Vai ai contenuti

Storia del Santuario dalle origini al 1879

Il Santuario > Storia del Santuario scritta da B.L.

*Capo I - La fine dell'anno 1876
Libro Sesto - pag. 227
1. Il Card. Sisto Riario – Sforza. I due Pontefici Pio IX e Leone XIII

La prima festa in onore della Vergine del Rosario, fatta tra le rozze e scabre Fondazioni del Tempio nella ultima domenica di ottobre del 1876. La prima Messa, celebrata all’aperto in quel luogo che Dio aveva scelto per la sua Reggia e per trono delle misericordie della Regina delle Vittorie, lasciarono una impressione tenera, indelebile, e un ricordo soavissimo di pietà e di fede nell’animo di quei signori napoletani che v’intervennero.
Le parole che quella mattina pronunciò il P. Altavilla della Compagnia di Gesù in aperta campagna, su quelle ruvide pietre vesuviane che servivano pei fondamenti della Chiesa nascitura, generarono in tutti gli astanti un novello slancio di fede, novelli propositi generosi di concorrere
con maggior lena al proseguimento dell’Opera di Dio. Vedemmo il Vescovo medesimo di Nola, Mons. Formisano, il volto bagnato di lacrime, levarsi dal posto in cui era e mettersi in mezzo al popolo, e con parole infocate invitarlo a recitare pubblicamente la professione di fede. E tutti ad alta voce ripeterono il Simbolo degli Apostoli: - Credo in Dio, Padre onnipotente, e in Gesù Cristo suo Figliuolo unico. Quella giornata, quella sacra cerimonia, così soavemente sublime e così ricca d’intensi affetti, quelle parole del Vescovo che sollevavano ad una fede immortale, la vista di quella umile Immagine posta sotto una povera tenda campestre, illuminata non da altro che da quattro ceri e da un nimbo di sole che le baciava il volto; quell’Immagine che, invocata appena, aveva fatto provare gli effetti della misericordia divina, mise nei nostri cuori maggiore ardimento di andare attorno per le famiglie napoletane a chiedere l’elemosina per continuare la costruzione del Tempio pompeiano.
Di fatto, venuto il mese di novembre, sospendemmo tutti i lavori, perché d’inverno non conveniva di lavorare a giornata, e facemmo ritorno a Napoli per riprendere la questua.
Disponemmo con la Contessa di presentarci a famiglie sia note sia ignote, tra quelle che andavano in fama di caritatevoli e pie, tanto del patriziato quanto della borghesia, e presentarci senza commendatizie e senza ritegno alcuno, anche a rischio di essere villanamente scacciati.
Pensammo che era conveniente di andare, prima che ad altri, al Capo della Chiesa Napoletana, all’Arcivescovo, che allora era il Cardinal Sisto Riario Sforza, uomo di prudenza e di carità esemplari.
Il cardinal Riario intanto aveva avuto sentore di due secolari che andavano questuando per le chiese di Napoli, citando miracoli; e però ne aveva interrogato il Vescovo di Nola ed aveva già ricevuto favorevoli informazioni.
Era stato pure informato di tutto quanto era avvenuto in Napoli nel mese di maggio nella Chiesa di S. Domenico Soriano, e delle grazie che già si erano ottenute dai suoi diocesani che erano concorsi con offerte per un Tempio da edificarsi a Pompei.
Da lui erasi anche presentata Donna Marianna Lucarelli con la propria nipote Clorinda, che, il lettore lo ricorderà, era stata la prima in Napoli ad ottener grazia dalla Vergine del Rosario per promesse fatte alla chiesa che doveva costruirsi in Pompei. Onde
l’Eminente Porporato era già venuto in cognizione dei modi straordinari, con cui il cielo concorreva all’Opera pietosa a favore degli abbandonati contadini pompeiani.
Io conosceva appena di vista la persona del Cardinal Riario, non essendo stato mai a lui presentato. Lo ricordo. Fu una sera di quel novembre 1876 quando l’E.mo Cardinal Riario Sforza ci ammise alla sua udienza.
Come ci vide varcare la soglia della camera, l’augusto Personaggio, maestosa figura cardinalizia, ci venne incontro col viso sorridente. – Avanti, - pronunciò con tono piacevole, - avanti, questa coppia che fa tanto bene.
Non poco conforto recarono siffatte parole all’animo nostro, che era titubante sul modo come la prima sacra Autorità di Napoli avrebbe accolto noi, che, secolari e privati, andavamo predicando miracoli e quei tempi così difficili per la religione.
Con grande degnazione cominciò a dimandarci di quanto noi avevamo fatto ed intendevamo ancora di fare.
Ed io che non voleva altro, cominciai a narrare lo stato miserando degli abitanti di Pompei e l’abbandono religioso in cui erano questi contadini e il mio desiderio di erigere a mie spese una cappella del Rosario; e come il Vescovo di Nola ci aveva indotti a costruire invece una Chiesa: onde andavamo attorno per riscuotere iscrizioni di un soldo al mese, raccomandandoci ai rettori di chiese e ai parroci per far conoscere dal pergamo ai fedeli napoletani questa santa impresa.
Ciò udendo, quel degno Porporato volle anche il suo foglio di iscrizione. A quel tempo non avevamo ancora formato i libretti o schede per l’associazione; ma andavamo accattando firme di offerte sopra un foglio che in cima presentava in stampa queste parole: - Per una Chiesa da edificarsi in Pompei.
Quel degno Arcivescovo in luogo di sottoscriversi per mezza lira al mese, come facevano gli altri nobili napoletani, firmò di suo carattere per dodici lire all’anno. Anzi me le fece consegnare prontamente, promettendo che ci avrebbe sorretti con la sua autorità. Ci promise ancora che sarebbe venuto di persona a vedere il luogo su cui noi volevamo innalzare la Chiesa.
Fu quella una serata di vera consolazione per noi, che sempre abbiamo avuto per massima di nostra condotta di non cominciare opera di Dio senza la benedizione del Vescovo. Se non che, quella offerta di lire dodici fu la prima e l’ultima di quel santo Cardinale, poiché nel novembre del seguente anno egli non era più tra i vivi. Quell’elemosina, però, fattaci dal Capo della Chiesa napoletana, fu di augurio felice e certamente di benedizione, come presagio di una sorgente copiosa di carità che da Napoli si sarebbe riversata a Valle di Pompei.
Conforme era nostra consuetudine, di ogni consolazione e di ogni dolore facevamo partecipe il nostro angelo del Signore, Monsignor Formisano. Ci recammo a Nola e a lui narrammo quanto ci era accorso e quello che ci era sorto in mente di tentare.
L’esempio di generosità dell’Arcivescovo di Napoli ci aveva fatto nascere un pensiero, di recarci cioè a Roma dal Sommo Pontefice, che era allora Pio IX, accompagnati da una commendatizia del Vescovo, per chiedergli la sua elemosina per la costruzione del Tempio di Pompei. E per essere accreditati presso il Sommo Pontefice, ci saremmo presentati con una lettera del nostro Vescovo, si sarebbe iscritto almeno per cento lire. A quel tempo una offerta di cento lire sarebbe stata come ai giorni presenti un’offerta di mille lire. E la nostra speranza si fondava sul fatto che per le chiese di Roma e per le opere di religione e di educazione del popolo, quel magnanimo Papa non donava meno di mille lire alla volta.
Ma Monsignor Formisano non approvò la nostra gita a Roma, e si studiò di farcene deporre il pensiero, allegando che il Papa prima poteva fare queste elargizioni, ma allora, invece, privo delle rendite che gli venivano dai suoi dominii, viveva della elemosina dei fedeli. Onde a Lui, Vescovo, non conveniva chiedere danaro al Papa, ma per contrario, come figlio della Chiesa doveva piuttosto soccorrere il Capo della Chiesa.
Questa decisione del nostro Vescovo ci fece ammutolire, sebbene non ci avesse convinti per nulla, perché avevamo saputo che da poco il cuore magnanimo di Pio IX in un solo giorno, per un’Opera di prima Comunione in Roma, aveva donato mezzo milione in Roma, aveva donato mezzo milione, quanto, il giorno innanzi, aveva ricevuto come obolo di San Pietro da ricchi signori inglesi. Nondimeno tacemmo rassegnati.
A quel tempo l’andare noi a Roma e presentarci al Papa era per noi come andare alla scoperta del nuovo mondo, passando per vie e per mari ignoti: a Roma nessuno ci conosceva, e senza lettera del proprio Vescovo, neppure il Maestro di Camera di Sua Santità ci avrebbe dato udienza. Questo pensiero ci fece quietare. Ma se a noi parve non convincente la ragione addotta da Monsignor Formisano di non chiedere nulla al Papa Pio IX, quel pensiero del Vescovo fu certo una ispirazione di Dio; ed oggi che scriviamo, dopo quarantadue anni da quel giorno, vi riconosciamo una disposizione della Provvidenza. Perocchè non doveva essere il Papa dell’Immacolata colui che doveva far sorgere a grandezza inasperata e impensata la Chiesa del Rosario di Pompei sino a divenire Santuario, metropoli dei Rosarianti del mondo; ma sì invece quell’onore, quella gloria, quella missione era destinata dal Cielo ad un altro Papa, che doveva essere il novello Pontefice del Rosario, e che doveva elevare a Basilica Papale una semplice chiesuola cominciata per umili contadini: e questi doveva essere Leone XIII.
Intanto era nei disegni di Dio che noi accattassimo il soldo dalla gente anche povera, come aveva detto il Vescovo di Nola, Monsignor Formisano, perché la Chiesa di Pompei non era solamente dei nobili e dei ricchi, ma anche dei poveri e dei derelitti, non di Napoli soltanto, ma di tutto il mondo.
(Autore: Bartolo Longo)


*Capo II - I primi mesi del 1877
Libro Sesto - Capo II - pag. 234
Origine del nostro libro: I Quindici Sabati del SS. Rosario

Venuto il gennaio del 1877, ricominciammo il giro delle famiglie che si erano già ascritte nell’anno precedente e che dovevano pagare la seconda annata della loro sottoscrizione. E la prima a cui ci recammo fu quella della pia Marchesa Filiasi Di Somma, che il lettore ricorderà essere stata quella dama che con i suoi biglietti di visita ci aveva introdotti tra le più nobili famiglie napoletane.
La informammo di quello di quello che si era fatto a Pompei, della festa di ottobre che avevamo celebrata sulle fondazioni del Tempio, del Cardinale Riario che si era scritto in capo a tutti i novelli associati; e le narrammo le grazie che la Vergine aveva largite alle famiglie dei Signori Lenci, per cui avevamo avuto il primo calice, la prima pianeta. Le dicemmo che avevamo avuto la prima pisside di argento anche per il miracolo concesso alla madre della Signora Giovanna Muti, e come con quella pisside si erano fatte in Valle di Pompei le comunioni la mattina dell’ultima domenica dello scorso ottobre 1876, a cielo scoperto, sotto di una tenda.
Quella dama, erede dei Principi del Colle nella virtù e nella devozione al Rosario, si era data a propagare per Napoli un libricino francese di poche pagine, che aveva fatto tradurre in italiano, nel quale era tracciato il metodo da tenere, per celebrare con frutto i Quindici Sabati in onore del Rosario di Maria Vergine.
Ora udito i miracoli che la Vergine del Rosario faceva pel suo Tempio di Pompei, quella esemplare gentildonna non potè nascondere l’interno godimento dell’animo; e per concorrere maggiormente alla propagazione della celeste Corona, mi porse il suo diletto librettino e mi diede l’incarico di curarne una ristampa a sue spese.
Ma io allora proposi alla pia Marchesa che, in luogo di pubblicare un libretto che indicasse solamente le norme da seguire per la devozione dei Quindici Sabati, sarebbe stato meglio compilare un libro nuovo che contenesse tutte per ordine le preghiere e le pratiche opportune a
bene eseguire così fruttuoso esercizio. Umilmente feci osservare alla sapiente cattolica dama, come la virtù nascosta in questa devozione dei Quindici Sabati procede da ciò, che in ciascun Sabato si medita un mistero per ordine, da cui ritraesi una virtù da porre in pratica negli atti della vita. Ora, a far queste meditazioni sui Gaudi e sui Dolori di Maria, sulla Passione di Gesù e sui Trionfi di entrambi, si richiedono vari libri, né tutti possono averli; ed avendoli, a molti grava portarli nelle chiese. Quindi le promisi che io mi sarei studiato di provvedere i devoti di Maria di un libro unico e completo a ben fare i Quindici Sabati del Santissimo Rosario.
La pia dama accettò la proposta, ed io mi misi con tutto l’animo a fare il libro.
Come il Tempio di Pompei cominciò a costruirsi con pietre vesuviane di eruzione preistorica.
La festa del 29 ottobre 1876, riuscita con tanta solennità ed intima commozione, ci mise la febbre addosso. Noi volevamo a tutti i modi proseguire alacramente la costruzione del Tempio e sottoporci a qualunque umiliazione, sia anche a bruschi rifiuti e a vituperi nel chiedere le elemosine per questa Opera di Dio, purchè arrivassimo al nostro intento di sollevare le mura della nascente Chiesa Pompeiana.
Fin dal mese di luglio avevamo scorto un’altra difficoltà. Con tutto il denaro che avevamo pronto a pagare carrettieri per portare le pietre per la costruzione, ci venivano meno carretti e carrettieri, perché quei di Bosco, quei di Scafati e delle terre contigue erano nei mesi estivi impiegati tanto per il trasporto delle derrate da queste campagne al mercato di Castellammare e ad altri mercati. Quindi, più di un giorno eravamo rimasti addolorati, perché questa piccola difficoltà, che non era da prevedersi, cioè la mancanza di carretti per trasporto di pietre, potesse ostacolare l’Opera di Dio.
E però, lo ricordo bene, nella festa della Pentecoste determinai di rischiare un’altra impresa, cioè aprire per mio conto una cava di pietre vulcaniche per somministrare senza interruzione pietre alla fabbrica,
In quel tempo, due custodi di Pompei, Pietro Paolo Vetelli e Giovanni Vitelli, avevano intrapreso un cavo di pietre vulcaniche così dette scardoni sulla Via Provinciale Napoli-Salerno. Era un corso di lava di epoca anteriore alla costruzione di Pompei, perché essa si estende verso mezzogiorno dal Vesuvio sotto la città fino al fiume Sarno, come un alveo di un altro fiume. Proposi ai due custodi di firmare una cessione. Essi acconsentirono, e facemmo un contratto di cessione di quella cava di pietre per sei mesi, da gennaio a giugno di quell’anno 1877, e mi obbligai di pagare lire cinquanta nel primo mese, e lire cinquanta nell’ultimo.
Quel contratto, che porta la data del 1° gennaio 1877, oggi, dopo quarantadue anni, sul mio tavolino, sotto i miei occhi apparisce quale un ricordo tenerissimo di quei primi tempi della fondazione del Santuario, e mi fa sussultare.
Ma a quella cava non si poteva accedere con carretti, essendo il fosso molto profondo. Convenne che dal lato occidentale della proprietà De Fusco si aprisse una via a discesa per giungere fino al fosso, e l’aprimmo sotto la direzione del compianto Prof. Antonio Cua, che, come dicemmo, dirigeva gratuitamente i lavori della costruzione del Tempio. Sicchè le prime spese di quell’anno 1877 furono fatte per l’apertura della via alla cava di pietre vulcaniche.
Questo fatto che pare ovvio e di nessuna importanza, oggi ci suscita nella mente una considerazione storica: - Quella lava di fuoco che in tempo preistorico dovette portare rovine, un cataclisma in queste campagne del Vesuvio, e sulla quale venne costruita l’antica città delle mollezze pagane, doveva dopo tanti secoli servire a costruire la Casa del Dio vero sulla terra che fu degl’idoli, e il Tempio che doveva rinnovare la fede e la pietà cristiana nel mondo!
Acceso da quella febbre di andare innanzi, non volli aspettare il mese di maggio per ricominciare i lavori di costruzione della Chiesa: ma come entrò il mese di marzo, prendemmo a nolo molti carretti dai vicini paesi per trasportare pietre vulcaniche, che servivano a fare la volta del pavimento della futura Chiesa a cavare la terra delle fondazioni.
E mentre che si cominciavano questi lavori a Valle di Pompei, in Napoli con la Contessa andavamo per le famiglie note ed ignote a domandare il concorso di un soldo al mese.
La festa del passato ottobre aveva prodotto un altro inaspettato. Se ne parlò tra le famiglie, se ne sparse la notizia, ne corse la fama come lampo, da parenti a parenti, da amici ad amici, giunse a quelli che poco o nulla sapevano prima dell’Opera incominciata e giunta tanto innanzi in brevissimo tempo. Incominciammo ad essere ben ricevuti da quelli che si erano ascritti nel precedente anno, ed eravamo accolti cortesemente da quelli che avevano udito la predica di P. Altavilla in S. Domenico Soriano in Napoli, e con entusiasmo da quanti erano intervenuti in quel giorno memorabile e dai loro parenti, congiunti o conoscenti. Ciò fu cagione che presto raccogliessimo la somma di quattromila lire. Con quattromila lire ci sentivamo ricchi da affrontare tutti quanti gli ostacoli.
La ripresa dei lavori – La prima offerta di lire cento. La prima offerta di lire cinquecento e la prima offerta di lire mille.
Fu in quel mese di marzo che la Madonna ci volle dare anche una consolazione e un conforto a riprendere i lavori.
Un giorno la Contessa si ritira in casa fuor di sé per allegrezza, e mi presenta un foglio (allora, come ho detto innanzi, non vi erano ancora i libretti e le schede di sottoscrizione), con una offerta di lire cento di una sola signora, con la sua firma, Marchesa Ruffo di Guidomandri. Quella mattina la Contessa, andando in giro accompagnata dalla signorina Ernestina Freda, aveva saputo da costei che la giovine vedova Marchesa Ruffo, era piissima, ed era pure caritatevole oltremodo, quindi si presentarono insieme.
E quella nobile Signora, non venendo meno alla fama che la circondava, non solo sottoscrisse quella generosa offerta, ma divenne zelatrice della novella Opera e fervente devota della Vergine di Pompei.
Fu quella la prima volta che avemmo una elemosina di lire cento per la costruzione del Tempio di Pompei: essa data 13 marzo 1877.
Cominciava il mese di Maggio del 1877, Mese sempre benedetto: notava il primo anniversario dal giorno segnato da Dio in cui si era posto mano alla costruzione del Tempio di Pompei.
Il Signore volle darci un altro segnale a mostrare che egli dal cielo benediceva l’opera nostra che era tutta opera sua.
Il Vescovo di Nola, che non aveva voluto domandar nulla al Santo Pontefice Pio IX, seppe che il Cardinale Antonelli, allora Segretario di Stato, era infermo. Ed essendogli amico, per mezzo di taluni che andavano a Roma, fece note a quel personaggio le grazie che il Signore stava già concedendo a parecchie persone per un tempio che si costruiva in Pompei in onore della Vergine del Rosario. Il Cardinale Antonelli, per risposta mandò un vaglia di lire cinquecento diretto al Vescovo di Nola da spendersi per la edificazione della nuova Chiesa, chiedendo preghiere per la sua salute. Mons. Formisano fu sollecito a spedirle a noi in una carta di banco da lire cinquecento.
Oh, che festa facemmo in quel giorno a ricevere la lettera del Vescovo di Nola! Era quella la prima volta che avevamo da una sola persona un’offerta così cospicua. Per radunare a soldo a soldo la somma di cinquecento lire noi dovevamo girare per centinaia di famiglie!
Ci trovammo quel giorno a Pompei nella masseria De Fusco, rimpetto alle fondazioni del Tempio.
La Contessa, presa da una gioia indescrivibile, si affaccia a quella stessa finestra ove il medesimo Vescovo un anno innanzi, quasi profetando, aveva indicato il luogo su cui doveva sorgere il Tempio pompeiano, chiama i coloni che erano al pianterreno, e tutta festiva, mostra ad essi la carta di lire cinquecento arrivata allora allora, offerta da un Cardinale di Roma.
A questo si aggiunse un altro conforto. Il lettore ricorda di aver letto nel primo volume di questa Storia come la signora Rachele De Ippolitis di Napoli aveva avuto salvato suo figlio nel 24 maggio del passato anno 1876, per una promessa fatta alla Vergine di Pompei di lire mille per costruirsi il primo altare nella sua Chiesa nascente. Ella, aveva pensato di non consegnare l’offerta promessa, se prima non si fosse sicuri che i rigori dell’inverno non avrebbero fatto ritornare la bronchite o altra infermità al suo ricuperato figliuolo. Difatti, aspettò che passasse tutto il 1876, e poi tutta la stagione invernale del 1877. Ma quando giunse il maggio del 1877 e il suo caro figliuolo seguitava a star bene, ella, punta dal rimorso che non aveva adempiuto sollecitamente la promessa alla Madonna, ricorre ad un generoso ritrovato.
– Darò non solo le mille lire, - dispose in cuor suo, - ma anche gl’interessi di un anno in lire centocinquanta.
E per rendere più splendida la testimonianza dell’avvenuta grazia, recasi a bella posta a Nola; ed a quel venerando Vescovo essa porge le lire mille centocinquanta acciocchè le spedisse ai fondatori del Tempio pel primo altare da costruirsi nella Chiesa del Rosario di Pompei.
E il buon Vescovo di Nola fu tutto presto a mandarci questa somma, che per noi a quel tempo era favolosa. Il che ci riempì di tanto ardore che non ci faceva più scorgere ostacolo alcuno al proseguimento del Tempio pompeiano, che evidentemente Iddio mostrava con segni straordinari essere opera singolarmente benedetta!
(Autore: Bartolo Longo)


*Capo III - Oscurità e sconforto. Nuove prove
Libro Sesto - pag. 244
1. l’8 Maggio del 1877
Il nostro fervore toccava l’entusiasmo. Io mi sentiva ricco. Mi pareva che nessuno avrebbe potuto più arrestarmi dall’impresa a cui mi era dedicato. Se alcuno per poco avesse voluto oppormi difficoltà, sarei scattato come una molla di acciaio.

Forse il mio ardimento si mutò in audacia, forse in presunzione, e bisognava una medicina celeste per guarirmi da questa infermità dell’anima.
Così Pietro, Capo del Collegio Apostolico, di naturale impetuoso e ardente, quando si trovò nel momento dell’ebrezza dell’Eucarestia che aveva ricevuta dalle mani del medesimo Redentore in quella sera dei Misteri, preso da entusiasmo ardi troppo, e si mise a giurare che giammai avrebbe negato il suo Maestro. Andò oltre: si antepose agli altri, - E se pure gli altri ti lasceranno, io giammai. – Il fervore di Pietro, dice S. Leone, non era esente da presunzione; e il Maestro divino gli diede tale una lezione, da ricordarsela per tutta la vita, da umiliarlo sino agli
ultimi suoi giorni, da farlo piangere fino alla morte e così renderlo pastore benigno verso i caduti, misericordioso verso le pecorelle sperdute dell’ovile a lui affidato.
A un modo consimile la divina Maestra, la celeste mia Signora volle dare a me una lezione divina per ridurmi all’umiltà, e per mostrare a tutti che non era né l’ingegno umano, né l’operosità naturale, né l’autorità di persone ciò che doveva fondare l’Opera divina di Pompei; ma sì invece la potenza dei miracoli suoi, l’onnipotenza dei voleri di Dio.
Gli insegnamenti divini in questa terra di pianto ordinariamente ci son dati per mezzo del dolore. E la prima prova del dolore non venne a me dagli uomini, ma si direttamente da Dio, col farmi cadere nell’oscurità e nella pusillanimità. Fu un baleno della potenza di Dio, che può da un momento all’altro mutare l’ordine delle cose e rovesciare ogni umana intrapresa.
Gli insegnamenti divini in questa terra di pianto ordinariamente ci son dati per mezzo del dolore. E la prima prova del dolore non venne a me dagli uomini, ma si direttamente da Dio, col farmi cadere nell’oscurità e nella pusillanimità. Fu un baleno della potenza di Dio, che può da un momento all’altro mutare l’ordine delle cose e rovesciare ogni umana intrapresa.
2. La Madonna dei Flagelli e Mons. Formisano
Mentre, dunque, procedevamo innanzi nell’Opera santa, pieni di quella fiducia che viene dalla sicurezza di essere sorretti dall’appoggio divino, avvenne nel maggio 1877 un fatto che turbò tutta la serenità del mio animo, e gettò il mio spirito in uno sconforto mai non provato innanzi.
Precisamente nel dì 8 di maggio, in cui cadeva il primo anniversario del gran giorno che si era posta la prima pietra della Chiesa di Pompei, in quel giorno prestabilito dalla Provvidenza, cominciò a correre voce di un miracolo avvenuto in un villaggio a quattro chilometri da Pompei, chiamato Boscoreale, nella medesima diocesi di Nola. Il miracolo si attribuiva ad un’altra Immagine della Vergine intitolata la Madonna dei Flagelli, che voleva significare – Liberatrice dai Flagelli – abbandonata in una cappelletta di una masseria, ridotta a fienile.
Il racconto di quel miracolo per le campagne e per la città vicine fu ben presto seguito dalla narrazione di altre grazie largite dalla Madonna dei Flagelli. E in breve tempo da tutte le terre contermini la gente correva a vedere e a venerare quella Immagine in quel luogo. E l’uno raccontando all’altro, la folla si andava sempre accrescendo; sicchè ogni giorno si vedevano passare centinaia di uomini, di donne e di fanciulli che correvano a venerare la Madonna del Flagelli a Boscoreale che faceva strepitosi miracoli.
Ci eravamo recati con la famiglia della Contessa a Valle di Pompei in quel maggio per vigilare i lavori della costruzione del nostro Tempio; e vedevamo passare sotto le finestre del casino De
Fusco, (l’antica Taverna di Valle), numerosi pellegrinaggi che provenivano da varie provincie, perfino da quella di Foggia, e procedevano cantando sacre canzoncine, E quelle devote carovane, transitando per il luogo ove noi eravamo, rimpetto alle fondazioni del Tempio, tiravano0 innanzi senza volgere neppure uno sguardo alla nascente costruzione, che aveva per segnale una croce su di alcune pietre, e che pure era stata fatta segno di misericordie divine.
Quella buona gente al giungere che facevano alla cappelletta della Masseria di Boscoreale, dinanzi a quella bella Immagine della Vergine, deponevano ciò che avevano di meglio, le donne i loro orecchini e gli uomini quei soldi che avevano in tasca; di guisa che in poco tempo fu ammucchiato colà un bel tesoro. A Valle di Pompei invece cominciava a diradar la gente.
Tutto ciò non potè a meno di non spargere nel nostro cuore un sentimento, naturale ed umano, di sconforto, e cominciò anche ad entrare nell’animo nostro una certa dubbiezza.
Pensavamo: - Come spiegare questo fatto?
Mentre che la Madonna aveva incominciato nel primo anno a largire tante grazie dal Cielo per edificarsi un Tempio a Pompei, ed ecco alla distanza di quattro chilometri incomincia ora a fare altri prodigi per chiamare colà la devozione e il concorso dei fedeli. – Vuole Ella che la sua Chiesa si edifichi qui o altrove? Quale delle due chiese vuole che si fabbrichi? – quella di Pompei o quella di Boscoreale? La Chiesa del Rosario o la Chiesa come dicono del Flagelli?
Si viveva, adunque, da noi in una grande perplessità, dacchè reputavamo, nella corta spanna delle nostre umane vedute, che la Chiesa di Pompei doveva costruirsi principalmente con le elemosine dei signori napoletani; quindi, se la corrente dei napoletani si fosse riversata alla volta di Boscoreale, pareva a noi, che tutto sarebbe andato in abbandono per la nostra impresa di un Tempio a Pompei.
A questo sconforto e a questa oscurità di spirito si aggiunsero i dileggi e i sarcasmi da parte di quelli che non ci erano molto amici, Anzi, succedeva talvolta che, andando in giro per Napoli a raccogliere il soldo mensile dalle famiglie iscritte, alcune, dopo di averci dato il soldo, ci porgevano braccialetti d’oro, catene e altri oggetti preziosi con questo mandato: - Voi andate a Pompei? Fate pervenire queste offerte al Vescovo di Nola per una grazia ricevuta dalla Madonna dei Flagelli.
Dopo quaranta e più anni, nel riandare con la memoria questi fatti, ci accorgiamo che la Madonna voleva metterci ad una prova, che oggi ci desta un sorriso, ma allora ci faceva restare attoniti e impensieriti.
Dal canto suo Monsignor Formisano, come narrammo, quando ebbe osservato, come narrammo, quando ebbe osservato, che io raccoglieva offerte per dieci e spendeva per venti, ebbe a sgomentarsi, temendo di dover poi egli addossarsi le responsabilità dei debiti che io avessi a contrarre per edificare la Chiesa Pompeiana. E protestò che egli niente voleva aver più di comune con me, quanto all’amministrazione del danaro, perché, come ebbe a dire alla Contessa, mi stimava un pazzo, mancante dei primi elementi della prudenza, quale è colui che spende il doppio di quello che introita; e però lasciava a me tutto il carico della edificazione del Tempio. Ed egli, direzione, consigli, concorso ne avrebbe dati volentieri, ma di entrare a parte degli obblighi che cominciavano dal primo giorno col superare le entrate, non voleva saperne punto. Da parte sua non ci avrebbe dato la somma di £. 500 all’anno, per sua contribuzione, né voleva saper d’altro. E che mi ricordassi pure che la responsabilità dei debiti sarebbe rimasta tutta sopra di me. - del resto, - conchiudeva per darmi animo, - si vede che la Madonna vi assiste coi suoi miracoli, io mi ritiro, fate voi tutto.
Talchè ritenne come una via apertagli dal Cielo il potersi distaccare da noi per la parte economica, e mettere tutto se stesso, le sue offerte private e la sua autorità a edificare un’altra Chiesa in onore pure di Maria Santissima e nella medesima sua diocesi, sotto l’immediata e indipendente sua direzione, senza l’ingerenza di secolari. Stimava con siffatta maniera di poter regolare colà le cose con la sua grande prudenza a fino accorgimento e sottile ingegno che tutti giustamente in lui riconoscevano.
Oh, il mio caro e sempre venerato Vescovo Monsignor Formisano! Non poteva egli mai prevedere quali amarezze, per tale fatto, avrebbe provato non più tardi di un anno da quel giorno. Lo vedremo.
Intanto, senza perder tempo scrisse una lettera Pastorale indirizzata al clero e al popolo della diocesi di Nola per eccitarli a concorrere con offerte per una nuova chiesa da dedicarsi alla Madonna dei Flagelli a Boscoreale.
E allora a nome del medesimo Vescovo, si misero in giro per tutte le città e villaggi delle provincie di Napoli, di Caserta e di Salerno, alcuni pellegrini vestiti di tonaca color pinocchio, col bordone in mano, chiedendo il concorso dei fedeli, cui mostravano le lettere pastorali, per iscrizioni ed offerte alla Chiesa della Madonna dei Flagelli. Il che valse a moltiplicare giorno per giorno il concorso di gran popolo alla piccola cappelletta di Boscoreale e diminuire quello per la nascente Chiesa di Pompei.
In questa storia mi sono proposto di narrare i singoli fatti e i particolari che sono successi durante il periodo della costruzione di questa portentosa Opera Pompeiana per varie ragioni.
In prima, per somministrare al futuro storico della Chiesa di Pompei tutti gli elementi e i documenti opportuni, lasciando a lui la cura e la discrezione di farne la scelta e giovarsene. Secondariamente, per ammaestrare tutti quelli che hanno avuto la ventura, nonostante la propria indegnità, di essere chiamati dalla divina Misericordia a strumenti dei suoi disegni per la salute delle anime, o con l’edificare Chiese o con l’istituire Ordini e famiglie religiose o col fondare opere di pietà e di beneficenza. – Non si smarriscano d’animo alle prime contraddizioni, e tanto meno lascino l’Opera di Dio per le mortificazioni e le contrarietà che avranno certissimamente da parte degli uomini e dei demoni; ma proseguano fiduciosi sempre nel soccorso divino, tenendo fermo per massima, che quanto più l’opera è accetta a Dio, tanto maggiori sovranno le opposizioni e le tentazioni che dovranno sostenere, ma che infine il Signore trionferà.
Alla mia età di quasi ottant’anni temerei un rimprovero dalla Madonna se non mi servissi, a bene del prossimo, della esperienza avuta, e però confesso i miei difetti e gli errori commessi e le mie deficienze e vili pusillanimità.
E chi ha bisogno di conforti, mediti la storia di questa Opera Pompeiana, sorta da sì umili principi, con istrumenti così disadatti, continuata in mezzo a combattimenti e contrarietà di ogni specie, e contro la quale si è armato tutto l’inferno sforzandosi di distruggere l’Opera della Madonna; e vedrà infine che tutto, tutto è servito nelle mani della divina Provvidenza, perché avesse a compiersi il Decreto di Dio, che il Tempio di Pompei dovesse assorgere alla sublime grandezza di Opera di Fede e di Carità, di bene universale e di dominio immediato del Vicario di Gesù Cristo.
Torniamo al nostro racconto.
3. Alla direzione di un giornale cattolico di Napoli
In tali circostanze oscure che fare? Studiandovi sopra, notte e giorno, mi parve di aver trovato il modo per richiamare la corrente che deviava da Valle di Pompei.
Conosceva l’indole buona dei Napoletani, pronti sempre a rispondere con slancio alle opere di fede e di carità, e ragionavo fra me stesso: - Se io trovassi un modo di far sapere a tutti i Napoletani che io ho intrapreso la costruzione di un Tempio al vero Dio sulla terra pagana di Pompei; 0h! allora sarei certo che tutta Napoli verrebbe a Valle di Pompei.
Ma come arrivare a questa pubblicità, quando io non ne aveva alcun mezzo?
Un giorno mi trovai a riscuotere le offerte in casa della prima iscritta, la nobile e pia Duchessa di Castronuovo e Messanello nata Gaetani dell’Aquila di Aragona, che abitava al largo Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone N: 8. Costei volle essere informata dello stato delle cose a mio riguardo.
Le esposi quanto era avvenuto e quanto io divisava di fare, cioè ricorrere alla pubblicità per mezzo della predicazione dai pergami di Napoli, ma le misi sotto occhio le difficoltà che prevedevo di dovere incontrare. Io, giovane, non napoletano, che avevo dimorato in Napoli solo per studiare e prendere la laurea di avvocato, non era stato mai conosciuto dai parroci della città, e non sapeva, quindi, come regolarmi. E ne aveva fatto una triste prova: per aver voluto fare annunziava nel maggio dell’anno innanzi del pergamo di San Domenico Soriano questa Opera nuova, mi8 avvenne ciò che i lettori già sanno.
La buona Duchessa allora mi suggerì di ricorrere a giornali cattolici per qualche inserzione, e così certamente la notizia sarebbe entrata in molte famiglie cattoliche.
Piacquemi questo consiglio, tuttocchè per me fosse un fatto nuovo: non aveva mai montato le scale di Direzioni di giornali, e mai non mi era raccomandato a giornalisti. Non di meno, il consiglio mi parve attuoso e fruttuoso.
Tornai a casa, rifeci più ampio, più completo e più ardente il mio programma scritto l’anno innanzi. E, per non perder tempo, non pensai di farmi accompagnare da qualche nobile signore napoletano di mi conoscenza, o da qualche autorevole personaggio, che mi presentasse e entrasse mallevatore della verità delle mie parole: senz’altro mi recai alla Direzione di un giornale cattolico, che allora era uno dei primi in Napoli.
Dopo gli errori di religione e di scienza che io aveva rinnegati con la mia conversione, rimanevano ancora nell’animo mio alcuni errori per mancanza di vita pratica. Uno di questi era il credere che io, in quel tempo in cui la fede era tanto pubblicamente combattuta e messa in derisione e per le stampe e perfino sui teatri, al solo presentarmi, ripeto, alla Direzione di un giornale cattolico, e mostrare che poneva opera a professare apertamente e promuovere la religione con edificare un Tempio a Pompei e beneficare poveri contadini che non potevano nemmeno udir la Messa, e chiamare tutti alla divozione del Rosario, dovevo essere abbracciato a baciato come un fratello d’armi, e secondato coi fatti d’ogni maniera, prima con la pubblicità della stampa, poi con le commendatizie, e poi col raccomandare ai lettori l’Opera nuova in tutti i numeri del giornale, e appresso aprire una colonna di sottoscrizioni per accrescere le entrate, e vie vie più. Ma questo, come affermava, un mio errore di vita pratica, perché nell’atto avvenne tutto il contrario.
Ammesso nella stanza della Direzione, subito esposi che voleva inserire nel suo accreditato giornale il mio programma infiammato ad ardore di fede.
Il Direttore udì tutto, vide la mia stampa: senza punto riscaldarsi, mi guardò impassibile, e – Dovete pagare cento lire per l’inserzione – pronunziò freddo e secco.
S’immagini il lettore quale viso d’armi dovessi io fare contro quel signore, e quale furore schizzassero i miei occhi a questa inaspettata richiesta.
- Cento lire! ... Cento lire! ... ma non sapeva il bravo uomo che io doveva fare cento scale e cercare l’elemosina a cento famiglie per arrivare a formare cento lire? E poi cento lire ad un giornale cattolico che doveva annunziare un’Opera di Dio! …
Ecco in me la mancanza di vita pratica. La conclusione fu che io non so come scesi incolume da quella Direzione senza essere bastonato. Da allora, e lo svelo per mia umiliazione, mi nacque nell’anima una tal quale antipatia contro certi giornali così detti cattolici, e deliberai in cuor mio che giammai mi sarei servito di giornali in genere, e che la pubblicità me la sarei fatta da me stesso, dando alle stampe libri ed opuscoli.
Se non che, la Madonna non tardò a provvedere e più ampiamente di quanto io sperava.
Ecco dall’estremo d’Italia, da Torino, uscire fuori una voce amica da un giornale cattolico dei più diffusi e accreditati d’Italia e fuori, che annunziò, per primo, come sulla terra di Pompei, non lungi dai ruderi della città pagana e dal suo anfiteatro, sorgeva un Tempio dedicato alla Vergine del SS. Rosario. Questo giornale era L’Unità Cattolica, diretto dal celebre pubblicista Don Margotti.
L’articolo, forbito ed elegante, era firmato da quel gentile ed erudito letterato, il Cav. G. Tassoni di Bologna, che di quando in quando poi tornò a tenerne informati i suoi lettori e sempre gratuitamente. Lo conobbi di persona nove anni dopo, nel giugno del 1885 a Bologna, divenuto già amico mio e dell’Opera.
Per L’Unità Cattolica la notizia di un Tempio cattolico in Pompei si diffuse rapidamente nelle famiglie più cattoliche e aristocratiche di Torino, di Venezia, di Milano, di Firenze, di Bologna e nel mezzogiorno d’Italia, e all’estero pure, prima che la si diffondesse bene a Napoli.
Come si vede che in quest’Opera Dio si è servito dell’uomo, ma lo ha sorpreso e superato! Come il disegno di Dio è andato sempre più oltre e anche contro le previsioni perfino di chi viveva dentro a questa Storia di meraviglie! Come ho detto innanzi, aveva creduto che l’Opera fosse affidata dalla Provvidenza ai soli signori napoletani e che mancando questi, l’Opera di Pompei sarebbe fallita; invece era decreto di Dio (e io lo ignoravo) che non solo Napoli, ma tutta l’Italia, anzi il mondo intero dovesse concorrere a glorificare qui la Regina delle Vittorie. Le nostre apparenti sconfitte dovevano preludere a insperate vittorie.
E sempre così si svolgerà tutta questa storia.
(Autore: Bartolo Longo)


*Capo IV - Nella Chiesa di S. Caterina a Chiaia - prove nuove
Libro Sesto - pag. 255

Di che si servì la Madonna per far avere il primo altare di marmo alla futura sua Chiesa di Pompei.
Quel maggio volgeva al suo termine. Era il giorno 24, giorno sempre memorabile per la cristianità come festa di Maria Trionfatrice, Ausilio dei Cristiani; ed era anche l’anniversario del giorno in cui l’eloquente gesuita Padre Altavilla l’anno innanzi dal pergamo della Chiesa di S. Domenico Soriano, aveva fatto nota ai buoni signori napoletani l’Opera novella di Pompei.
Ognuno sa che in Napoli nel mese di maggio in quasi tutte le chiese, anche nelle cappelle e negli oratori, si onora Maria Santissima con grande splendore di culto, con lusso di predicazioni perfino due volte al giorno, con profusione di fiori, di cere e di offerte da parte dei fedeli accorrenti.
Pensava: - Non potendo avere pubblicità dai giornali, e non potendo farla a me, fino a che non avessi pubblicato il mio libro dei Quindici Sabati del Rosario, sarebbe buona ventura il trovare qualche predicatore amico in una chiesa dove ci fosse maggior concorso di persone nobili e facoltose.
Seppi che nella Chiesa di S. Caterina a Chiaia predicava il mese di maggio il famoso oratore Gesuita Padre Carlo Rossi, leccese, mio amico e comprovinciale, tanto benemerito di Napoli per le Opere di apostolato e di carità da lui promosse per oltre quarant’anni e di predicazione continua in quella città.
Ricordo qui ch’egli aveva fondato l’Ospizio dei poveri Vecchi di S. Giuseppe sul Corso Vittorio Emanuele.
Io ero entusiasta delle prediche di un s’ grande gesuita, e lo seguiva da per tutto, come lo seguivano molte specchiate famiglie napoletane, avide di istruirsi delle altre verità della Fede e della Morale cristiana, che quel dotto e santo religioso esponeva in modo meraviglioso e ne scendeva alla pratica con esempi adattissimi per la vita privata e pubblica.
Il mattino del 24 maggio, adunque, mi recai a trovare il P. Rossi nella Chiesa di Santa Caterina, ove si radunavano tutte le dame del patriziato che abitavano a Chiaia e nei dintorni.
Vi era tra quello scelto uditorio una nobile dama napoletana, di esemplare pietà e carità insieme, la cui memoria è tuttora in benedizione, e che oggi io rammento con affetto devoto, la Marchesa di Latiano, Irene Imperiali, che ben mi conosceva, avendo i suoi poderi nella mia terra nativa, donde traeva il titolo nobiliare. Naturalmente era stata una delle prime da me iscritte, e poi divenuta strenua zelatrice del Tempio di Pompei.
La presenza di sì eletta signora mi diede coraggio. Vi era ancora in Chiesa la Duchessa di Castronuovo, innanzi nominata, e la numerosa famiglia, assiduo alle prediche del P. Rossi, Sig. Giulio Rocco, la cui figliuola Mariannina divenne attivissima zelatrice, e per il lungo corso di quarantaquattro anni sino al presente è stata sempre fedele e costante nella divozione alla Vergine di Pompei e nella carità per le nostre Opere di beneficenza. Vi erano anche il Duca e la Duchessa di Capracotta, la Marchesa di Rende, la Duchessa di Paganica, ed altre, che erano state associate l’anno innanzi per mezzo del biglietto di presentazione della Marchesa Filiasi.
Mancavano forse venti minuti al mezzogiorno. Il Padre Rossi era in sagrestia, e si apparecchiava ad entrare in Chiesa per la predica al suono dell’Angelus.
Mi avvicinai a lui, e lo pregai che, conforme aveva fatto il P. Altavilla nel passato anno a S. Domenico Soriano, anche e gli annunziasse dal pergamo in quei giorni alla sua eletta udienza, il mio programma di una Chiesa da farsi a Pompei. Ed ero sicuro che fra tanta ricchezza e nobiltà di dame cattoliche non sarebbe certamente mancato il potente aiuto di qualcuna, mossa dall’eloquenza e dall’autorità della sua parola.
- Nulla posso fare, - mi rispose dolente il Padre Rossi – senza il permesso del Rettore della Chiesa.
Incontanente mi presentai al rettore con quel solito ardimento che mi veniva dal fine santo che mi moveva.
Senza preamboli, franco e in brevi parole, io esposi a quel Padre Rettore il bisogno dei contadini di Pompei di avere una Chiesa, le cui fondazioni erano gittate e accennai a miracoli che la Vergine del Rosario faceva per questa sua nascente Chiesa; e quindi, in conclusione, dimandava a lui il permesso che il P. Rossi avesse predicato su questa Opera santa e avesse chiesto una elemosina in chiesa per concorrere alla costruzione del Tempio. Non lasciai di far notare al P. Rettore, e con molta ingenuità, che quella dell’udienza che aveva il P. Rossi, cioè delle più ricche e delle più nobili dame di Napoli.
Era questo un altro inganno, frutto di fantasia poetica, per mancanza di vita pratica. Credeva che non appena mi fossi presentato da un parroco o da un rettore di Chiesa, e avessi aperto solo la bocca accennando ad un Tempio che lo voleva edificare per fare adorare Dio in un luogo dove non era adorato, di fare udire la Messa a gente povera che non poteva ascoltarla per mancanza di chiesa; subito ne avrei avuto un bacio di plauso e d’incoraggiamento, come lo ebbe S. Sebastiano dal divin Redentore, nelle carceri di Roma, nel punto che confermava nella Fede di cristo quei due giovani fratelli, già cristiani, i santi Marco e Marcelliani, che erano per cedere alla tentazione di rinnegarla alla vista dei propri teneri figlioletti e al pianto delle mogli.
Quel Rettore che, del resto, era un degno Superiore dei Frati del Terz’Ordine di san Francesco, mi lasciò parlare fissandomi gli occhi addosso. Quando io ebbi finito, mi guardò con occhio da uomo esperto della vita e con un risolino beffardo.
- Questo giovane dall’accento leccese deve essere un furfante, un imbroglione – giudicò tra sé il buon Padre, nato anche lui nel leccese.
E, quindi, alla mia lunga e fervida perorazione, - andate via, - fece con piglio sprezzante e severo, tentennando il capo: - voi con queste ciarle credete di burlarmi. Andate: in questa Chiesa non permetto che si faccia questua alcuna, né che si predichi di opera estranea a questa Chiesa.
Chi sa quel povero Rettore in quanti si era imbattuto in vita sua, che avevano cercato di sorprendere la sua buona fede!
S’immagini anche qui il lettore che movimento io facessi a quelle sue parole. Non so che cosa risposi: certo la lezione avuta nel passato anno in S. Domenico Soriano per aver risposto per aver risposto con poca riverenza a quel parroco, e lo stato di umiliazione in cui allora il Signore mi teneva per il fatto della Madonna dei Flagelli, poterono trattenere l’impeto del mio carattere bollente.
Feci un supremo sforzo dell’animo a frenarmi, e mettendo un atteggiamento umile e sommesso. – Almeno, - Reverendo Padre Rettore, - osai ripetere in atto di preghiera, - permettetemi che io dispensi nella Chiesa, ai fedeli, questo programma che io tengo apparecchiato e che ho distribuito in Napoli e in altre chiese.
- No, - ripigliò brusco: - non permetto neppure questo.
Allora tacqui, e desolato, confuso e sconcertato tornai in chiesa. Alla Marchesa di Latiano narrai in breve l’accaduto e l’umiliante ripulsa toccatami. – Qui c’è un equivoco certamente, - esclamò la nobile dama. – Io conosco il Rettore, anzi è il mio confessore, gli parlerò e lo terrò io d’inganno.
Infilò la sagrestia e col suo gentile modo, -Voi siete caduto in equivoco su quel giovane – disse sorridente al rettore. – Io lo conosco D. Bartolo Longo, è un proprietario di Latiano dove ho i miei beni. Quindi, vi prego di accoglierlo amorevolmente. – Ah! Marchesa! Marchesa! – interruppe il Rettore, tentennando il capo e col tono di un maestro che deplora la scempiaggine di un suo scolaro. – Voi siete troppo buona e vi fate abbindolare da certi giovani! ... – Oh no! Don Bartolo è amico di mio marito e di mio figlio Camillo – insistette la Marchesa; - ed è intimo di mio cugino, il Marchese Checchino Imperiali.
(Il nobile Marchese Francesco Imperiali, patrizio napoletano, fu un cristiano di alti sentimenti e di grandi virtù morali e cittadine. Benefico, caritatevole sino all’eroismo, e fu il primo mio amico, e amico vero, che mi guidò in Napoli nei primi anni. A lui debbo la conoscenza del Ven. P. Ludovico da Casoria, di cui era largo benefattore)
Inutili testimonianze: non ci fu verso di rimuoverlo per allora.
Tornato al mio posto, quasi al centro della chiesa, per udire la predica do P. Rossi, m’inginocchiai, perché soleva ascoltare tutta la predica in ginocchio, non per altro che per essere tutto attento alle parole del predicatore; che stando seduto, certamente mi avrebbe sorpreso il sonno nelle ore calde del mezzogiorno, col capo stanco, in chiese molto affollate. E con questo metodo io teneva a memoria ciò che aveva udito, e andato a casa mi trascriveva tutta la predica di quel grande apostolo di Napoli.
M’inginocchiai dunque, e posai la mia borsa piena di programmi sulla sedia, dinanzi a me.
Mentre il gran gesuita predicava, io andava ripensando al fiasco tondo e completo fatto in questa chiesa, peggiore di quello che aveva fatto un anno indietro in S. Domenico Soriano; e cominciai a mulinare tanti castelli in aria. Alla fine mi appresi al divisamento di risolvere il caso come lo aveva risoluto in quella Chiesa parrocchiale. – Certo – ragionava tra me a me, - fuori della chiesa non è padrone il parroco o il rettore, e padrone il pubblico; e quest’oggi mi metterò fuori la porta della Chiesa a distribuire il mio programma. Fra tanti signori distinti per pietà e per censo ce ne sarà almeno qualcuno che sarà mosso dalle infocate parole ivi scritte; e un giorno, chi sa, forse mi andrà cercando per darmi la sua elemosina.
Umiliato e rosso dalla vergogna mi sforzava di essere attento alla predica, ma nella testa mi gironzolavano pensieri di programmi e di lettere. Intanto la Madonna operava da sé, senza bisogno di predica.
Vi era accanto a me una signora vestita a nero, accompagnata da due signorine. Mi aveva veduto uscire dalla sacrestia col volto color di bracia e con quella mia borsa di fogli stampati che aveva deposti sulla sedia. Nella sua mente corse un’idea e disse alle figliuole: - Certamente quel giovane deve essere a capo di qualche buona Opera cristiana, e deve esser anche egli un buon cristiano, perché sente la predica in ginocchio. Porta pure una borsa piena di carte… dovranno essere dei programmi o degli avvisi… chi sarà?...
Le figlie mi guardarono e con occhio scrutatore affissarono la mia borsa nera quasi per spiare che cosa potesse contenere, e quale opera volessi io iniziare, e che forse era già ostacolata.
Finita la predica, per porre in atto il partito da me preso, mi recai fuori la porta della chiesa.
Mi accompagnò, quale angelo custode, il nobile giovane Cavalier Tristano Capece Tomacelli, congiunto col Conte Filo della Torre, e mi aiutava a dispensare a quelle signore, man mano che uscivano dalla chiesa, il mio famoso Programma, che io porgevo predicando ad alta voce: - Questo è un programma di una nuova Chiesa che si fa a Pompei per poveri contadini che ne mancano. Questo programma spiega i fatti della nuova Chiesa di Pompei – e dava a manate le mie carte a quelli che uscivano.
E senza posa ripeteva: - Questo stampato v’indicherà l’Opera nuova di Pompei per soccorrere i contadini che non sentono la Messa e non sanno il catechismo.
Di quelle nobili signore alcune, come innanzi è detto, già mi conoscevano essendo associate, e mi sorridevano in faccia, giacché nella foga del dire e del dare non le ravvisava punto, non le guardavo pure. Altre, al contrario, ignorando chi io mi fossi e che cosa fossero gli stampati, reputandoli roba di protestanti, e me persona pagata dai protestanti passavano diritto facendo amaro il viso, e taluni anche gli occhi torvi e la fronte corrugata e minacciosa. Ora avvenne che uscì anche di chiesa quella signora vestita a nero con le due signorine: e, senza aspettare la mia parola, volenterose si affrettarono a chiedermi quei programmi. – Di che cosa si tratta? ... Che opera è questa? ... – mi domandarono con vivo interesse.
Io, per non perder tempo a dare spiegazioni, con rischio di perder l’occasione di porgere il mio programma a tante altre signore, risposi rapidamente: - Leggete: qui c’è tutto. – E mi volsi a dare ad altri i miei fogli.
Quella buona signora, madre di quelle signorine e di numerosa figliolanza, era la signora Raffaela Scala, moglie di quel noto negoziante di vini di lusso in via Chiaia, piissima donna e fortunatissima madre, credente sincera e di cuore caritatevole. Ed ella come ebbe lette quelle parole di un Tempio pei contadini che non udivano la Messa, fu mossa dallo zelo e dal desiderio di glorificare Dio e salvare anime. E tornata appena a casa, quasi ispirata, disse al marito: - Non solamente voglio concorrere a questa Chiesa di Pompei, ma voglio avere il merito di erigere il primo Altare.
Il marito che voleva gran bene alla moglie, per contentarla, le promise di sì. E, cedendo alle vive insistenze di lei, fu astretto a chiamare di presente un marmista ed ordinare un altare. Fu pure convenuto il prezzo di seicento lire e non oltre. – Quale dev’essere la dimensione di questo altare? – dimandò il marmista nell’accomiatarsi: - dove dev’essere trasportato e collocato?
A siffatta domanda, la signora, il marito e le figliuole si guardarono tra loro a bocca aperta, perché non conoscevano né il luogo preciso ove sarebbe per sorgere il Tempio, né la dimensione della nuova Chiesa a costruirsi per poterci adattare l’altare, e neppure il nome di quel giovane che aveva dato il programma. Che fare?
Non c’era di meglio che aspettar l’occasione di incontrarmi un’altra volta dentro la chiesa di S. Caterina, od in altra chiesa, per darmi il lieto annunzio, e stabilirono di regolarsi così.
Ma io che ignorava tutto questo movimento che la Madonna aveva agitato nell’animo di quella buona famiglia, non mi feci più vedere da quei luoghi. Anzi, reputando di aver fatto cilecca anche nella chiesa di Santa Caterina a Chiaia, mi astenni di andare più oltre a pregare e parroci e rettori di chiese, ed invece me ne venni a Pompei per attendere a menare innanzi vigorosamente la costruzione del Tempio, e finire il mio libro dei Quindici Sabati del SS. Rosario per presentarlo alla Marchesa Filiasi e darlo alle stampe. A questo modo poteva rifarmi di quella pubblicità che in Napoli mi veniva personalmente ostacolata.
E così, tra lo scorno e il dolore, mi raccolsi nella solitudine di Pompei.
(Mi affretto sin da oggi a soggiungere che dopo non molto tempo quel Reverendo Rettore di S. Caterina a Chiaia, che si chiamava P. Madonia, non solo si ricredette, ma divenne mio amico e zelatore del Tempio di Pompei e spesso mandava a me persone e offerte per l’Opera. E quando fu gravemente infermo io andai a visitarlo e feci pregare la Madonna per la sua vita, e da allora l’immagine della SS. Vergine del Rosario fu esposta e venerata in quella chiesa, che divenne, si può dire, la chiesa mia).
(Autore: Bartolo Longo)


*Capo V – Il 15 agosto 1877 data memorabile nella Storia del Santuario e nella storia dei prodigi della Vergine di Pompei
Libro Sesto - pag. 264

Passò così il mese di giugno e quello di luglio. Tutta la famiglia era in Valle di Pompei per accudire ai lavori della fabbrica della Chiesa, ed io lavorava alacramente attorno al mio libro, pegno di future speranze.
Giunse il mese di agosto. In questo mese sopra di tutti si accrebbe quel fatto, non scevro d’importanza, a cui abbiamo innanzi accennato. Vedevamo cioè, a torme passare per la via provinciale da Salerno per Napoli centinaia di pellegrini che da lontani paesi, financo dalle Puglie, traevano a Boscoreale, cantando per le vie canzoni popolari in lode della Madonna dei Flagelli.
E ciò avveniva non solo di giorno, ma anche di notte. Sovente eravamo desti da canti di tanta gente che passava sotto le nostre finestre, da farci lasciare il riposo e guardare quello spettacolo nuovo.
Per contrario le offerte per la nuova Chiesa di Pompei si andavano assottigliando, e molti nostri amici si allontanarono, dandosi a raccogliere offerte per la nuova Chiesa di Boscoreale; onde tutto ad un tratto parve alla nostra fantasia che fossero troncate le più belle speranze del Tempio Pompeiano.
E quel che dava maggior fondamento a questo nostro timore era un altro fatto, per noi assai più doloroso. In quell’anno non ci pervenne nessuna notizia di nuove grazie che la Vergine del Rosario avesse largite agli oblatori del suo nuovo Tempio: il che ci tentava di dubitare che la Madonna non ci avesse abbandonati per scegliere altri luoghi ed altri fedeli che meglio la servissero. Forse la Madre di Dio voleva mettere a prova la fede di quei che aveva prescelti per la edificazione del suo futuro Santuario? ...
Senza dubbio dovette Ella, anche in quell’anno 1877 concedere delle grazie per sostenere, benchè meno apparentemente, il concorso dei suoi devoti all’Opera incipiente di Pompei; ma non operò nessuna di quelle grazie, come si direbbe strepitose, per muovere la fede e l’entusiasmo ed il concorso delle persone a questa Valle, che era ancora nell’abbandono.
Di fatto non troviamo nella storia di quell’anno che una sola narrazione di grazia concessa dalla nostra Vergine sulla montagna di Agerola sul golfo di Amalfi, e che giunse alle nostre orecchie assai tardi.
Sembra anche oggi, e l’abbiamo pure notato innanzi, dopo quarantatrè anni da quel giorno, ancora nuovo e meraviglioso quel riscontro di date, che alimentava in noi un oscuro presentimento.
Ci apparecchiavamo a fare una festa di amici e in chiesa e in casa, per ricordare con letizia il primo anniversario del giorno memorabile 8 Maggio, in cui l’anno innanzi avevamo posto la prima pietra della Chiesa di Pompei; e fu appunto in quel giorno, 8 Maggio 1877, che in Napoli e nelle città circonvicine incominciò il movimento popolare per la Madonna dei Flagelli.
Parrà certamente cosa strana all’occhio dell’uomo mondano, che l’abbandono, che noi provammo in quell’anno di molti nostri associati cominciasse appunto nel dì di anniversario della benedizione della prima pietra del Tempio, cioè agli 8 di Maggio!
Ma oggi, meditando sugli avvenimenti già compiuti, ci avvediamo che fu quella solamente una remora e non un abbandono, una minaccia e non un castigo, una prova della nostra melensaggine e insieme della potenza della Signora del Rosario.
Era già decretato in Cielo, nel consiglio amoroso di una infinita Provvidenza, che doveva sorgere un Tempio nella già pagana terra di Pompei, che in breve ora avrebbe chiamato il mondo ai piedi dell’Augusta Regina, e ridestato negli animi la fede più viva e la carità più attuosa verso la classe più misera e più abbietta dell’infanzia abbandonata.
La clemente Regina del Rosario, che non discute i meriti di quei che la invocano, anzi quale Madre benigna dei peccatori, accorre frettolosa alla voce dei suoi figli che la supplicano con perseveranza ed amore, aveva già piantato il suo trono di misericordia su quella plaga un dì pagana; e non tardò a manifestare novellamente il suo favore per l’Opera da lei designata.
La prima edizione dei Quindici Sabati
In quell’anno di nostra umiliazione e del quasi generale abbandono, la pietosa Regina, per ricordarci che quello era per noi tuttavia di gaudio e non era ancora suonata l’ora delle grandi prove e dei grandi dolori, ci aprì la via a dar fuori per la prima volta il nostro libro: I Quindici Sabati del SS. Rosario.
Questo libro vide la luce nel giorno solennissimo della Festa di santa Maria, come la chiamavano i primi cristiani, cioè nel giorno dell’Assunzione di quest’anno 1877.
E la celeste Madre, per mostrarci quanto gradisse questo divino esercizio dei Quindici Sabati del suo celeste Rosario, e il libro che io aveva a Lei dedicato, il giorno seguente alla pubblicazione di esso, cioè il 16 agosto, si piacque di darcene un segnale con un sogno misterioso, che preludeva la grande diffusione dappertutto, con uno strabiliante crescendo, della divozione allora incominciata dei Quindici Sabati, e le innumerevoli grazie che sarebbero seguite in tutti i lidi della terra, nonché i futuri destini della Chiesa di Pompei.
Una visione in sogno
-Oh! Io non presto fede ai sogni! – interromperà qui taluno. - Ma questa proposizione – rispondiamo subito – così genericamente enunziata, è erronea.
I sogni sono di tre specie, naturali, diabolici, divini. Se voi negate la possibilità e la credibilità ai sogni divini, allora cessate di essere cristiano; perché non solamente dovete lacerare tutta la Storia Ecclesiastica, ma dovete negare o fare a brani l’intera Bibbia, la quale dall’Antico al Nuovo Testamento narra di avvisi e profezie avute nei sogni.
Così per toccare di volo la storia, quanti santi non leggiamo noi essere stati avvertiti da Dio nei sogni? Quanti peccatori convertiti per apparizioni nei sogni? Quanti perfidi, per non aver voluto prestar fede agli avvisi dal Cielo avuti in sogno, hanno poi fatto quella scellerata fine, di cui esempi terribili riferisce il Dottore della Chiesa S. Alfonso de’ Liguori?
Se non che, di un’autorità infallibile è la citazione dei Libri Santi che sono libri divini, e però richiedono l’assenso immobile della fede.
Giuseppe, il primo figlio di Rachele e di Giacobbe, in sogno apprese la sua preminenza sui dodici suoi fratelli, nel vedere quei dodici suoi fratelli, nel vedere quei dodici manipoli che adoravano il suo manipolo posto dritto nel mezzo; e per la rivelazione di questo sogno si suscitò tale invidia che i fratelli barbaramente lo vendettero ai mercanti. Ed alla spiegazione che egli diede nella prigione, ai due sogni avuti dai due cortigiani di Faraone, cioè dal capo dei coppieri e dal capo dei panettieri del re di Egitto, dovette la sua liberazione e l’inizio della sua grandezza.
In due sogni Dio annunziò a Faraone i sette anni di abbondanza e i sette anni di carestia, prima nella visione delle sette vacche grasse e delle magre, e poi nell’altra visione delle sette spighe piene e delle sette spighe sterili.
Nel famoso sogno della Statua dai piè di argilla e dalla testa di oro, dichiarato da Daniele a Nabucodonosor, volle Dio far preconizzare la successione dei quattro grandi Imperi, degli Assiri, dei Persiani, dei Greci e dei Romani, e l’impero universale della chiesa. Ed in altro sogno, dell’Albero gigante abbattuto e schiantato, e dell’uomo mutato in bestia, Nabucodonosor ebbe la profezia, decifrata dallo stesso Daniele, della punizione del suo orgoglio, ed infatti lo si vide poi costretto a vivere sette anni tra le fiere dei boschi.
E così passando al nuovo Testamento, San Giuseppe in sogno ebbe l’ordine da Dio di fuggire in Egitto con la Sacra Famiglia; ed in sogno di far ritorno dall’esilio. Nel sogno l’angelo del Signore confortò S. Giuseppe di non lasciare Maria, e nel sogno ammonì i Magi di non ritornare da Erode e di prendere altro cammino.
Adunque la giusta via sta nell’esaminare se un dato sogno provenga da cagione naturale, se da suggestione diabolica, o se da ispirazione divina. Ed a questo risponde la teologia mistica ed il direttore di spirito che abbia le tre doti insieme, della dottrina, della esperienza e della santità.
In generale uno dei contrassegni per discernere se una visione o un sogno sia veramente divino o no, si è la pace gioconda e soave che dopo lascia nello spirito, insieme con un abborrimento del peccato e un desiderio della virtù o delle cose eterne; ed in terzo luogo, che è più, l’avveramento della profezia.
Ciò premesso, narriamo un sogno che non farà male a nessuno, anzi produsse e produce tutt’ora a chi lo ode, gran bene, e si è avverato e si avvera ogni giorno.
Vi era una signora, terziaria domenicana, zelatrice primaria della Chiesa di Pompei, anzi compagna nostra nell’Opera, la quale spesso andava ripetendo, che non vedeva nessun pro da questo Terz’Ordine Domenicano; e che ella vi si era lasciata condurre per insinuazione di altri, ma senza sua intera vocazione, e che però ella non si reputava terziaria vera; e che la stessa cosa vale l’aggregarsi al terz’Ordine di S. Francesco, o dei Trinitari, o degli Alcantarini, o cose simiglianti. Di che le proveniva un certo malo umore e poca inclinazione al Terz’Ordine del Rosario.
Ma la Vergine Santissima, che per sette secoli consecutivi ha mostrato coi prodigi come questo terz’Ordine è posto sotto la sua speciale protezione, ed ha in luogo di figlio chiunque vi appartiene, si degnò correggerla nel seguente modo.
Venuto l’anno 1877, che fu, come è detto, per la Chiesa di Pompei l’anno di dure prove, di trionfi del demonio e di oppugnazioni all’opera del Rosario, noi umiliati e confusi, quali peccatori su cui gravi la divina giustizia, entrammo, come dicemmo, nel grave timore, che pei nostri peccati la Madonna non ci avesse ad abbandonare per trovare altri luoghi ed altri più degni suoi devoti.
Ora avvenne, che il giorno seguente alla festa della Assunzione di quell’anno, la predetta signora volle intraprendere un pellegrinaggio alla piccola Cappella della Madonna dei Flagelli. E là si recò, tra curiosa e devota, ad impetrar grazia dell’anima sua e dei figli suoi. Vi lasciò elemosine e Messe, e non trascurò di raccomandare alla Vergine la combattuta nascente Opera Pompeiana.
Ed ecco la notte seguente aver questo bellissimo segno.

La materna promessa della Madonna

A lei pareva trovarsi non già nella Cappella dei Flagelli, dove tanto aveva pregato il giorno innanzi, sì bene in mezzo al nuovo Tempio di Pompei; ma la Chiesa di Pompei non le appariva così rizza e d’incipiente costruzione, come allora era, ma al tutto compiuta, maestosa e bella e fuor dell’usato luminosa come parata a gran festa. E dentro vedeva moltitudine innumerevole di Terziarii e di Terziarie Domenicani, di cui alcuni ella conobbe, ma gli altri erano a lei affatto ignoti. E mentre ch’ella ammirava stupita la bellezza della grande Chiesa in sì breve ora compiuta, e quel numero stragrande di Terziarii e di Suore, e quella straordinaria festa; ecco discendere in mezzo di loro la Regina del Cielo. Non somigliava punto alla Immagine, tuttochè bella, della Madonna dei Flagelli, ma era adorna di bellezza e di maestà più che umana.
Aveva a lato un bellissimo giovane come a paggio. Questi portava un libro ricchissimo di nuova foggia, dov’erano scritti a caratteri di oro e con cifre vaghissime e meravigliose i nomi di tutti quei Terziarii e Terziarie che colà erano adunati e che avevano finito la nuova Chiesa della loro Madre. E la Madonna con affetto e compiacenza materna guardava e salutava tutti quei suoi figli. E come giunse presso alla nostra terziaria, che era là attonita ed umile come indegna quasi di appartenere a quella santa famiglia, le rivolse con celeste dolcezza queste parole: - Hai tu difficoltà di scrivere tu stessa il tuo nome in questo libro? E quella timida rispose: - No: Nessuna difficoltà.
Allora quel bellissimo giovane porse alla terziaria una ricca e lunga pagina; e costei nel gettarvi gli occhi sopra, lesse molti nomi colà scritti in oro di Terziarii a lei conosciuti, e segnatamente quello della nobile e santa Principessa Margherita di Santobono, e gli altri di Clorinda Lucarelli e di Anna Maria Lucarelli. E crebbe lo stupore quando, nel porre la mano a scrivere il proprio nome, lo trovò già disteso con novissime ed auree cifre, a somiglianza delle altre. Quindi, confortata da questa benignità della Regina del Rosario, si pose a pregarla con fervore della salvezza sua e dei suoi figli, esponendole tutti i suoi bisogni. E la Madonna, con viso benigno ed amorevole, non le rispondeva altro, se non queste semplici parole: - Fate i Quindici Sabati ed avrete grazie.
E quando quella, sempre insistente, non finiva di esporle i suoi timori, le sue angosce, chiedendo mercè, si volse da un lato, e le mostrò la bocca aperta dell’inferno accennando con soave ammonimento: - Vedi là? … Fa dunque i Quindici Sabati ed avrai grazie assai. La visione disparve.
L’avveramento della promessa
- "Se questo sogno è divino, si avvererà". Così scrivevamo fin dai primi tempi nel primitivo volumetto della Storia del Santuario, che intitolammo: Storia, prodigi e Novena della SS. Vergine del Rosario di Pompei.
Ormai possiamo affermare, alla solenne prova dei fatti, che tanto si è avverato per il lungo corso di quarantacinque anni!
Come abbiamo ricordato, il libro "I Quindici Sabati del SS. Rosario" venne in luce nel giorno della Assunta del 1877. E immantinente esso fu benedetto dalla clemente Regina con un profluvio di grazie largite a chiunque metteva in pratica il santo esercizio. Per la qual cosa, dopo appena sei mesi, venne esaurita la prima edizione, spacciandosi soprattutto in Milano per opera di una fervorosa Suora di Carità della venerabile Bartolomea Capitanio, (oggi Santa) a nome di Giuseppina Brambilla, e in Cremona per lo zelo della nobile Contessa Soresina Vidoni.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel libro, nato in quell’anno di tante contrarietà e umiliazioni, fosse destinato dalla bontà di Dio a diffondere il Rosario nel mondo, ad impetrare un numero infinito di grazie dalla Vergine e ad alimentare con sempre maggiori offerte le Opere di Maria nella sua Valle di Pompei.
Crescendo di anno in anno le richieste di questo libro, così danaro ricavato e con la divozione da esso suscitata a questa Vergine del Rosario, si potè poi fondare l’Orfanotrofio della Vergine di Pompei.
Dei Quindici Sabati si sono oramai stampate in ben trenta edizioni, quasi trecentomila copie!
Il libro dei Quindici Sabati tradotto in seguito in francese, spagnolo, tedesco, inglese e in altre
lingue, ha fatto il giro del mondo, ridestando ovunque l’antica divozione del Santo Rosario di Maria, che ha prodotto la conversione di migliaia e migliaia di anime a Dio, la riforma dei costumi, l’aumento della cristiana pietà, e soprattutto ha riacceso la Fede in seno a innumerabili famiglie cattoliche, da cui era stata miserevolmente bandita.
Si scorra per poco la lunghissima serie dei quaderni del Periodico "Il Rosario e la Nuova Pompei" di trentasette anni consecutivi, dal 1884 in sino ad oggi, e si scorgerà – benedicendo e ringraziando Iddio – che la Vergine Madre ha compiuto, con generosità di Regina e di celeste Dispensiera di grazie, la sua materna promessa!
La divozione dei Quindici Sabati, propagata oggi per tutto il mondo, nell’America, nell’Africa, nelle Indie, nella Cina e financo nell’Australia, ha ottenuto ai popoli copiosissime, incessanti grazie di ogni genere, spirituali e temporali, e spesso strepitosi miracoli dalla SS. Vergine, la quale si compiace manifestamente di essere invocata col titolo di Regina del SS. Rosario nella Valle di Pompei. E tali miracoli, come si vedrà nel corso di questa Storia del Santuario, sono bene spesso autenticati con processi canonici dalle Autorità ecclesiastiche delle Diocesi ove avvennero!
Ecco come ha risposto e risponde continuamente la Madonna alle parole sue, alla sua pietosa e regale promessa di Madre di Dio, fatta nel sogno sopra ricordato: Fate i Quindici Sabati e avrete grazie!
Dopo tanti lustri, oggi soltanto ci piace svelare il nome della signora, che ebbe la ventura di avere quel sogno. Costei è la stessa che quindi a trent’anni, e propriamente nel giugno del 1900, fu degnata, pure in Valle di Pompei, di un’altra visione in sogno del Cuore di Gesù e della beata Margherita Alacoque, onde ebbe la vita il moribondo suo figliuolo, Conte Francesco, ed ebbe origine il culto alla Beata nel Santuario di Pompei, culminante in un miracolo approvato dalla Chiesa e servito per la Canonizzazione di lei.
È la medesima signora che oggi – più che ottuagenaria – ha dettato in poche pagine le sue personali memorie intorno alla Storia della Immagine prodigiosa della Valle di Pompei.
È la Contessa Marianna De Fusco, mia consorte.
Sulla costiera di Amalfi
Entrava il Mese di Ottobre, in cui dovevamo celebrare la seconda festa della Signora Nostra del SS. Rosario, e la Madre nostra clemente non tardò più ad allietarci dei suoi materni sorrisi: ci fa pervenire la notizia di una grazia segnalatissima, che mise gran conforto e speranza nell’animo nostro oscurato.
Era avvenuto in Agerola, antica città posta in cima dei monti sulla COSTIERA DI Amalfi, un fatto tenerissimo che riproduciamo integralmente.
Un mattino sulla metà di maggio di quest’anno, da una di quelle casette di Agerola usciva una donna in sui trent’anni. Dai passi concitati, dal vestire negletto e disadorno dava a intravedere che una grave sollecitudine la sospingeva.
Aveva un pallore di tomba sul viso, e gli occhi velati di profonda mestizia: segno che le pene del cuore erano diuturne e strazianti.
Alla povera donna di fatto era morto da pochi giorni il marito e il padre del marito; ed ora il figliuolo suo primogenito, a tredici anni, era pur esso presso a morte per consunzione polmonare inveterata e ribelle ad ogni rimedio. Aveva nome Baldassarre Florio. I suoi medici curanti, dottori Francesco Coccia e Luca Acampora, non avendo più speranza di salvarlo, si erano accomiatati. Restava solo da apprestarsi la cassa mortuaria ed il vestito funebre. E questo pure era apparecchiato sin dalla sera innanzi, con un velo bianco da coprirgli il volto sulla bara.
Al fanciullo intanto, per un senso di pietà, per non abbreviargli la vita con un colpo di dolore, s’era celata la morte del padre; e però lo si faceva stare in casa dell’avolo materno.
E qua appunto si recava quella mattina l’addolorata Camilla Mascolo, madre del morente, accompagnata da sua cugina, Mariantonia Villani. Esempio di cristiana fortezza, straziata nel cuore da doppia sventura, l’eroica madre, con commovente pietà si accingeva ad apprestare gli estremi uffici al diletto suo primogenito.
Tuttavia ella stringeva al cuore l’ultima àncora del naufragio, l’estremo pegno di salvezza, avutosi dalla pia giovinetta Rosina Florio, collettrice in quel paese della nuova Chiesa di Pompei: ed era una figurina della nostra prodigiosa Vergine del Rosario, che tante lacrime aveva asciugate qa tanti addolorati devoti suoi figli.
Per via adunque non faceva che invocare, sospirando e gemendo, la dolce Consolatrice celeste, la Madonna di Pompei, e insieme con sua cugina, prese a recitare la corona. Pregando pregando pervennero dinanzi alla Chiesa di S. Nicola.
Era chiusa. S’inginocchiarono fuori della porta, ed ivi compirono il Rosario.
Di poi, rincorata da una virtù che le veniva dall’alto, la buona Camilla riprende il cammino, giunge al letto di suo figlio, e benchè lo trovi privo di sensi ed immobile quasi cadavere, pure non perde la fede. Gli pone sul capo la benedetta Immagine come un supremo scudo di speranza e di salvezza. Quindi piangendo si prostra per terra, ed invoca la Santissima Vergine di Pompei con quell’impeto di amore che alle sole madri è dato poter sentire.
Quindici minuti non erano passati, quando il giovanetto si scuote come desto da profondo sonno, apre gli occhi, leva il capo, subito, da sé, si rizza sul letto. Divino prodigio!... Egli era guarito!
Ma la famiglia stupita e sopraffatta dall’insperato prodigio temendo d’una dolorosa disillusione, non dava credito agli occhi propri.
La notte intanto Baldassarre la passò tranquillissima, come chi riposa, rifinito da lunga stanchezza, ma con una latente vita risvegliata nell’organismo, che attende il momento per manifestarsi. L’indomani il giovanetto si ridesta: ode un frastuono nel cortile. Battevano allora taluni contadini delle pentole per raccogliere, come è loro usanza, uno sciame di api.
Sospinto dalla curiosità, propria della sua età, il fanciullo scatta dal letto per far capolino dalla finestra. A questa vista la madre ed il nonno, che ancora stentavano a credere nel prodigio della sua santità, e trepidavano sempre che quella non fosse che illusione, presero insieme a sgridarlo amorevolmente e costringendolo a rientrare in letto dicendo: - Tu stai male, e questa è la falsa miglioria della morte…
Ma il fanciullo alla sua volta gridava preso da insolita gioia: - Che male! Che morte! Non temete più. Io sto bene! Non vedete che io sto bene? La Madonna mi ha risanato!
Chi può descrivere lo stupore e la tenera commozione di tutti quei congiunti al vedere improvvisamente redivivo il caro giovanetto che piangevano estinto?
Tutti ad una voce esclamano: Miracolo! Miracolo! La Madonna di Pompei lo ha guarito!
E veramente la potente Regina, che voleva porre una fonte perenne di grazie nel suo nuovo Tempio a Pompei, lo aveva risanato, siccome attestarono i medici e l’intero paese.
Dopo pochi giorni il piccolo Baldassarre Florio, per gratitudine alla sua divina Benefattrice, si fece benedire al collo la Corona di Maria, e ricevuta la Santa Comunione, si ascrisse alla Confraternita del Rosario dei PP. Domenicani, il cui libro è depositato nel Santuario di Valle di Pompei.
E la consolata madre, non solo rese grazie a Dio col comunicarsi insieme col figlio, ma per testimoniare la sua riconoscenza alla Vergine del Rosario, indossò lo Scapolare del Terz’Ordine di San Domenico per mano del sacerdote terziario D. Gennaro Federico di Pompei, e per mezzo di lui mandò in dono un suo anello di oro alla venerata Immagine, che si conserva tuttora in memoria di così segnalata grazia ricevuta.
Quell’anello di oro di quella madre esultante e riconoscente fu il primo anello di una lunga catena di monili muliebri di oro, di argento e di pietre preziose, che dovevano pel corso giammai interrotto di quarantacinque anni venire da tutti i punti della terra per essere deposti ai piedi della Regina delle Grazie in questa terra di Pompei, da Lei singolarmente amata e prescelta. E ne sono giunti tanti di questi doni, contrassegni di altrettante grazie, da elevarne un trono per la venerata Immagine, per redimere la fronte dell’amata Signora nostra di un diadema di brillanti, e di brillantini tempestarle il manto, e rivestire di oro tutto il Santuario, da formarne veramente la Casa di oro, la Domus aurea del Re dei re e della gran Madre del Re dei re!
La festa di Ottobre del 1877
Era passato un anno e mezzo dalla posa della prima pietra del Tempio a costruirsi, ed ai 28 di ottobre del 1877 l’edificio, quasi per incanto, era levato a metà dell’altezza designata. Vedevasi bella in pochi mesi un’opera che avrebbe richiesto le fatiche e le spese almeno di cinque anni!
Si domandavano l’un l’altro, chi mai l’avesse sì rapidamente compiuta? Si rispondeva: - l’amore di Maria. Chi mai in quei tempi d’incredulità e di miseria avrebbe potuto nel corso di diciotto mesi raccogliere in elemosine private, per lo più d’un soldo al mese, la somma di lire ventiduemila per fabbricare una Chiesa? E dove?... In una campagna… in una terra abitata da gente povera e quasi abbandonata, senza rappresentanza, senza municipio proprio, dipendente nel civile dalla provincia di Napoli e da quella di Salerno, e nel religioso da quella Terra di Lavoro, senza scuola, senza civiltà, senza Chiesa, tranne una cadente e piccola a foggia di cantina, cui arrogavasi il titolo di Parrocchia!... Chi mai?
Si rispondeva: - la Vergine Santa col suo Rosario. – Ed a manifestazione aperta di tal prodigio in quel giorno di domenica, in cui per la seconda volta si festeggiava il Rosario nel luogo di Maria, tre grandi corone di bellissime rose vennero collocate in sull’entrata rustica del novello Tempio, e da esse pendeva la seguente iscrizione:

O FRATELLI GIOITE
SULLA TERRA INSOZZATA DAGL’ IDOLI
TOMBA DI OSSA PAGANE
È SPUNTATA TRA I ROVI E LE SPINE
LA MISTICA ROSA DI GERICO
CHE SPANDE FRAGRANZA D’IMMORTALE VITA
SULLE ETÁ PRESENTI E SULLE FUTURE

"E vaghissime rose decoravano eziandio il fondo della Chiesa coperta di tende. Sul luogo dell’altare maggiore, che sarebbe consacrato alla Vergine del Rosario, sotto di un tempietto di addobbi improvvisato, era esposta la vetusta Immagine di Maria, divenuta oggi prodigiosa, anch’essa circondata di rose ed illuminata da molti ceri.
"Il pavimento di terriccio ancora esalava un grato odore di erbe e di fiori, che una mano di contadine avevano così alla buona sparsi per terra. Ed oh! Come esprimevano quelle rose la bellezza di Maria, la fragranza delle sue virtù, la soavità della sua grazia, l’efficacia dei suoi rimedi! In quel giorno, in quel luogo si vedeva risplendere nella sua bellezza e potenza la mistica Corona del Rosario, la quale prende immagine dalle rose terrene, per elevarti a gustare i celesti profumi di fiori eterni che mai non appassiranno.
"Gli eleganti vestiti di ricche dame venute a bella posta da Napoli e da altri luoghi quivi accorse ad onorare Maria, e gli abiti semplici e negletti di contadini9 del luogo; quell’onda di popolo frammisto di nobili e di plebei, di ricchi e di poveri, di sacerdoti e di religiosi di vari Ordini, Francescani, Domenicani, Gesuiti, che riempivano il recinto del novello Tempio, intenti a recitare devotamente il rosario intonato dal P.M. Radente, mentre che si offriva a Dio la Vittima sacra di pace e di amore, ti rendevano chiara e completa la bellezza della Chiesa Cattolica, che insieme prega Maria, sempre prega e d’una medesima formola, e raccoglie ai suoi piedi in un vicolo d’amore i grandi e i piccoli, i principi e i sudditi, i proprietari e i mendici, gli uomini e gli Angeli.
"E miriadi di Spiriti beati al certo erano in quell’ora intorno ai fedeli, partecipando agli animi una gioia pura e soave, una gioia santa e ineffabile, che solo gli Angeli godono in Cielo. E quando l’erudito oratore Domenicano, P. Maestro Lucci, ne rendeva ragione con forbito discorso, perché la Vergine con un titolo antico facesse novelli prodigi, e perché avesse eletto a titolo del suo Tempio sulla terra di Pompei il Rosario; quando ne ricordava l’o9rigine, che comparava ai tempi di oggi; quando ne confortava a novelle speranze, e quando ne incitava gli animi al compimento della nobile impresa di edificare la Casa del Signore; il cuore di ciascuno accelerava i suoi palpiti, e una lagrima tacita ed involontaria spuntava ad inumidire più di un ciglio. Sentivi in quell’ora l’anima tua impicciolita alla presenza di Dio, che sa operare grandi cose; servendosi di mezzi più disadatti e disdicevoli agli occhi degli uomini!...
"Quelle ruvide pareti, infatti, ti parlavano potentemente di Dio. Non erano i gelidi marmi delle chiese protestanti, che ti gravano freddi sul cuore: non la Croce nuda degli eresiarchi che non porge verace sollievo agli affanni della vita. Era invece il vessillo di Redenzione che si contrapponeva ai ruderi del vecchio Anfiteatro; era l’immagine di Maria, della madre di Dio, che, dando il Rosario a S. Domenico, porge ai Cattolici tutto il conforto ad ogni dolore, il rimedio ad ogni male, il pegno di loro salvezza, la catena della salute, l’ancora del naufragio".
Ed in vero il Tempio del Rosario a Pompei non era solo un edificio santo che sorgeva, ma era ancora un’opera più eminente, più spirituale, più universale. Per occasione di tale fabbrica e dei prodigi ottenuti migliaia di anime che avevano tralasciato di recitare il Rosario di S. Domenico, contentandosi di una posta del Rosario vivente, ripresero con più fervore a dirlo intero delle quindici poste. E le più cospicue famiglie del Patriziato Napoletano offrivano a gar4a al Terzo Ordine di S. Domenico le anime più elette in virtù e santità, per renderle figliuole privilegiate di Maria, e propagatrici della celeste Corona.
E molte di esse erano in Pompei nel nuovo Tempio il 28 di ottobre, accompagnate da molte altre persone, le quali rendevano testimonianza dei prodigi della Regina del Rosario. Quel primo calice d’argento, donato nel passato anno dalla Signora Lenci, quella prima pisside e quella prima pianeta offerte dalla Signora Giovannina Muti e dal suo figlio Pietro, quei fiori, quella grossa lampada d’argento, splendevano quali altrettanti voti sciolti per favori celesti conseguiti, di aborto salvo, di morte scampata, d’incendio estinto, di dolori, di sciagure, di affanni fugati.
(Autore: Bartolo Longo)

Torna ai contenuti