, un gran Professore dell’Università, che si è offerto a dirigere senza alcuna ricompensa le fabbriche. E quel che è più meraviglioso, non vuol essere ristorato neppure delle spese di viaggio.
“Il Signore dunque ci aiuta sensibilmente. Facciamoci animo. Io verrò nella ventura settimana, poiché in questi giorni sarà annunziata la nostra opera sul pergamo di alcune chiese di Napoli, dove concorre gran folla di signori. Addio.
Napoli, 20 Maggio 1876.  Vostro Bartolo Longo

6 - Fiori del maggio 1876 a Montesanto e in S.Domenico Soriano
“Nessuno, che non l’abbia visto con i suoi occhi, potrà mai formarsi una giusta idea dell’inusata pompa, onde le province del mezzodì festeggiano il Mese di Maria, e, sopra tutte, la città di Napoli.
“All’occhio di chi mira le cose del Cielo con il cuore agghiacciato dall’egoismo e vorrebbe trattarle con il compasso in mano, quelle forse appaiono superflue, eccessive; ma per quei popoli nati e cresciuti ai più dolci e vivaci sorrisi di cielo, di terra e di mare, è imperioso bisogno che la pietà si manifesti essa pure con atti di allegria e di tripudio.
Essi non possono contentarsi di alcune preci in un tempio e di una predica; hanno mestiere di luce, di fiori, di canti, di suoni, di spari, di tramestìo; e più ci è di sfarzo, e meglio credono di diventar cari alla Madonna.
È forse un errore o abuso di devozione?
Quando veramente errore e abuso vi sia, la Chiesa non manca d’intervenire con la sua sapienza a temperare le cose in modo che ne sia esclusa l’offesa del Signore e il danno delle anime; ma quando non c’è il danno di veruno e c’è invece il gusto di tutti, è sempre meglio che il popolo si slanci in entusiasmo per la Regina del Cielo, che per gli idoli e per gli interessi mondani”.
Queste parole scriveva il Professore Giuseppe De Bonis nelle sue “Spine e Rose Pompeiane” nell’anno 1887; e le abbiam tolte di peso come molto acconce al fatto nostro.
Noi sapevamo quanta folla di eletta gente traesse, segnatamente in alcune chiese di Napoli, a celebrare il mese di Maria; e però ci avvisavamo che se giungessimo ad invocare l’aiuto del buon popolo napoletano, proclive di naturale a pietà e a larghezza, massime in quell’ora che ascolta commosso una predica sulla Madonna, certamente gran frutto di elemosine avremmo fatto per la nuova chiesa di Pompei.
E siccome il mio nome era ignoto ai più, e la mia persona non poteva presentarsi nella medesima ora in più chiese e in più case, determinai di porre a stampa un programma in fogli volanti. In esso con parole di accesissimo zelo mi studiai di eccitare l’animo infiammabile dei napoletani a concorrere all’erezione di “una chiesa al veri Dio sulla terra della morte e delle rovine pagane”.
Napoleone III, - io andavo ripetendo tra me a me, osava affermare che con sessantamila francesi avrebbe espugnato qualunque piazzaforte d’Europa; ed io con sessantamila programmi, se arriverò a collocarli bene, avrò fatto la chiesa di Pompei. Bisogna dunque assaltare il buon cuore napoletano con un “esercito” di carte stampate. Ma come presentarmi ai Parroci e Rettori per indurli a promettere che si predicasse dal pergamo l’Opera di Pompei affatto nuova e da nessuna persona autorevole di Napoli raccomandato, siccome nuova ed ignota era ad essi la mia persona?
La Provvidenza che tutto disponeva alla riuscita dell’impresa già mi aveva aperta una via. La Signora Anna Maria Lucarelli, quella medesima gentildonna che, prima abbiamo notato, ed era stata  la prima privilegiata dalla Vergine del Rosario di Pompei, era ben nota nel mondo dell’arte quale pittrice, letterata, poetessa e cultrice della musica. Il suo portamento maestoso, il parlare sodo ed insieme ricco e molto vivace davano alle sue parole un’aria di gravità, che riusciva molto insinuante e persuasiva. Oltre di che usava ella un argomento che era insuperabile: ovunque andasse, menava seco, segnale visibile del prodigio della Madonna, Clorinda, la sua nipote salvata. E tanto bastava a muovere i cuori, anche più inflessibili, a piegarsi in nostro favore.
Esposi dunque a lei il disegno di presentarci tutti insieme con la fanciulla per le principali chiese ove fosse concorso il signore, e muovere in prima il cuore dei rettori e poi quello dei fedeli ad offrire qualche tenue obolo “per la chiesa dei poveri contadini”.
La Signora Lucarelli, che oltre all’essere di specchiata pietà, aveva a sciogliere il suo voto di far predicare per tutte le chiese la grazia ottenuta, non si fece pregare la seconda volta. E la prima chiesa, ove dirigemmo i nostri passi, fu quella della Parrocchia di Montesanto.
Predicava ivi in quell’anno il mese di Maria uno dei più grandi apostoli di Napoli che io abbia conosciuti, e che ora tutti piangiamo: voglio dire l’insigne oratore Padre Carlo Rossi gesuita leccese. Alle prediche di lui, piene della più sana dottrina della chiesa, illustrata principalmente dalla dottrina di S. Tommaso e di S. Agostino ed applicata alla vita pratica, tante anime hanno attinto i principii morali che guidano sicuramente il vivere sociale; ed io singolarmente a lui debbo buona parte della mia ascetica istruzione.
Quel Rev.do Padre mi conosceva bene, e della Contessa De Fusco e della Signora Lucarelli egli aveva grande stima: onde fu ben lieto e contento di accettare l’incarico di annunziare dal pergamo l’impresa di Pompei, non che la prima grazia conceduta dalla Vergine del Rosario per occasione di questo Tempio. Ottenuto che ebbe la licenza del Curato di Montesanto, il giorno di domenica, quando suole più gente convenire in chiesa, e fu il 21 maggio 1876, il Reverendo P. Rossi fece l’annunzio desiderato.
Quando fu al momento della perorazione, ecco uscire di mezzo alla folla la fanciulla Clorinda biancovestita, con un vassoio in cui i fedeli gettavano i loro soldi, ed io al lato con una parte dei miei sessantamila programmi a diffonderli a larga mano.
La raccolta in verità non fu pingue: trecentoquaranta soldi, diciassette lire! Ma per me fu più che sufficiente, mirando io principalmente allo spaccio dei manifesti: ero convinto che, scritti quelli con tinte di fuoco, penetrando nelle case ove albergassero Cattolici, non vi sarebbe più persona che non ne fosse scossa ed allacciata. Tanto era in me la certezza del buon esito, sapendo bene la potenza che esercita la stampa in mezzo alla civile società.
Confortato da tale successo, proposi alla Signora Lucarelli di andare insieme, senza indugio, alla chiesa parrocchiale di S. Domenico Soriano, alla quale usavano moltissime persone nobili e facoltose per celebrare con gran pompa il mese di Maggio, attratte dalla parola affettuosa, insinuante ed efficace di un altro ammirando gesuita che fu Padre Giuseppe Altavilla.
Questo buon Padre ci presentò al molto reverendo Parroco, che era allora D. Vincenzo Maria Sarnelli, sacerdote privilegiato di santità di vita, di dottrina ed operosità apostolica, onde un anno dopo fu meritatamente dal Papa Pio IX preconizzato Vescovo di Castellammare di Stabia. Questo santo Prelato della chiesa di Gesù Cristo divenne gran devoto dell’Opera del Santuario di Pompei, mi onorò della sua benevolenza, e pochi mesi prima di morire fu innalzato alla dignità di Arcivescovo di Napoli.
Senza dubbio, la prima volta che io gli fui presentato nella chiesa di S. Domenico Soriano, mi lasciai andare al mio naturale vivace e reciso, schivo di cerimonie e di reticenze, come colui che aveva tutta l’intenzione di operare diritto per la gloria di Dio; e tenni con il reverendo uomo modi troppo caldi e risoluti. Onde per quel primo incontro dovette egli avere di me una poco favorevole impressione: e fu forse per missione di Dio per abbassare me e, per altre vie, elevare l’opera sua, come vedremo. La conseguenza fu che il Rev. Parroco, per varie ragioni che si degnò di accennare, non acconsentì interamente a quanto io domandavo, cioè: che si annunziasse dal pergamo l’Opera di Pompei in un giorno di festa, quando maggiore è il concorso del popolo; e che in giorno di festa si domandasse l’elemosina per il Tempio di Pompei; e che la fanciulla Clorinda Lucarelli andasse per il devoto uditorio a raccogliere le offerte, e che in quel tempo io spargessi i miei programmi.
Nulla di questo mi permise; ma solo concesse che il predicatore annunziasse dal pergamo il fatto nostro in giorno di lavoro. E senz’altro assegnò la giornata del prossimo mercoledì.
Domandai se potessi, almeno nel momento dell’annunzio, distribuire i miei programmi in chiesa; neanche questo fu permesso. Soltanto mi fu dato, che nella sacrestia avessi potuto porgere i programmi e prender nota di qualche associato che ivi si fosse spontaneamente presentato.
– Meglio poco che nulla, - dissi tra me, e mi rassegnai. Se non che l’ordine di quel venerando Parroco che a me parve rigore, non fu che mirabile ordinamento di provvidenza. Niuno pose mente allora che il mercoledì stabilito cadeva il 24 di quel mese, giorno sacro alla Vergine sotto il glorioso e caro titolo di "Aiuto dei Cristiani: Auxilium Christianorum". Ma se noi non lo pensammo, bene lo considerò l’eloquente oratore P. Altavilla, come ora diremo.
Venuto adunque il mattino del mercoledì 24 di maggio, io mi presentai carico dei miei programmi. E non fui solo, Oltre alla Signora Lucarelli e delle sue nipoti Clorinda e Laura, e della Contessa con i suoi figliuoli, mi accompagnava, fidato amico, il Sig. Giovanni Vastarella, quel gentiluomo che, grato costantemente alla vergine di Pompei che gli aveva ridonato la sua figlioletta concetta, era sempre ai miei fianchi con affettuosa assistenza ed esemplare fedeltà. Lasciai in chiesa le signore, come quelle che erano quel mattino inutili all’opera, e n’andai pel P. Altavilla.
- Padre, - io gli dissi, - poiché non posso chiedere elemosine, né distribuire in chiesa i programmi, io mi rimetto a voi di dire una parola infocata ai napoletani, acciocchè chi ha voglia di associarsi venga in sacrestia dove mi farò trovare io, e scriverò i nomi.
Per buona sorte l’Economo di questa Curia, Rev. D. Vincenzo Russo, è un gran devoto del Rosario e mi ha fatto buon viso. Ha accettato di buon grado il deposito dei programmi, e mi ha promesso di prendere nota di quanti verranno in sacrestia ad associarsi dopo la vostra predica. Così restiamo fermi.
Gli strinsi forte la mano e gliela baciai con reverente affetto.
Quel mattino la chiesa di S. Domenico Soriano rigurgitava di popolo. All’ora consueta la predica cominciò.
Quel grande oratore, che era già eletto da Maria ad uno dei suoi primi apostoli del Santuario di Pompei, appropriando alla festa del giorno il suo sermone, cominciò a svolgere tutte le antiche vittorie del Rosario, da Lepanto insino al presente secolo, con un calore e una eloquenza attraenti. Tutto gli animi pendevano dalle sue labbra.
Io ero lì, in piedi, in mezzo alla folla: palpitavami forte il cuore ogni volta che sentivo nominare la parola Rosario, e aspettavo che venisse la volta del Rosario di Pompei. Ma con mia meraviglia l’oratore non ne faceva pure la minima allusione.
Mi confortava il pensiero che gli annunzii di nuove Opere soglion farsi in Napoli al tempo del breve riposo che piglia l’oratore a metà di predica. Terminata infatti la prima parte della predica, che per me fu troppo lunga, il P. Altavilla si sedè.
- Ci siamo - dissi io tra me medesimo. – Il sangue mi rifluiva alla testa, i battiti si fecero più frequenti.
Ma il P. Altavilla non fece vista pure di ricordarsene anzi cominciò a raccomandare altre opere della parrocchia. Poi domandò l’elemosina per un’opera del Parroco, e già accennava a volersi alzare per continuare a terminare la predica.
L’esperto oratore aveva riservato per ultimo il colpo di grazia per ottenere gl’insuperabili effetti della sua perorazione a pro della chiesa di Pompei. Ma io che ignoravo questo suo pio stratagemma, e mi pensava che pel calore della perorazione gli fosse fuggito di mente lo spediente da noi preso, non seppi in quell’istante che farmi né che risolvere.
- Si è dimenticato! – ripetei macchinalmente due o tre volte, trafitto dal dolore: - Addio speranze! E dopo tante umiliazioni e preghiere!... si è dimenticato! Bisognerebbe rammentarglielo. Ma come giungere sino a lui alla sommità del pergamo?
Quest’ultima idea occupò di botto tutto l’animo mio. Non vidi più. Senza guardare a quel che facevo, mi mossi dal luogo ove io era, e frettolosamente mi accostai a piè della scala che menava al pergamo, come in atto di chi volesse salire. Era mio semplice intendimento montar quella scaletta, e di soppiatto, di dietro, dire al predicatore due parole: - Ricordatevi di Pompei! In sacrestia sono i programmi – e nulla più.
In quei giorni per mala ventura era avvenuto in Napoli, che alcuni giovinastri, cattivi e forse stipendiati da qualche setta, si erano posti in mezzo a una chiesa nell’ora della sacra funzione e della predica; e facendo mostra di venire in rissa tra loro avevano suscitato tanta paura e scandalo al popolo, che la funzione ne era stata turbata e interrotta. Tanto era avvenuto nella parrocchiale chiesa di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone, dove era andata voce che un sicario, un assassino, un accoltellatore, di quei della terribile setta, si era presentato in chiesa per scannare il predicatore. Nulla in verità era succeduto, tranne un orribile tramestio, che fece fuggir tutti dalla chiesa e finire innanzi tempo la predica.
Ora, come i guardiani della chiesa di S. Domenico Soriano, ed altri gentiluomini che facevano corona al pergamo dell’amato gesuita, ebbero venduto il mio movimento, la mia faccia pallida e concitata, e con gli occhi accesi, con quel fare reciso e ardimentoso, crederono senz’altro che io fossi uno di quei tali accoltellatori, e che avessi in animo di ammazzare il P. Altavilla. E però sollecitamente mi si fecero di contro schierati col viso dell’arme. – Che volete fare? – m’interrogano con ciglio altero e minaccioso.
Io ch’era le mille miglia lontano dal pensare l’equivoco, ed andavo dritto al fatto che mi occupava tutto l’animo: - Voglio avvisare il predicatore, - rapidamente risposi: - Egli ha dimenticato di annunziare4 che in sacrestia sono i programmi, e si ascrivono le persone. – Che programmi! Che persone! Allontanatevi. – Ma io debbo… -  Voi non potete, né dovete. Andate! – ripetettero con tono imperioso.
Scorato, desolato, cacciato, non veggo altro spediente che correre immantinente in sagrestia al benevolo Economo e chiedere consiglio dell’infausto accidente.
Ma nell’atto che io entrava in sagrestia, ascolto la voce del P. Altavilla, che chiudeva la sua predica con le più enfatiche parole a pro dell’Opera di Pompei. – Una chiesa cristiana – egli diceva, - si è incominciata presso i ruderi del Paganesimo. È la prima volta, dalle origini del Cristianesimo in qua, che in Pompei sorge un Tempio al vero Dio. Il numero delle vittorie del Rosario non è chiuso ancora; novelli trionfi la Regina delle Vittorie coglie ai giorni nostri nella nostra Napoli. Voi, napoletani, siete eletti dal Cielo ad innalzare una chiesa al vero Dio sulla terra ove Dio non è adorato.
E proseguiva ad esporre calorosamente quanto sino a quel giorno si era fatto, e quanto restava a fare.
Niun altro oratore aveva parlato con tanta unzione e fervore a pro dell’umile ed oscura nostra Opera, avvalorando il suo detto col racconto di recenti prodigi.
A quelle parole d’irresistibile possa, furono gli uditori presi da tale un impeto di devotissima pietà, che moltissimi, dopo la predica, si riversarono in sacrestia, chi a domandar notizie, chi a richieder libri di associazione, chi immagini, e altro. Ma io non aveva altra stampa che i miei programmi ed un foglio bianco per le sottoscrizioni.
L’ora era tarda: la chiesa doveva chiudersi: la folla era stivata nell’angusta sagrestia di S. Domenico Soriano da impedire il libero passaggio ai sacerdoti ed agli inservienti. Il Reverendo Economo, il buon D. Vincenzo, si affaticava a distribuire programmi, mentre che io mi affrettava di registrare qualche nome e indirizzo di quei signori e signore che mi erano più da presso. Quindi per non far andar giù tanto bollore e rimandare tanta gente senza soddisfazione, fu messa voce che il domani ciascuno poteva tornare in sagrestia, associarsi e pagar l’obolo dell’associazione. E tutti ne uscirono, ripetendo: - A domani, a domani.
Intanto la voce di un accoltellatore in chiesa, di un tentativo represso, era giunto sino agli orecchi del Parroco; e i più zelanti ne riferirono al medesimo Padre Altavilla, il quale, considerata bene la cosa, non vi diede retta.
La Signora Lucarelli e la Contessa per compiere un atto di gratitudine, si presentarono al Parroco per ringraziarlo. Ma questi, che aveva appreso quanto di strano erasi da me operato in quel mattino, disse loro col maggior tono di cortesia che potesse: - Voi siete le padrone di entrare ogni volta che vi piace in questa sagrestia: ma quel giovane (alludendo a me), no; è un imprudente!
Ancora, osservò che non era regolare tanto frastuono in una stretta sagrestia, e massime in un giorno di funzioni come quello del Mese Mariano; e però non avrebbe permesso più il giorno seguente si fossero ivi dentro ricevute le sottoscrizioni.
Poi rivolto a me, - Questo sia l’ultimo giorno, - disse con tono risoluto e rigido. – Domani non permetterò tanta confusione.
Sentii una stretta al cuore a quell’ordine così inaspettato. Pensavo: - e tante signore che verranno domani? … e tanti signori a cui ho promesso farmi trovare domani in sagrestia? …
Affranto ed abbassato di animo uscii.
Venuta la mattina, tornai nuovamente alla chiesa di S. Domenico Soriano, tutto confuso e sconfortato; e, peritante di entrare pel divieto avutone, andai diritto al confessionale, ove usava di stare il P. Altavilla rimpetto l’altare della Madonna della salette.
Immantinente, come il buon Pastore mi ebbe veduto, - Molti signori e signore, - esclamò, - si son presentati in sagrestia, ma io aveva lasciato detto all’Economo, che chiunque venisse per associarsi alla chiesa di Pompei, si rivolgesse a me nel noto confessionale. Eccoti, pertanto settantadue lire raccolte in quest’ora: in questo brano di carta ho scritto l’indirizzo di molti associati.
Respirai. Quell’ingegnoso Padre aveva salvata la posizione. Piacevami pure che invece di me, persona oscura, i Napoletani si rivolgessero a quel Padre gesuita, degno di ogni fede e di ogni stima: così salirebbe in reputazione la mia povera ed oscura opera.
Venuta l’ora della predica, il tempio era gremito di scelta udienza. A me dava gran passione il considerar che non tutta quella gente avesse ancor notizia del progetto di una chiesa a Pompei. – Se tutta questa gente, - io ruminava, - leggesse i miei programmi! Tutti sarebbero dalla madonna indotti a sottoscriversi.
A questa considerazione mi accorse in mente un nuovo disegno ardimentoso sì, ma di affetto sicuro. Voltomi al mio fedele compagno, Signor Vastarella, di tratto glielo comunicai. – Dentro la chiesa, - dissi io – il padrone è il Parroco, e può impedirmi di distribuire i miei programmi: ma fuori della chiesa la via è nel dominio del pubblico: ciascuno è libero di spargere quelle carte che vuole. Seguitemi.
E immantinente come fu terminata la predica, mi posi insieme col mio amico sulla soglia della chiesa.
Sotto l’uscio, secondo che la folla usciva a ondate, ambedue ci affrettammo a presentare i programmi, dicendo a voce alta e ripetute volte: - Questa è la chiesa di cui parlò ieri il P. Altavilla … In questo programma è descritta l’Opera di cui parlò ieri il P. Altavilla.
I lettori sapranno, che i Protestanti hanno tentato di annidarsi anche in Napoli; e da vari anni si argomentano di far la loro propaganda tra quelle care e schiette popolazioni. E tra gli espedienti più acconci che usano, uno dei principali è quella della stampa; cosicché non è raro incontrare, nelle vie principali, gente prezzolata che vi gettano tra le mani fogli, opuscoli e libri ereticali contro il Papa, la chiesa Cattolica e la Vergine Immacolata.
Ora avvenne che tra quella calca che usciva quel mattino da S. Domenico Soriano, vi fosse un pio e zelante merciaio, che aveva bottega di spilletti, aghi, bottoni e refe accanto alla chiesa di S. Michele in quella piazza del Mercatello, oggi Piazza Dante.
Costui all’osservare il mio atteggiamento e l’aspetto di uomo convulso, tutto intento a spargere stampe, mi tenne senz’altro per un messo dei Protestanti. – Quale ardire! – esclamò    scandalizzato quel buon grossiere, - dispensare stampe ereticali sotto il nostro muso, proprio sulla soglia di una chiesa cattolica!
E incitato dallo zelo a sé parecchi suoi amici, e fu tra essi deliberato, che se io fossi tornato la sera a ripetere il brutto giuoco, si sarebbero valsi dell’oscurità per battermi di santa ragione. Ed avvisandosi far cosa assai grata al Padre Altavilla, come una rivendicazione dell’onore della religione in quella chiesa ove egli predicava, la sera medesima gli mandarono segreto preavviso.
Quel savio Padre comprese che quegli erano incorsi in un altro equivoco. Voleva farmene consapevole per evitare un brutto scontro, ma non fu a tempo, perché a quell’ora medesima, che era in sul finire della predica della sera, io già era al mio posto fuori della porta della chiesa parrocchiale col mio fedele compagno, il Vastarella, a diffondere i programmi a destra e sinistra e ripetere: - Sorge un Tempio a Pompei! Ecco il programma per un Tempio a Pompei!
Il buon Padre gesuita, non potendo altro, mandò ad avvertire quei che dànno a nolo le sedie in quella chiesa, che i disturbatori dei programmi erano amici suoi e non Protestanti; quindi mi guardassero le spalle.
E mentre che io ero tutto intento al fatto mio, ecco che mi sento un colpo sotto l’occhio sinistro. Mi avevano scagliato un sassolino. Mi volgo improvvisamente a quella banda, e mi par di vedere giù nella via tra la folla, che ingrossava uscendo di chiesa, un crocchio di gente che aveva fissi a me gli occhi come chi guarda torvo e minaccioso. Io, ignaro di tutto, non volendo mi sfuggisse quella occasione di tanta gente cattolica raccolta in un sol punto, (e dove sarei andato a raccapezzarla un’altra volta?), tirai innanzi alla diffusione. Quand’ecco sento un altro colpo sulla fronte. Mi avevano tirato un torsolo.
Allora solamente mi avvidi che ero fatto bersaglio a quel capannello. E nel medesimo tempo intesi al mio orecchio sussurrarmi queste parole: - Il P. Altavilla vi desidera in sua casa e subito. – Era appunto il noleggiatore delle sedie che era corso a liberarmi da quel brutto tiro.
Da quel guardare bieco, e dalle parole sommesse di minaccia, con qualche titolo di cane, scomunicato e simili, subodorai esservi altro equivoco. Contro un assalto di fratelli non v’era altro a fare che battere prudentemente la ritirata. Però m’avviai in fretta, strisciando il muro della chiesa, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi per quel che si dolorosamente mi era avvenuto. E difilato corsi alla casa del Padre gesuita, che era ivi presso.
- L’avete scampata bene – dissemi ridendo, allorché mi vide entrare; e mi narrò il concerto. Ma poi, come per confortarmi, mi consegnò altre somme di danaro raccolto e altri indirizzi di novelli Associati.
Quando mi fui ridotto a casa mia, la coscienza gridava forte dentro: - Ti ricordi? Tu, figlio della Chiesa Cattolica, svillaneggiasti i frati e i preti nei teatri e nelle conversazioni! Ed oggi i figli della Chiesa isviliscono te sulla soglia del Santuario. È giustizia retributiva! Così sarà soddisfatta la giustizia di Dio.
Nonostante tante piccole avversità da me sostenute, è fuor di dubbio che in quella chiesa di San Domenico Soriano scoppiò una favilla che divampò prestissimo.
Tutti quei ch’ebbero ascoltate le calde parole del P. Giuseppe Altavilla furon presi e scossi nell’animo si potentemente, che divennero alla loro volta banditori della nascente Opera Pompeiana. Tornandosi alle loro famiglie, ripetevano ai congiunti, ai familiari ed amici quanto avevano udito ed appreso. Onde molti altri, anche senza saperne i particolari, si affezionavano all’Opera: e la notizia di un Tempio a Pompei si diffondeva tra famiglie e persone del ceto medio, le quali in Napoli sono da Dio privilegiate di smisurata pietà e misericordia ai poverelli.
A questo modo i Napoletani s’innamoravano essi stessi nella pietà verso i poveri contadini di Pompei privi di chiesa e d’istruzione religiosa, e a poco a poco incominciarono a mettere in me, ch’ero un materiale istrumento, fiducia e amore nuovo. Per il che, se al principio accadeva spesse volte che io venissi con modi bruschi e sospettosi accolto nelle case in cui mi recavo a domandare il soldo dell’associazione; da quel di innanzi mi si mostrarono più benigni i visi, e talora anche solleciti di aver novella dell’impresa, che già nella mente di molti era salita in opinione di santa.
Da quella predica fatta in San Domenico Soriano procedè che parecchie signore e donzelle diventassero fervide Zelatrici: tra cui ricordiamo, dopo quarantatré anni, non senza compiacenza e tenerezza insieme, la Duchessa di Casalnuovo, la Duchessa Albertini Sozi – Carafa, la Marchesa Tommasi, il Marchese Torre, il Signor Vincenzo Correale, la Sig,na Mariannina Caputo, le Signorine Tozzi, le Signorine Rippa ed altre che in appresso, secondo l’occasione che ci vien pôrta, nomineremo. Oltre a ciò parecchi artisti, che ivi erano presenti, eccitati a straordinaria devozione, si offersero a porre gratuitamente la loro mano all’Opera nostra. E tra gli altri mentoviamo il pio ed illustre pittore Comm. Federico Maldarelli, il quale in quel medesimo giorno 24 maggio, si presentò al P. Altavilla, e con tono di verace pietà, - Eccomi, o Padre, - esclamò: - io dipingerò gratuitamente il quadro dell’Altare maggiore del Tempio che voi avete annunziato.
Anche il pittore Giuseppe Laezza venne ad offrire il suo pennello, a cui si aggiunse il signor Gaetano Mormile, quel probo ed egregio artista, che dopo poco tempo andò al Cielo a ricevere la ricompensa delle sue virtù.
Tutti cotesti bei fiori di pietà e di carità apparvero in Napoli in quel maggio 1876, che fu il primo, il più ricordevole maggio, il quale segnò la prima ora del Santuario di Pompei.
Ma non doveva tramontare quel mese sacro alla Regina dei fiori, senza che noi avessimo colto altri novelli fiori di carità napoletana. Ottenemmo di far predicare l’umile nostra impresa nella vasta e frequentata chiesa di S. Brigida, ove col gettare attorno con profusione i programmi facemmo frutto di molta gente del basso e medio ceto. Questa gente tra per averne udito nella predica, e per averne letto nei programmi l’alto intendimento, innamorarono della nuova Opera, e alla loro volta se ne fecero ferventi zelatori presso gli altri, di guisa che alla fine di quel mese di maggio il numero degli Ascritti si trovò quattro volte maggiore.
Ciò spiega perché abbiamo posto per titolo del presente Capo: Fiori di quel Maggio.
(Autore: Bartolo Longo)


*Capo II - La 1ª apparizione della Vergine di Pompei

Libro Quinto - 8 Giugno del 1876 - La prima apparizione della Vergine di Pompei alla Signora Giovannina Muti
Era il primo giugno di quell’anno 1876. La Contessa ed io andavamo in giro per molte famiglie napoletane per domandare un soldo, a fine di colmare le fondamenta già aperte del Tempio.
Andavamo interrogando or l’uno or l’altro dei nostri conoscenti, informandoci delle persone più pie e più generose di Napoli, che potessero darci un soldo il mese.
E in questo nostro ricercare sapemmo dal Padre Cirillo da Forio d’Ischia, come vi era in via S. Teresa al n. 75, una ricca e caritativa famiglia, di cognome Larghezza.
Là ci recammo direttamente per farla iscrivere al predetto soldo mensile. Era il giorno 6 giugno.
Ma quelle Signore, tuttocchè gentilmente ci avessero accolto, nondimeno all’udire la nostra richiesta e il fine di essa, non potendo prestare tutta la fede alle nostre parole, quasi per esimersi da quella importunità: - È impossibile, - esclamarono, - l’edificare una chiesa con un soldo! – Quasi volessero significare: - smettete queste utopie.
Allora per indurle alla parte nostra, si entrò a parlare delle grazie che la Vergine del Rosario aveva già di buon’ora fatte a quei che concorrevano anche con un soldo alla santa impresa.
impresa.
- Oh! Se la Vergine si degnasse fare un prodigio! – esclamò la Signora Carolina, la madre di famiglia, - oggi sarebbe il tempo di manifestar la sua potenza. La nostra buona amica, Signora Giovannina Muti, è andata da questa casa, in istato assai grave, alla villa Doria sul Vomero. E il padrone di casa, essendo certo che costei deve soggiacere per tisi lassù, ha posto nel contratto il patto, che il pagamento della pigione dev’essere forzoso per tre anni; e alla morte della Signora, devesi, a spese della famiglia di lei, rifare l’intero appartamento. Il suo medico, sconfortato, oggi ci ha detto che non vi è più speranza per la poverina. Tutti gli amici la piangono, e noi siamo addoloratissimi. Lascia orfani cinque figli! Il suo affettuoso consorte, Signor Ferdinando Muti, è inconsolabile.
- Se è così – rispondemmo noi – si rivolga l’inferma alla Vergine del Rosario, la quale per la edificazione del proprio Tempio a Pompei concede oggi singolarissime grazie.
- Se sapeste! – interruppe qui una delle signorine – quanti voti ha fatto il marito di lei! E quanti doni ha fatto a varie chiese, e indarno! Egli è già stanco e sfiduciato.
- Noi non chiediamo nessun voto, o donativo do sorta, - riprendemmo. – Sperimenti la vostra amica quel che han provato utilissimo gli altri. Questo è il foglio delle Zelatrici.
Ciò dicendo, spiegai sotto i loro occhi un foglio di carta in cima al quale erano stampate a grossi caratteri queste semplici parole: - PER UN TEMPIO A POMPEI. – La inferma – soggiunsi, - scriva il proprio nome in capo alla pagina, con la piccola offerta dei soldi per il nuovo Tempio a Maria, e procuri qualche altro associato. Insomma cominci a far da Zelatrice per la Madonna, che questa nulla tiene senza ricompensa. E prometta, che se avrà la grazia, la pubblicherà.
Fu fatto. Quella sera stessa le pie signorine Laghezza mandarono all’amica moribonda una lettera con la quale la esortavano a votarsi alla miracolosa Vergine del Rosario di Pompei, facendole promettere di scriversi come Zelatrice della nuova chiesa da erigersi quivi. Ed al foglio aggiunsero dei programmi dell’Opera.
La signora Giovannina Muti, nata a Sabbato, giaceva condotta a mal termine: era veramente consunta.
Nel dicembre del 1875 un’enfiagione con lieve dolore si era osservata da una delle costole di destra: da primarii Professori fu definito ascesso freddo, e quindi da doversi incidere per evitare tristi conseguenze. Ma la speranza che questo fosse un bel giorno sparito, fece sì che passarono parecchi mesi.
Dopo ripetute consultazioni delle celebrità chirurgiche e mediche napoletane, essendo alla sofferente sopravvenuti acuti dolori alle vertebre che davan possibilità di necrosi, si venne il dì 22 aprile del 1876 ad un’operazione chirurgica, e quindi il 5 maggio alla dolorosa applicazione del drenaggio (laccio).
È impossibile poter dire le sofferenze che cagionavano le frequenti medicature del laccio a quella gentile Signora. Era tormentata ancora da ostinata tosse con parossismi di ore e ore, che la lasciavano prostrata al tutto: ed in ultimo fu attaccata da bronco-alveolite, per la quale essa era senza alcuna tregua arsa da continue febbri violente sino a quaranta gradi.
Ecco che poco o nulla si sperava della sua vita: e perché alcun mezzo non rimanesse intentato, si propose da molti professori assistenti un cambiamento d’aria. E così la portarono sull’aprica collina del Vomero. Ma colassù peggiorò di maniera che si sentì al tutto venir meno la vita. Per conseguenza tristi correvano le nuove di lei: chi la diceva prossima a finire, e chi già estinta.
In tale miserevole stato si trovava la Signora Muti, allorchè le giunge la lettera delle signorine Laghezza. La giacente nel leggere le parole delle sue amiche e quelle del programma della Chiesa di Pompei, fu toccata nel cuore; e immantimente scrisse nel modulo il proprio nome; e poi chiamò la madre e la cameriera, e tutti di famiglia.
E tal fede ebbe impressa nell’animo dacchè fu iscritta, che sentì dentro del cuore la certezza del miracolo di sua guarigione.
Era il giorno 8 giugno del 1876. Un mese innanzi in quel giorno la Vergine dal Cielo aveva volto il suo sorriso di benedizione all’umile terra di Pompei, sulla quale s’iniziava un’Opera a cui avrebbe messo mano e cielo e terra.
La Signora Muti fu colta da un sopore; ed in questo le parve vedere la Vergine del Rosario assisa su di un trono, col suo Bambino nelle braccia e col rosario in mano, ma senza diadema sul capo. Così appunto era la Vergine dipinta nel vecchio quadro venerato a Pompei: ma la inferma non lo aveva mai visto, anzi nulla ne sapeva.
In questo, parve a lei che la Vergine la guardasse con tenerezza, e che essa con molta insistenza e con gran pianto la pregnasse a liberarla da tanti mertirii, ed accordarle la guarigione. E quel piangere le additava, non potendo parlare, il Bambino, come se per mezzo della Vergine volesse quella grazia. Quando ecco la clemente Madre di Dio le sorride e la guarda fissamente, e getta su di lei un nastro bianco su cui erano scritte alcune parole. Tosto essa si affretta a leggere: - La Vergine del Rosario di Pompei ha fatto la grazia all’inferma Giovannina Muti! – Oh Madre del Rosario! Oh Madre, io lo spero, Me lo dici davvero? Dunque son salva? Non morrò? - ripeteva nella visione.
Tutto disparve: essa non credeva a se stessa: parevale un sogno. Ma non era stato un sogno, perché in quell’istante aveva udito il movimento e le parole delle persone che erano nella stanza contigua. Dunque era un’apparizione della Vergine del Rosario? Ma come spiegare: quello stare la vergine del Rosario seduta e senza diadema, laddove in tutti i luoghi si effigia sempre la Vergine in piedi, e coronata il capo del diadema di Regina? Perché in quel nuovo e disusato atteggiamento?
Non sapeva la poveretta darsene spiegazione, E con tutto ciò ella si sentiva rifatta, come rinata a novella vita. Un’onda di giubilo, nuovo, inusitato l’aveva ravvivata tutta. La commozione non le permetteva riferire l’accaduto; ma come nasconderlo? Perché non dare ai suoi più cari quel contento a quella speranza che di essi erano privi?
Si rincora. Li chiama tutti intorno a sé, e tra lagrime di tenerezza, racconta la visione.
Incontanente cessarono le febbri e la tosse ostinata. Ed ecco, mentre l’avventurata Signora, tutta commossa, narrava ancora con crescente calore e vivezza l’apparizione avuta, il marito di lei, Sig. Ferdinando Muti, mette piedi in casa.
Questi, veduta ch’ebbe sua moglie, che piangeva per morta, sedersi sul suo letto e parlare ardita, con voce continua senza venir più soffocata dalla tosse, e raccontare lo straordinario avvenimento. Fu preso da tale commozione, che discese immantimente nella scuderia, e si pose a cavallo, e volò a Napoli a ritrovare le signore Laghezza per sapere il netto della cosa.
Giunto nella loro casa, si prostra ginocchioni dinanzi alla signora Carolina, e commosso sino alle lagrime, - Voi mi avete ridonata mia moglie! – esclama. – E racconta ad esse la visione e la seguita miglioria, e domanda spiegazione che cosa significasse cotesta Vergine di Pompei.
Le pie signorine Laghezza, stupefatte anche esse dallo straordinario avvenimento, non seppero dire altro, che: - Son venuti due Signori per una chiesa che vogliono fare a Pompei mercè la sottoscrizione di un soldo, e che la vogliono dedicare alla Vergine del Rosario.
Nulla poi aggiunsero della Immagine, della corona che mancava e d’altro.
Ma il fatto era lì: Giovannina aveva visto la Madonna come è a Pompei; e dopo quella visione essa da moribonda era rinata.
Piene di santa letizia le signorine Laghezza, che consideravano la Madonna essersi servita di loro per compiere un prodigio, furon tutte preste a darne avviso al Padre Altavilla, cui pochi giorni innanzi avevano udito dal pergamo di S. Domenico Soriano annunziare con parole di zelo l'ardito disegno di una chiesa cattolica in Pompei con un soldo al mese!
Il Padre Altavilla alla sua volta fu lieto che il Cielo secondasse con segni sensibili la incipiente Opera ch’egli tra i primi aveva con zelo predicata in Napoli; e fu sollecito partecipare con fausto annunzio la Contessa De Fusco e me. Così il 13 di quel mese di giugno, tutti e tre insieme ci recammo al Vomero, alla casina Doria, per ascoltare dalla bocca dell’inferma l’accaduto. E la signora Muti francamente, e come donna sana, ci narrò tutto per ordine il fatto.
Il mattino del 30 agosto la privilegiata Signora fece ritorno a Napoli completamente libera dalle sue sofferenze, destando lo stupore in quanti la conoscevano.
Ne scrisse elle medesima di proprio pugno l’attestato, e questo venne letto dal suddetto P. Altavilla ad un numeroso uditorio nella chiesa di S. Nicola da Tolentino).
La madre di lei, signora Clementina Sabbato, offrì per la fabbrica del Tempio lire 50. Il suo figliuolo. Pietro Muti, una pianeta. Una pisside di argento, su cui è inciso il nome di Giovannina Muti, trovasi tuttora nel Santuario della Valle di Pompei a perenne ricordo della prima apparizione della Madonna del Rosario sotto il nuovo titolo di Vergine di Pompei, avvenuta l’8 di giugno 1976, in capo cioè ad un mese da che erasi consacrata la prima pietra del Tempio di Maria.
La graziata donna sopravvisse al miracolo ventidue anni; e quanti la visitavano in sua casa, posta in via Giardinetto a Toledo numero 24, ricordandola essere stata sull’orlo della tomba, non potevano ritenersi dal farne le meraviglie e dal benedire Dio.
Ed ella, durante il corso di ventidue anni, era felice ogni qualvolta poteva riferire la insigne grazia ottenuta, ed attestare di averla ricevuta dalla miracolosissima Vergine del Rosario di Pompei.

(Autore: Bartolo Longo)


*Capo III - Un'offerta per il 1°Altare del Tempio
Libro Quinto - pag. 206

La Regina delle Vittorie dunque voleva dal Cielo confortare il nostro animo, approvare quanto facevano per Lei, sospingerci a passi più ardimentosi per conseguire il nostro intendimento, e nel tempo stesso educarci a stare saldi contro a nuove difficooltà che potessero insorgere.
Ed ecco, innanzi che spirassero ancora i giorni di quel mese di giugno, si degnava concedere novelle grazie.
Fra i devoti uditori del P. Altavilla nella chiesa di S. Domenico Soriano. In quel memorabile mattino del 24 maggio, era una gentildonna, a nome Rachele De Hippolytis, abitante in via S. Spirito di Palazzo N. 41.
Aveva ella il suo figliuolo gravemente infermo nei bronchi, e già in grave stato ridotto per complicata malattia. Nell’udire dall’eloquente oratore come la Vergine si degnasse tutti i giorni concedere grazie per la sua nuova Chiesa di Pompei, si sentì dentro rinascere la speranza, e andava tra sé dicendo: - Oh se la Vergine del Rosario di Pompei mi ridonasse mio figlio! … io le offrirei lire mille per farsi a quella chiesa il primo altare … - E la regina delle Misericordie volle versare sul cuore esulcerato di quella povera madre un balsamo di celestiale dolcezza. La Signora De Hippolytis non era ancora tornata a casa, che il figliuolo suo era già fuori di pericolo, ed in breve fu libero affatto.
Se non che l’amore materno, quando trattasi della salute dei propri figli, è sempre dubbioso e inchina sempre a temere il peggio.
La Signora Rachele non vuol credere a quel che gli occhi suoi le mostrano: trema al pensiero di una desolante disillusione. Vuole raccertarsi che la guarigione di suo figlio perdurerà ancora tra i rigori del vegnente inverno.
- Aspetterò – disse – che passi tutto questo anno e l’intera stagione invernale del 1877, stagione perniciosa pel malato. E quando sarà venuto il mese di maggio dell’anno venturo, e mio figlio seguiterà a star sempre bene, allora solamente adempirò la mia promessa di dare mille lire per costruire il primo altare della Chiesa di Pompei.
Quel che seguì, verrà detto ma suo tempo.

(Autore: Bartolo Longo)


*Capo IV - Le fondamenta rincalzate
Libro Quinto - pag. 207

Ai primi di luglio si recò la prima volta a Valle di Pompei l’illustre Professore dell’Università di Napoli Cav. Antonio Cua, portando seco il disegno architettonico del novello Tempio ridotto a geometriche proporzioni, tuttocchè gli fosse stato forza di accomodarsi alle dimensioni poste da me nel cavare le prime fondamenta.
Innanzi tutto ci fece intendere l’errore che si commetteva costruendo le fabbriche, e massime le fondamenta, a brani o a pezzi staccati.
- Se voi l’anno veggente – osservava egli – gitterete un altro brano di fondazioni, e poi ci addosserete novella fabbrica, avverrà senza dubbio, che nel congiungere la vecchia con la nuova costruzione, quella farà pelo; poiché la fabbrica fatta prima farà in antecedenza della seconda il
suo rassetto, e si distaccherà da questa, che è più fresca, ed ecco prodotta inevitabile la lesione.
Era quindi mestieri aprir tutte le fondamenta ad un tempo; e, trattandosi di enorme peso a sostenere, giacchè si edificava con pietre vulcaniche, era prudente farle tutte d’un getto, a tela, cioè di un masso in fabbrica. Per quelle già gittate a porre un rimedio: rincalzarle, cioè, con una scarpa a declivio sotterra, e allargare in pari tempo le mura della fondazione sino a dieci palmi (m. 2,65) per tutta la lunghezza di palmi 144 (m. 38): lasciando così un’area interna per la nave in larghezza di metri 9.20, e distendere l’asse della crociera a metri 20.
Volle oltre a ciò per la esecuzione del suo disegno un altro muratore più abile. E così venne chiamato ad eseguire i lavori quel capo maestro di Scafati, Pasquale Vitiello, col quale, ricordino i lettori, avevo con una cordicella prese le dimensioni della chiesa della Madonna dei Muroli.
I lavori del Tempio furon ripresi, sotto la direzione dell’ingegnere Cav. Cua, il 10 agosto di quell’anno, sempre memorabile, 1876; e sino a quel giorno si erano già spese lire duemila e duecento, oltre il concorso gratuito delle opere e i donativi di pietre vilcaniche, di calce, di pozzolana e di altro.

(Autore: Bartolo Longo)


*Capo V - La Signora Malvina Massa Lenci - Il primo calice
Libro Quinto - Capo V - pag. 209

Intanto che io trattava con ingegneri e con muratori di ripigliare le interrotte fondamenta, la Vergine nostra Regina si piaceva accrescere anch’Ella il numero delle sue grazie in Napoli; e preferì anche questa volta persone che si erano trovate presenti nella chiesa di San Domenico Soriano alla predica del Padre Altavilla nel mattino del 24 maggio, giorno sacrato a Lei sotto il confortevole titolo di Aiuto dei Cristiani. E la persona favorita dalla Vergine di Pompei fu la Signora Malvina Massa nata Lenci, di Napoli, abitante al Palazzo nuovo Maffettone al Mercatello, oggi Piazza Dante.
Ai primi di quel mese di luglio quella rispettabile Signora, che era incinta, trovavasi in sì gravi condizioni d’infermità da stare a rischio di perdere se stessa e il supportato.
In tale stato pericoloso la pia donna altra sollecitudine non si dà, che dell’anima della sua infelice creatura, la quale, morta senza Battesimo, sarebbe esclusa dai godimenti ineffabili del Cielo.
E confortata dal Rev. Padre Altavilla, ricorre tosto al porto dei disperati, qual è la nuova Chiesa di Pompei. Promise di offrire un Calice di argento, il primo calice per la futura chiesa, ove ella restasse immune dal processo pericoloso di dell’infermità, ed ove il figliuolo, ch’era per nascere, ricevesse in tempo l’acqua della rigenerazione.
Felice avvenimento! La creatura ebbe il Battesimo, e quindi spirò. E la buona madre anche ella in breve tempo riebbe la santità, onde fu sollecita a sciogliere il suo voto.
Il 27 dello stesso mesi di luglio io ricevetti dal predetto Padre Altavilla il calice di argento promesso dalla Signora Malvina Massa Lenci, per le due grazie da costei conseguite in una medesima ora per la Vergine benedetta di Pompei, cioè la sua salute corporale e la salvezza di un’anima già volata tra gli Angeli nel regno di Dio!

(Autore: Bartolo Longo)


*Capo VI - La prima festa del Rosario
Libro Quinto - Capo VI - pag. 210

Sei mesi non erano ancora decorsi dal giorno che la pietra angolare del nuovo Tempio era stata consacrata e posta a base dell’edificio, e già le fondamenta della Casa del Signore erano compiute. Alla metà di ottobre la superficie dei grossi muramenti sotterranei sfioravano il suolo destinato al luogo sacro. Imbiancati di calcestruzzo quei muri, facevano un bel distacco dal brullo terreno: parevano come quelle forti muraglie che cingevano i castelli antichi per renderli rocche inespugnabili.
Il lettore sa che da quattro anni io non avevo lasciato mai scorrere il mese di ottobre senza festeggiare con questi contadini la Regina del Rosario: non conveniva, oggi più che mai, ritrarre il popolo da usanza così bella, e proposi di celebrarne la festa tra quei recinto di ruvide costruzioni. La festa doveva principalmente consistere nell’offrire a Dio il primo sacrificio su quel terreno comprato per manifestazione della sua gloria. Collocate in fondo due botti, e su queste delle assi coperte di pannilini e di drappi, venne eretto di subito un altarino temporaneo, al tutto conforme a quello messo su nel giorno 8 maggio: un Crocifisso, sei candele ed una pietra sacra. In capo all’altarino, su fondo di parati bianchi e celesti, venne sospesa la sdrucita Immagine della Vergine del Rosario, così come si trovava da noi esposta nella vecchia parrocchia, per nulla gradevole alla vista, perché non ancora restaurata dal Maldarelli, ma già amata da me qual segnale di vittoria, e venerata da molti qual sorgente di divine consolazioni.
La festa venne ordinata per l’ultima domenica di quel mese, la quale capitò al giorno 29.
Dolce e memorando fu quel mattino in cui la Regina del Sacratissimo Rosario venne festeggiata dai suoi figli per la prima volta nel luogo da Lei stessa eletto a sua novella dimora, a trono delle sue misericordie.
Sull’area del nascente Santuario, su quella terra ove un dì aveva sede e culto il demonio, veniva sotto umile tenda per la prima volta offerto l’incruento Sacrificio di espiazione e di amore al Dio vivo e vero.
All’aperta campagna, sullo scabro suolo irto di spugnose ed aspre pietre vulcaniche, qua e là sparse e inzaccherate di calce e di loto, veniva salutata Maria con le quindici decade del suo Rosario da un popolo misto di nobili e di plebei accorsi da Napoli e dai dintorni, alla presenza del venerando Vescovo di Nola.
L’oratore sacro che invitai per una predica in quella sacra cerimonia, al tutto nuova e poetica in quel luogo così aprico a lato della pubblica strada provinciale, fu quel medesimo Padre Altavilla, che aveva sin da 24 maggio acceso in Napoli quella favilla che divampò ben presto in incendio di religiosa pietà verso l’Opera di Pompei.
Con tenerissime parole di amore e di fede l’eloquente oratore ricordò il perenne trionfo della Croce sulle barbarie, sulle eresie e sul paganesimo; e come compagna di ogni trionfo sia sempre Maria, la Corredentrice del genere umano. La quale, questa volta. Per piantare la sua Casa tra i gementi figliuolo di Eva, non sceglie un centro popoloso o una città cattolica per venirne onorata convenientemente, ma invece una nuda campagna abitata un dì dai Gentili, una terra, sotto cui fremono di rabbia i demoni ne mille anime perdute di consoli e di cavalieri romani.
Oh! chi era presente in quell’ora gustava le ineffabili dolcezze che la vera Religione trasfonde nell’anima.
Di fronte, il Vesuvio col suo pennacchio di grigio fumo ripiegantesi come colonna aerea verso l’occidente, a sinistra l’Anfiteatro coi ruderi della pagana civiltà, e dietro di esso tutti gli
infranti avanzi di una città morta e che porge ancor vive le impronte dei suoi gentileschi costumi. Ai fianchi, una cinta di fabbrica che sfiorava il terreno umido ancora per le prime piogge autunnali; e sotto gli occhi la Immagine di un Crocefisso che ha la potenza di rinnovare e restaurare tutto; e più in alto un’altra Immagine, cara, soave Immagine, la Effigie della Madre di quel Crocefisso, che è pure la Madre dei redenti.
Dolcissime lacrime irrigavano le gote degli ascoltanti. Quelle lacrime erano la parola del cuore dei credenti che parlava a Dio in suono di amore e di dolore insieme. Era la parola del dolore alla vista di tante odierne empietà ed eresie che fan sentire sulla terra il bisogno di nuovi miracoli del Rosario. Era la parola di amore e di gratitudine a Dio, che si degna accettare per la sua gloria le opere dell’uomo, e manifesta la sua compiacenza per mezzo dei prodigi che opera all’invocazione della Vergine del Rosario di Pompei.
Fu tanto lo slancio dell’amore e della fede in quella ora destato nell’anima di tutti, che lo stesso santo Vescovo di Nola, Monsignor Formisano, più non si ritenne dallo scendere dal suo seggio, e porsi in mezzo al suo popolo; e con vive parole si pose ad esortarlo alla cattolica fede: ed egli medesimo recitò ad alta voce il Simbolo Apostolico, il Credo, cui faceva lunga eco la turba dei fedeli che gli erano d’attorno inteneriti. Oh, la nostra religione, nell’altezza della sua verità, è pure cinta d’incantevole bellezza!

(Autore: Bartolo Longo)


*Capo VII - L'anno 1876 - Primo delle origini del Santuario
Libro Quinto - Capo VII - pag. 213

Con quella festa fu chiuso il primo anno delle origini di questa Chiesa; dappoichè facendo io le costruzioni in economia, come dicesi, cioè a via di pagamenti giornalieri agli operai, non tornava conto lavorare a tempo d’inverno, quando le giornate sono più corte, ed il lavoro è di frequente inpedito dalle piogge e dai venti glaciali. Oltre di che l’inverno veniva da me spesso nell’andare attorno con la Contessa per le case e per le famiglie di Napoli a riscuotere le oblazioni, e a procurare novelli associati.
Sino al quindici del novembre di cotesto anno, trovo nei primitivi miei registri di avere speso seimilaseicentosettanta lire e centesimi quindici.
La raccolta era stata di lire quattromilanovecentoquarantacinque e centesimi ottantacinque. V’era dunque una mancanza di lire millesettecentoventiquattro e centesimi trenta da pagare per
calce, pietre, carretti ed altro.
Il giorno della festa, che, come ho detto fu il 29 di ottobre, ultima domenica del mese, esposi un quadro, in cui leggevansi scritti tutti i nomi degli oblatori con le somme offerte, il totale dell’entrata e quello dell’uscita, e firmato dall’ingegnere Direttore, Professore Cav. Antonio Cua.
Abbiamo la ventura di serbare ancora quel primo quadro delle prime spese fatte pel cavamento delle fondazioni del Tempio di Pompei. Ed oggi, dopo quarantatrè anni da quel giorno, ci sembra un documento storico prezioso, che non esitiamo di pubblicare integralmente, affinché veggano i lettori come Iddio si serve delle piccole cose umane per far risaltare la sua gloria.

Conto per la fabbrica del nuovo Tempio in Valle di Pompei
Anno 1876 – Introito
1.
Da S. E. Rev.ma Mons. D. Giuseppe Formisano £   800,00
2. Dalla Contessa De Fusco £   500,00
3. Dall’Avvocato Bartolo Longo £   500,00

4. Raccolte in Valle di Pompei dal Sac. Gennaro Federico, in generi: granone, cotone, soldi      mensili, ed altre entrate straordinarie £   583,00

5. Raccolte dall’Avv. Bartolo Longo in Latiano £   180,00
6. Raccolte dal medesimo in Massagne £   220,00
7. Raccolte dal medesimo in Francavilla Fontana £   430,00
8. Raccolte dalla Contessa de Fusco da varie Signore in Napoli £ 1.732,00
       Totale       £ 1.732,00
Esito
1.
Per compra del suolo pel nuovo tempio dal Sig. Luigi De Vivo, nonchè coltivi e mesi allo stesso                                                                                               £ 1.630,00
2. Per spese di Istrumento pel Notar Domenico Vitelli di Boscotrecase £ 157,00
3. Al maestro muratore Luigi Cirillo per sue giornate e pei suoi lavoranti sino a tutto Maggio                                                                                                      £ 42,00
4. Per pietre e pozzolana, a diversi carrettieri sino a tutto Maggio £ 116,00
5. Per apparatore ed altre spese nella funzione della prima pietra nel giorno 8 Maggio                                                                                                   £ 245,00
6. Al Maestro muratore Luigi Cirillo per sue giornate e pei suoi lavoranti sino a tutto Giugno                                                                                  £ 336,00  
7. Per pietre, calce e pozzolana, e diversi carrettieri                                   
£ 394,80
8. Al Maestro muratore Luigi Cirillo e ai suoi lavoranti sino a 6 Luglio           £         78,30  
9. Per pietre e pozzolana pel mese di Luglio                                                  £        185,80
10. Per pietre e pozzolana e calce sino a tutto Settembre                           £       385,80
11. Al Maestro muratore Pasquale Vitiello per sé e suoi lavoranti sino a
      tutto Settembre                                                                                    £        587,50
12. Per pietre pozzolana e calce pel mese di Ottobre                                    £        394,80
13. Al Maestro muratore Pasquale Vitiello per sé e suoi lavoranti sino a
      tutto Ottobre                                                                                         £        691,00
14. Per passaggio di fondiaria del suolo comprato                                          £            7,50
15. Per calce comprata nel mese di Maggio, cantaia 100                                 £         170,00
16. Per spegnere la calce in diverse volte                                                       £          75,50  
17. Per pietre e pozzolana e per compire le fondamenta                                £         248,00
18. Al Maestro muratore Pasquale Vitiello per sé e per i suoi lavoranti per
      compire le fondamenta                                                                             £         228,15
19. Per la festa del SS. Rosario nella seconda domenica di Ottobre, in
     musica, sedie, carrozza al predicatore, regalie al paratore, al caffettiere
     di Scafati ed altro                                                                                    £         350,00
Esito                                                                   Totale   £   6.670,15
Introito                                                                Totale   £   4.945,85
                                                                                  £   1.724,30

Disavanzo di Lire Millesettecentoventiquattro: che formano un debito della chiesa nascente.
Valle di Pompei, 29 Ottobre 1870
                                                                 Il Cassiere
                                                           Autore: Bartolo Longo

Monsignor Giuseppe Formisano, Vescovo di Nola, Vescovo di Nola, per incoraggiarci a questuare per questa nuova Chiesa prima d’intraprendere la fabbrica, ci aveva detto:
- Per ogni soldo che voi raccoglierete io ve ne darò due da parte mia. E così, se alla fine dell’anno voi avrete raccolto dugento o trecento lire, io ve ne darò quattrocento o seicento. E così anno per anno si prolungheranno le mura e si innalzeranno a poco a poco. Perocchè, figli miei, sappiate che le chiese non si edificano mai in pochi anni, ma dopo lunghissimo tempo. Guardate. Per esempio, la chiesa di San Pietro a Roma, il Duomo di Firenze re tante altre chiese. E se voi morrete senza aver veduto la chiesa già edificata avrete sempre il merito dinanzi a Dio di averla cominciata; giacchè quando si fabbricano0 chiese bisogna non essere egoisti. Voi cominciate, e gli altri finiranno.
Ma, allorchè il buon Prelato venne a Pompei alla festa del 29 ottobre, noi gli mostrammo la cifra delle somme raccolte che sorpassava le lire quattromila e novecento, e lo richiamammo alla promessa di darci dal canto suo il doppio di quanto noi avevamo raccolto. Il sant’uomo con grata sorpresa, sorridendo con aria di chi sa bene il fatto suo, osservò:
- Io in vero credeva che voi avreste potuto raccogliere non più di duecento a trecento lire l’anno, e niente più di questo: ma ora che veggo avere voi raccolto così cospicua somma, e che la Madonna vi assiste coi suoi miracoli, io mi ritiro, e fate voi tutto.
Poi, come uomo accorto e Capo ecclesiastico di lunga esperienza e di non leggiera prudenza, soggiunse: - Anzi protesto che io non voglio entrare con voi nei debiti che fate per la costruzione della Chiesa; essendo stata sempre mia massima di non spendere più di quanto si possiede. Direzioni, consiglio e concorso ne darò volentieri; ma aver parte agli obblighi, che cominciano dal primo giorno col superare le entrate, ma voglio punto.
Ma io fin d’allora sentiva dentro dell’anima una forza ed una vigoria, che non era certo naturale, dacchè mentre il corpo era fiacco e debole per lunghe infermità sostenute, lo spirito per contrario era invaso da una santa ebbrezza, che non mi faceva guardare altro se non il Tempio del Signore in Pompei.
Alla mia mente l’innalzamento di un Tempio si affacciava come una fonte in cui l’animo avesse il lavacro delle sue colpe, e per giunta vedeva il Cielo sorridermi ed incorarmi col sostegno dei prodigi. Sicchè novella vigoria veniva a sorreggermi nei momenti più terribili del dubbio e dello sconforto, e m’incorava ad una larga fiducia nella Provvidenza. Ancora, aveva un presentimento, che sin d’allora signoreggiava tutto l’animo mio, cioè che quel Tempio fosse provvidenzialmente predestinato da Dio colà, dove si puote ciò che si vuole: di guisa che, volessero o non volessero gli uomini, la cosa doveva andare sempre avanti. Quindi fui preso a rabbonire e chetare quel prudente e buon Prelato, rassicurandolo che assai volentieri avrei pigliato sopra di me quel debito e tutti i debiti a venire, essendo certo che il Cielo non mi avrebbe mai abbandonato in questa impresa.
E siffatto modo ho tenuto sempre, ogni anno, sino al presente. Fu quella una mia illusione? Certo che la mia non fu una condotta secondo la via ordinaria della prudenza umana; e, segnatamente in quel tempo d’incertezza dell’esito dell’impresa, rasentava la temerità.
Ma io, fervente ammiratore ed umile seguace del caritativo ed amato santo P. Ludovico da Casoria, ch’era per me S. Francesco vivente, mi faceva guidare da ben altro criterio, che il buon successo ha poi dimostrato retto e secondo Dio. Quel criterio, secondo la mistica dei santi e non secondo la ragione e dei filosofanti, era il seguente: - Quando sin dal principio Iddio si rivela in una Opera con l’intervento straordinario (e ciò Egli dimostra con la voce dei prodigi) allora, per sua infinita bontà e misericordia ineffabile, l’uomo, cui Egli pone ad un opera di sua elezione, diventa istrumento di sua Provvidenza, e sente nell’animo, insieme col forte desiderio del bene, una sicurezza di riuscita. Ancora, il Signore non gli fa vedere in quel punto i fantasmi degli ostacoli, altrimenti l’uomo ne sarebbe isvigorito ai primi passi, anzi lo alletta potentemente con la visione della bellezza del bene.
Da ciò procedeva che io, per mera misericordia divina, non pigliava punto cura dei giudizi che gli uomini in quei tempi facevano di me e dell’Opera, giudicata a ragione da molti e secolari e sacerdoti e prelati, secondo le apparenze, per lo meno strana, o effetto di esaltazione religiosa, o di naturale entusiasmo meridionale, facile ad accendersi, più facile a spegnersi.
Ma qui accade spontanea un’altra considerazione, la quale anche ridonda a gloria di Dio. Chi con mente serena si pone oggi a meditare su quelle primissime origini di quest’Opera, che Maria voleva rendere nel giro di pochi anni così magnifica, scopre già in quelle prime tracce un vasto disegno divino, che allora io non poteva mirare. – Qual è questo disegno? – Eccolo. Si apre la storia del primo anno delle origini di questo Santuario con un’aurora di grazie che precedono il lieto giorno delle prime fondamenta di esso. In quell’anno 1876, primo delle origini del Santuario di Maria, che è stato cagione di tante meraviglie del Signore sull’arida terra dei pagani, ritrovo che le grazie descritte in questa storia ascendono al numero di otto.
Si noti, che esse in numero di cinque furono ottenute per intercessione della SS. Vergine del Rosario in quello intervallo che precedè la compra del suolo su cui si aveva ad edificare il tempio: cioè nei mersi di febbraio, di marzo e di aprile. E in numero di tre si ottennero nel corso dei tre mesi che seguirono alla benedizione della prima pietra di fondazione del Santuario; cioè dagli 8 di maggio a tutto luglio.
Chi sa dire il perché dell’operare divino? A noi, mortali, non è dato che adorar le meraviglie di Dio, ma è pure concesso, come ragionevoli, il meditarle.
Quelle prime cinque grazie fanno correre la mia mente ai primi cinque Misteri del Rosario.
Afferrata questa idea, veggo in essa un significato, che la Vergine dopo quindici anni mi avrebbe chiarito, che cioè la chiesa sua prediletta di Pompei, dedicata ad onorare il suo Rosario, dovesse percorrere tanti anni per edificarsi e consacrarsi, quanti sono i misteri che come altrettante gemme celesti rifulgono nella sua mistica corona di rose. E tanto è avvenuto. Il Santuario di Pompei, ricevè la sua solenne dedicazione il 7 maggio 1891: cioè in capo a quindici anni da che n’era stata posta la prima pietra.
E questo numero mi ha fatto altresì balenare alla mente che il corso degli avvenimenti che saranno per svolgersi nella edificazione del Santuario, abbiano ad avere una impronta degli avvenimenti che nel Rosario meditiamo.
E notate, che di coteste cinque grazie, che aprono tutto il corso delle migliaia di grazie che ad esse son concatenate come i grani della corona di Maria, la prima venne impartita ad una verginella, innocente fanciulla, a dodici anni, Clorinda Lucarelli. Il primo sguardo pietoso di Maria adunque posò sull’umile ed afflitta innocenza: e ci ricorda questo fatto che con l’umiltà e con l’innocenza di Nazareth si apre la vasta tela dei Misteri della Redenzione dell’umanità contemplati nel Rosario.
Le altre quattro grazie hanno per me anche il loro significato. Di esse, una fu concessa a me, che scrivo, in persona di mia madre, quasi per obbligarmi col vincolo della gratitudine a non lasciare, per qualunque ostacolo, la via intrapresa. L’altra al mio primo compagno datomi dall’Ecc. Vescovo di Nola Rev. D. Gennaro Federico, in persona di suo padre; l’altra venne largita ad una giovine madre, Concetta Vastarella, che era in suo morire, (e con lei pericolava anche la sua prole senza battesimo), in preda a furiose convulsioni, come presagio a quanto dovesse accadere in questo Tempio, ordinato da Maria a salvare le anime della perdizione. E la quintqa finalmente ad un sacerdote, Antonio Varone.
Perché volle la Vergine benedetta largire cinque sue belle grazie prima ancora che si fosse comprato il suolo per la sua nuova Chiesa, e prima ancora che si sapesse in qual punto dovesse sorgere il suo nuovo Santuario?
Oh, oggi mirando io tanta bontà di questa Madre, mi par di scorgere molte ragioni che Ella aveva di mostrarsi così buona e larga benefattrice verso di tanti poveri suoi figliuolo! Voleva darmi senza dubbio un conforto ed una spinta a non indietreggiare ai primi colpi dell’avversario di ogni bene.
Mi consenta, il lettore un’altra considerazione: la voce di un Nunzio divino precedette la discesa del Redentore sulla terra; e la voce misteriosa del Cielo, la voce dei prodigi doveva precedere quel gran giorno, in cui la clemenza di Dio sarebbe discesa fecondatrice di novella vita sull’arida terra dei morti idolatri.
Nelle rivelazioni della Ven. Maria d’Agreda si legge, che gli Angeli, i maggiori, furono deputati da Dio a custodire e guardare la casa e la persona della Madre di Gesù quando era ancora viatrice
in questa vita mortale. E quindi io penso che anche un Angelo, dei maggiori, venne deputato da Dio a vigile scolta di questa novella Torre Davidica. E questi, io mi avviso, fu il più potente Spirito che abbia il Paradiso di Dio, quel bellissimo e fortissimo Principe che ha un nome meraviglioso, che vuol dire il più vicino a Dio: - Quis ut Deus? – quel Principe che è la bocca, il fiato, il braccio di Dio, Michael. E nel giorno appunto della festa dell’apparizione di questo Arcangelo divino, era designato negli immutabili decreti del Cielo che dovesse aver cominciamento, ed i9n capo a quindici anni, la sua Consacrazione, qui, in questo luogo deserto e abbandonato, la novella Arca di alleanza che dovrà condurre a salvezza migliaia e migliaia di figliuoli di Adamo!
E perocchè i fatti di Dio debbono meditarsi, non operando mai l’Altissimo un miracolo senza un altissimo fine; pertanto oggi, dopo tanti avvenimenti grandiosi già compiuti, mi è lecito assorgere ad una breve e salutare considerazione intorno all’intervento straordinario di Dio in quel primo anno 1876.
La Madre di Dio, l’Avvocata dei peccatori, venerata da pochi giorni in Pompei, si degnò assai di buon’ora dare manifeste prove ch’Ella voleva porre il suo trono di misericordie e di grazie quivi appunto, sulla terra che fu teatro di oscenità pagane, d’idolatrie e di secolari ruine.
La civil società sta oggi in pericolo di perder la fede e la Regina delle Vittorie accorre pietosa ai pericolanti; e con potenza, che le vien dal Figlio-Dio, muta il luogo di morte in centro di vita. E là, dove non era che squallore, buio e ruina, vuole Ella accendere un faro di fede, acciocchè, chiunque abbia smarrito il raggio della vera luce e cammina nelle tenebre affissi lo sguardo della mente a questa Valle; e chi sente il bisogno di rinfrancare lo spirito col soave balsamo della fede cristiana, venga a questa Valle a visitar la sua Madre. E Maria, che è Vergine fedele, numera i sospiri ed i palpiti di quanti la invocano con fiducia, di quanti muovono i passi al suo luogo di predilezione e li premia ancora quaggiù con una copia di dolcissime grazie.
Né Essa guarda ai meriti delle persone e alle qualità o al ceto o alla condizione sociale di esse: - Maria non discute i meriti – Maria non discutit merita, - scrisse il Santo Dottore innamorato di Maria, Bernardo: - Essa si volta benigna a chiunque la invoca. E ai giorni nostri si degna di guardare con sollecita cura chi, invocandola col titolo a Lei sì caro di Regina del Rosario nella Valle di Pompei, concorre, anche da lungi, alla edificazione del suo Santuario. Ed è degno di nota anche questo fatto: la prima volta che la SS. Vergine del Rosario di Pompei si degnò di apparire agli uomini e sotto le sembianze onde vedesi dipinta in questo Tempio, non fu ad una vergine fanciulla innocente, come seguì sulla montagna di Lourdes; né ad un santo monaco, come ad un B. Simone Stok sulle vette del Carmelo, o ad un S. Guglielmo benedettino sulla sommità di Montevergine; né ad una vergine sposa di Gesù, come ad una serafica Teresa o ad una Caterina da Siena, né ad un sacro Unto del Signore, ad un Sacerdote degno e venerando, o ad un sacro Vescovo; sì bene fu ad una donna coniugata, madre di numerosa prole, ricca signora e dell’alta Società napoletana, Giovannina Muti. Forse voleva la gran Regina additare fin da principio il disegno divino che dovrà compiersi in questo Santuario, cioè che di qua Ella spanderà la salvezza a tutta la civile società: e che sotto il suo materno manto, in questa santa Sionne, raccoglierà benignamente e indurrà a salvezza, a fratellanza e a pace, le genti di ogni condizione, e grandi e piccoli, e nobili e plebei, e dotti ed indotti, e giusti e peccatori, e popoli e nazioni.
E con siffatto esempio oh! Come il cuore del msecolare, del coniugato, di chi è costretto a vivere in mezzo al tumulto del mondo, respira un’aura più lieta di speranza, fondata sulle nobili larghezze della Misericordia di Maria, che si piace del titolo di Regina del Rosario di Pompei.
Comunque vada la cosa, per me, che allora mi trovava come inesperto pilota che intraprende il viaggio di un vasto pelago, quella apparizione fu come un segnale di gradimento e di approvazione che la Regina del Cielo dava alla prima arrischiata mia idea della Pompei restituita alla novella vita. Fatta questa pia disgressione, torniamo alla Storia.
(Autore: Bartolo Longo)


Torna ai contenuti