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Storia del Santuario dalle origini al 1879

Il Santuario > Storia del Santuario scritta da B.L.

*Capo I – L’Anno 1878 – Anno III° della costruzione del Tempio Pompeiano
Libro Settimo - Capo I - pag. 283
Derisioni, sarcasmi, minacce
Passate le feste di ottobre, conforme usavamo, sospendemmo tutti i lavori di costruzione, e con la Contessa tornammo a Napoli per riprendere il giro per le case dei signori e delle signore già associati l’anno innanzi, e per nuove famiglie che andavano in fama di pie e caritatevoli. Ma avemmo a provare, non senza acute punte di dolore, tutti i tristi effetti dei fatti svolti in quell’anno 1877, che ormai volgeva al suo termine.
Sotto un cielo coperto di nubi e assai sconfortante cominciò dunque per noi il 1878, l’anno terzo della costruzione del Tempio Pompeiano.
Al mattino ci dividevamo le vie di Napoli per andare in cerca di elemosine. La Contessa si avviava per alcune strade a visitare nuove case e nuove Signore della nobiltà; ed io, per altre vie, a rivedere vecchi associati e procurarne dei nuovi.
La fedelissima dama accompagnatrice della Contessa era la signorina Ernestina Freda, anima purissima, di elette virtù e di pietà insigne. Tra i primi nostri collaboratori ci è grato oggi segnare questo nome alla memoria e alla riconoscenza di tutti gli amici e divoti dell’Opera di Pompei.
Ernestina Freda, figlia di un alto magistrato, era aggregata come noi al Terz’Ordine di S. Domenico, ed era assai benemerita in Napoli per le opere pie che alimentava col suo zelo, specialmente tra il popolo del Vomero, nella chiesa domenicana di S. Maria della Libera.
E fu una vera provvidenza di Dio per la Contessa, una tale compagna scelta dalla Madonna in questo arduo apostolato. Di grande spirito, di animo forte e di costante volontà nel bene, la signorina Freda era di valido sostegno e di conforto alla Contessa, ad affrontare l’incontro di persone non ancora conosciute, in case non ancora schiuse alla nostra Opera Pompeiana. E con lei la Contessa divideva pure il rossore e l’amarezza di qualche dura ripulsa o di qualche poco garbato rifiuto.
Quante volte accadeva che, andando a picchiare l’uscio dei grandi e dei ricchi, si sentisse rispondere: - Il Signore è impedito, non può dare udienza. – La Signora sta ora in sessione. – La Signora ha dolor di capo, non può dare udienza. – Oggi la Signora non riceve alcuno!...
Sotto forma di simili garbati modi, così fatte reticenti risposte equivalevano ad un commiato bello e buono e non davano più animo al ritorno.
Dal canto mio, sapeva bene che parecchi mi avevano in conto di ciarliere, altri di fantastico, ed altri di strano e di esaltato. Ed altri, meno divoti, minacciarono finanche di farmi arrestare dalla Questura di Napoli, ai termini del Codice Penale, come girovago, ozioso e vagabondo, o come un attaccone speculatore.
Ma io che avevo fisso nell’orecchio il suono della voce del Vescovo di Nola che ripeteva alla Contessa: - chi vuol edificare una Chiesa ai tempi nostri, deve essere reputato pazzo, incolpato come ladro, e trascinato per le vie di Napoli come un malfattore – tirava dritto, confidando nella Provvidenza e nell’aiuto celeste della gran Madre di Dio.
Soprattutto alla mia mente la edificazione di un Tempio a Pompei, intrapresa con segni sì chiari del favore divino, era fin dalla prima ora apparsa come una fonte di salvezza, in cui l’anima mia avrebbe avuto da Dio la grazia di purificarsi; e tutto dominato da questo ideale, non mi abbattevano le difficoltà, le contrarietà e fin le minacce.
Ed oggi, oh come benedico Iddio di tanta sua misericordia fatta a me poverello!
Queste cose che ora dico di me, se vivessimo in tempi di fede universale, dovrebbero tenersi occulte per amore di umiltà: ma ho creduto bene esporle oggi che sventuratamente trionfa da una parte la sfrontata avversione alla Chiesa, dall’altra la pusillanimità nel fare il bene. Sì: tutti questi ricordi nell’ora medesima che sono per me un’occasione di benedire sempre il Signore, possono servire d’incoraggiamento e di conforto a molti buoni chiamati ad opere somiglianti.
Ma, ci affrettiamo a soggiungere, la divina Madre ci guardava dall’alto e non lasciava di proteggerci in maniera da non farci perdere di animo. Di fatto se da una parte eravamo più o meno urbanamente scacciati, da un’altra ci si aprivano le porte di persone ricche di censo e di fede, le quali ci facevano accoglienze come a persone mandate dalla Madonna; e ci rinfrancavano con maniere gentili e con larghe sovvenzioni.
Ed ecco che, dopo un anno oscuro e desolante, che fu il 1877, l’anno 1878 comincia a consolare4 il nostro spirito con raggi di superna luce, che sostengono e infiammano la nostra speranza e la nostra fede.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo II - Un raggio di conforto celeste.
Libro Settimo - pag. 286
Il Cav. Michele Laghezza

Entrava il febbraio di quell’anno 1878, e la piissima famiglia dei Signori Laghezza in Napoli, veniva visitata da un grave dolore. I lettori già la ricordano come una delle prime famiglie devote della Vergine di Pompei, assai zelante nel raccogliere offerte per la costruzione di questo Tempio.
Il vecchio e venerando capo di quella esemplare casa, il Cav. Michele Laghezza, nella sua grave età di ottantacinque anni, veniva violentemente attaccato da bronchite acuta.
Il fiero morbo in quell’inverno mieteva moltissime vittime nella popolosa città, non risparmiando né a gagliarda di gioventù, né a robustezza di complessione.
Sopraffatte le deboli forze del buon Cavaliere da incalzanti e alte febbri, perduta ogni speranza nelle forze naturali, la pia consorte e le affettuose figliuole, in profonda desolazione, si rivolgono all’unica speranza celeste, alla Vergine di Pompei con tutto lo slancio della loro devozione e della loro fede. Fanno voto di donare per la fabbrica della nuova Chiesa lire cento come offerta straordinaria, se avranno la completa guarigione dell’amato infermo.
Andammo a far visita alla tribolata famiglia nostra amica, in via Santa Teresa al Museo N. 75.
Come ci videro, furono sollecite a confidarci le loro ansie e le loro supreme speranze riposte nel patrocinio della nostra Regina, non che le loro promesse. Di presente ci diedero dei ceri da fare ardere innanzi all’Immagine in Pompei.
Esse erano assuefatte ai colpi meravigliosi del soprannaturale, perché in loro casa, come narrammo, abitava quella Signora Giovannina Muti, che nel giorno 8 giugno 1876, moribonda, ebbe l’apparizione della Vergine del Rosario di Pompei, - fu quella la prima apparizione – e fu guarita.
Giunto a Pompei, fu subito incominciare un triduo di preghiere col Rosario, per impetrare la grazia che tanto si sospirava. Ritorno quindi in Napoli, e defilato alla casa del Cav. Laghezza.
Ed ecco presentarsi ilare e festiva la sua buona consorte, Signora Carolina Aversa Spinelli. – La Madonna ci ha fatto la grazia! – esclama al primo vedermi – Mio marito sta bene! Ma per l’ardore delle febbri sofferte e la violenza del male superato, egli ha perduto la vigoria delle gambe.
Accorrono le figliuole: - Noi non daremo – soggiungono premurose – le lire cento alla fabbrica, se prima non avremo veduto un’altra volta camminare nostro padre per le camere come prima.
- Oh, sta a vedere (dissi in cuor mio) che queste buone donne vogliono dalla Vergine ringiovanito il vecchio!
Poi, chinando il capo in atto di ossequio, prometto disporre altre preghiere. E volo a Pompei.
Quivi raduno donne devote e contadini come più posso, e dico a quel Rettore del Rosario D. Gennaro Federico: - Le vostre preghiere sono state esaudite: il Cav. Laghezza è scampato da morte. Ma le sue figliuole vogliono dalla Madonna far ringiovanire il padre. Facciamo dunque un altro triduo, perché lo meritano.
E la nostra gloriosa Signora, che fin d’allora voleva mostrare quanto si compiacesse di chi a Lei faceva ricorso con la Corona del Rosario, e quanto gradisse il contributo dei suoi devoti all’edificazione della sua nuova Chiesa in Pompei, esaudì con materna e regale clemenza le preci di questi contadini e i desideri di questa esemplare famiglia.
Il vecchio Cavaliere fi visto, risanato, passeggiar novellamente per le sue camere; e la sua degna consorte per gratitudine, in luogo di cento lire, volle donare per la fabbrica, tra lacrime di commozione, lire duecento.
E sano e lieto, il venerando Cav. Laghezza attestava e predicava a tutti che lo visitavano, i prodigi e la misericordia della Vergine di Pompei.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo III - La prima Immagine della Vergine di Pompei in Napoli e nel mondo
Libro Settimo - pag. 288

Pertanto la Sig.na Freda, assai esperta nei movimenti religiosi, non che parecchi amici nostri e sacerdoti venerandi, ci facevano notare un vuoto, una lacuna da colmare nella nostra propaganda per la nascente Chiesa e per il culto della Madonna di Pompei.
Ci veniva fatto giustamente osservare: - Voi venite a Napoli per la raccolta delle offerte a distanza di un anno: ma, nella vostra assenza, chi si ricorderà più di voi e della vostra Chiesa, e della vostra Madonna? Se gli iscritti han bisogno di rivolgersi al Cielo per impetrare grazie urgenti, e vogliono fare un voto, una promessa, come si possono ricordare della Vergine di Pompei, se non hanno un segno, una memoria, un libro, o almeno un’immagine? Si rivolgeranno alla gran Madre di Dio onorata sotto altri titoli, le cui figure hanno già in casa, come alla Madonna di Lourdes, alla Madonna, alla Madonna di Loreto, di Montevergine, della Salette, e simili, ma non alla Madonna del Rosario di Pompei.
Anche alla nostra mente si faceva chiara questa necessità, di lasciare nelle famiglie dove andavamo un ricordo di questa nuova divozione, quand’altro non fosse, una figura popolare della nostra Vergine, giacchè alle feste di Ottobre pochi signori napoletani potevano venire allora a Pompei, essendo mese di villeggiatura. Né in quei tempi era stata stampata una preghiera particolare alla Vergine di Pompei, non c’era un giornale o un apposito Bollettino che parlasse delle grazie della Madonna di Pompei, né era pubblicato alcun libro, tranne quello dei Quindici Sabati, dato alla luce da un anno soltanto come ho sopra narrato, a spese e devozione della Marchesa Filiasi di Somma.
Fu dunque giudicato necessario lasciare4 nelle case, ove riscuotevamo le offerte, un segno sensibile della devozione alla nostra Madonna, in cui onore volevamo costruire qui una chiesa.
Tentammo, in sulle prime, di fare una fotografia della tela che avevamo a Pompei. Anzi, un signore napoletano, il Cav. Narici, beneficato dalla Vergine, volle provvedere, per sua devozione, a questo bisogno, e ne diede incarico al fotografo Russo. Ma la vecchia tela venerata in Pompei, non ancora ritoccata dell’insigne pittore Maldarelli, era tuttora bruttissima, screpolata, goffa, senza corona, e con la testa che toccava quasi la cornice, col mento in su e con gli occhi che parevano due palle; e la fotografia, tuttocchè ben fatta, ne mise in rilievo tutta la sconvenienza, e riuscì un mostro. Non era da esporsi punto alla pubblica venerazione.
Ci vedevamo spesso in quei giorni col libraio Festa in Napoli, e con cui mi consigliai sul da fare per avere una effigie qualsiasi della Madonna di Pompei. – Lasciate fare a me -  mi rispose: - mi metterò io in giro pei nostri fotografi. Qui a S. Biagio dei Librai, vi è Scafa, Altavilla, ed altri; e cercheremo di ottenere una immagine del Rosario, che vi potrà servire allo scopo.
E così diede la commissione a un litografo, dei più noti e popolari in Napoli, al Dolfino, per avere questa figura.
Il Dolfino non aveva mai veduto l’Immagine del Rosario venerata a Valle di Pompei, e fece a modo suo: disegnò una figura della Madonna, ritraendola nella sua fantasia e foggiandola con tutte le modeste risorse dell’arte sua.
E questa fu la prima Immagine della Vergine di Pompei, che innanzi tutto apparve in Napoli e poi subito nel mondo, distribuita da noi stessi a forestieri, a missionari, a nuovi devoti, nelle nostre peregrinazioni di accattoni per la Madonna. Ma era una effigie assai povera, disegnata in nero su carta bianca ordinaria, buona pel popolo rozzo e ignorante: la vergine senza corona, siccome era nell’originale, con una faccia volgare, coi capelli lunghi e inanellati, sopra un Trono che molti scambiavano per un tamburo!...
Tuttavia la Regina dei Cieli non guardava alla poca arte del litografo, ma alla molta devozione e al cuore fervente dei fedeli, e al decreto divino che in Pompei si dovesse erigere una Chiesa dedicata a Lei sotto il titolo del Rosario. Di fatto, anche venerata in quella non pregevole effigie, Ella si degnava largire le sue grazie e le sue benedizioni nelle famiglie che la mettevano in onore!
Cito un fatto. La nobile Baronessa Compagna, figlia della Principessa di Tricase e consorte del Barone Francesco Compagna, gentiluomo di Camera di Sua Maestà la regina Margherita, venerando una di quelle prime immagini che lasciammo in sua casa, ebbe grazia segnalatissima dalla Vergine di Pompei; tanto che a quella stessa volgare figura volle apporre una ricca cornice, collocandola in sua casa su di un altare di argento, fatto appositamente costruire, in ringraziamento alla celeste Madre. Né questa figura volle di poi cambiare con altre ben fatte e degne riproduzioni fotografiche ritraenti la Immagine della Madonna di Pompei abbellita e rifatta dal magistrale pennello del Maldarelli.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo IV - Il mese di Maggio - Spunta l'alba dei trionfi
Libro Settimo - pag. 291

Nel descrivere le feste di maggio del precedente anno 1877, facemmo notare al lettore un fatto al tutto nuovo e inesplicabile. Precisamente in quel giorno 8 Maggio, in cui cadeva il primo anniversario della posa della prima pietra della Chiesa di Pompei, cominciò a deviare l’onda di devoto entusiasmo dalla Madonna di Pompei, avviandosi invece tutta a una cappelletta delle campagne vicine di Boscoreale dedicata alla Madonna dei Flagelli.
Ma un fatto anche più strano avemmo poi a notare nel giorno anniversario – 8 Maggio -  di quest’anno 1878; e fu questo: - la prima contrarietà all’edificazione del Santuario di Pompei, nel suo periodo violento, non durò che un solo anno: cominciò l’8 Maggio 1877 e finì l’8 Maggio 1878.
Infatti, allora il medesimo Vescovo di Nola, monsignor Formisano, dopo molti disgusti avuti, per gravissime ragioni, estranee alla nostra storia, si vide costretto a chiudere quella chiesetta della Madonna dei Flagelli. E temendo che il suo decreto non fosse eseguito o che ne venissero più gravi disordini, domandò l’intervento delle Autorità civili; quindi, per mezzo del Prefetto di Napoli, del Sottoprefetto di Castellammare, del Procuratore del re e dei RR. Carabinieri, la chiesetta fu chiusa.
Ora possono i lettori intendere quella esclamazione in cui uscimmo nel narrare gli avvenimenti del passato anno: - Oh il mio caro e sempre venerato Vescovo Mons. Formisano! Non poteva egli mai prevedere quali amarezze per tale fatto avrebbe provato non più tardi di un anno da quel giorno!
Inesplicabile! ... da questo momento cominciò come l’alba di un giorno chiaro e sereno, che non tardò a portare i frutti ubertosi di più numerose grazie e nuovo slancio di fede e di devozione al Rosario di Maria. Onde l’anno 1878 può definirsi l’alba dei trionfi sulle prime contrarietà al nascente Tempio Pompeiano, che, intrapreso pel bisogno di poveri contadini, sarebbe poi diventato Santuario Pontificio e mondiale.
Da quell’ora l’amatissimo Vescovo Monsignor Formisano ritorna a volgere tutto l’animo suo all’incipiente Tempio di Pompei. Scrive una Notificazione, che fu la prima Lettera Pastorale per la nuova Chiesa Pompeiana: in essa ci difende contro quelli che ci accusavano d’inventare miracoli per far danari, eccita con la sua autorevole parola i fedeli a concorrere alla nascente Chiesa, che egli dichiara Opera di Dio, e manifesta la piena sua fiducia nei fondatori di essa.
Con quella Pastorale Mons. Formisano si dichiarò pubblicamente nostro difensore e nostro mallevadore presso tutti.
Anzi, ammirando l’intervento della SS. Vergine del Rosario, che appariva evidente dalla connessione di nuove grazie e di nuovi prodigi concessi a quei fedeli che a Lei ricorrevano con promessa di concorrere in qualsiasi offerta alla costruzione della nuova Chiesa, egli stesso, il pio Vescovo, si rende collettore per la edificazione del nostro tempio.
A distanza di tanti anni ci pare ancora di vederlo quel santo Prelato qui a Valle di Pompei, dove veniva così spesso per inanimarci di persona e con la sua efficace parola a proseguire quella che egli proclamava Opera di Dio. Ci pare ancora di sentire l’eco della sua voce, l’accento, l’accento pacato e dolce delle sue parole.
Dall’aspetto venerando che incuteva rispetto, sorridente, come padre in mezzo al suo popolo, attorniato da gran numero di gente semplice, di contadini di questa Valle, egli, con forma piena e popolare, faceva la propaganda per l’Opera della Madonna di Pompei.
Ci sono impresse nella memoria le seguenti parole scritte alla buona, ma piene di sapienza, della sua Lettera Pastorale – Notificazione al Clero e al popolo della Diocesi di Nola.
"Ma sono poi veri questi miracoli? – domandano alcuni – Sono poi vere le tante grazie che fa questa Madonna del Rosario di Pompei?
"Figlioli miei amatissimi, io so questo di certo: che la gente, che dice di aver avuto le grazie da questa Immagine del Rosario, manda del denaro, e non poco, in suo onore per la costruzione della Chiesa.
E non si può credere che vi sia gente così sciocca che paga per attestare ciò che non è vero. Tanto più che non è una o due o tre persone, ma sono innumerevoli, e da ogni parte d’Italia, e sono persone di ogni ceto, di ogni condizione, poveri, ricchi, ed uomini di nobiltà e di sapere. Ed a me stesso sono venute persone rispettabili ed autorevoli attestando di aver avuto grazie dalla Vergine di Pompei, e mi hanno consegnato grosse somme.
"Che cosa dobbiamo dunque concludere? Questo: che la Madonna veramente fa grazie e miracoli a chi la invoca Vergine del Rosario e col Rosario la onora; che la Madonna vuole quivi, a Valle di Pompei, essere venerata con particolare devozione; e fa grazie e miracoli specialmente a chi concorre alla costruzione di questa nuova Chiesa a Lei consacrata. Ecco la conclusione vera e logica".
E questo suo argomento – esposto in forma facile – era accessibile alle menti di tutti, e signori e ricchi e popolani e contadini, e veniva accolto con pieno assenso, come una verità indiscutibile, che non poteva e non doveva ammettere un’ombra di dubbio.
Il buon Vescovo di Nola fece stampare migliaia di copie della sua Lettera pastorale.
Di essa ci serviamo noi in Napoli, nel nostro giro, distribuendola alle famiglie signorili e cattoliche, come un’autorevole salvaguardia del nostro decoro e come solenne confermazione della santità dalla nostra intrapresa per l’edificazione di un Tempio a Pompei.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo V - La propaganda dei "Quindici Sabati" in Italia e all'Estero
Libro Settimo - pag. 295

"La seconda edizione del nostro libro. La pia Pratica iniziata solennemente nella Chiesa dei Professori di Belle Arti a Napoli"
Ma non è solo la parola autorevole del Vescovo, che conforta e sostiene il nostro lavoro in questo anno, anche la SS. Vergine dal cielo apre il suo manto per farne discendere novelle grazie su coloro che la invocano e la onorano con la pia pratica dei Quindici Sabati del SS. Rosario.
E così in quest’anno, 1878 la devozione alla Madonna di Pompei acquista innumerevoli zelatori in altre città d’Italia e anche presso nazioni straniere per il santo esercizio dei Quindici Sabati.
Esso viene introdotto in Italia e all’Estero, e lo notammo, segnatamente per lo zelo di una delle Suore di Carità fondate dalla Venerabile Capitanio, di Suor Giuseppina Brambilla, Superiora
dell’Ospedale Maggiore di Milano, che, per mezzo dei Missionari di S. Calogero, nell’Africa, nell’Asia, e soprattutto nelle Indie, diffondeva il nostro libro e propagava insieme la devozione alla Vergine di Pompei.
E tanto crebbe quella devota pratica così accetta alla madonna, che, essendo del tutto esaurite le copie della prima edizione del nostro libro nel breve corso di sei mesi, dovemmo affrettarci in quell’anno medesimo (1878) a darne fuori la seconda edizione con l’aggiunta di nuovi capitoli sulla Storia del Rosario e sui primi miracoli della Vergine di Pompei. E vide la luce quella seconda edizione del 24 maggio, in quella giornata sempre memorabile nella Storia del Santuario di Pompei, che ricorda il primo annunzio dato pubblicamente della nostra Opera dall’illustre Gesuita P. Altavilla, dal pergamo della Chiesa Parrocchiale di San Domenico Soriano in Napoli. Abbiamo sott’occhi una copia di questa Seconda edizione dei Quindici Sabati, pubblicata dalla medesima Tipografia di Andrea e Salvatore Festa in Napoli – Maggio 1878.
A leggerne la Prefazione, oggi, dopo quarantatrè anni, oh quali scintille dell’antica fiamma si ridestano vive e dolci nell’animo nostro! È una Prefazione scritta non nella freddezza dello storico, ma in uno stile saturo di sacro entusiasmo riboccante di fervido sentimento di fede, e rispecchia fedelmente lo stato dell’animo mio in quei tempi.
Preso da uno slancio di ammirazione e di riconoscenza verso quella suora, vera apostola del Rosario, che da Milano faceva continue richieste del mio libro, in quella prefazione non mi potrei trattenere dal rivolgere alla città di Sant’Ambrogio un’apostrofe calorosa, che mi sorgeva dal fondo del cuore.
Tanto per l’integrità della Storia e la varietà della narrazione, non vogliamo privarne il lettore dal leggere i primi periodi: - Non sono ancora nove mesi da che vide la luce per la prima volta questa Operetta; e credevamo sinceramente, che, per tanti travolgimenti d’idee e di cose signoreggianti d’Italia, un novello libro di pietà, come il presente, fosse per occupare per lunghe stagioni un polveroso palchetto di scaffale.
"Ma qual fu la meraviglia nostra e dei librai, quando ci avvedemmo, che, decorsi appena sei mesi, di duemila esemplari non avevamo più uno da porgere alle continue domande che ci venivano da varie città del Piemonte e di Lombardia, e sopra tutto da Milano?
"O veramente nobile e grande città di Milano! Quante volte non avendo noi onde soddisfare alle tue richieste, abbiam teso le mani verso l’Immagine di Maria per abbracciare con ardenza di affetto tutti quei tuoi figlioli, che sì focosamente amano il Rosario do Lei! Dentro di t, è vero, s’annida l’idra Protestantica, che spande i suoi aliti venefici (insinuati nelle stampe empie e ipocrite) per le pure e cattoliche nostre contrade: ma è altresì verissimo, che nel tuo seno racchiudi siffatti amanti di Maria, che fan giusto contrappeso nelle bilance della divina giustizia.
"Ed ecco che per te, e per tutti coloro che son presi d’amore per questa dolcissima calamita dei cuori, ci accingiamo a questa novella edizione.
"A condur la quale ci confermeremo al tutto ai desideri ed alle osservazioni che han degnato rivolgerci amici prediletti e sacerdoti venerandi e gentildonne piissime, delle quali è gran copia, per divina misericordia, nel nostro bel paese".

Ancora, in quest’anno 1878 avemmo la consolazione in Napoli, dove da quasi un secolo più non si praticava nelle chiese il pio esercizio del “Quindici Sabati”, un artista illustre, quel medesimo che doveva dare grazia e beltà all’Immagine della Vergine di Pompei, il chiaro e pio pittore Commendator Federico Maldarelli, rapito alla bellezza di questa stupenda divozione mariana, la fece seguire a sue spese pubblicamente nella sua Congregazione degli Artisti nella Chiesa di S. Giovanni Battista a Costantinopoli.
È presso di noi tuttora un foglietto volante, ingiallito e sgualcito dall’edace morso del tempo, che è appunto l’Invito Sacro e pio Esercizio dei Quindici Sabati che in quella Chiesa sarebbe cominciato per la prima volta il Sabato 29 giugno 1878.

   

È un caro ricordo che ci gode l’animo di riprodurre qui per intero. Quell’Invito fu da me dettato, e manifesta il mio primo e costante proposito di propagare ovunque e comunque la devozione del Rosario per ragioni occulte che svelerò altrove, e di illustrare ed esaltare sempre l’Ordine di San Domenico, il Santo scelto da Maria ed istitutore e primo propagatore del suo Rosario.
Invito Sacro pei Quindici Sabati
(Giugno 1878)
“Il 29 di giugno 1878 nella Congregazione dei Professori di Belle Arti in S. Giovanniello a Costantinopoli, avranno per la prima volta cominciamento i Quindici Sabati del Santissimo Rosario, divozione efficacissima ad ottenere qualunque grazia.
Alle ore 9 del mattino di ciaschedun sabato, all’altare del Rosario si celebrerà la Messa Votiva del Rosario che è Privilegiata; e intanto dal popolo verranno dette dieci poste della Corona, lasciando ad ognuno il meditare il Mistero che in quel dì si commemora, e dire nelle proprie famiglie le ultime cinque poste a compimento della intera Corona.
La Messa per essere Privilegiata, e per far conseguire ai fedeli le Indulgenze Plenarie concesse da Pio IX (29 Dicembre 1853 e 3 Marzo 1857) e le innumerevoli Indulgenze Parziali, verrà celebrata per tutti i 15 Sabati da un P. Domenicano; il quale prima della Comunione ricorderà ai devoti il Mistero che si onora e qualche effetto per la Comunione.
Dopo la Messa si canteranno le Litanie della Beata Vergine, e quindi sarà impartita la Benedizione col Venerabile.
Hai tu bisogno di grandi grazie, o Cristiano? Non le hai ancora asseguite dopo tante preghiere? Ti trovi forse in condizioni di disperare? E bene, la costante esperienza di oltre a due secoli ti conforti ad eseguir la bella pratica di questi Quindici Sabati del SS. Rosario, precedenti la festività di Ottobre, pei quali la celeste Regina, l’Avvocata dei peccatori, non ha saputo mai negare nessuna grazia”.
Oggi, dopo quarantatrè anni, possiamo con compiacenza e con sicurezza affermare che da quella Chiesa e da quel mese di giugno 1878 incominciò in Napoli il risveglio dell’antico affetto che i buoni Napoletani avevano avuto un giorno a questo pio esercizio, che si praticava soltanto nelle principali antiche Chiese Domenicane, e che venne poi a diffondersi, per la divozione alla Madonna di Pompei, in numerose altre chiese, non appartenenti all’Ordine, di quella illustre metropoli
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo VI - Raffaele Scala - Come per vie inaspettate perviene il primo Altare di marmo al nascente Tempio di Pompei

Libro Settimo - pag. 306

Un’antica e santa amicizia legava la Contessa de Fusco alla signorina Caterina Volpicelli, mente eletta, cuore ardente di amore divino, d’indole mitissima e dalla parola insinuante per dolcezza, notissima in Napoli come “l’apostola del Sacro Cuore”, ed oggi dalla Chiesa dichiarata Venerabile.

Nella sua Casa, al Largo Petrone alla salute, conveniva il fiore delle dame napoletane, donne specchiatissime per nobiltà e per spirito di fede, che erano divenute come la milizia del Divin Cuore, dedite a un comune apostolato di bene e ad opere di pietà, come santi spirituali esercizi, ritiri mensili, ore di adorazione al SS. Cuore di Gesù e al SS. Sacramento, e simili devote pratiche, a cui erano infiammate dall’esempio e dalla umile parola serafica della Venerabile Volpicelli, cui la Provvidenza serbava la gloria di essere fra poco la fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore.
La Volpicelli considerava la Contessa come la sua prima compagna nella vita e nelle opere di pietà e di zelo, fin da quando dimorava nella casa paterna, a Port’Alba N. 20; e però la onorava dell’ufficio di invitare le signore, di riceverle quando venivano a casa, di cantare nelle4 sacre funzioni, e di tutto che la Venerabile non poteva compiere da sé, perché non godeva di forte salute.
Ma in quella Casa la Contessa non soleva mai far propaganda dell’Opera di Pompei. Soltanto nell’uscirne e nell’accompagnarsi ora con questa ora con quella signora parlava loro della nascente Chiesa di Pompei, per procurar nuovi iscritti a quest’Opera anch’essa così bella e così importante, e la sua propaganda non era mai senza frutto. In questa maniera l’Opera pompeiana si diffondeva ed acquistava nuovi proseliti, nuovi benefattori, e nuovi zelatori e zelatrici.
Un giorno la Contessa si accompagnò con due nobili e pie signorine napoletane, le sorelle La Rocca, molto stimate dalla Marchesa Filiasi, e le fece tanto innamorare dell’Opera di Pompei che senza indugio promisero di associarvi.
- Domani – disse loro la Contessa – manderò a casa vostra l’Avv. Bartolo Longo che vi porterà i libretti di ascrizione, il libro dei Quindici Sabati, le Immagini della Vergine di Pompei.
Ebbe il pensiero di segnarsi il loro indirizzo, che dopo tanti anni mi viene in mente: Vico Freddo a Chiaia (ora via Carlo Poerio), n. 10.
Quando mi diede questa commissione la Contessa, - Oh! – esclamai – viene ora l’occasione di tornare per Chiaia! È giusto un anno che non vado più per quella via, dopo gli infruttuosi tentativi fatti col Rettore della Chiesa di S. Caterina.
Puntualmente, il giorno seguente, andai al palazzo N. 10 del Vico Freddo a Chiaia.
- Sono in casa le signorine La Rocca? – chiesi al portiere. E avuta risposta affermativa, mi metto a salire le scale.
Al primo piano la porta dell’abitazione non presenta veruna scritta.
- Andiamo più su – feci tra me. – A chiunque mi apre l’uscio farò domanda.
Giungo al secondo piano, ma non vedo ancora alcun nome alle porte d’ingresso… Mi accorgo d’aver mancato di chiedere al portiere a quale piano stessero ad abitare quelle due signorine.
- Come fare? – dissi fra me – Devo scendere giù dal portiere per farne richiesta? E poi rifare le scale? – Ma pensai invece – proviamo a tirar il campanello. Se non sono qui le signorine La Rocca. – ragionavo tra me – almeno saprò da chi mi apre, in quale quartierino esse si trovano. Certo devono saperlo, stanno nello stesso palazzo. Io farò le scuse, e saprò poi dove andare.
E tirai il campanello. Attesi pochi istanti.
Si apre l’uscio, si presenta una signorina:
- Abitano qui le signorine La Rocca? – domando io senza alcuna prevenzione.
Quella signorina mi guarda, fa un passo indietro, come colpita da forte stupore, dalla sorpresa, come fa chi da tanto tempo va in cerca di una persona e d’improvviso s’imbatte in essa. E invece di rispondere alla mia domanda, mi interroga con premura.
- Voi siete quel giovanotto che nel maggio dell’anno scorso a S. Caterina a Chiaia davate fuori la Chiesa quei manifesti, quei programmi per un Tempio a Pompei?
- Sì – rispondo io non meno meravigliato.
- Favorite, favorite di entrare, - prorompe con gioia la signorina. – Vado a chiamare la mamma, che vi aspetta da un anno, che vi deve dire una cosa.
Mi fa sedere in un salotto ben arredato, e corre a chiamare la mamma.
Io era come trasognato, non sapevo ancora di che si trattasse e in casa di chi fossi. Meditava: - poche volte mi è occorso di essere ricevuto con tanta festa, da che vado girando per le case a far l’accattone per la Madonna! ...
- Mamma, mamma – sento gridare quella giovanetta – è venuto quel signore di Pompei, quello che fa la Chiesa della Madonna a Pompei. Vieni, vieni.
Dopo pochi istanti, ecco una Signora dall’aspetto che rivelava subito una grande bontà, e insieme la modestia, la delicatezza d’una pietà profonda: vicina a lei era la figliuola giubilante.
- Oh! – esclamò la Signora – È un anno che desiderava vedervi! Non sapeva come fare per vedervi, per invitarvi a venire da me! – Io ho promesso un altare di marmo, il primo altare alla vostra Chiesa di Pompei. Fin dall’anno scorso, quando lessi in quel Programma che voi distribuivate fuori la Chiesa di S. Caterina, che volevate fare un Tempio per i contadini che no udivano la Messa, io fui rapita alla vostra idea bella per l’onore della Madonna del Rosario e per il bene di quelle anime. Tornata appena a casa, dissi a mio marito:
- Non solamente voglio concorrere a questa Chiesa di Pompei, ma voglio avere il merito di erigere il primo Altare.
Mio marito mi promise di sì, ed io l’ha pure ordinato al marmista, e sta convenuto anche il prezzo. Ma alle domande del marmista: - Quale dev’essere la dimensione di quest’altare? Dove deve essere trasportato e collocato? – io non ho potuto rispondere, e tutto sta sospeso per questo. Aspettava d’incontrarvi, di parlarvi… Ora che la Madonna vi ha mandato, finalmente, tutto sarà fatto, e al più presto! Per la festa del Rosario, nell’ottobre prossimo il mio altare sarà a Pompei. Oh come sono contenta!
Come rimanessi io stupito e commosso a questa notizia inaspettata e gioconda, si può, meglio che descrivere immaginare.
- È stato un caso più che fortuito, fortunato – osservai alla Signora – che mi fa trovare in casa vostra. Io andavo cercando le signorine La Rocca. Nulla sapeva né della vostra promessa dell’Altare, né del vostro nome. Ma lo sapeva la Madonna, e mi ha condotto qui con la sua mano invisibile. Con quanti segni evidenti, prodigiosi, la Regina del Rosario fa intendere che vuole l’Opera di Pompei, come opera sua!
Seppi allora che mi trovavo in casa della piissima Signora Raffaela Scala, consorte di quel rinomato negoziante di vini di lusso in Via Chiaia. Era precisamente quella Signora vestita a nero, di cui ho narrato innanzi, che nel maggio del passato anno 1877 sedeva accanto a me nella Chiesa di S. Caterina. E la figlia, che era venuta ad aprirmi era una di quelle signorine vestite di nero che si trovavano con la madre in quella Chiesa, e che, dopo la ripulsa di quel Rettore, mi guardavano attentamente e con occhio scrutatore affissavano la mia borsa nera, quasi per spiare che cosa potesse contenere, e quale opera buona volessi iniziare, che forse mi veniva ostacolata.
Quella buona signorina aveva nome Teresa Scala.
Per chi ha la luce della fede, nulla accade per caso in questo mondo: noi siamo circondati da materia come tanti ciechi che non scorgiamo le fila degli avvenimenti ordinati dalla mano della Provvidenza.
La Signora Raffaela Scala attenne fedelmente la parola. Nella festa del Rosario di Ottobre ebbe cura di far giungere a Pompei l’Altare promesso.
- O mia celebre Regina del Rosario, come avete voi premiato la fede e la carità di quella famiglia tanto a voi divota, che fin dalle origini di questo Tempio si mostrò sollecita di onorarvi nella terra di Pompei?
Passarono quarantadue anni.
Un mese fa, mentre mi apparecchiava a scrivere questo capitolo della Storia, mi venne annunziato che una signora, una delle prime devote della Madonna di Pompei, era venuta da Napoli a visitarmi con la famiglia nella mia casa, che, come tutti sanno, è posta di fronte al Santuario.
Io che tutti i giorni, insieme con la Contessa, ricevo indistintamente gli ascritti, i benefattori, i devoti della Vergine di Pompei, a cominciare dalle nove del mattino fino a due ore dopo il mezzodì, non chiesi il nome di quella famiglia.
Quando la signora mi disse: - Io sono Teresa Scala – non seppi trattenere un subito moto di gioia per il rapido risveglio di tanti cari ricordi dei primi anni del Santuario.
Era appunto la figlia di quella buona signora Raffaela Scala. Teresa che non solo non era più signorina, ma era maritata al signor Da Re, ed era divenuta madre e nonna. Difatti era accompagnata da due figlie, Maria Manfredi-Da Re, e Italia Avallopne-Da Re, che a loro volta mi presentavano i loro figlioletti.
Con il ricordo della santa bisavola, donatrice del primo Altare del Santuario, io mirava in quella famiglia tre generazioni!

                                                                                       

In questa numerosa discendenza e in questa rigogliosa figliolanza tutta degna erede della bisnonna, nel sentimento vivo di fede e di devozione alla Madonna, anche da parte dei consorti e dei figli, io con commozione notava la benedizione di Dio in quella santa famiglia, come la benedizione con gli antichi Patriarchi auguravano da Dio fino alla fino alla terza generazione!

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo VII - Lady Erbert - La prima Signora straniera che viene a Valle di Pompei a salutare il luogo ove sarebbe eretta la Chiesa Pompeiana
Libro Settimo - pag. 306

In quel mese venni a Valle di Pompei per assistere alla costruzione del Tempio, che procedeva alacramente, e per rinfrancarmi nella salute alquanto andata giù.

Uno di quei giorni, mentre che io stava nell’antica Masseria de Fusco, in una camera posta a mezzodì inondata da un oceano di sole pompeiano, e di là contemplava le montagne di Castellammare e di Agerola che più belle apparivano in quella gloria di luce, e il Monte Gauro celebre per l’apparizione di S. Michele Arcangelo a S. Catello, ecco viene una guida degli Scavi di Pompei, e mi annunzia la visita di una grande Signora Inglese.
Nientedimeno era la nobilissima e ricca Dama, convertita al Cattolicesimo, Lady Herbert, madre del notissimo uomo di Stato Lord Pembroke, protestante.
Costei, venuta a Napoli, non tralasciò, come costumano gli stranieri, di visitare gli Scavi della vecchia Pompei. E giunta all’Anfiteatro vide di fronte, in lontananza, una Croce nera di legno, ritta come a segnacolo, su alcune mura in costruzione.
Stupefatta a quello spettacolo per lei nuovo e inaspettato, si volse ad una guida degli Scavi e interrogò con aria di premura:
- Che? … Una Croce a Pompei!
- Sì, - rispose la guida – è una Chiesa che stanno costruendo certi signori di Napoli insieme con la Contessa De Fusco, Signora di questo luogo.
- Vorrei parlare loro, - fece con una subita risoluzione la nobile straniera.
- Voglio visitarli, - soggiunse con tono reciso. – Accompagnatemi.
La Contessa non era in quel giorno a Pompei.
E così mi si presentò questa gran Signora, dall’aspetto dignitoso e gentile. Immantinente, come mi vide, senz’altro proferì:
- Dopo tante volte che son venuta a visitare gli Scavi è la prima volta che vedo una Croce su di una fabbrica. Desidero conoscere che cosa intendete fare? Chi vi ha spinto a fare quest’Opera? A mettere il segno della redenzione in queste solitarie e deserte campagne?
Meravigliato anch’io dell’incontro con quella dama, certo non avvenuto per caso ma per ordine di Provvidenza divina, cominciai a narrarle tutti i fatti avvenuti: dell’abbandono di questi contadini nella piena ignoranza in fatto di Religione; dell’ispirazione del Vescovo di fabbricare una Chiesa per far loro recitare il Rosario ed istruirli nei rudimenti della fede; della Immagine della Vergine del Rosario che dimostrava con grazie celesti essere volontà di Dio che si fondasse qui una Chiesa in suo onore, e via di seguito.
All’udire il mio racconto quella nobile figlia di Albione, pur sotto quel contegno apparentemente freddo, impassibile, ebbe un leggero fremito, che tradì un intenso movimento di fervore e di entusiasmo per la Fede cui erasi di fresco convertita.
Mi disse parole di conforto, e mi promise di far conoscere in Inghilterra ed in America questa santa Opera, e il culto che qui si iniziava alla Vergine di Pompei, scrivendone sul diffuso giornale Inglese-Americano, il “Tablet”.
Così, prima ancora che la notizia di un Tempio Cattolico nella storica terra di Pompei pervenisse agli orecchi dei nostri fratelli di Italia, già, erasi divulgata tra i figli d’Inghilterra; poiché nell’anno stesso 1878 quella nobilissima dama Lady Herbert, dopo il suo ritorno in patria, conforme aveva promesso, con animo fedelmente inglese, spacciava la lieta nuova sul rinomato giornale il Tablet, diffusissimo, come è detto, non solo in Inghilterra ma anche nelle Americhe.
Ed ecco che, in breve tempo, con la diffusione della notizia della sorgente Chiesa del Rosario in Pompei, e delle grazie che largiva qui la Madonna, cominciarono le prime offerte dalle straniere nazioni; da Dublino (Irlanda), primieramente, e poi da Londra, e poi da Malta e poi dall’America.
Pubblicammo questo fatto, insieme con i nomi dei primi oblatori dell’Estero, nel nostro libro “I Quindici Sabati”, non avendo allora un apposito Periodico, e propriamente nella parte storica, che precedeva le Meditazioni sui quindici Misteri del Rosario.
“Una donna – facevamo osservare – fu cagione del letale scisma che regna tuttodì in Inghilterra; ed una donna veniva dal Cielo designata ad introdurre nella protestante nazione l’amore più vivo e la devozione più tenera alla benedetta Madre di Gesù sotto il nuovo titolo di Vergine di Pompei”.
“È storia. Il primo obolo che mi pervenisse per il Santuario di Pompei dalle straniere regioni di Europa fu quello della protestante Inghilterra. Lady Herbert la prima a spargere nella terra di Enrico VIII e di Elisabetta le Immagini della Vergine di Pompei e la Storia dei prodigi viventi di Colei, che i Protestanti rinnegano, e che noi Cattolici veneriamo ed amiamo quale Madre di Dio e Madre nostra”.
“… O gloriosa Terra dei Santi! Quando spunterà quel sole, in che le tue vetuste campagne, da tre secoli mute al Saluto di Maria, annunzieranno con le sonore ondulazioni i primi vespri del glorioso tuo ritorno alla fede Cattolica, che è la fede dei gloriosi padri tuoi? ...”.
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo VIII - Sulla riva fiorita di Posillipo
Libro Settimo - pag. 310

Un’altra nobile e ricca Signora Inglese, ma protestante – molte speranze tentativi di conversione - amarezze
Dopo la visita che io ebbi da lady Herbert a Valle di Pompei, gongolante di gioia tornai a Napoli per raccontar la lieta avventura alla Contessa.
Avevamo, nel maggio di quell’anno, lasciato la nostra abitazione in Via Vergini, 19 ed eravamo andati ad abitare in Via Pignatelli, 94, in una casa di proprietà dei signori Cappella.
Già tutta questa pia e ricca famiglia era nel numero delle zelatrici della nuova Chiesa di Pompei: e rammento con grato animo i nomi delle Signorine Angiola, Caterina e Marianna Cappella.
Com’era suo costume, la Contessa non appena rivide la prima signorina Cappella, Angiolina, cominciò a raccontarle della visita di questa signora inglese a Valle di Pompei, e delle rigogliose speranze che dalle sue promesse e dal suo entusiasmo erano sorte nell’animo nostro per l’incremento della Opera Pompeiana.
­- Oh Contessa! – esclamò con aria di mistero la Signorina Angiolina, come per rivelarle un altro segreto con una più preziosa speranza – Ora Contessa! – esclamò con aria di mistero la Signorina Angiolina, come per rivelarle un altro segreto con una più preziosa speranza – Ora io conosco una grande Signora Inglese, Mistress Annely. Sta ad abitare nella Villa di nostra proprietà a Posillipo. Dev’essere molto ricca. Ha un figlio Colonnello nelle Indie. Ci paga a mese una lauta pigione. Sta lì per salute; ha un male misterioso, penso che soffra di nervi. È protestante, ma è molto generosa verso i poveri e le opere di beneficenza. Quando fa una limosina, non dà mai meno di cento lire. Da quella gran Signora vi posso condurre io.
- Oh, sì! – interruppe festiva e sorridente la Contessa – Andiamo subito…
- Eh! – osservò con gravità la signorina Cappella – Dobbiamo prima studiare il modo come avvicinarla, con molta cautela, perché è una fiera protestante. Dobbiamo bene accordarci come presentare la cosa, ma senza parlare – per carità! – né di Chiesa da fabbricare, né della Vergine, né della vergine, né del Rosario… Insomma potremo soltanto chiederle un sussidio per un’opera pia a favore di bambini, di contadini abbandonati nella miseria e nell’ignoranza, per scuole di fanciulli che sono attorno agli Scavi di Pompei, o che so altro. Mai parlare di Chiese, di Madonne e di Santi!
Voi sapete che i protestanti non ammettono queste cose. La Mistress potrebbe montar in furie. E non aver nulla voi, io perderei molte centinaia di lire al mese.
- Sì, sì, - fece la Contessa con fronte pensosa, - voi dite bene. Bisogna operare con cautela. Io so come sono fanatici i protestanti, massime poi una signora malata di nervi.
- Badate, Contessa, - aggiunse la signorina Cappella con tono più reciso – questa visita dobbiamo combinarla tra noi, senza far venire Don Bartolo. Io conosco quanto è imprudente certe volte l’Avvocato. Comincia subito a parlare della Madonna, della Chiesa di Pompei, comincia a dar figure, medaglie, la Novena, la Storia, e ci rompe le uova nel paniere. Non voglia Dio! La Signora si inquieterebbe con D. Bartolo; questi potrebbe – per troppo zelo – uscire in qualche parola pungente, e addio! La Mistress lascerebbe la Villa nostra; potrebbe pure scrivere a suo figlio Colonnello, e questi potrebbe anche sfidare a duello l’Avvocato! ... No, no, la via più sicura è questa: Don Bartolo non deve venire.
La Contessa, naturalmente, non tardò più di un’ora a rivelarmi il proposito circa la visita da fare a questa gran dama inglese protestante, con le prudenziali ragioni di non farsi accompagnare da me.
Io, invece, in un baleno, era già corso dietro a un ordine di idee al tutto diverse. Quel discorso fu un rapido e potente fermento fantastico per me, e rimasi pensoso come attonito, in un tumulto d’improvvise speranze, di ardite immaginazioni, di mille vaghe previsioni.
Era fresco il ricordo di Lady Herbert venuta a Valle di Pompei, e delle mille speranze per la promessa di diffusione dell’Opera nostra nei giornali inglesi.
Oltre a ciò mi si presentò vivo nel pensiero il fatto della ricca inglese, Lady Strachan, che aveva dato lire centomila al mio caro maestro, Prof. Leopoldo Rodinò, per far fondare in Napoli un Istituto per le povere fanciulle cieche, che io spesso visitava. (Tutt’ora è fiorente in Napoli questo benemerito Istituto, diretto dalle Suore d’Ivrea, scelte, fin dalla sua fondazione, dal medesimo Prof. Rodinò. Si chiama appunto: Istituto “Strachan-Rodinò per le povere cieche. Chi l’avrebbe potuto immaginare? Dopo cinquant’anni, le povere cieche dell’Istituto Strachan-Rodinò sono state le prime in Italia, a mandare un’offerta collettiva per la nuova Opera per le Figlie dei Carcerati!).
Ora – io pensavo – la Provvidenza mi fa imbattere in una terza signora inglese, in fama di caritatevole e generosa! Chi sa? … ma è protestante! – E che per ciò? ... Se la Madonna volesse convertirla? – È malata. – Tanto meglio! Se la Madonna per convertirla, volesse prima farle la grazia della salute? Oh! allora il Tempio di Pompei sarebbe fatto. Bene, pregheremo la Madonna che tocchi il cuore di quella nobile Mistress. Inviteremo la signora protestante di venire a vedere le meraviglie della Madonna nella nuova Pompei, com’era venuta qui l’altra nobile signora inglese Lady Herbert; la esorteremo a sperar la salute dalla prodigiosa Immagine. La Madonna la farà guarire, ed essa crederà e si convertirà. Ed il Tempio allora sarà fatto, perché la signora donerà tutti il sussidio della sua generosità. Scriverò in tutti i giornali la conversione di questa gran dama, il gran rito che si farà della sua abiura in Pompei, ed avrò ottenuto il mio intento, che tutto il mondo sappia che sulla terra di Pompei si eleva una Chiesa alla madre di Dio. Che bella occasione! Oh se la Madonna ci facesse questa grazia!
Quest’ultima esclamazione dovette scappar fuori dal mio meditare, dovette sfuggire dal mio interno, e forse, senza accorgermi, formularsi in parole.
- Che cosa? … Che cosa? … - Interruppe, corrugando la fronte, la signorina Cappella, che aveva già subodorato qualche mio divisamento. – E volgendosi alla Contessa:
- Signora Contessa, - pronunciò in tono decisivo – io non permetterò mai che l’Avvocato ci accompagni. Al meglio del discorso con la protestante, comincerà a nominare la Madonna, e noi non concluderemo nulla, perché, ripeto, Miss Anneky, protestante accanita quale è, non crede alla Madonna; e se l’Avvocato osasse far davanti a lei i suoi panegirici della potenza del Rosario, della protezione di Maria, di grazie e miracoli, noi correremo il rischio di essere cacciati, e mi farete perdere la migliore inquilina della Villa.
- Ma no, no, - feci io con tono dimesso e supplichevole – non temete. Io accompagnerò la Contessa, solo, come suo avvocato, suo segretario, come un cavaliere di compagnia.
- Ma non dovete parlare della Madonna.
- E allora che le diremo? Di che le parleremo?
- Le diremo che vogliamo fondare (ed e anche la verità) un Asilo in Valle di Pompei per i fanciulli poveri; e sapendo che Lady ha un generosissimo cuore per gli indigenti, abbiamo preso l’ardire, eccetera, eccetera.
- E della Madonna niente?
- Per ora neanche una parola! A ciò penseremo poi. Se ci accorgeremo al primo colloquio che è di buon fondo ed accessibile, vi sarà sempre tempo di ripeterle la visita, e farle discorsi della Madonna, di S. Domenico, del Rosario, di quello che vorrete. Anzi, se ad ogni costo volete venire, dovete promettere che alla presenza di Lady Anneky voi sarete muto.
A me parve prudente non insistere più, ed accettai il grave impegno… di tacere.
- Va bene – assicurai – Vi prometto che così farò, come voi volete. Parlerete voi, parlerà la Contessa; ed io, tranne qualche inchino di convenienza, qualche parola di ossequio, del resto farò il muto.
Avuta questa assicurazione da parte mia, la Sig.na Cappella prese accordo con la Contessa che sarebbe andata prima lei da sola per apparecchiare la signora inglese ed annunciare la visita della Contessa De Fusco; poi, in un dato giorno e in un’ora prefissa sarebbe andata la Contessa, accompagnata dalla Sig.na Freda e da me, a Posillipo, per far visita alla gloriosa figlia di Albione.
2 - Dal Padre Rossi (pag. 315)
Preghiera di amici e in vari monasteri di Napoli per la conversione di una signora protestante
La determinata visita alla signora inglese mi eccitò la fantasia, e la speranza di un prodigio della Madonna, che avrebbe guarito e convertito la ricca protestante, divenne per me un’idea suggestiva che non mi dava riposo.
- Oh se fosse convertita! … - andavo ripetendo fra me – sarebbe assicurata la Chiesa di Pompei! Giornali che avrebbero parlato di questa conversione; solenne abiura della signora protestante fatta cattolica; tutte le ricchezze della Mistress profuse a Pompei! …
Ma bisogna prima prender consiglio da persone illuminate da Dio.
Mi venne subito innanzi alla mente la figura del Padre Rossi, del grande predicatore, i cui discorsi, come dissi innanzi, io andava ad ascoltare con fervido entusiasmo e con religiosa attenzione in qualunque chiesa di Napoli egli predicasse, e a cui spesso apriva l’animo mio per ricevere conforto e consiglio.
Andai da lui, e gli narrai tutto, per sentire la sua parola come la parola di Dio.
Il P. Rossi, dopo avermi ascoltato con grande bontà, dopo aver ponderato sul fatto che gli esponeva e sulle mie ardimentose speranze:
- È molto difficile! – proferì – Convertire un protestante, anzi una protestante, è cosa difficile! Ci vuole un miracolo. C’è bisogno che quella sia illuminata, istruita, mossa potentemente dalla grazia di Dio!
Poi, per non fare andare giù tutto il mio zelo: - Bisogna pregare! – concluse con aria di speranza.
Rimasi un po’ freddo sul momento, ma poi con più acceso fervore:
- Sì, è vero – ripresi – ma la Madonna di Pompei fa tanti miracoli! È apparsa finanche una signora di mondo e società, per guarirla, alla Signora Giovannina Muti. Non può fare un simile miracolo? Preghiamo insieme, facciamo pregare tutti per questo scopo. Intanto io vado, e vediamo che cosa succede.
Mi accomiatai dal P. Rossi. Le sue parole:
- È difficile! Ci vuole un miracolo! Bisogna pregare! – invece di mettere gelo, mi misero fuoco nell’anima.
Quanti amici vedeva, quante anime pie incontrava, quanti devoti zelatori e zelatrici della Vergine di Pompei io avvicinava, tutti sollecitava a pregare per la conversione di una nobile protestante inglese.
Oltre a ciò mi misi in giro per i monasteri di Napoli, dove erano suore amiche nostre e ferventi devote e zelatrici dell’Opera nostra, per pregarle di supplicare la Madonna con tutte le loro Comunità, a fine d’impetrare la grazia di quella conversione.
Così feci nel monastero della Sapienza con Suor Maria Maddalena de Bisogno, domenicana; così nel monastero del Rosariello a Portamedina, con quella Suor Maria Concetta De Litala che mi aveva dato il quadro della Vergine del Rosario per esporlo in venerazione a Pompei, e quindi nel monastero dello Splendore conferii con quella santa religiosa francescana, Suor Maria Maddalena Barbuto.
Ed ecco che un coro di preghiere si levava dalla terra da tante anime buone per implorare la sospirata grazia, e le mie speranze sembravano rivestirsi dei più vaghi colori, nella trepida attesa di un celeste prodigio…
3 – Il giorno della gita a Posillipo – L’ora solenne dell’invocata conversione (pag. 317)
Conforme gli accordi presi, e seguendo puntualmente tutto un programma elaborato con i più minuti accorgimenti della umana prudenza, la signorina Cappella andò innanzi a Posillipo per apparecchiare l’animo della sua illustre inquilina a ricevere la visita di una nobildonna napoletana, la Contessa Marianna De Fusco, che dedicava la sua vita in opere umanitarie, e che voleva aprire in Pompei una scuola per i poveri fanciulli.
Nulla doveva dire dell’Avvocato Bartolo Longo, perché questi, dovendo fare il muto, sarebbe sembrato un semplice accompagnatore di dame e nulla più.
Dovevamo poi seguire noi sulla collina di Posillipo, dopo un paio d’ore, per trovare quella Villa e vedere la famosa signora inglese, oggetto comune di diverse e suggestive speranze.
Così fu fatto. Noleggiammo una carrozza a due cavalli, e vi montammo su, la Contessa, la signorina Freda ed io, e via di trotto alla volta di Posillipo.
Dopo un’ora passata in vettura, finalmente il legno sboccò alla Via nuova di Posillipo, fatta costruire dal Vicerè di Napoli Gioacchino Murat, e che in delizioso serpeggiamento mena fino al Capo Posillipo. A buon diritto i visitatori d’oltre Alpe non rifiniscono d’ammirare quell’incantevole costiera, che fu detta forse Posillipo dal greco (cessant curae) perché si suppone che l’animo inebriato colà di tante bellezze naturali, abbia a dimenticare ogni affanno.
Dopo aver domandato di qua e di là dove fosse la famosa Villa, finalmente ci venne additata la via che menava a quella magnifica casa che aveva l’onore di ospitare la illustre straniera; e colà ci dirigemmo.
4 – La Villa “Baker” oggi “Grand Hotel Pension Villa Martinelli” (pag. 318)
La Villa di proprietà dei signori Cappella era un asilo di pace, veramente delizioso. Era sita in uno dei punti più incantevoli di tutta l’amenissima costiera di Posillipo, all’estremo lembo di terra che declina mollemente fino alla riva del mare sempre fiorita, che guarda a mezzogiorno il magnifico, immenso, svariatissimo panorama del Golfo di Napoli, sempre azzurro e smagliante sotto un cielo del più dolce colore d’oriental zaffiro che si possa mai immaginare.
Si vuole che questa fosse una delle ville di Lucullo, e si chiamava appunto Villa di Lucullo, quando fu acquistata da uno degli antenati della famiglia Cappella nel 1659.
A quel tempo era Doge di Venezia un Cappella. Un suo fratello secondogenito, non volle rimanere a Venezia sotto il suo dominio; si accompagnò con un medico ed un ingegnere, e si mise in giro per l’Italia cercando un posto adatto per lui. Capitò qui, dov’era questa Villa abbandonata e dirupa, ed ai suoi piedi a livello del mare vi era una cappella eremitica che rimontava al 300.
Il fratello del Doge di Venezia acquistò la Villa e la cappella. La vecchia e smantellata abitazione ridusse poi a splendida Villa principesca; la cadente e logora cappella fece restaurare ed abbellì di dipinti e di stucchi artistici e di altare di marmo. Vi fece trasportare da Venezia due statue di alabastro di circa un metro alte, l’Annunziata e l’Arcangelo Gabriele, che tuttora si vedono lì, a destra e a sinistra della cona. Arricchì la cappella anche di quadri a basso rilievo di marmo di classica scuola, rappresentanti un “S. Sebastiano”, la “Visitazione di Maria” e il “Calvario”. Il lettore non troverà inutili queste notizie, dopo aver letto tutto questo capitolo.
La Villa si chiama ora Grand Hòtel Pension ed è frequentata per villeggiatura di lusso, per stazioni climatiche da alti signori italiani e stranieri.
5 – Mistress Anneky (pag. 319)
In questa Villa era allora Mistress Anneky. Aveva preso in affitto un parterre elegantissimo, tutto fiorito, che dava sul mare, e riccamente fornito di tutti i ninnoli necessari a contentare i suoi molteplici, complicati e delicati bisogni reali e fittizi. Qui la nobile inglese cullavasi fra tutti gli agi, svegliandosi, movendosi e parlando sempre ad orario stabilito.
Scendemmo dalla carrozza ed entrammo nella Villa.
La Sig.na Cappella, come ho detto, già era lì. Alla cameriera che venne ad aprirci domandammo di lei, per essere presentati alla gran dama.
Ci viene subito incontro la Sig.na Cappella, e quindi fa cenno alla cameriera di portare alla Mistress l’avviso che la Contessa era giunta.
Intanto tutti e quattro siamo invitati a entrare nella sala di ricevimento.
La Sign.na Cappella prende posto sul canapè, facendosi sedere accanto la Contessa e la Sig.na Freda, e lasciando libero da un lato un gran seggiolone soffice, come seggio riservato alla nobile straniera.
Io, poveretto, tenendo sempre stretta in mano la storica borsa, delle provvisioni della madonna di Pompei, e rappresentando la parte di un intruso condannato ad essere muto in tanta nobiltà di conversare, prendo un posticino lontano dalle gentildonne sopra un seggiolino, da far vista di non turbare quell’altissima conversazione che sarebbe per succedere.
Scorsi dieci minuti, si odono tre colpi di tosse secca; poi il rumore di qualche cosa che lentamente si trascina, e da ultimo si vede aprire una porta ed apparire alta, aitante, fredda, solenne una donna dal crine biondo brizzolato di bianco. Tutti ci leviamo in piedi in atto di ossequio; ed essa si accosta adagio adagio e si affonda nel morbido seggiolone. Un minuto di silenzio.
Poi aprire la bocca e frammettendo alle parole fioche compassati sospiri, comincia senza pure guardare chicchessia:
- Ah! … ah! ... Chi essere la Signora Contessa de Fusco?
- Io – risponde questa, abbassando rispettosamente il capo. – Ed ho l’onore di presentarmi a Lei che sento essere così buona, così caritatevole.
- Ah! ... ah! ...
- Questa – continua la Contessa – è la signorina Ernestina Freda, mia compagna indivisibile, che tanto zelo pone in tante opere di beneficenza e di pietà. Questi poi è il signor Avvocato Bartolo Longo.
- Chi essere questo?
- È il signor Avvocato Bartolo Longo.
- Ah! Bene! Bene!
Io, sempre muto fo un inchino di rispetto.
- Ohà ah! Mi sento un male… un male… un male… - ricomincia l’inglese.
- Ce ne dispiace tanto! – rispondono le donne.
- Sì, un male! ... veramente un male! ... buon Dio… un male! ...
- Se è lecito, Madama, qual male soffre?
- Oh! un male … che viene e va.
- Speriamo che in Napoli vada via per sempre.
La stagione è mite, i medici eccellenti, i rimedi in abbondanza. Questi giardini soavi e ristoratori… il mare…
- Ah! Speriamo… è inutile, è inutile! Gran che!
Altri cinque minuti di silenzio. Indi la nevrotica dama manda fuori dai polmoni un respirone, e brontola ancora una volta di sentirsi male. Era vero? Era male fisico, o era infermità morale? Non lo disse mai. Noi udivamo riverenti, e con il volto atteggiato a mestizia ne compativamo le arcane e misteriose sofferenze.
Era passata una buona mezz’ora e non si sentiva ancora al quia della visita.
Cominciai ad ammiccare le tre visitatrici… quasi a dire – Che facciamo noi? Quando si parlerà di Pompei?
Queste intendono, e la Contessa risoluta anch’essa di spicciarsi, - Signora, - proferì – è stata mai Lei a vedere Pompei? Là sono tanti poveri contadini e fanciulli abbandonati per le campagne senza istruzione, senza religione, né civiltà. E noi abbiamo cominciato a fare una scuola, un asilo, una chiesa dove raccoglierli ad imparare i doveri di buon cristiano e di buon cittadino. È una grande carità verso i nostri prossimi.
- Ah! … sì, la carità – interruppe Lady senza mai guardare alcuno – la carità. Gran cosa! … San Paolo dice: “La carità salva tutti”. E anche Cristo lo dice nel Vangelo.
- Ma in Pompei soprattutto bisogna veramente che venga in soccorso la carità dei cristiani. Perché Lei non viene un giorno a vedere le rovine dell’antica Pompei? Gli Inglesi sono tanto amatori di queste antichità! E così potrà dare uno sguardo alle incipienti opere di civiltà della Nuova Pompei. Da poco vi è venuta una gran dama inglese, Lady Herbert, la madre di Lord Pembroke, ed è rimasta così entusiasta che ha promesso, scrittrice com’è, di far conoscere queste nuove opere sul giornale inglese-americano il “Tablet”.
- Ah! … rispose quella sofferente signora – Pompei non venire; mi fa male vedere i morti.
- No, Signora, morti non se ne vedono – si affretta a soggiungere la Contessa. – Lei potrebbe venire difilato al mio casino in Valle di Pompei; ivi riposerà, e a suo bell’agio Le mostrerò i contadini, i fanciulli e tanta gente semplice e povera.
- Oh! mi fa tanto male viaggiare! …
- Può venire in vettura, se vuole, anche da Napoli a Pompei… Monta qui in questa villa, e smonterà alla mia casa in Pompei.
Un altro momento di silenzio.
- Allora le togliamo il fastidio – fa la Contessa, e si accinge a levarsi dal canapè per andare.
- Ma! – interruppe la gran dama, - voglio dare; sì, darò anch’io un aiuto. – E si dicendo Mistress si volge alla sua cameriera che era sempre diritta di guardia all’uscio, e dà un comando in inglese che io comprendo bene spiegarsi così: - “Prendete quel danaro nell’involto che è sul mio tavolino”.
Passano ancora alcuni istanti di silenzio glaciale, ed ecco ricomparire la cameriera.
Da noi non si batteva palpebra… Miss Anneky riceve dalla cameriera il piccolo inviluppo e vuol darlo nelle mani della Contessa. Questa lo porge a me che ero il cassiere. Lo piglio, lo apro, guardo, credo di sognare… Oh! non è un sogno, è una realtà! Sono sette soldi di bronzo! …
Sorpreso perché ingannato, vedo crollare d’un colpo tutto quel grandioso mio castello fatto in aria: tutto precipitato nel vuoto, in un istante! …
Tutto, dunque, è svanito! – dissi tra me e me dolorosamente – Conversione! … sanazione … abiura… Tutto è svanito! …
Fu per poco che non restituissi quei sette soldi. Ma ricordandomi che chi va accattando la carità per Cristo, deve soffrire umiliazioni e contentarsi di quello che gli altri vogliono dare, richiamai tutta la virtù dell’animo, mi levai in piedi dal seggiolino dove era confinato e masticai un grazie rispettosissimo.
Mi viene però subito un pensiero: - giacchè tutto è finito, tentiamo di darle almeno la figura della Madonna. Se mai accetta l’Immagine, si può ancora sperare un raggio improvviso di fede per la sua conversione, come era successo per altri, in casa della Signora Muti nel 1876… E prima della Immagine della Madonna reputai opportuno farle un presente del libro “I Quindici Sabati” con la Novena e la Storia dei prodigi della Vergine di Pompei, che aveva di recente pubblicati.
Di fatto, come uomo risoluto, mi fo innanzi alla lady sdraiata nel suo seggiolone.
La Signorina Cappella al vedermi muovere ebbe ad allibire, la Contessa arrossì tutta in volto, presagendo una tempesta; solo la Signorina Freda rimase impavida.
Assumendo io un tono di gentilezza e traendo dalla borsa il detto libro: - Signora, - pronunziai il più dolcemente che potei, inchinandomi – gradisca questo piccolo ricordo della nostra visita.
La dama inglese lo toglie e fa un leggero inchino di cortesia, senza pure guardarmi. Poi: - Parla forse delle scuole questo libro? Domandò.
- No, rispondo prontamente – ma parla dei prodigi che opera a Pompei la Madre di Dio per costruirsi un tempio.
L’inglese si oscura in volto, e per non leggerne il frontespizio, lo mette capovolto sul tavolino.
Credetti di aver guadagnato terreno, e in cuor mio feci questo ragionamento: - Se costei arriva a leggere la Storia, certo le verrà il desiderio di riacquistare la salute: invocherà la Madonna di Pompei; la Madonna la guarirà, ed essa si convertirà. Ecco il momento di darle anche la figura della Madonna.
Se la protestante accetta l’Immagine, la conversione è certa. La Vergine di Pompei non starà inerte presso una protestante.
Detto fatto: traggo dalla borsa una Immagine della Madonna e gentilmente gliela porgo:
- Si compiaccia accettare anche questa piccola memoria. È l’effigie miracolosa della Madre di Dio, che opera prodigi a Valle di Pompei.
Miss Anneky, ancor più abbuiata in viso, la guarda; sta un momento in forse, le pare scortesia rifiutare, e accetta anche l’Immagine sibilando: - Grazie! – E subito interruppe: - Ah! Sento un male!... un male!...
Decisi: - ora che mi trovo, voglio pure parlare della Madonna. Questa signora di qui a poco chi sa in quale plaga delle Indie sarà dileguata, e forse non udrà mai più il nome della madre celeste. E poi, chi sa se dopo le mie parole costei, ripensandovi sopra, non si convertirà prima di morire? Oltre a ciò, nel giorno dell’universale Giudizio posso io esser chiamato da Maria cane muto, perché non ho avuto il coraggio di pur nominarla innanzi a una protestante, a una donna inglese?
Quindi, incalzando, e non curante delle occhiate di terrore della Contessa e della Signorina Cappella: - Signora, Lei dice che è ammalata e non trova rimedi umani ai suoi mali; ora si raccomandi a questa clementissima Madre, e ne otterrà salute, statene certa. Prometta alla Madonna …
Non lasciò finire. Al suono di queste parole la protestante, come scossa da una corrente elettrica, afferra la santa Immagine con ambe le mani, e scagliandola a terra con sommo disprezzo,
- Io? … - urla, verde di rabbia – io … raccomandarmi a questa donna? Io pregare questa donna? …
Sentii il sangue affluire alla testa. Era la prima volta in vita mia che avessi visto simile oltraggio fatto alla Immagine della madre di Dio. Inesperto allora a simili lot6te religiose, non seppi contenermi. Scattai come una molla, e piantando la faccia alla dama furibonda due pupille di fuoco:
- Signora, voi avete citato S. Paolo ed il Vangelo: e non si apprende dal Vangelo che Maria è la Madre di Gesù e che Gesù è Dio? E voi, Signora, osate…? Sì, a Maria, alla Madre di Dio dovete raccomandarvi voi, se volete la salute e la luce di Dio.
- Mai, mai a Maria mai, io! – gradava da forsennata.
- Solo Cristo, solo Gesù Cristo!
Sì, ma Gesù cristo concede grazie se non per Maria, intendete? Voi stessa mi citate il Vangelo. Bene, nelle nozze di Cana non fu Maria, che impetrò da Gesù il primo miracolo?
- No, no! Solo Cristo, solo il sangue di Cristo!
- Ma da Maria fu raccolto il sangue di Cristo ai piedi della Croce. Fu Maria data per Madre da Gesù spirante a tutto il genere umano; è quindi Maria la tesoriera di tutti i favori celesti! È Maria dopo Gesù, la nostra speranza; è Maria la regina delle misericordie; è Maria l’avvocata dei peccatori presso l’offeso suo Figlio; è Maria, è Maria.
- Oh Dio! Mi sento male!
La protestante tremava: si accasciò nel seggiolone come sfinita, con la spuma alla bocca, in preda ad una convulsione …
Tutto acceso in volto infilai la porta, e giù a precipizio fuori. Le donne, come sgomentate, appresso a me, brontolando non so quali parole.
Quando fui all’aperto, mi volsi indietro, ancora inorridito, a ruminare quella casa dove l’Immagine della Vergine di Pompei era stata oltraggiata …
6 – Arcane vie del Signore! (pag. 327)
E la Madonna che faceva in Cielo per l’offesa ricevuta in questa Villa? O miseri mortali ciechi che noi siamo! Dio tutto vede, tutto misura, e talvolta anche su questa terra premia, come castiga gli uomini conforme le loro azioni.
La SS, Vergine di Pompei nulla si tiene di quanto si opera o si offre per suo amore. Non passeranno molti giorni da questo fatto, ed Ella opererà un miracolo appunto su questa medesima collina di Posillipo, poco lungi da questa Villa …
Un doppio prodigio io aveva tanto desiderato per questa signora straniera, cioè la sua salute e la sua conversione, per cui aveva tanto pregato e tanto aveva fatto pregare; ma la Madonna non aveva voluto concederlo alla infelice protestante.
Ora dopo pochi giorni, Ella opererà uno dei suoi più splendidi prodigi, anzi precisamente un duplice prodigio, una guarigione e una conversione: la guarigione istantanea e perfetta di un figlio infermo, spacciato da tutti i medici; e la conversione del padre, colpito in pieno dalla luce soprannaturale.
Il fatto straordinario verrà narrato nel capitolo seguente.
Intanto vogliamo notare un’altra cosa mirabile: dopo ventiquattr’anni da questo giorno, la medesima villa, dove l’Immagine della Vergine del Rosario ebbe disprezzo da una protestante, avrebbe avuto nel suo seno incantato uno dei più belli e più ricchi tra i piccoli Santuari dedicati alla madonna di Pompei!
Quando finì la sua santa vita la signorina Angiola Cappella, la villa Baker passò in eredità a un suo nipote, il sig. Matteo Martinelli, devotissimo della nostra celeste Regina, giovane di elette doti morali, che aveva grande affezione a me, come l’ha tuttora, che io gli ricambiava e gli ricambio con eguale cuore. Frequentava egli in quei tempi la mia casa e il Santuario della Nuova Pompei.
In una notte della Sacra Veglia, in questo Santuario, Matteo Martinelli ebbe un’ispirazione. Senza saper nulla di quanto era avvenuto nella sua Villa fra me e quella donna straniera, (cosa che io aveva sempre taciuta), confidò a me la sua ispirazione.
- “Voglio fare dell’antica villa di Lucullo a Posillipo un piccolo santuario della Madonna di Pompei!”.
E così fece. Fin da quell’anno, 1902, il signor Martinelli, nella chiesina di quella villa di sua proprietà, poneva in grande culto la vergine di Pompei. Vi stabilì la pia pratica delle Quindici Domeniche in apparecchio alla solennità del Rosario di ottobre. Nel giorno poi della festa, ogni anno, invitava Vescovi, Prelati e Sacerdoti a celebrare colà la santa Messa; distribuiva duecento pani ai poveri; dava il pranzo a quindici poveri in onore dei Quindici Misteri del Rosario; ed egli stesso, i suoi parenti, gli amici, i Vescovi, i Prelati e sacerdoti presenti servivano questo pranzo ai poveri.
Anzi, nel maggio del 1922, il detto nostro amico, nell’incantevole antica villa di Lucullo, volle dare maggior solennità alla divozione della Vergine di Pompei, ponendo in venerazione in quella graziosa e ricca cappellina, un nuovo quadro della Madonna, dipinta in rame da un rinomato artista napoletano.
Così in quel luogo, dove fu vilipesa da una donna la soave effigie della nostra cara Madre divina, sorge, di fronte all’azzurreggiante mare del golfo di Napoli, un piccolo, ma bello e ricco artistico Santuario dedicato appunto alla madonna di Pompei!
E la santa zia del signor Martinelli, la piissima signorina Angiola Cappella, che ebbe il merito della buona volontà di far beneficare la nascente Opera Pompeiana dalla fiera protestante inquilina della sua villa, oh come godrà dal Cielo ora che la medesima villa è trasformata in un devoto Santuario in onore della venerata Vergine di Pompei! …
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo IX - Sulla collina fiorita di Posillipo e altro
Libro Settimo - pag. 329

Sulla collina di Posillipo – La sera dei 18 d’agosto 1878 – Nella famiglia del sig. Giuseppe Schettino – Edoardo Raffaele – La corona di brillanti della Vergine di Pompei – Quattro smeraldi da due Ebrei.
Venne da noi riferito nel 1° volume della Storia del Santuario come la prima grazia concessa in Napoli dalla Vergine di Pompei fu alla famiglia della pia signorina Anna Maria Lucarelli, nel febbraio del 1876, ad una delle sue nipotine cui faceva da madre, e propriamente alla piccola che aveva nome Clorinda.
Due anni appresso l’altra nipote, Laura andò sposa al signor Giuseppe Schettino, di Napoli.
La sera di domenica, 18 agosto di quel medesimo anno 1878, eravamo in Napoli. Si godeva un plenilunio sereno, incantevole. Una calca, una ressa di Napoletani e di forestieri occupavano tutte le carrozze, tutti i biroccini e tutti i tramvais, per correre a respirare, in così soffocante stagione, le fresche aure della verdeggiante collina di Posillipo.
La Contessa ed io divisammo di andare anche noi a Posillipo, non per desiderio di aria fresca, ma per trovar nuovi associati alla nascente Chiesa di Pompei.
Avevamo saputo che al Palazzo così detto “della Società”, poco in su del famoso Scoglio di Frisio, villeggiava il Sig. Giuseppe Schettino c0on la sposa e famiglia.
Eravamo certi di trovare in casa degli sposi molte persone; ed io portai meco la storica borsa piena di medaglie, di corone, di immaginette della Vergine del Rosario, e dei libri I Quindici Sabati, e la recente Lettera pastorale del Vescovo di Nola.
Quella sera, senza nostra saputa, nella casa Schettino si faceva una festa di famiglia.
Fummo ricevuti con grande cordialità, e introdotti in una vasta sala, dov’era convenuta molta gente eletta, parenti ed amici degli sposi, ma quasi tutti a noi ignoti.
A prima giunta mi si oscurò il cuore.
- Come uscire a parlare della Madonna di Pompei – pensai – fra tanta gente che non conosco?
Quand’ecco scorgo nel fondo della sala la signorina Mariannina Lucarelli con la nipote Clorinda, che ci vengono incontro a salutarci con amichevole sorriso.
- Oh! – ripresi subito rinfrancato: - ecco chi mi introdurrà a parlar della Madonna stasera! Donna Marianna Lucarelli, artista, pittrice, letterata, fervida devota della Vergine di Pompei: ecco che la Madonna ha trovato qui la sua apostola, che mi darà aiuto a parlare di Lei.
Si trovava lì anche un gentiluomo elegantemente vestito, a me sconosciuto, un signore dalla media statura, dai biondi baffi in volto rossigno, e manieroso assai ed affabile nei modi. Questi ad un tratto si appressa al nostro crocchio ove era Clorinda, e celiando andavale ripetendo, con un certo tono di galanteria:
- Oh come è fatta grossa e bella Clorinda! Veramente ha forma di bella giovane.
E mentre che la fanciulla, pudica e sdegnosetta, rivolgeva altrove il viso divenuto color di fiamma, io che aspettava il momento per cominciare a parlare della Vergine di Pompei, senza preamboli osservai sorridente a quel signore:
- Voi dite, Clorinda è fatta bella? Questo appunto attesta un evidente miracolo della Madonna di Pompei.
- Miracolo! – interruppe quegli con un sorriso d’incredulità. – E quale?
- Clorinda, che voi vedete – affermai – era epilettica, ed ora è sana per prodigio.
- Clorinda epilettica?! … (ripigliò l’altro con aria tra stupita ed incredula). Poi pensando che io dicessi così per celia, compose le labbra ad un sorriso d’ironia, e soggiunse:
- Oh questo non può essere! Ella è così florida!
Mi avvidi che quel signore non era facile a prestar fede ai miracoli; ma mi parve un animo aperto alla generosità e alla bontà. E però, per convincerlo, giudicai non potere essere più adatta se non la zia medesima di Clorinda: e, senz’altro, la invitai ad esporre a quel signore tutto l’accaduto.
La gentilissima donna Mariannina non si fece pregare la seconda volta, perché era usata dovunque andasse, per devota riconoscenza, di far palese la grazia ricevuta dalla Vergine di Pompei a favore della diletta nipote. E senza indugio cominciò a narrare tutta per ordine la storia degli affanni passati, e all’origine del terribile morbo, e delle cadute mortali e sanguinose della nipote, e dei suoi palpiti continui, e delle agitazioni della famiglia, e dello stato miserevole in cui restava la fanciulla dopo il parossismo, sino all’ultima volta – il 2 febbraio del 1876 – in cui la trovarono col capo nella secchia, vogliosa di bere.
Quel signore pareva trasecolato. Ma quando si giunse a citare i nomi dei valenti medici che l’avevano spacciata per epilettica, tra i quali il chiarissimo professor Cardarelli, il suo volto in prima si fece scuro, poi impallidì; ed ora guardava Clorinda, ed ora la narratrice, quasi titubante ancora a prestar credito a quel che udiva e a quel che vedeva con gli occhi suoi.
Seppi allora che quel signore si chiamava Rosario Raffaele, ed aveva il figliolo, Edoardo, da lungo tempo infermo, e senza speranza di vederlo guarito. Seppi pure che, quantunque non concedesse fede ai miracoli, pure con animo sincero soleva dire ai suoi amici: - Vorrei vedere un miracolo per essere convinto, ed io crederei.
Quando l’affettuosa zia narrò il modo semplice onde la nipote aveva ottenuto il miracolo dalla Madonna, con lo scriverne cioè il nome al libro delle offerte per la nuova Chiesa di Pompei, e con il consegnare alla collettrice Contessa De Fusco l’annuale offerta di benefattrice, lire sei, come caparra di quel che avrebbe fatto se avesse ottenuto la grazia; quel signore, sensibilmente, commosso, più non seppe contenersi, e, compreso da una fede nuova, semplice e sincera:
- Che cosa ho a fare io – domandò – per avere anch’io un simile prodigio? Insegnatemi voi il modo onde avere un miracolo, acciocchè salvi il mio Edoardo! … Anch’io voglio dare la mia offerta di lire sei anticipate per tutto l’anno, come caparra di quel che prometto se avrò la grazia … A chi debbo dirigermi?
- Qui è il cassiere – entrò in mezzo a parlare il signor Schettino, additando me.
E l’altro, - Ecco – prosegue risolutamente, volgendosi a me: - questa è la mia elemosina di lire sei per la nuova Chiesa: da questo momento v’iscrivo mio figlio … Che altro ho io da eseguire per ottenere il miracolo?
Compresi allora allora che quel signore non aveva né pratica né cultura di Fede, perché mostrava credere che col dare un’offerta si potesse ottenere un miracolo. Mi accorsi tuttavia che conservava l’abito della Fede, quantunque non la praticasse. Insomma, si mostrava docile al movimento della divina grazia, non era di quei superbi che chiudono il cuore e la mente alla voce di Dio. E però dolcemente gli risposi: - Non si chiede altro se non di aver fede. Promettete alla SS. Vergine di andare a ringraziarla nel dì della sua festa in Pompei il 13 ottobre prossimo, di pubblicare la grazia e di offrir un soldo al mese per la sua Chiesa, come testimonianza che da Lei avete ricevuto tal celeste favore.
- Sta bene: se avrò questo miracolo, so bene io quel che mi aspetta di fare.
- Ma vi è ancora un’altra cosa da praticare – ripresi subito: - E quale?
Oltre la fede bisogna la preghiera. Il fanciullo, o almeno la famiglia deve in questo tempo recitare il Rosario alla SS. Vergine. Con il Rosario si ottiene tutto: è promessa di Maria fatta va S. Domenico. E questa Chiesa di Pompei sorge con il titolo del Rosario. E la SS. Vergine opera dei prodigi, per rinnovare l’affetto dei cristiani al Rosario di S. Domenico, in molti raffreddato.
Per buona ventura quella sera il sig. Raffaele aveva condotto seco il figliuolo infermo. E lo fa subito chiamare per presentarmelo.
Povero Edoardo! A undici anni e mezzo com’era sparuto! Il volto dal colore di cera, il petto e le spalle leggermente incurvate, le braccia e i polsi delicatissimi, tutto significava al primo aspetto la consunzione! ... Da undici mesi una fiera ed ostinata dissenteria sanguigna lo cruciava più volte il giorno. E da un anno più non digeriva. I professori Cardarelli, Amabile, Olivieri, Morisani, Biondi, Frusci, Somma e quanti vi erano principi nella scienza medica in Napoli, tutti erano stati consultati. Quanti trovati ha l’arte salutare, tutti erano stati sperimentati: Igiene rigorosa, aria campestre, sistema allopatico, metodo omeopatico … tutto inutilmente! L’esperto chirurgo professore Olivieri opinava si fossero nei visceri delle fungosità. L’altro egregio chirurgo prof. Frusci, ritenendo essere nell’intestino retto delle granulazioni, aveva adoperato, oltre a molti astringersi, anche le iniezioni del nitrato di argento. Niun vantaggio! Di giorno, di notte, non vi era più argine al sangue, non più riposo al languente infermo, non più speranza o conforto alcuno ai desolati genitori.
Di già il prof. Olivieri aveva dato la decisa e ferale sentenza: - Non vi lusingate – aveva egli replicato al padre di Edoardo – una sola operazione resta a sperimentare: aprirgli il retto, e con la pietra infernale causticare le piaghe dell’intestino.
Orribile solo a pensarlo! I giorni passavano, e con essi lentamente estinguevasi la vita dell’amato fanciullo.
Soltanto due occhi neri, soffusi di un mesto languore, ma adorni del lume di un’attraente innocenza, riflettevano, come specchio, la bellezza di un’anima battezzata.
Come fu presso di me il piccolo infermo, - Edoardo! – gli domandò – vuoi tu guarire? Il ragazzo spalanca gli occhi neri e belli, guardandomi meravigliato.
- Ti do questa immagine della Vergine del Rosario che si venera a Valle di Pompei; ponila sul tuo petto. Essa ti sanerà. La bacerai il mattino e la bacerai la sera, salutandola con l’Ave Maria, e soggiungerai ogni volta: - Madonna mia, se tu mi farai star bene, io ti verrò a ringraziare nel giorno della tua festa di ottobre in Pompei. – Lo farai?
- Sì, lo farò – rispose malinconicamente Edoardo, affissando in me i suoi grandi occhi ed ascoltandomi con tutto l’animo.
- Ancora, - ripresi subito – reciterai cinque poste di Rosario ogni giorno.
- Io non so dire il Rosario.
- Ora te lo insegno io.
E tratta dalla mia borsa una Corona, lo venni in breve ammaestrando, con grande attenzione e desiderio del fanciullo.
- Ma io non ho la Corona; ne vorrei una bella; me la dareste voi? – chiede con infantile semplicità Edoardo.
- Eccola, una bella e benedetta dai Padri Domenicani. – E gliela porgo.
- Vorrei pure un crocifissetto da pormelo al collo; io non ho nulla addosso.
- te lo porterò domani. Prometti di dire ogni giorno il Rosario alla Madonna?
- Sì; anzi lo dirò di mattina, affinchè la sera non mi venga il sonno.
Ed un sorriso bello, innocente, sfiorò le labbra smorte del fanciullo. Leggero color di rosa gli tinse per un istante le pallide guance; e preso da grande giubilo egli esclamò volgendosi alle sorelle: - Io ho una bella corona! E dirò sempre il Rosario! E andrò a Pompei a ringraziare la Madonna in ottobre! …
1 – La mano della Celeste Regina (pag. 336)
Passò quella notte. Il giorno seguente Edoardo baciò la venerata Immagine, la salutò con l’Angelico Saluto, e le ripetè la confidente promessa:
- Madonna mia, se tu mi farai star bene, io ti verrò a ringraziare a Pompei nel giorno della festa di ottobre!
Tenerissimo tratto della protezione di Maria! Edoardo era repentinamente mutato! Egli era perfettamente sano! Le ulceri, le piaghe, i funghi dell’intestino erano spariti come per incanto! ...
Le medicine e gli apparecchi, che in un grosso pacco gli erano stati apprestati da suo padre sin dal giorno innanzi, non erano pure stati svolti.
Nessun rimedio si era adoperato in quel giorno. L’unico espediente era stata la fede nella Vergine del Rosario di Pompei.
Il padre del miracolato fanciullo non sapeva ancora aggiustar fede a ciò che vedevano i suoi occhi e toccavano le sue mani, alla improvvisa riacquistata salute del diletto Edoardo. Era come fuori di sé: sentiva una prepotente brama di predicare a tutti quel prodigio avveratosi nel logoro organismo del figlio, risorto come a vita novella per virtù evidentemente soprannaturale.
Quel mattino stesso da Portici, ove trovavasi con la famiglia a villeggiare, si recò in Napoli, al gran Caffè d’Europa, in piazza S. Ferdinando, il primo caffè della capitale del Regno delle due Sicilie, in cui erano soliti convenire i nobili della città e i giovani che menavano vita elegante. Lì era sicuro di rivedere gli amici e conoscenti della sera innanzi, a cui rivelare il gran fatto; e si mise ad aspettarli.
Non tardò molto ed ecco farglisi attorno un crocchio di giovani, tra cui Giuseppe Schettino e Francesco Farnararo, fratello della Contessa De Fusco.
- Sapete voi? – esclama con accento entusiasta Rosario Raffaele – mio figlio Edoardo, in un momento è risorto a nuova vita, dopo aver fatto una breve preghiera alla Vergine di Pompei, conforme gl’insegnò quel … quel prete spogliato che venne ieri sera al Casino, e che distribuiva figure della Madonna.
- Che prete spogliato! – interruppe Schettino – quegli è un Avvocato, tanto intimo di Francesco Farnararo.
- No, no; - ribattè Rosario – io dico di quel prete spogliato che diede una figurina a mio figlio e una corona, e gl’inculcò di pregare la Madonna per guarire, ieri sera lì, in casa tua.
- Precisamente – risposero a coro Farnararo e Schettino: - quegli è l’Avvocato Bartolo Longo. Povero Raffaele! Gli sembrava assai strano che un avvocato potesse farsela con Santi, Madonne e Rosari.
- Ma quello che sia, sia – continuò, - voi sapete che è successo?
Mio figlio Edoardo ha pregato quella Madonna, l’ha invocata con non so quali parole che gl’insegnò quell’Avvocato, ha baciato l’Immagine con devozione, ed è guarito! … Guarito, capite! … in un istante! … Non ha più nulla! … Questo è un fatto che se non si chiama miracolo, io non so come chiamarlo! Io vorrei ora vederlo quell’Avvocato.
- Glielo farò subito sapere io questo fatto a Bartolo Longo – promise Francesco Farnararo – ed egli si porterà certamente da voi, in casa vostra, per vedere il fanciullo guarito che testimonia un miracolo della sua Madonna.
E non tardò Francesco a recarsi da noi per narrarci l’accaduto. Si può immaginare quali fossero i nostri gridi di gioia per questo nuovo prodigio che la SS. Vergine del Rosario operava in Napoli, quasi a dimostrare che gradiva le nostre fatiche per erigerle un Tempio a Pompei! …
Tre giorni dopo ci recammo in casa del signor Rosario Raffaele per vedere il graziato fanciullo, e facemmo allora conoscenza con tutti della sua buona famiglia, con la madre e le signorine sorelle, ricolme di gioia per l’avvenuto portento della guarigione del loro Edoardo. Il padre fece promessa di condurre il fanciullo nella festa prossima dell’ottobre a valle di Pompei per ringraziar la Madonna e donarle un diadema d’argento.
Il 13 ottobre di quell’anno 1878 celebrammo la festa del Rosario, fra le mura della nascente Chiesa. L’Immagine taumaturga, non ancora ritoccata dal Maldarelli, nuda e disadorna e poco attraente stava allora nell’angusta cadente chiesa parrocchiale del SS. Salvatore, demolita poi per ragione di sicurezza pubblica; ed era stata collocata temporaneamente sul piccolo altare di S. Francesco d’Assisi.
Venne, come promise, il Sig. Raffaele con il risanato Edoardo, e mi portò il diadema d’argento con un cuoricino anche d’argento. Fu il primo dono che ebbe la Madonna per adornare la sua tela.
Accompagnai il padre e il ragazzo nella cadente chiesuola per far loro recitare innanzi alla prodigiosa Effigie della SS. Vergine una preghiera di ringraziamento.
Quella corona piana di argento donata dal signor Rosario Raffaele mi diede occasione, nel giorno dell’Assunta del seguente anno 1879, di fare una festa intima d’incoronazione della Madonna.
E la Vergine mostrò di gradire questa piccola corona, testimone di un suo prodigio, e umile dono di filiale affetto.
Di fatto, dopo tre anni, (nel 1881) avvenne in quella chiesuola un furto. Di notte, ladri ignoti (e ve n’erano parecchi allora in queste campagne), scassinarono la fragile porta e rubarono tutto quel poco che ci era di prezioso, cioè la pisside, gettando a terra le particole consacrate, e i piccoli ex voto di argento che erano sospesi all’altare di S. Francesco e alla statua dell’Addolorata, e poi misero i piedi lordi di fango sulla mensa dell’altare con la sacrilega mira di strappare dall’Immagine della Vergine del Rosario quei due oggetti preziosi che l’adornavano.
Ma la Madonna difese quei primi doni ricevuti. Alla parte superiore della cornice del quadro, era adattato un ferro, lungo il quale, mediante anelletti scorrevoli, si stendeva un velo di seta per coprire l’Immagine. Il mattino seguente trovammo il ferro contorto, il velo strappato, - segno evidente della violenza che quei furfanti avevano usata – ma la corona intatta e il cuoricino al suo posto! …
Che cosa videro o sentirono i ladri, per essere distolti dall’empio attentato, nel momento che avevano stesa la sacrilega mano sul quadro della vergine? Perché quei malandrini non presero la corona dalla fronte della Madonna e il cuoricino dal suo petto? …
Il nascente popolo pompeiano gridò al miracolo, e la Madonna mostrò evidentemente di aver caro quel primo diadema di amore riconoscente!
2 – Quali furono gli effetti della grazia al fanciullo Edoardo? (pag. 341)
Due mirabili effetti – e furono duraturi – rifulsero dalla prodigiosa guarigione del fanciullo Edoardo Raffaele. Quella grazia, che operò il cuore clemente della regina del Rosario, fu come un vivissimo raggio divino, che fece brillare la Fede nel padre del fanciullo, e divampare vieppiù la carità di Giuseppe Schettino e di tutta la sua famiglia.
Rosario Raffaele, come innanzi abbiamo fatto notare al lettore, era uno di quei tanti così detti indifferenti in materia di Religione. Non già che non avesse addirittura la fede in Dio e nella Religione cristiana e cattolica, ma era di quelli che non praticano la fede, onde la dissuetudine dalle pratiche del culto e dalla frequenza dei Sacramenti li fa peggio che increduli, fa illanguidire in loro quel lume celeste della Fede infuso col santo Battesimo, e li fa vivere del tutto immersi negli affari e negl’interessi materiali senza un pensiero per la morte e per la salvezza dell’anima.
Abbiamo pure accennato alla grossolana idea che si era fatta della Religione, per cui bramava vedere un miracolo per credere in Dio! Ma ripetiamo qui ch’egli era di buona indole, e di animo generoso. E la Madonna volle conquistare a sé e conquidere questo bel cuore, con un raggio della sua onnipotente misericordia, operando la insperata guarigione di un essere a lui tanto caro, del figliuolo Edoardo!
Dopo questo prodigio, Rosario divenne l’intrepido predicatore di Maria e delle Opere Pompeiane. Come fuori di sé per la gioia, non lasciava di raccontare dovunque trovavasi, fino tra amici più increduli e beffardi, di aver veduto un miracolo in pieno secolo decimonono, di aver acquistato come per incanto il suo diletto Edoardo, e di credere indubbiamente ai prodigi della vergine del Rosario di Pompei!
3 – Giuseppe Schettino (pag. 342)
Il nostro amico Schettino poi aveva avuto un’altra prova luminosa, evidente, della potentissima intercessione della Madonna di Pompei. La constatava egli medesimo, coi suoi occhi! Vedeva Edoardo, guarito completamente dopo che in una casa, la sera innanzi, noi l’avevamo esortato a pregare la vergine di Pompei! Chi può dire il rinnovato fervore di pietà che infiammò l’animo buono del nostro Peppino?
A distanza di oltre quarant’anni, oggi che egli ci ha preceduti nel regno dell’Eternità, oh come ricordiamo con tenerezza quel dolcissimo amico nostro di quei giorni lontani!
Giovane elegante, di forme complesse, viso serio d’un simpatico bruno, di poche parole, Giuseppe Schettino aveva un cuore di oro. Gustava le opere d’arte, e deliziavasi di conversare con i migliori artisti, pittori e scultori di Napoli.
Dopo questo fatto straordinario, avvenuto quasi in casa sua, rimase così devoto alla Vergine di Pompei e a me affezionato, che qualunque carità o opera buona io gli proponessi, egli subito accettava, lieto di offrirmi largo contributo.
Una volta, nel parlargli di un’Opera nuova da fondare a Valle di Pompei, ricordo che esclamò, con un paragone naturale a uomini di commercio:
- Mi sembri una macchina! … che gira sempre e caccia fuori e produce sempre! …
Spesso con sorriso amichevole domandava egli a me se c’era da fare qualche opera buona, qualche bella carità! …
4 – La Corona di brillanti della vergine di Pompei (pag. 343)
Nove anni dopo la grazia di Edoardo, (nel 1887), volemmo incoronare solennemente l’immagine della nostra Madonna con un prezioso diadema formato tutto di brillanti. E a chi meglio potevamo affidare i brillanti raccolti, se non al carissimo amico Peppino Schettino, sia per l’intemerata coscienza, e sia per la sua singolare competenza in siffatti lavori?
Mi valgo oggi di quest’occasione per rammentare un fatto che fa onore al generoso estinto.
Mancava alla base del diadema un filo di pietre preziose che non avevano ancora, e volle egli regalarci questo filo, formato tutto di rose d’Olanda (piccoli brillanti purissimi).
E così tutta contesta di brillanti quella magnifica corona, tanto ammirata, con la Contessa fu prima da noi portata in Roma a Papa Leone XIII per farla benedire, e poi l’8 maggio del 1887, venne deposta solennemente sull’augusta fronte della Regina del Rosario di Valle di Pompei dall’E.mo Cardinale Monaco La Valletta. Delegato dell’immortale Pontefice. Era avvenuto poco prima un altro fatto bellissimo che torna anche a lode del compianto amico.
Meravigliava tutti il coraggio con cui Peppino parlava ovunque della Madonna di Pompei: egli soleva presentarmi ai suoi amici e conoscenti come l’araldo dei suoi miracoli.
5 – Gli smeraldi di due Ebrei (pag. 344)
Una sera, mentre si preparava la predetta corona di brillanti sotto i suoi occhi e la sua direzione, andai a lui per sapere che altro ci bisognasse. Egli era a pranzo con la famiglia e con forestieri. Nell’intimità fraterna che intercedeva fra noi, mi fece subito entrare nella sala. C’erano tra gli altri alla mensa, due signori francesi e le sorelle di Edoardo Raffaele, testè venute da Parigi.
Peppino, prendendomi affettuosamente la mano, mi sussurrò all’orecchio:
- Ora ti presento a questi due forestieri, che sono Ebrei, forti commercianti di pietre preziose. Io portava sotto il braccio un bel ritratto della Madonna di Pompei, chiuso in elegante cornice di velluto, da donare a lui e a Laura sua consorte. Quando intesi “Ebrei” dissi fra me: - Addio! Ho perduto la serata! E chi ha il coraggio di parlar della Madonna, e molto meno di chiedere un brillante a due Ebrei? E rimasi con l’involto chiuso per non turbare il pranzo a questi stranieri. Ma il nostro amico, con un coraggio veramente apostolico, che gli veniva dall’evidenza del miracolo avvenuto quasi nel senso della sua famiglia, senza ombra di titubanza o di esitazione, con naturalezza, disse in francese a quei signori: - Vi presento l’Avv. Bartolo Longo, che sta costruendo una Chiesa presso gli Scavi di Pompei, in onore della vergine del Rosario …
- In onore di una vostra connazionale – interruppi io per scemare una possibile impressione ostile – di quella gran Donna che noi Cristiani chiamiamo Maria e voi Ebrei chiamata Miriam. Eccola. E aprii subito l’involto che racchiudeva il bel ritratto della vergine Pompeiana in miniatura eseguita dal fotografo Pesce. E presentiamo loro l’Immagine.
Credei di aver in questo modo smorzato una cattiva impressione, deviando la mente alla vista del ritratto. Ma il mio amico Peppino, senza darsi briga di questi miei meschini trovati, con la sua imperturbata franchezza, continuò,
- Si costruisce questa Chiesa per tanti miracoli e grazie che si ottengono mediante questa divozione. E sapete voi chi è vivo per un miracolo della Vergine di Pompei? Edoardo Raffaele.
- Edoardo!? Possibile? … - esclamarono stupefatti quei due Signori.
Che cosa era accaduto? Per un tratto misterioso di Divina Provvidenza, inscrutabile ai nostri occhi mortali, Rosario e suo figlio Edoardo vivevano già da qualche anno a Parigi, con la famiglia, dopo il matrimonio della figliuola Enrichetta col sig. Henry Gilet. Essi erano intimi di questi signori Ebrei, che si chiamavano l’uno Henry Kaminker, l’altro Jacques Sloag.
E Peppino raccontò tutto il fatto accaduto in casa sua la sera del 18 agosto 1878.
Quei signori, come sbalorditi, ora guardavano Peppino ora le sorelle di Edoardo.
Non potevano neppure lontanamente sospettare una burla, perché conoscevano bene Edoardo, e neppure, come Ebrei, potevano credere a miracoli per intercessione di Maria.
Uno di quelli, acceso in volto, so volse alla sorella di Edoardo che era al suo fianco, e con galanteria tutta francese: - E voi pure credete a questo miracolo di Edoardo? – Sì, sì – risposero a coro le due sorelle. – Siamo noi testimoni. E così raccontarono il resto del fatto prodigioso avvenuto il giorno seguente a Portici, dove stavano a villeggiare. Il nostro Peppino, con maggior coraggio, insistè: - Questo signore, Avv. Bartolo Longo, va in giro in cerca di brillanti per compire una corona da porre con rito solenne al Capo della Immagine Pompeiana.
Volete anche voi offrire qualche pietra per finire il prezioso diadema?
Quei due israeliti non dissero parola, ma misero mano in saccoccia, ne trassero un portafogli e da esso cavarono fuori quattro finissimi smeraldi, e li porsero a Peppino.
E Peppino li fece subito incastonare nel diadema, e alla fine di quel mese di aprile 1878 ci recammo a Roma a mostrar la corona al Papa Leone XIII, e facemmo a Lui osservare anche le quattro pietre preziose offerte da due figli dell’antica Israele.
E così oggi sulla corona preziosa della Vergine di Pompei, rifulgono quattro smeraldi donati da due Ebrei!
Dopo questi fatti non fa punto meraviglia che tutta la casa Schettino, e, dopo la sua morte, la vedova consorte tuttora vivente, e i loro figliuoli con le loro rispettive famiglie siano stati sempre tra i primi devoti della Vergine di Pompei e tra i principali benefattori di queste Opere di Carità.
Di già i tre suoi figliuoli, Carlo, Mario e Alfredo, volle Peppino che io tenessi a cresima. E l’ultima lettera, di data recentissima, che mi scrive uno dei tre miei figliocci, Alfredo, termina con queste tenere e belle parole, che a me sembrano degna chiusura del presente racconto di fatti straordinari e divini, onde s’ingemma la primitiva storia del Santuario di Pompei.
“Mamma ricorda con immensa tenerezza quegli anni, e tutti noi seguiamo con molto interesse e commozione quanto andate pubblicando nel Periodico che è la storia della nostra infanzia, quando le nostre anime si andavano plasmando nella fede della Vergine di Pompei, divenuta il baluardo dei nostri sentimenti”.
Napoli, 17 giugno 1923
  Il vostro figlioccio
ALFREDO SCHETTINO

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo X - Come venne introdotta la devozione alla  Vergine di Pompei a Lecce
Libro Settimo - pag. 348

Come venne introdotta la devozione alla Vergine di Pompei in Carovigno, Ostumi, Manduria e altre città della provincia di Lecce
Nel settembre di ogni anno io ero usato andare a rinfrancare le forze nel mio paese nativo “Latiano”, provincia di Lecce. Quell’anno, veduta la felice riuscita delle mie peregrinazioni e della propaganda fatta nelle Puglie due anni innanzi, massime in Francavilla Fontana e in Mesagne, divisai di continuare questo mio apostolico giro per altri centri popolosi
I giorni della mia villeggiatura erano pochi, le ore contate; quindi, studiavo il modo come suscitare da una sola mia visita in una città un incendio di divozione che divampasse in altri paesi.
L’esperienza della vita mi aveva insegnato che ad ottenere questo effetto, non vi era mezzo migliore se non scegliere un monastero femminile come centro d’irradiazione di propaganda, giacchè le monache hanno molteplici relazioni con le proprie famiglie, con i Confessori e con le famiglie di costoro, e con altre Case Religiose sia del proprio Ordine, sia di altri Istituti. Siffatta prova ebbe poi splendidi risultati soprattutto in Roma, in Genova e in altre grandi città, come vedremo in appresso.
Andava, dunque, pensando a un monastero femminile, dove avessi potuto accendere la favilla della nuova divozione alla vergine di Pompei, da svilupparsi in gran fiamma.
In quei giorni si trovava a Latiano mia sorella Rosa, di santa memoria, e mi parlava con trasporto delle Monache di S. Benedetto in Ostuni, che erano state sue educatrici, e che essa andava a rivedere ogni anno.
Mi contava ancora la grande stima che il nostro genitore aveva di quel Monastero; ed io ancora ricordava che in piccola età aveva accompagnato più volte mio padre alla visita delle Monache di S. Benedetto.
E però avrei dovuto essere sicuro che una mia visita fatta dopo tanti anni, sarebbe riuscita assai gradita, come di un Avvocato, fratello di una loro discepola e figlio di un antico loro amico e benefattore, che per giunta si presentava ad essere come un propagatore della divozione del Rosario; ed avrebbero certamente prestato fede a ciò che io potevo dire di straordinari prodigi operati dalla vergine di Pompei, senza tenermi per un ciarlatano. È vero che in quella nobile e antica città di Ostuni noverava amici particolari della mia gioventù, come il Marchese Mario Zaccaria, e la famiglia di Colomba Martinelli Zaccaria, la famiglia Trinchera, quella di Ayroldi, Carissimo, Tanzarella ed altre; ma non c’era molto tempo da visitare tante case in un giorno solo, dacchè da Latiano a Ostuni non essendovi ferrovia, bisognava viaggiare in vettura per lungo tratto che passa fra i due paesi.
Stabilì perciò di andare diritto al Monastero di san Benedetto come a centro della mia propaganda.
E un bel mattino di quel settembre 1878, riempita la solita mia borsa di immagini, oggetti divoti e libri della Madonna di Pompei, in una vettura a due cavalli, partii da Latiano accompagnato dal mio fedele amico anzi vero mio angelo custode, prof. Vincenzo Pepe.
1 – In Carovigno (pag. 350)
Il primo paese che s’incontrava per questo viaggio in vettura era Carovigno, la patria del piissimo Padre Maresca, barnabita, il grande propagatore della divozione del Cuor di Gesù in Italia, mio intimo amico, che a quel tempo si trovava a Roma.
- Fermiamo un momento qui -  dissi al professore Pepe – perché ci ho parenti coi quali sono legato da vincoli di grande affetto.
I loro nomi dopo quarantacinque anni risuonano ancora carissimi al mio cuore: - Diomede Del Prete – Irene Del Prete, padre e figlia allora giovanissima, discendenti da una mia zia Irene Longo, di Latiano, sorella del mio genitore.
Non arriviamo a ritrarre la festa che ci fecero quelle anime buone, aperte, sincere insieme con altri abitatori di quella graziosa cittadina, bella, aprica e rigogliosa. Mi ricordai del verso del Tasso: La terra – simili a sé gli abitator produce.
I cittadini di Carovigno andavano così alteri della bellezza del loro paese, che lo chiamavano enfaticamente Napolicchio (piccolo Napoli); ed io fui astretto, (malgrado le gomitate dell’amico mio per darmi fretta) a camminare a piedi per osservare e ammirare le naturali bellezze della cittadina, fino a una collinetta, dove si respirava aria sanissima, e donde si spianava all’occhio un esteso panorama, che faceva ricordare la collina di Posillipo di Napoli; solo che, invece del mare a piedi, si stendeva a perdita d’occhio, una pianura ricca di oliveti e di vigneti carichi di uve già mature, lussureggianti di vegetazione e di vita.
Naturalmente a Carovigno costituii come primaria Zelatrice la Sig.na Irene Del Prete, che da quel giorno divenne una delle più costanti e delle primarie Zelatrici di tutta Italia, e vive tutt’ora. Così vuotai una parte della mia storica borsa delle divozioni.
2 – In Ostuni (pag. 351)
Come potemmo a stento svincolarci dalle affettuose premure di amici e di congiunti, ci rimettemmo in vettura per seguire il viaggio sino a Ostuni direttamente al Monastero di S. Benedetto.
Il nostro arrivo mise le suore in festivo movimento. Subito mandarono a chiamare il loro amministratore, per farci i convenevoli, per tenerci compagnia alla visita di qualche famiglia, e anche al desinare d’occasione.
Le monache scesero tutte in parlatorio, ove si trovavano anche altre persone, ed io senza perdere tempo mi misi a narrare delle origini del Santuario di Pompei, dei primi miracoli fatti dalla madonna, e di tutta la meravigliosa storia che già si delineava come opera di Dio in onore di sua Madre sulla terra, un dì pagana e insino ad oggi abbandonata plaga, nel Campo Pompeiano.
Fra quelle religiose c’erano di quelle vecchissime, che avevano educato mia sorella, e si ricordavano di mio padre. La grata impressione e l’entusiasmo che ebbi la ventura di suscitare in quel Monastero per la Vergine di Pompei superarono le mie aspettazioni, onde in breve tempo, senza io fossi andato per le singole famiglie a chiedere offerte e iscrizioni, ne fu piena la città e commossa per la lieta novella. Da quel giorno non è mai scemata in Ostuni la devozione alla Vergine del Rosario; in quasi tutte le famiglie si recita la Corona, si praticano i Quindici Sabati nelle Chiese e si recita la Supplica nelle due solennità. Si sono ottenute colà da molti devoti grazie segnalate dalla nostra Madonna, e vi sono numerosi ascritti e benefattori per queste Opere di beneficenza Pompeiana.
Quella sera facemmo ritorno a Latiano con grande letizia di spirito, lodando il Signore della bella giornata trascorsa tutta in lode della Vergine gloriosa nostra Protettrice; e narrammo ai nostri congiunti ed amici le affettuose e indimenticabili accoglienze ricevute tanto in Carovigno quanto in Ostuni.
- Che giornata trionfale! … - osservai al mio amico: - tutto ci è stato propizio, nessuna contrarietà o amarezza.
- Non dubitare – rispose il mio mèntore – per le amarezze vi è sempre tempo. Ricordati dell’ammaestramento che ci dà il Da Kempis: “nei giorni di dolore confortati, perché verranno finalmente le ore di letizia; ma quando sei nella letizia, sta sull’avviso, che son prossimi i giorni di dolore”.
3 – I grandi apparecchi di Manduria (pag. 352)
Altro giorno mi levai da letto, risoluto di correre per altre città, ed arrecare la lieta novella dei miracoli della vergine di Pompei e dilatare l’incendio della nuova divozione.
Alla mia mente si presentò il nome di Manduria, città ricca di famiglie nobili, cospicue per censo e di gran cuore, e dove erano antichi miei amici. Ma ignoravo che vi fosse qualche Casa di Monache, dove soffermarmi, prendere un breve riposo, e farne un centro di propaganda.
Tutto il giorno ruminai su questo divisamento. A sera ne parlai al compianto mio fratello Alceste.
Vi era presente sua moglie Anna Fuortes, che all’udire il nome di Manduria saltò su a parlare: - A Manduria? C’è mia zia A*** A*** una delle più ricche signore del paese, generosa, larga di ospitalità, che accoglie in sua casa tutti i parenti e gli amici che vanno a Manduria. Essa sola potrebbe fare il tempio di Pompei.
- Ma, oltre di zia A*** - continuò mio fratello con la sua consueta imperturbabile calma – hai dimenticato che noi a Manduria abbiamo amici nobili e ricchi signori come i fratelli Schiavoni, Tommasino e Girolamo? E il loro cugino Giovanni, a te tanto devoto? Se pure non ci fosse zia A*** costoro farebbero una festa a vederti, e farebbero a gara chi potesse ospitarti.
- Oh sì – risposi io meditabondo – ricordo anche altri amici: Achille Pasanisi, mio affezionatissimo, che ogni volta che viene a Napoli, non lascia di visitarmi anche a Pompei.
- Ma … non vi è bisogno di alcuno – insisteva mia cognata: - zia A*** vale per tutti. Bastò questo per determinarmi a fare il viaggio di Manduria. Mi confortava un altro pensiero. In quel tempo era a Manduria un dotto e santo passionista, P. Francesco Saverio De Santi, che, per via provvidenziale, stava ivi costruendo un Ritiro per Passionisti. Nome venerato nella famiglia di S. Paolo della croce, il P. Francesco Saverio era stato compagno del Beato Gabriele Dell’Addolorata, e morì a Roma Generale dell’Ordine.
Questo venerando Passionista aveva scelto per confessore, allorchè mi allontanava da Napoli per andare nelle Puglie.
Sin da quel tempo io era sofferente ai visceri, e non poteva far uso di cibi comuni; quindi, per prudenza, soleva portare con me qualche pollo, soprattutto quando dovevo andare in passi ove non era certo di trovar carne per un po’ di brodo o per arrosto. E pregai mia cognata di fornirmi di questa piccola provvisione.
- Oh! no, no! – ripetè essa meravigliata. – Lì c’è la zia A***; ti farà apparecchiare un lauto pranzo! … Te lo assicuro io.
Ubbidii … Il mattino seguente, insieme col mio fedele Prof. Pepe, montai in vettura, e via per Manduria, non portando altro che una sacchetta con la mia mutanda e una borsa di divozione della Madonna assai più gonfia del solito, perché in quella città, come è detto, oltre la ricchissima zia, dovevo vedere amici di antica data e famiglie nuove, ed era più che certo di raccogliervi una ricca messe.
4 – In Oria (pag. 354)
La via da Latiano per Manduria è dal lato opposto a quella per Ostuni, cioè a mezzogiorno, e la prima città che s’incontra è Oria, sede vescovile della Diocesi, vetusta, storica città, che ai miei tempi conservava ancora una delle sue porte, le torri e parte delle mura antiche rimontanti al Medio Evo all’epoca di Federico Barbarossa.
In Oria non era bisogno sostar molto per farvi propaganda: l’Opera di Pompei ivi era già conosciuta fin dai primordi, perché ogni volta che andava a villeggiare a Latiano, ai quali svelava l’animo mio e narrava i primi prodigi dell’Opera nascente.
Le mie parole cadevano sul più propizio terreno, essendo quella piccola e patriarcale terra un luogo benedetto da Dio, abbondante di persone ricche di fede e di zelo.
Quanti parenti e quanti amici! Ma ora tutti, salvo qualche piccola eccezione, dormono nel breve cimitero, mentre è vivo nella mia mente il ricordo della loro soave e rara bontà di vita cui si associa la speranza di vederli tutti lassù.
In Oria erano i miei amati e venerati zii Francesco De Angelis e sua moglie Raffaela Longo, sorella di mio padre, Anime a Dio dilette, perché arricchite in terra delle sue benevolenze e dei doni singolari che sul dare ai santi, cioè – tribolazioni senza nome e senza numero: - esilio, prigionia, desolazioni per mutamenti politici, abbandono di amici, persecuzioni, distrette ed altro ben di Dio che il mondo falsamente chiama mali, ma che sono alla luce della fede, veri beni, radici di tesori ineffabili che assicurano la felicità e la gloria terrena.
Un esempio da imitarsi, massime in questi tempi; Raffaela Longo madre di numerosa prole, tra le varie e sode divozioni, aveva caratteristica quella a Gesù in Sacramento. Nel colmo dell’estate, nelle terribili ore canicolari, quando nei piccoli centri del Mezzogiorno d’Italia s’impone la sosta da qualsiasi lavoro e un po’ di necessario riposo, in quelle ore bruciate e silenziose ella – la moglie dell’esiliato, - usciva di casa senza compagnia e si recava al Duomo. E lì sola, nel silenzio di quella vasta Cattedrale, quasi lampada vivente, restava lungo tempo inginocchiata innanzi al Ciborio, a pregare intensamente il solitario Prigioniero d’amore per tutti, ma in modo particolare per il lontano consorte esiliato.
Un’altra famiglia io frequentava, che mi pareva esemplare, anzi unica a quei tempi, perché tutti i componenti di essa, uomini e donne, sacerdoti e secolari, non solo possedevano una fede viva, semplice e piena di pietà e di zelo, ma tendevano tutti ad acquistare l’eroismo della perfezione cristiana. E nomino con riverente affetto il maggiore dei fratelli, l’Arcidiacono D. Francesco Errico, e il fratello Don Giuseppe, professore di lettere a quel Seminario e illustre oratore sacro, e gli altri due, egregi giovani Emmanuele e Barsanofio, studenti di medicina in Napoli, associati alle mie opere di Carità, dapprima per le povere vecchie di S. Giuseppe, Istituto fondato dal P. Carlo Rossi, Gesuita leccese, e poi alla nuova Opera del Tempio di Pompei.
Oh quanta esuberanza di affetti, oh quanto conforto ad abbellire lo spirito con le virtù dei Santi traevo ogni volta dal loro conversare! Tutti questi miei amici godono la visione beatifica di Dio. E come obliare gli altri antichi amici signori Salerno-Mele, e il maestro di tutti, il santo e dotto canonico Don Vincenzo de Angelis? … e Palma Matarelli? …
5 – La Vergine di Pompei al Casino Martini (pag. 357)
Tra le mie visite in Oria a famiglia nobili e doviziose, debbo annoverare pure quelle fatte ai signori Martini Carissimo, di quel Martini che a sue spese vi fondò un Ospedale, assegnando una rendita per farlo assistere dalle Figlie della Carità.
Mi è dolce infine rievocare i sei giovani figli dell’altra famiglia Martini, del fu Giulio: Nicola, Vincenzo, Pasquale, Giuseppe, Mariannina e Giacinto, il cui nome ha il potere di destare ancora soavi affetti al mio cuore: giovane di bello aspetto, candido, umile, modesto, era un vero giglio del Cielo trapiantato tra le spine di questo misero esilio.
Essi avevano un casino al confine del tenimento di Oria, in contrada San Felice, ed io aveva il mio casino al limite del tenimento di Latiano, in contrada Catene, poco lontano dal loro. Quindi le facili e scambievoli visite fra noi. Io andavo a loro sempre insieme col comune amico Prof. Vincenzo Pepe, ed ogni volta che ci vedevamo non si parlava d’altro che della Madonna di Pompei, dei Santi viventi ch’io conosceva in Napoli, e delle anime dilette a Dio che vivevano in Oria. Che dolci e care rimembranze!
Ma non passerà un anno da questo settembre del 1878, che in quel casino, a San Felice, invece della mia umile persona, la visita sarà fatta loro dall’augusta Regina del Cielo, dalla Vergine di Pompei che apparirà a Mariannina per strapparla dalle fauci della morte. Ond’essi quella camera – ov’era la morente – tramutarono in cappella in onore della vergine di Pompei. Anche tutta questa privilegiata famiglia ha già tramutato la terra col cielo, tranne Marianna che dopo quarantacinque anni vive ancora, per attestare a tutti la grazia prodigiosa ottenuta dalla potenza di Maria. Prima di chiudere questo capitoletto, vado ripetendo fra me: - Quante e quante persone, dilette a Dio e agli uomini, si sceglieva la vergine di Pompei fin da quei tempi, così ostili al solo udire il nome di miracolo! Quante anime privilegiate, ricche di celesti carismi e quasi traboccanti di una soave pace, di una inenarrabile e cristiana tranquillità di spirito, che si riversava e s’insinuava nel cuore anche di chi aveva la semplice fortuna di favellar con loro!
Il profumo, infatti, che io sentiva nascere dal fondo di quelle coscienze davvero timorate di Dio e d’una vita pura e perfetta non è svanito per me. Come il ricordo di Oria mi si affaccia alla mente, sento questa santa fragranza, questo “buon odore di Gesù Cristo” conforme direbbe l’Apostolo, e ne assaporo un reale conforto e sento di più l’attrazione e la dolcezza della evangelica perfezione.
6 – L’arrivo in Manduria (pag. 358)
Entrammo a Manduria con l’aria di un conquistatore che pregusta il trionfo: il cocchiere anch’egli contento di toccare la meta del suo viaggio, schioccava allegro la frusta e guidava a trotto serrato i cavalli … Andammo difilato all’abitazione della ricca zia. La signora siccome aveva predetto mia cognata, era in casa. Scendemmo. Ordinai al cocchiere di andare con la vettura alla pubblica rimessa a far riposare i cavalli, aspettando i miei ordini per il ritorno a Latiano, che prevedeva tardi, verso sera.
Fummo introdotti in un salotto. Mi valsi di quell’aspettare per trarre dalla mia borsa i più belli oggetti divoti da donare alla zia: medaglioni, corone, Immagini della Vergine di Pompei, libri e simili. Poco stante apparve la signora che io vedevo per la prima volta. Fatta la nostra conoscenza, si cominciò a parlar de’ parenti suoi e miei che le porgevano ossequi e saluti per mio mezzo; e poi entrammo in altri discorsi.
A me premeva intanto venire al concreto del mio scopo, e non tardai a manifestarle il perché era venuto a Manduria, per diffondere cioè la divozione alla vergine del Rosario, in cui onore costruiva un Tempio a Pompei, e per associare a quest’Opera i più ferventi e generosi cattolici di quella città. Ciò dicendo le presentai oggetti e libri che aveva scelti per lei.
La signora tutto ascoltava e tutto prendeva, ma con una certa freddezza, come di cosa che non la toccasse sul vivo. Mostrava maggior piacere di aver notizie dei parenti.
Mi parve tempo di venire alla perorazione, e per farla commuovere, passai a narrarle col mio naturale entusiasmo tutto ciò che di straordinario era avvenuto in Pompei, insistendo sui miracoli della Madonna, e sul concorso dei divoti di ogni condizione sociale e di ogni regione anche lontana.
Però mi accorsi che più io mi riscaldava, e più la signora rimaneva fredda, imperturbata.
- Questa è una signora ricca, ma seria – pensava: - forse sarà suo costume non far molte cerimonie, ma invece compie grandi atti di carità e di beneficenza … Mia cognata non poteva ingannarsi, né ingannarmi.
E seguitava con gran calore a discorrere dell’abbandono di quei contadini, della loro superstiziosa ignoranza e di quante meraviglie aveva già operate la Madonna di Pompei.
La signora taceva, e non accennava ad alcuna offerta di farci rimanere in casa sua pure per un’ora, per un necessari riposo dopo un viaggio fatto in vettura sotto i raggi di un sole cocente.
Se non che il tempo passava, ed io che aveva divisato di far tante altre visite a Manduria in quelle poche ore disponibili, cominciai a preoccuparmi di quel soverchio tardare, e non sapeva lo stesso trovarne la ragione.
Procurai di vincerla cavallerescamente continuando a togliere altri oggetti dalla mia borsa e offrirli a lei.
Ma quella prendeva tutto senza un cenno di riconoscenza e di affettuoso gradimento.
Il Professore Pepe, senza parlare, di quando in quando traeva dalla sua saccoccia l’orologio, e guardava fisso le lancette, quasi facendo una meditazione sull’ora, e mi ammiccava, come a dirmi: - A che perdiamo più tempo?
L’ora difatti era tarda; mancavano trenta minuti a mezzodì. Avevamo perduto molto tempo, eravamo stanchi, come impacciati, nella speranza sempre più fievola che fossimo invitati a un ristoro qualunque, per essere poi pronti a ripigliare il nostro giro.
Niente, niente; neppure una chicchera di caffè, che nelle province meridionali si consumava allora di offrire a qualunque ospite fosse pure estraneo …
Mi balenò un sospetto: la signora mi avrà preso per un avventuriero, per un avvocato imbroglione, che cerca carpire danaro spacciando miracoli, e sta in guardia per non cadere in trappola. Mia cognata, ingenuamente, non aveva pensato neanche a darmi un biglietto, scritto di proprio pugno, di presentazione a questa zia che non mi aveva fin allora mai veduto! A me tutto ciò non pareva vero, dopo le assicurazioni di mia cognata: dopo aver tanto offerto, non ricever nulla per la Madonna! Neppure un soldo per la costruzione della Chiesa! Come spiegare questo enigma? Io lo sciolsi subito pensando fra me che la signora si atteneva forse alla massima, comunemente allora seguita, che rubare al ladro non è peccato … Avendo forse sospettato ch’io fossi un ladro, riteneva giusto togliermi quelle divozioni che nelle mie mani costituivano i ferri del mestiere …
Bisognava venire al termine. Ricorsi ad un ultimo espediente avvocatesco per costringere la signora a pronunciarsi, e risolutamente domandai:
- Vi è qualche albergo in Manduria per riposare qualche ora?
- No – rispose quella impassibile – Manduria è città di passaggio, non di permanenza.
- Ma vi è almeno qualche trattoria per prendervi un po’ di ristoro?
- No, qui non sono trattorie; non v’è uso mangiare fuori casa propria. Ci sono solo grandi stalle, grandi rimesse per i viaggiatori che vengono da Lecce e vanno a Taranto, e viceversa, o per carrettieri che volessero riposar coi loro cavalli.
Capii chiaramente allora che la zia A***, contrariamente a quanto aveva giurato mia cognata, non voleva fastidi in casa, e molto meno da due sconosciuti, di cui voleva sbarazzarsi; e mi disponeva ad andarmene. Feci segno al Prof. Pepe di levarsi e prendere la valigia. Volli pertanto informarmi se fossero in Manduria quei miei amici che aveva rammentati mio fratello.
- I fratelli Schiavoni – domandai – sono in città? Dove abitano?
- No: Alcuni sono a villeggiare, ed altri sono militari.
- E Michele Pasanisi? Il primo amico dell’infanzia?
- E nella Svizzera.
- E Achille Pasanisi, a me tanto affezionato? - Ha moglie e famiglia, e trovasi a Foggia.
- E quegli altri: Filotico, Gigli e il Professor Francesco Prudenzano, il Poeta della Madonna? …
- Sono in Napoli.
- Addio! – feci tra me – abbiamo perduto il viaggio e la giornata. Non ci resta che la stalla, a riposarci coi cavalli.
- Signora, - feci io inchinandomi – le togliamo ilo fastidio e ce ne andiamo. Volete qualcosa da mia cognata Annina, vostra nipote?
- No, grazie! Statevi bene!
Ripresi la mia borsa in buona parte vuota; il mio amico tolse la sacchetta; e uscimmo da quella casa né gloriosi, né trionfanti, ma neppure con rancore o indignazione.
Vetture da nolo non ve n’erano, la mia l’aveva già mandata; ci convenne camminare a piedi con la borsa in mano, per le vie fatte, per l’ora, deserte, tra quel monotono biancore delle case e delle strade calcinate che sotto i raggi meridiani arrecava un enorme fastidio alla vista.
- Era giusto -  osservai al mio amico – che dopo i trionfi di Osturi e di Carovigno assaporassimo le amarezze di Manduria.
E il mio fedele angelo custode, sempre pronto a trarre consolazioni dalle scritture, mi citò quel bel passo del Da Kempis: - “Quando la consolazione ti sarà tolta non ti perder subito d’animo; ma attendi con umiltà e con pazienza che Iddio nuovamente ti visiti; può ben Egli ridonarti consolazione maggiore”.
- È vero – ripresi. – L’ultimo fatto dell’umiliazione occorsomi con la signora Protestante Inglese in Napoli, sulla Riva fiorita di Posillipo, e poi l’avvenimento portentoso, a breve distanza, sulla medesima Collina di Posillipo, mi avrebbero dovuto istruire dei modi che Dio suol tenere nelle opere sue; che cioè dove siamo umiliati per amor suo, là Egli manifesterà i tratti singolari della sua potenza. Vedremo, dunque, che cosa farà in Manduria la madonna.
7 – Nella locanda di Manduria (pag. 363)
- Dove sdigiuneremo? – mi chiese il Professor Pepe nel suo laconico linguaggio.
- Non vi rimane che la stalla e la rimessa, mio caro Vincenzo, - risposi con un sorriso di rassegnazione.
- Non resterebbero che i soli Padri Passionisti; ma a quest’ora non conviene turbarli, e cercar loro da mangiare; sono lontani, e poi avranno già desinato…
Andiamo, dunque, alla stalla.
Facemmo chiamare il padrone, e venne invece la moglie; e domandai se avesse per me un po’ di brodo o di carne lessa, perché il mio amico si contentava di cibi comuni.
No – fece con aria di doloroso stupore la buona donna: - a Manduria non si vende carne, specialmente oggi che è Mercoledì! E poi… il brodo!
Compresi ciò che voleva dire: il brodo è per i malati, ma i malati non viaggiano in vettura con questo sole, ma stanno a casa.
- Ho capito – dissi all’amico: - il Signore vuol farmi stare in castigo, a digiuno, come si usa con un ragazzo testardo e capriccioso.
- Ma sentiamo – riprese il Prof. Pepe, rivolto all’ostessa e con il tono abituale del maestro che vuole scrutare l’animo d’un discepolo renitente: - tu puoi cucinarmi due maccheroni?
- Oh, questo sì – disse la buona donna, felice di poterci rendere qualche servigio.
- hai un letto? – chiesi a mia volta – per farmi riposare qualche ora, prima di rimettermi in viaggio? - Oh, sì! – rispose con cordiale semplicità: - per questo vi cedo la mia camera.
Vi trovammo un gran letto, ma senza spalliere, con una coperta di cotone celeste, che copriva un enorme pagliericcio.
Il Professor dichiarò: - Da parte mia mi contento do poggiar la testa a un angolo del letto, ma seduto: datemi presto da mangiare.
Io, frattanto, chiamai il cocchiere:
- Fra due ore allestite di nuovo la vettura, che è a vent’ore (cioè alle tre) dovremo ripartire per Latiano.
Il cocchiere fu diligente: prima che suonasse il Vespro, la vettura era pronta, e di tutta corsa ci avviammo pel ritorno.
8 – Il Monastero di San Benedetto in Manduria (pag. 365)
Passando per una via deserta scorsi un gran fabbricato.
- Questo è il Monastero delle Benedettine di Manduria – mi additò il Prof. Pepe. – Qui c’è una giovane conversa di Latiano che conosco io.
All’udire la parola Monastero, - Ferma! Ferma! – gridai al cocchiere. – E il cocchiere fermò. E voltomi all’amico con voce di amorevole rimprovero,
- Come? – gli dissi – Tu sapevi che in Manduria v’era un convento di monache, e non mi dicevi nulla?
- Non ci avevo pensato – rispose egli con la sua naturale sincerità e franchezza.
Subito scendemmo. Il portone era chiuso: silenzio sepolcrale per quella via.
Picchiammo forte. In quel punto le campane di San Benedetto sonavano i Vespri… Il suono dei sacri bronzi mi parve come voce celeste che mi raddolcisse il cuore.
Venne una suora ad aprire: L’amico Vincenzo domandò subito della conversa di Latiano. Quel giorno essa aveva l’ufficio di portinaia. La facemmo chiamare.
Quando apparve alla grata la suora di Latiano, il Prof. Pepe la chiamò a nome, ed ella con festa gridò: - Oh, Don Vincenzo! Don Vincenzo! Chi vi ha mandato qui?
- Ecco – interruppe Pepe – vi presento il nostro concittadino, l’Avv. Bartolo Longo, che sta a Napoli e che ha cominciato a fabbricare una Chiesa alla Madonna del Rosario a Pompei!
- Oh! Io conosco Don Bartolino – rispose la suora – e conosceva anche suo padre. Perché siete venuti qui?
- Siamo venuti a Manduria appunto per far sapere ai nostri amici questa Opera di Don Bartolo a Pompei, e per far propaganda per quella Chiesa del Rosario, dove la Madonna ha già mostrato con miracoli che vuole a sé dedicato un Tempio, in quella terra abbandonata e una volta pagana. Ma non abbiamo trovato nessuno degli amici nostri antichi. Ora lasceremo a voi tutte le divozioni della Vergine di Pompei, per distribuirle alla Comunità, ai vostri conoscenti, e a chiunque viene in Portineria.
- Aspettate un momento – fece la conversa. – Vado subito a chiamare la Madre Badessa; quella è di Lecce e forse conosce pure Don Bartolo.
E corse via, senza darci tempo a trarre le divozioni dalla borsa.
Dopo qualche minuto, ecco scendere una suora che appariva giovane, Donna Geltrude Lusitani: elle faceva funzione di Badessa in sostituzione di sua zia Donna Carmela Lusitani, inferma.
Al sentir ripetere questo nome: - Lusitani, - rammentai subito il mio amato maestro di pianoforte, in Lecce, Ermenegildo Lusitani; e appresi che esso era zio di Suor Geltrude.
La suora fece suonar la campana, e scendere tutta la Comunità. Aperto il parlatorio, le religiose fecero ruota nella sala, e noi fummo presto in presenza di tutta quella Comunità benedettina.
Non vi volle nessun invito per cominciar la mia predica, e su due piedi presi a parlare di quanto d’inaspettato e di prodigioso era avvenuto di già a Pompei per l’intercessione della SS. Vergine del Rosario. Mi ascoltavano tutte religiosamente e con stupore sempre crescente. Quando udirono il tratto prodigioso della misericordia di Maria nella persona del fanciullo Edoardo Raffaele a Napoli, col fargli semplicemente stringere al petto l’Immagine della Madonna di Pompei, così le più anziane come le più giovani le vidi con gli occhi velati di lacrime.
Scorgendo l’effetto felice che la Santissima Vergine aveva voluto trarre dalla mia narrazione, consegnai alla nipote della Badessa tutta la provvisione di divozioni raccolta nella mia borsa, costituendola capo Zelatrice non solo di Manduria, ma di tutte le città natali delle religiose me dei paesi ove contassero parenti o conoscenti.
E tra la commozione generale uscii da quel Monastero che la Regina del Cielo già s’era da sé scelto come centro del nostro apostolato senza nostra alcuna previsione, anzi senza alcuna speranza.
Donna Geltrude Lusitani divenne da quel giorno la più fervente propagatrice della divozione alla Madonna di Pompei, non solo in Manduria, ma anche nelle città vicine, di “Torre Santa Susanna”, di “Sava di Erchie”, e soprattutto di “Lecce”, sua patria, capoluogo della provincia. Questo apostolico zelo ella esercitò fino all’età quasi di ottantasei anni, quando cioè piacque al Signore di chiamarla al Cielo, nel giorno sacro al Cuore di Gesù, nel 1915.
S’immagini quanto bene abbia potuto operare una religiosa, accesa di santa e inestinguibile tenerezza verso la Madre di Dio, per lo spazio di tanti anni e in mezzo a persone credenti e già ben disposte ad onorar la Madonna.
Oggi di tutte quelle suore che furono presenti alla nostra visita nel settembre del 1878, ne sopravvive una, vecchissima, la quale ricorda ancora quel giorno, ed è come la testimonianza vivente di quanto abbiamo narrato. Essa è la veneranda Donna Rosina Spagnolo Benedettina.
9 – La Madonna di Pompei in Lecce (pag. 368)
Mi è corso sotto la penna il nome di Lecce. Quivi non fu bisogno ch’io mi recassi personalmente per iniziare la divozione alla Vergine del SS. Rosario e per narrare quelle prime meraviglie che già si compivano. A me fu sufficiente inviar di lontano i primi foglietti e le prime pubblicazioni ad amici, a congiunti, a conoscenti e perfino ad avvocati ed operai. Furono anch’essi delle scintille, ma all’opera nostra di propaganda concorse la buona suora Geltrude, che da Manduria seppe gettar una santa e potente favilla in guisa che in breve tempo la divozione alla Madonna di Pompei dilagò per tutta quella gentile e colta terra. Non è possibile, in poche parole esporre lo sviluppo sempre crescente e sempre mirabile che colà si verificò. Occorrerebbe scrivere una piccola storia a parte della divozione alla Madonna di Pompei nella città di Lecce.
La parte più bella ed interessante sarebbe certamente quella delle frequenti apparizioni della Madonna per confortare col suo sorriso anime affannate e già pronte a partire da questo mondo – avvenimenti, questi in parte accennati nel nostro Periodico o nel libro dei Quindici Sabati, ma di tutti se ne parlerà in appresso.
Basti dire che non andò guari, e la devozione alla Madonna di Pompei si accese non solo nelle famiglie, ma nelle Chiese e nelle Comunità religiose. Tutte le devote pratiche che si compiono a Pompei in onore della Vergine del Rosario: I Quindici Sabati, la Supplica nella 1ª domenica d’ottobre e nell’8 maggio, sono ancora colà precedute da corsi solenni di noverani, anzi spesso di mesi interi di predicazione e da altre fervide manifestazioni di pietà che mostrano quanto sia radicato in quei cuori la divozione alla regina del SS. Rosario.
Oggi è oltremodo commovente pensare che la divozione alla Madonna di Pompei colà è fervida ed entusiastica anche in mezzo alle fiorentissime organizzazioni giovanili, che si debbono allo zelo illuminato di quel piissimo e dotto Vescovo che, ne’ lunghi anni del suo governo pastorale, ha saputo destare, o richiamare in vita tante nobili e sante istituzioni.
Insomma, la graziosa, signorile e religiosa città di Lecce si può considerare non solo come capoluogo dell’importantissima provincia pugliese, ma in modo speciale come il capoluogo della divozione alla Vergine di Pompei, a nessuna città d’Italia seconda tanto per il suo fervore di pietà filiale verso la Madonna, quanto pel modo generoso con cui i Leccesi vollero mostrare questa pietà verso le opere benefiche di Valle di Pompei, e più per le notissime e segnalate grazie che la regina del Santissimo Rosario si degnò di concedere a loro.
10 – Segni di predilezione della Madonna di Pompei verso Manduria (pag. 370)
Quella giornata, adunque, che alla vista umana sembrava andata così a male in Manduria, per amoroso disegno della nostra Regina si chiudeva con un improvviso fervore di entusiasmo per il suo Santuario a Pompei, fervore che produsse poi meravigliosi frutti.
Da quel giorno la divozione verso la Regina del SS. Rosario ebbe un indicibile crescendo. Su quella terra prediletta piovve l’abbondanza delle misericordie e dei celesti sorrisi di Maria.
Insigne fra tutti fu il favore, anzi il vero miracolo concesso dalla Vergine benedetta all’umile e giovane sua devota, Angela Massafra, pochi anni dopo quella nostra visita colà. Quel miracolo non solo fu segno della potenza dell’intercessione della Regina del Cielo, perché d’un tratto ridonava il fiore della salute a un essere esausto, piagato e già a un fili dalla tomba, ma era accompagnato da una forma celestialmente poetica per proclamare la bellezza e l’efficacia della devozione dei Quindici Sabati. La Madonna, come fu narrato a suo tempo nel Periodico e come si può leggere ancora nel nostro libro dei Quindici Sabati, nella sua apparizione a quella fortunata creatura si degnava di deporre sul letto di lei un candido vaso di alabastro pieno di fiori, somiglianti a fulgidi gigli, e di questi ne lasciava cadere su quel letto medesimo quindici che recavano le due sante parole: Quindici Sabati.
L’avvenimento così straordinario non fu attestato soltanto da un intero popolo, ma da un valente medico, il dottor Tommaso Massari, che curava l’inferma, e soprattutto dal rispettabile Parroco di quella città, sacerdote D. Leonardo Tarentini confessore di lei, a cui aveva egli apprestato il S. Viatico e l’Estrema Unzione.
8Ambedue questi importanti attestati si leggono letteralmente riportati nel Periodico il Rosario e la Nuova Pompei, al Quaderno di Settembre, Anno VI, 1889).
Benedizione di Dio fu anche il civile e sociale sviluppo di quella terra: oggi Manduria è tra le più belle e progredite città del leccese, ricca di accresciuta popolazione e di benefiche e sante istituzioni.
Mentre scrivo queste pagine quarantacinque anni dopo la mia visita a Manduria, mi torna di soave conforto il leggere nel numero degli Associati al Periodico e dei Benefattori delle nostre Opere i nomi dei discendenti di quegli amici dei quali era andato in cerca quel giorno, e specialmente dei Signori Schiavoni, Schiavoni Tafuri, dei Signori Arnò, dei Pasanisi, delle famiglie Selvaggi, Filotico, Gigli, Camerario e Tarentini e tanti altri.
Quanto alla parte mia, la divina Maestra mi scolpì maggiormente nell’animo quel suo grande ammaestramento: - l’Opera di Pompei doveva compiersi non per mezzo di miei amici, o parenti o conoscenti; anzi, molti di questi sarebbero stati neghittosi e negligenti, e sono morti difatti senza venire neppure una volta a visitar il Santuario e queste Opere; ma sì invece per mezzo di persone di ogni grado sociale e di persone la più parte a me sconosciute, affinché a tutti fosse evidente il disegno di Dio, che l’Opera di Pompei è Opera tutta sua e di cui nessuno si può gloriare!
(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XI - La festa di ottobre del 1878 nel recinto del sorgente Santuario
Libro Settimo - pag. 372

La festa annuale della Vergine del Rosario l’avevamo già annunziata. Venne stabilita pel giorno di domenica 13 ottobre, nel recinto delle mura grezze che si ergevano per formare il Tempio di Pompei.
Due soli anni erano passati dal giorno memorabile 8 maggio 1876, e di fronte all’antico Anfiteatro di Pompei, lungo la via Nazionale delle Calabrie a vista delle rovine della famosa città pagana ammiravasi bella di mistica bellezza, l’Opera della Fede e della pietà cattolica, il Tempio di Maria, elevato quasi per incanto fino al cornicione maggiore!
Per questa fabbrica avevamo già speso lire trentamila, a quel tempo cifra favolosa, raccolte la più parte con l’ascrizione di un soldo al mese, dai divoti della Vergine del Rosario d’ogni classe, d’ogni condizione e d’ogni paese dell’Italia nostra.
Si vedeva bella e rigogliosa un’Opera che avrebbe richiesto le fatiche e le spese di otto anni almeno!
Crebbe da ciò la fiducia in noi di cominciare a costruire, nel prossimo venturo anno 1879, la parte superiore del Tempio, che doveva sostenere la maestosa volta del Santuario.
L’egregio professore di matematiche nell’Università di Napoli, Cav. Antonio Cua, oggi da noi e da quanti lo amarono vivamente rimpianto, aveva fatto dono di un leggiadro disegno del novello Tempio, e per insigne pietà a sue spese recavasi sovente a Pompei, per dirigerne la costruzione; talchè nelle note di spese di quegli anni non si vede mai nell’Esito una cifra pel pagamento di viaggi o d’indennità per l’illustre architetto.
Il disegno era per un Tempio bello e spazioso, per duemila persone, con sette altari, con Cupola e Campanile, ed abitazione contigua per sacerdoti che Dio avrebbe mandati.
Di quanti allora erano viventi nessuno avrebbe sperato di aver dal Signore tanti anni di vita, da veder tutto attuato l’ardito disegno del buon Professore Cua!
Bontà di Dio! Oggi tutto il prezioso disegno lo vediamo compito sotto i nostri occhi: il Tempio, gli altari, la meravigliosa cupola, l’artistica facciata, la Canonica pei Sacerdoti; e finanche il maestoso e svelto Campanile, con la sua colossale statua del Cuor di Gesù, tra pochi mesi sarà un fatto compiuto, e farà udire il rintocco di otto gigantesche campane, la cui eco molteplice, tenera e solenne si spanderà per le immensurabili adiacenti campagne e dei paesi convicini.
Nel recinto, adunque, di quelle ruvide mura, nel centro della futura Cupola, a cielo scoperto, si vedeva un improvvisato altare, con ricco addobbo di serici drappi. Era quella la “Terza Festa del Rosario” che si celebrava in questo luogo.
Sopra un altare di legno ponevamo un grazioso e artistico tosello, sotto cui era esposto il Quadro prodigioso della Madonna.
Veniva a bella posta da Napoli un devotissimo sacerdote, di famiglia nobile, rigoroso rubricista, il rev.do D. Federico Caprioli di santa memoria, che metteva tutte le sue cure a far riuscire in ordine perfetto le sacre solenni funzioni, anche in mezzo alle pietre, alla calce e all’aperta campagna.
Era una cosa pittoresca! Su quell’altare e intorno intorno si vedevano gli ex voto, calici, lampade di argento, pissidi, fiori ed arredi, come singoli attestati di grazie ricevute da questa clementissima Madre.
Quale splendore di fede! Qual novità di festa, cui soltanto la religione cattolica può far godere agli uomini sulla terra! Vedevi centinaia di famiglie della più alta aristocrazia napoletana partirsi digiune da Napoli per cibarsi della S. Eucaristia in una Chiesa scoperta, ancora in costruzione! E ciò senza verun accordo preventivo, ma solo per impulso di amore spontaneo e grato alla celeste Regina.
Una lunga fila di carrozze, che occupavano la via Nazionale per oltre un miglio, trasportavano signori e signore d’ogni età, non giubilanti, come accade nelle feste profane, ma col viso compunto, divoto ed esprimente la fede viva che infiammava i loro spiriti: quella fede che, nonostante gli urti e le tempeste, le seduzioni e l’empietà del secolo, non è venuta meno nel petto dei veraci figliuoli, d’Italia, la quale è essenzialmente cattolica, perché figlia della Chiesa di Roma che è stata e sarà la trionfatrice del mondo.
Innumerevoli persone vi pervenivano da varii paesi, e molte per attestare le grazie impetrate mercè i voti fatti e le offerte a questo Tempio. E furon viste delle più restie, o almeno guardinghe dall’ammettere miracoli, restare stupefatte all’evidenza di un nuovo miracolo che s’imponeva gigante ai loro occhi e sui loro spiriti.
Quel giorno 13 ottobre dell’anno 1878, alle ore 11 del mattino, dinanzi a quell’altare provvisorio Sua E. Mons. Formisano, Vescovo di Nola, intonava la corona del Rosario; e seguiva l’apposita orazione panegirica, per la quale avevamo invitato uno dei primi oratori di Napoli, il chiarissimo P. M. Fr. Costantino Rossini, Provinciale dell’Ordine dei Predicatori.
Ma quello che moveva al pianto di tenerezza quei poveri contadini, resi stupiti da sì inusato concorso, e lo stesso Vescovo di Nola, , fu il vedere tanta eletta parte di gente composta a pietà e devozione indescrivibile, avvicinarsi alla sacra Mensa nel divino Sacrificio, che si offriva in quel recinto di un tempio che aveva per cupola l’azzurro del cielo, e migliaia di nobili cuori pendere intenti all’ispirato discorso, che recitò con tutti i pregi di vero oratore, il sullodato Provinciale dell’Ordine Domenicano.
Pochi oratori veramente ebbero in loro vita un uditorio cosiffatto. Dal Palazzo reale di Capodimonte a Monte di Dio, dagli estremi di Margellina a Castel Capuano, Napoli, la cattolica Napoli aveva mandato fiori di nobiltà, e di cattolicesimo all’umile Valle di Pompei per corteggiare il trono della celeste Regina; la quale si degnava qui fare novella mostra di sua potenza col tramutare un intero ordine di cose e di storia. Per lei la terra dei pagani cominciava a divenire produttrice di ferventi cristiani.
Sul seggio degli idoli e dei demoni si assideva trionfatrice e benigna la stessa Regina delle Vittorie e la terra insozzata di sangue per olocausti profani e gentileschi, si cambiava in Altare del Divino Agnello in olocausto di infinito amore. Che più? Insino allora il nome di Pompei ridestava soltanto idee tetre e funeste di ruine e di paganesimo, e solo un vago amore delle cose antiche poteva richiamarvi gente spesso senza credenza e senza amore. Ma da oggi innanzi il nome di Pompei risonerà al cuore dei teneri figli di Maria come vibrazione di un’armonia celeste, perché ricorda i novelli trionfi della SS. Vergine, la quale qui ha piantato il trono delle sue misericordie, per largire le sue grazie agli afflitti figliuoli di Eva che a lei ricorrano con fiducia.
Ancora, i sacri riti in ogni luogo si adempiono nelle Chiese coperte e adorne: qui si celebravano a mura scoperte e nude, abbellite soltanto dalla cara Immagine di Maria, mentre che ardenti sospiri di mille cuori cattolici, nel recitare il celeste Rosario, elevavansi, presentati dagli Angeli santi, al trono di Dio.
Infine, in tutte le feste è il popolo che forma la massa: qui, nella povera terra di Pompei, era la più eletta parte dell’ingegno, dell’arte e della nobiltà.
1. Il caloroso appello dell’ottobre 1878 per finire il Tempio di Pompei
Quant’è bello ricordare qui ciò che scrissi in quel tempo, quarantacinque anni addietro, dopo ave narrato questa solenne e singolarissima Festa del Rosario del 1878…!                                    
Trovo aver pubblicato un fiammante appello ai divoti della Madonna per spingere il loro cuore a coronare l’opera intrapresa, ad affrettare il compimento del Santuario di Maria. Questo appello forma anche esso parte della storia che siamo narrando. Eccolo: “Per le quali meraviglie avventurato dee reputarsi chi concorre col suo obolo alla edificazione di questo, che è già un Santuario prima di essere un tempio, e sul quale sono grandi disegni di Dio.
“Or l’opera, che è mezzo il corso, vuolsi menare a termine. Vi mancano pel compimento la cupola, gli altari, il pavimento e tutti i pezzi d’opera.
“E vi sarà un uomo solo o donna, che dica esser cristiano, e indurì pertanto il suo cuore a negare un soldo per compiere la Casa della Madonna, della Madre di Dio, della Madre nostra? ... Oggi che i protestanti baldanzosi per le nostre città e per le vie, insultano apertamente la nostra Fede, vilipendono la Santissima Vergine, ed aprono scuole gratuite dell’errore e del vizio?
“Ancora, che Tempio è mai questo? Non di semplice ornamento cattolico, ma di estremo bisogno per questo luogo, ove Dio non è adorato dai suoi cristiani per mancamento del suo Santuario; e dove i fedeli sono costretti a languir digiuni del pane della vita, che è la parola Dio! Quante comunioni perdute! Quante conversioni impedite! Quanti Sacrifizi non celebrati! Quanti suffragi tolti alle anime penanti!
“In ultimo l’opera santa di Pompei non è solo un atto di fede e di amore cristiano, ma è eziandio la espressione vera del Cattolicesimo, il quale non è Italiano, né Europeo, ma è universale. E qui non solo abbiamo in animo di elevare un Tempio, ma ancora di aprire un Asilo d’infanzia ed una Scuola cattolica.
“In tal modo si conseguirà un doppio intendimento.
Cioè:
* di contrapporre una riparazione nazionale agli oltraggi che i protestanti e gl’increduli fan pubblicamente alla nostra religione ed alla Vergine Madre di Dio in questa Italia, che è sede del Papato, ossia fonte di verace civiltà;
* di sottrarre all’ignoranza ed all’abbruttimento migliaia di nostri fratelli, quali sono i poveri ed abbandonati contadini che vivono dispersi per la Valle nel campo pompeiano.
“E qual somma richiedesi dal fedele per conta impresa?
“L’ascrizione per un soldo mensile.
“Oh quanto sarà accetto al Cuore di Maria questo soldo! È la prima volta, da che è il Mondo, che in Pompei sorge un Santuario, che la Regina delle Vittorie ha voluto s’intitolasse al suo Rosario.
“Certamente per significarci che vuole oggi salvar le anime con quello stesso Rosario che affidò a San Domenico, e ch’Ella stessa mostrava di recitare con Bernardetta alla grotta di Lourdes. E per provare quanto gradisca questa nuova Chiesa, concede ogni dì delle grazie a chi vi concorre con offerte pur tenuissime.
“Il viaggiatore, che spese parecchie ore per la solitaria e ruinata Pompei, volgerà i passi verso l’antico Anfiteatro. Vedrà poco lungi dalle deserte vestigia di un teatro pagano sorge silenziosa ma sublime e trionfale la Croce del Cristo-Dio, apportatrice mai sempre di vita e di civiltà ai popoli.
“Quivi lo stanco passeggiere e l’affannato contadino riposeranno un tratto all’ombra dell’altare dedicato alla Vergine Madre; essa col suo Figliuolo Bambino sulle braccia e col Rosario nella destra addita loro il conforto ad ogni dolore, la speranza ad ogni male. Qui sul far della sera mille voci unite di un popolo nascente e fedele saluteranno l’Immacolata del Rosario, la Regina delle Vittorie, l’Aiuto dei Cristiani, che rammenta la distruzione dell’eresia, e gli ultimi straordinari avvenimenti di Lourdes, di Soriano di Calabria e di Flo0cco di Nola”.
- E la Regina del Cielo diede segno che gradiva una tal festa?
- Sì e fu alla vigilia della festa, il 12 ottobre, perché operava una grazia prodigiosa, la terza grazia di quel medesimo anno, in persona di un muratore, che attendeva appunto ai lavori di fabbrica pel nascente Santuario. La grazia fu già narrata in una delle primitive edizioni della Storia del Santuario. Ora accade di riprodurla integralmente, come fu allora scritta.
2. Un peccato in Pompei e un tratto della misericordia della Vergine
(Alla vigilia della festa di ottobre del 1878) (pag. 379)
“Si apparecchiava la Festa di ottobre nella nascente Chiesa. Tutto prediceva un solenne trionfo della fede e della divozione al Rosario. In quel giorno avevamo fermato col Vescovo di Nola quanto avrebbe a farsi a gloria di Dio nel nuovo Tempio e nella prossima festa e nei disegni avvenire.  Ma in quello stesso giorno ed a quella medesima ora, suscitando delle contese tra i lavoranti il padre della discordia, il diavolo, un capo muratore della Chiesa, mastro Andrea C…, nell’ira, com’è usanza di cosiffatti, bestemmiò preti e Chiesa.
Quel giorno volgeva al tramonto, e gli operai ponevano in assetto i ferri, i mangani, le funi per tornarsi a casa loro. Restava a collocarsi l’ultima pietra angolare per compiere il cornicione esterno della facciata all’altezza di dieci metri, e mastro Andrea C…, l’infelice della bestemmia, si accingeva all’ultima mano.
Noi col Rev. D. Gennaro Federico e con la Contessa De Fusco eravamo sulla piazzetta della Chiesa a mirare quasi estatici il felice avanzamento dell’edifizio ed il compimento del cornicione per la prossima festa dell’indomani. Quando il botto si scatena dalla cima una massa, cade sul ponte di legno dove quel muratore poggiava i piedi, e perdendo questi l’equilibrio, rovesciasi indietro e precipita da quell’altezza seguito dal rovinio della fabbrica. Ancora quel ricordo mi fa raccapricciare. Lo vedemmo per aria fare un tombolo come fa un cencio che cade.
Giù vi era un pozzo, ed ai lati pietre vulcaniche aguzze e taglienti! ...
I nostri occhio pel terrore si chiusero un istante. Un acuto grido di donna chiamò al soccorso; la Contessa esterrefatta, non reggendo a quella vista spaventevole correva gridando a piè dell’Altare di Maria, e con le persone accorse impetrava con preci e con lagrime la vita a quel povero padre di numerosa prole, in quella che noi ci eravamo slanciati a sollevare da terra la spoglia immobile del caduto.
Il capo di lui era sconciamente guasto e difformato; sangue scaturiva dalla bocca, spezzati ambi i polsi, cadevano penzoloni le mani, e le ginocchia ed il corpo in mortale abbandono.
Il buon sacerdote Federico, sollevandolo a metà tra le sue braccia, forte lo chiamò a nome più volte. E Mastro Andrea – gridava – stringimi la mano pel segnale di contrizione, chè io ti assolvo nel nome di Dio.
Ma quegli non dava segni di vita.
Gli posò la mano sul cuore, e il cuore, e il cuore era inerte.
Se non che, poco dopo un lieve battito lo fe’ avvertito che ancor vi era vita, e senza altro attendere pronunziò un articolo di morte.
Non rimaneva che l’ultima àncora di speranza, la salvezza dei disperati, la nostra benedetta Madre. E noi in questo mezzo corremmo a prenderne la prodigiosa Immagine. Ed oh, potenza della Regina del Rosario!
Immantinente, come vien collocata sul cuore del fratturato, questi, come tornato da morte a vita, trae un sospiro e pronunzia per prima parola quel nome di dolcezza:
- Madonna mia! …
E la Madonna gli volle usar misericordia. Dopo ventiquattro giorni mastro Andrea ritornò al lavoro del Nuovo Tempio di Pompei. E commosso e pentito si confessò, e la sua numerosa famiglia si recò scalza in pellegrinaggio all’Altare di Maria per assistere alla Messa cantata di ringraziamento, e depose un voto”. (Autore: Bartolo Longo)

*Capo XII - Al chiudersi dell'anno 1878
Libro Settimo - pag. 381

1 - L'esaltazione al Pontificato di Leone XIII

Nell'esporre gli avvenimenti del 1878, terzo anno della costruzione del Tempio Pompeiano, facemmo notare che esso fu un'alba chiara di trionfo per l'Opera santa di Pompei.

I fatti narrati finora e quelli che narreremo ce ne danno piena ragione.

Il 7 febbraiuo di questo medesimo anno moriva il santo Pontefice Pio IX, e già la Provvidenza aveva apparecchiato un degno successore alla suprema Cattedra di S. Pietro nella persona dell'immortale e glorioso Pontefice Leone XIII.

Fu questi il Pontefice che doveva ristorare e farvi tornar al primiero splendore in tutto il mondo il Santo Rosario donato dalla Regina del Cielo a San Domenico: e doveva ancora rendere di pubblico culto la divozione alla Vergine del Rosario di Pompei, istituita da un semplice laico, col riconoscerla prodigiosa e con arricchire di indulgenze le pie pratiche in onore di lei, come la Visita dell’Immagine in qualunque parte del mondo fosse esposta, la Novena per impetrare le grazie, la Novena di ringraziamento, la Supplica nell’ora di mezzodì delle due annue feste ed altre simiglianti.

Finalmente fu questi il Papa che doveva spiegare la più alta ed amorosa protezione sui due coniugi Fondatori del Santuario, e sul Tempio Pompeiano fino a dichiararlo Basilica Pontificia, sotto l’immediato Dominio di Pietro, in perpetuo.
Per esaltare e magnificare la Corona di Maria in tutti i popoli della terra, Egli dettò in quindici anni consecutivi quattordici Lettere Encicliche, un Decreto ed un Rescritto. Per affermare poi e propagare ovunque il culto della vergine di Pompei, spedì a noi trentasei suoi Brevi e decreti concernenti la novella Basilica, le sacre cerimonie che in essa si compiono e i sacerdoti che quivi celebrano. Per assicurare infine l’umile persona dei due Fondatori secolari dagli assalti e dalle persecuzioni dei loro avversari, Egli, il Capo di tutta la Cristianità, con alcuni di questi Brevi solennemente se ne dichiarava Protettore.
Questi Brevi e Decreti hanno un valore inenarrabile, perché quanto alla nuova basilica, essi largiscono un vero tesoro di facoltà singolari, di speciali permessi, di facilitazioni d’ogni sorta, affinchè ogni manifestazione di culto e ogni divozione si potesse agevolmente compiere per spirituale vantaggio dei fedeli e dei pellegrini, col poter in modo particolare assistere alla Messa anche nelle ore più avanzate. Nè era escluso da queste supreme e pontificie concessioni un riguardo speciale anche ai sacerdoti, i quali, salvo qualche raro giorno, possono celebrare sempre la messa Votiva della Madonna del Rosario non solo all’Altare Maggiore, ma anche a tutti gli altari laterali.
Un altro valore incalcolabile ne veniva alle preghiere e alle divozioni proprie del Santuario Pompeiano, le quali sono state il vero veicolo delle anime per arrivare al cuore di Maria e insieme hanno formato il mezzo di cui la Provvidenza ha voluto servirsi per diffondere la divozione alla Madonna di Pompei.
Era giusto che da principio sorgessero precauzioni, se non differenze, per queste preghiere nuove. Quindi la concessione di larghissime Indulgenze, come quelle per la Novena, per i Quindici Sabati e per la Supplica, erano la più solenne approvazione di esse e il suggello che non ammetteva più né timori né discussioni.
Esporremo a tempo tutti gli atti di protezione e di regale benemerenza di sì grande Pontefice verso il nuovo Tempio o verso le persone di cui Dio si è servito per la sua gloria e per la gloria della Vergine nel campo dell’antica Pompei.
Per siffatte ragioni l’immortale Pontefice Leone XIII sarà sempre ricordato nella Storia della Chiesa universale per i secoli col titolo glorioso di novello Pontefice del Rosario dopo San Pio V, nella nostra Storia con il nome del più grande Protettore del Santuario di Pompei e dei suoi umili Fondatori.
2 - L’approvazione dell’Arcivescovo di Napoli Mons. Guglielmo Sanfelice alla nascente Chiesa di Pompei (pag. 384)
Dopo le feste dell’Ottobre, com’era nostra consuetudine, ritornammo a Napoli insieme con la Contessa per rinnovare le ascrizioni nelle famiglie dei signori napoletani, per raccoglierne delle nuove, e ricominciare il giro per le chiese della città nelle festività più solenni o nei giorni di grande concorso di popolo.                   
Se non che, ci parve doveroso ed utile presentarci al nuovo Arcivescovo di quella Archidiocesi, a Sua Eccellenza Mons. Guglielmo Sanfelice, non ancora Cardinale, che era succeduto nell’inclita Sede di Sant’Aspreno all’illustre Cardinale Sisto Riario Sforza. Lo scopo della nostra visita era quello di farci da lui conoscere, e di rendergli aperte le nostre pie intenzioni, per ottenere un incoraggiamento e una benedizione, non che una parola di commendatizia, che ci rendesse meno duro il giro per le chiese della città. È vero che parecchi parroci e rettori di chiese ci avevano accolti benevolmente, e ci avevano animati a proseguire nell’intrapresa; ma avevamo pure incontrato non poche né piccole opposizione e diffidenze da parte di alcuni a cui sembravamo gente girovaga e sospetta. E la firma dell’Arcivescovo sarebbe servita ancora per essere accreditati nelle private famiglie.
 
La sera del 13 novembre quindi ci recammo al Palazzo Arcivescovile, e ottenemmo l’udienza del nuovo Arcivescovo di Napoli.
 
Con parola breve e concitata gli esponiamo i fatti meravigliosi di Pompei, gli apriamo tutto il cuore manifestandogli tutti i nostri entusiasmi e le nostre speranze. Mons. Sanfelice, la cui carità era pronta, generosa, inesauribile e che nella carità aveva le rapide e sapienti intuizioni degli uomini e delle Opere, a un tratto si alza, prende un foglio e scrive di proprio pugno, con impeto di fiducia e di ammirazione, le seguenti parole:
 
“Mons. Sanfelice loda, approva e benedice di gran cuore l’Opera per il nuovo Tempio di Pompei ed invita tutti i fedeli a concorrervi perché subito si compia.
 
Napoli, 13 Novembre 1878. Firmato: GUGLIELMO Arcivescovo”.
 
Questo prezioso Autografo, che riuscì in quel tempo a diffondere in noi coraggio e ad eliminare ogni difficoltà da parte del clero e dei signori napoletani, forma anche oggi uno dei nostri più cari ricordi. Non tardammo a pubblicare questo Autografo in tutte le nostre stampe, opuscoli, libri, inviti per feste; e a tutti quelli che incontravamo, la prima cosa da noi presentata era quel foglio di commendatizia del Pastore dell’Archidiocesi di Napoli.
 
3 – La prima storia del Santuario di Pompei
 
Libro Settimo - pag. 385
 
Un altro conforto ci veniva da un fatto novello. Al termine di quell’anno 1878 finalmente, per singolare favore della Madonna, potemmo mettere fuori il primo libro che narrasse le prime grazie e prodigi della Vergine di Pompei, a cui, infine, seguiva una preghiera che io scrissi per impetrare le sue grazie. Più che una storia, era una cronaca delle grazie ottenute da varie famiglie nel corso dei primi tre anni; e però quel libretto intitolai: “Storia, Prodigi e Preghiere alla Vergine Santissima del Rosario di Pompei, per cura dell’Avvocato Bartolo Longo”.
 
Buona parte di quei primi prodigi era già pubblicata nell’altra mia operetta “I Quindici Sabati del SS. Rosario”, che nel 24 maggio di quel medesimo anno 1878, come abbiamo già riferito, aveva veduto propagata la sua seconda edizione, in tutta l’Italia e fuori, segnatamente per lo zelo di una Suora di Carità, Superiora nell’Ospedale Maggiore di Milano, Suor Giuseppina Brambilla, che, per mezzo dei Missionari di S. Calogero, mandava nell’Africa, nell’Asia e in particolar modo nelle Indie, il libro dei Quindici Sabati, stampato in Valle di Pompei.
 
Questa storia nuova finiva con il miracolo Sulla Collina di Posillipo, che narra il prodigio ottenuto in casa Schettino la sera del 18 agosto 1878. Non mancammo di porre innanzi a questa piccola storia un’Immaginetta della Vergine di Pompei, in litografia, che aveva disegnata il giovane artista Giuseppe Amato; e questa fu la seconda Immagine dopo quella del Delfino; e ne facemmo una larga distribuzione.
 
Ci sentivamo, dunque, come dicono i francesi, ben corazzati per la più fervida propaganda a favore della nuova Chiesa di Pompei. Avevamo con noi la Notificazione del Vescovo di Nola, in cui egli accreditava i miracoli della Vergine di Pompei, ispirava la fiducia del pubblico verso i fondatori del Tempio, ed egli stesso si rendeva collettore di offerte. Questa lettera Pastorale di Mons. Formisano, Vescovo di Nola e nostro Vescovo, era davvero provvidenziale, perché demoliva anch’esso dicerie e malintesi e riusciva di efficace appello ai fedeli vicini e lontani per concorrere all’Opera nascente. Eravamo per di più muniti della alta approvazione autografa dell’Arcivescovo di Napoli, e infine possedevamo una così detta prima Storia, che suscitava la curiosità, perché vi erano segnati i nomi dei primi miracolati dalla SS. Vergine del Rosario. Così, con forte animo e fervidamente fiduciosi nella Provvidenza, andavamo incontro all’albeggiare dell’anno novello 1879, che, come narreremo, fu un anno di nuovi trionfi e di nuova gloria per la nascente Chiesa di Pompei.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XIII - Il Prof. Vincenzo Pepe
Libro Settimo - pag. 389

Appendice Prima
Di questo concittadino e amico verace, che la Provvidenza mi assegnava fin dalla prima giovinezza a compagno consigliere ottimo, partecipe delle più difficili e decisive prove della mia vita, non ho mai parlato ai miei lettori: ma è forza oramai che io lo presenti come un personaggio storico, che entrerà a parte dei più gravi avvenimenti della presente “Storia del Santuario”, o meglio, di questa epopea divina, quantunque egli sia rimasto quasi sempre nascosto, come all’ombra.
1 – La famiglia
Egli, molto più provetto di me negli anni, era nato nella sua patria Latiano, da genitori cristiani esemplari. Suo padre, Gaetano Pepe, apparteneva ad una famiglia signorile di Fasano; e sua madre, Carmela Lucci, discendeva da una casa nobile napoletana, dai signori Volpicella.
L’ottima signora aveva ereditato quella pietà e quella carità, che nei tempi andati erano la più grande prerogativa delle nobili famiglie napoletane; e, ridotta poi, per rovesci di fortuna, a vivere nelle più dure strettezze, sostenne la povertà con fortezza cristiana, dando esempio luminoso a tutti i miei concittadini di eroiche virtù: di pazienza, di pietà, di rassegnazione e di illuminato abbandono nelle mani della divina Provvidenza.
Talvolta sonava il mezzogiorno, e in casa sua non vi era neanche il pane da sfamare i suoi numerosi figliuoli.
Nondimeno li chiamava al desco di famiglia senza perdere la sua fiducia in Dio; e fatte insieme le preghiere, ecco si udiva picchiare all’uscio di casa. Era il pane che veniva da ignota mano, e, col pane, altri commestibili.
Tra le mani ignote o non viste vi erano quelle del mio genitore, che d’altra parte ne fu ben ripagato nei propri figliuoli, perché il Signore dispose che uno dei figli di quella nobile donna fosse istrumento di salvezza per me, nei momenti più decisivi della vita. E questi fu precisamente il Prof. Vincenzo Pepe.
Educato alla scuola dell’infortunio e del dolore, con l’esempio vivo di una santa madre, dal cui fianco non si staccava mai, (oh, il gran dono di Dio poter convivere con una madre santa!) il nostro Vincenzo conformava gli atti della sua vita agli esempi della eroica donna, e veniva acquistando le virtù della rassegnazione, del disprezzo del mondo, del distacco da tutto, e del vivere confidato solo in Dio.
2 – Crocifissa Capodieci
Ma oltre l’esempio di sua madre, il giovane Pepe si specchiava nelle virtù di un’altra santa donna Latianese, Crocifissa Capodieci, da Dio prescelta come vittima per i peccati del suo paese, e a questa donna straordinaria, ma analfabeta, egli faceva come da segretario.
Nel 1860, dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, Crocifissa ebbe illustrazione soprannaturale di quanto doveva avvenire nella Chiesa, e dettò a Vincenzo Pepe una lunga lettera profetica diretta ai suoi concittadini. Questa lettera pervenne a me, giovanissimo allora, e la feci ostentiva a parecchi signori di Mesagne, dove io villeggiavo, destando in tutti viva ammirazione.
Crocifissa elesse la povertà volontaria: viveva della giornaliera Provvidenza in una delle ultime casette, che allora erano quasi fuori l’abitato di Latiano, avuta in carità dai signori De Nitto. Seguiva perfettamente l’insegnamento di San Francesco di Sales: - nulla chiedere e nulla ricusare; - e il pane le veniva ogni giorno da persone cui Iddio ispirava, e che ella sovente ignorava.
Nei tempi che io era a villeggiare in Latiano o a Mesagne, Vincenzo Pepe mi accompagnava alla visita di Crocifissa, vecchia ottantenne, a letto da trent’anni, ma senza aver mai piaghe di decubito; povera, ma amante della nettezza. Quantunque illetterata, parlava di Dio meglio di un teologo, citando passi latini della Bibbia o di Santi Dottori, o dava consigli alle anime senz’altro studio che quello dell’orazione continua, della penitenza custode della sua verginità, e della Comunione, che fu quotidiana finché potè recarsi in Chiesa, poi eventuale per mezzo di qualche sacerdote che per carità gliela portava alla casetta.
Quando vidi per l’ultima volta Crocifissa, io mi trovava in gravi travagli di spirito, in un momento decisivo della mia vita. Mi era recato da lei con Vincenzo Pepe a domandar consiglio e aiuto di preghiere.
Ella era a letto. La santa vecchia udì in silenzio le mie parole. Tardò a rispondere. Poi proferì con grave lentezza: - Age quod agis: - Seguirono altri intervalli di silenzio. Quindi, come invasa da un subitaneo soffio di profezia, scattò, levando la voce, col suo consueto entusiasmo: - Come si chiama la gran Signora a cui tu servi a Pompei? – Regina delle Vittorie? ...
E dando un pugno sul letto, soggiunse subito con tono di sicurezza: - E trionferà! ...
Un anno appresso l’anima di Crocifissa Capodieci era volata alle nozze celesti, a lodare il suo Sposo col canto riservato alle Vergini.
Nel giorno e nell’ora in cui Crocifissa morì, io ebbi un segnale di qual potenza fosse presso Dio la protezione ch’essa aveva di me.
Era l’ora del tramonto. A Valle di Pompei si lavorava alacremente per coprire di rustico il Tempio, e insieme si costruiva allato una cappella che doveva servire da sacrestia e che oggi è quella di Santa Caterina da Siena e di S. Cecilia. Si fabbricava la volta di essa.
I muratori che erano sui palchi, essendo finita la loro giornata, prima di sospendere il lavoro e di scendere, com’è loro usanza, gettavano giù da quell’altezza i ferri del mestiere. Tra quei ferri vi era una grossa mannaia tagliente da un lato, che serviva per spaccare le pietre. In quell’istante che i ferri erano lanciati, io mi trovavo a passare sotto di quell’impalcatura: mancai di dar l’avviso. La mannaia mi cadde sul dosso, dalla parte tagliente. Tutti levarono un grido, anche l’architetto Rispoli: ed io credei veramente di aver ricevuto una ferita mortale. Intesi un urto al vomito. – E sangue – dissi fra me. – Ma quando gli astanti accorsero per darmi aiuto, constatarono con somma meraviglia, ch’io era perfettamente incolume. Un grido di gioia proruppe allora da tutti i cuori e tutti ripetettero: - Miracolo! Miracolo!
Il giorno seguente Vincenzo Pepe mi dava da Latiano l’annunzio:
- Ieri alle ore 23 spirava Suor crocifissa Capodieci.
Vuoi concorrere ai funerali?
- Siano fatti solenni a mie spese! – Fu la mia risposta.
Ma non fu bisogno, perché il Rev. mo Capitolo di Latiano per onorare quella umile donna, gloria delle nostre terre natali, volle a proprie spese, con solenni esequie accompagnarne la salma fino all’estremo riposo.
3 – Tragica sciagura domestica
Vincenzo leggeva tutto, leggeva sempre, anche di notte, onde gli s’indebolì la vista. Fin da giovane si dedicò all’insegnamento dei fanciulli. Un mio congiunto magistrato non lo chiamava con altro nome che con quello di – Rex puerorum, - il Re dei fanciulli.
Ma, giunto a trent’anni, la madre medesima, pregava forse della sua prossima morte e temendo quindi maggiore dissoluzione della famiglia, sospinse il suo prediletto figliuolo ad uscire da Latiano per procurarsi un pane onorato col divenire insegnante in qualche Liceo.
La buona signora Carmela Lucci, di fatto, il 20 Novembre 1860 lasciò la terra per andare a godere in Cielo il premio delle sue inenarrabili sofferenze e delle sue singolari virtù.
A questo dolore di Vincenzo di perdere l’adorata genitrice se ne aggiunse un altro.
Uno dei fratelli, tornato di fresco dalla milizia, aveva portato seco, con gli indumenti militari, il proprio fucile. Lo stato miserevole della famiglia gli fece dar di volta il cervello, e la festa del 25 Maggio 1862 in Latiano fu turbata da un fatto orribile di sangue. Quel forsennato a vedere per una camera passare il genitore prese il fucile e glielo spianò contro per ammazzarlo.
La figliuola Giacinta, giovane di angelici costumi, vide quel gesto del furibondo fratello, previde il pericolo, e per impedire la tremenda catastrofe, fece della sua persona scudo alla persona del padre.
Si udì forte detonazione che rintronò per tutta la casa; il colpo partì a poca distanza e ferì Giacinta nel fianco, che immersa nel proprio sangue compì, dopo poche ore, l’olocausto della sua vita, cadendo vittima della sua pietà filiale.
4 – Il Professore Vincenzo Pepe e lo Spiritismo
E il nostro Vincenzo seguì l’esortazione di sua madre. Lasciò la casa e si recò a Torino, allora Capitale d’Italia; subì felicemente gli esami, e subito fu allogato come Professore di italiano al Liceo di Potenza, poi a quello di Bari, e infine a quello di Maddaloni.
Da quell’ora il Signore non mi fece mai più scampagnare dal novello Professore che aveva pregi non comuni, non solo per la sua valenteria nelle lettere italiane e latine, ma, che è più per la nobiltà di sentire e per le virtù cristiane, dominando nel suo animo un certo rigorismo religioso e morale, congiunto ad una semplicità di fanciullo che lo rendeva esemplare di costumi, accostevole a chiunque con lui s’incontrasse.
Nei giorni festivi, per mio svago fra i severi studi di Legge cui attendevo in Napoli, andava a trovarlo a Maddaloni; ed egli veniva spesso da me a diporto nella grande città, l’amica metropoli delle due Sicilie. E il primo incalcolabile bene che il mio amico fece all’anima mia fu quello di farmi svincolare dal satanico giogo dello Spiritismo, e ripudiare le sue infernali dottrine, in cui io, per indomabile brama di conoscere la verità, (erano allora i tempi famosi di Renan) era stato miserevolmente travolto.
Il mio amico, certo perché viveva nella grazia di Dio e nella frequenza dei santi Sacramenti, aveva un naturale aborrimento, quasi un mistico orrore per le pratiche spiritiche, e mi esortava costantemente a ritrarmene.
Da parte mia, gli rendeva evidenti i fenomeni dello Spiritismo che non si potevano negare, come la manoduzione, il linguaggio auricolare, l’illustrazione della mente nel conoscere i fatti altrui a distanza, e i segreti delle famiglie, ed altri fenomeni strabilianti. Il Prof. Pepe non sapendo darne ragione, non lasciava di consigliarmi incessantemente di trovare qualche insigne personaggio, qualche uomo veramente dotto, - egli diceva – con cui potessi disputare.
Gli era stato detto che in Napoli vi erano due dotti uomini, un teologo Domenicano e un Padre Liguorino: un certo Padre Maestro Alberto Radente, del Convento di S. Domenico Maggiore, e il Padre Emmanuele Ribera, del Collegio dei Liguorini in S. Antonio a Tarsia.
Se non che essendo stati di fresco espulsi da Napoli gli Ordini Religiosi, Gesuiti, Scolopi, Barnabiti, Domenicani, Liguorini e gli altri, chi avrebbe potuto metterci sulle tracce di quei due religiosi, per quanto insigni, a noi affatto sconosciuti?
Passo un anno di inutili ricerche, ma il mio amico non desisteva mai dal pregare Dio e dall’interrogare gli uomini. Finalmente, a furia d’investigare, gli venne dato di scoprire dove fossero questi due religiosi, ch’erano dal Signore preordinati alla mia conversione e salvezza.
5 – Il Padre Maestro Radente O.P.
Del P.M. Radente ho a lungo parlato nel 1° Volume della storia del Santuario, e ne parlerò continuando a narrare la storia dei primi nove anni della Chiesa in costruzione, che furono gli ultimi della Chiesa in costruzione, che furono gli ultimi della sua vita.
Apro qui a tutti l’animo mio. Mi sono studiato sempre, e in tutti i modi, di rendere evidenti le benemerenze di questo mio Padre spirituale nei fatti primitivi dell’Opera Pompeiana, per uno scopo doveroso, cioè per sdebitarmi con lui del massimo benefizio arrecatomi, che fu la mia conversione a Dio. E il modo da me preferito è stato quello di esaltare e far onorare da tutti l’inclito Ordine di S. Domenico, a me carissimo, perché l’Ordine del Rosario di Maria.
Senonchè dopo i primi nove anni dell’Opera di Pompei, Iddio volle privarmi del consiglio e del conforto di questo santo uomo, col chiamarlo a sé, prima ancora che fosse finito il Tempio e prima ancora che cominciassero a sorgere gli Istituti di Beneficenza intorno a cui doveva formarsi la nuova città. E però dal 6 gennaio 1885, che segna il giorno della sua dipartita, scompare anche nella nostra storia il nome del P. Radente. Ma rimase sempre viva in me la santa ostinazione di veder servita nel Tempio di Pompei la regina del Rosario dai Figli del Rosario.
Di tal che la missione che Dio affidava al P. Radente va studiata sotto un doppio aspetto, in rapporto cioè alla mia persona, e in relazione all’Opera Pompeiana.
In rapporto all’anima mia, quell’amato Padre ebbe innanzi tutto il gran merito di ritrarmi dallo Spiritismo, come già ho narrato, e poi quello di comunicarmi a fondo la dottrina del Rosario, la storia dell’Ordine Domenicano e quella del Terzo Ordine della Penitenza: onde ho potuto avere la ventura di pubblicare Operette ascetiche, storiche e polemiche, intorno al Rosario, al gran Patriarca Fondatore e alla sua Terza Famiglia. In relazione poi all’Opera Pompeiana, la memoria del P. Radente dev’essere gratissima non a me solo, ma a tutti i devoti della SS. Vergine di Pompei, perché egli aveva dato la vecchia e sdruciata tela della Madonna del Rosario alla sua penitente, nostra dilettissima consorella del Terzo Ordine, Suor Maria Concetta De Litala; e questa la donò poi a noi, per farla servire al primo culto del Rosario nell’abbandonata terra di Pompei.
(La buona Suor M. Concetta De Litala, donatrice della Immagine divenuta poi prodigiosa in questa nuova Città di Maria, implorò dalla celeste Madre la grazia di venire a morire accanto a questo suo novello Trono di misericordia. E difatti, uscita dal Conservatorio del Rosario a Porta Medina, venne a passare gli ultimi giorni qui, e rese l’anima al Signore nell’Orfanotrofio della Vergine di Pompei annesso al Santuario).
Com’è risaputo, quella lacera Immagine fatta da me ritoccare, venne poi arricchita dalla pietà dei fedeli di preziosissime gemme, e forma oggi l’oggetto della venerazione universale. Innanzi a quest’Immagine, ribenedetta dal medesimo P. Radente, il 13 Febbraio 1876, nella vecchia cadente Parrocchia, venne eretta la Confraternita del Rosario, così detta di Spirito, che indi, in breve tempo, da questa Valle del Vesuvio allacciò i Rosarianti della terra.
Ha un altro gran merito il P.M. Radente; perché fu lui che seppe, in un momento difficilissimo per me, di dure lotte, rendermi ardito di lasciare al mondo il nostro periodico IL ROSARIO E LA NUOVA POMPEI, che fu ed è uno dei mezzi più efficaci e provvidenziali per quanto si è compiuto in questa terra prediletta da Maria.
Fin qui la Provvidenza si valse di lui; poiché non ancora era terminato il primo anno della vita di questo Periodico, e già il Signore coronava la sua bell’anima col premio dell’Eternità beata.
6 – Il Venerabile P. Ribera liguorino
In un giorno adunque designato dalla misericordia di Dio, il Prof. Pepe mi presentò al P. Ribera, oggi dalla chiesa dichiarato Venerabile.
Quel che seguì da quell’ora non mi è dato qui riferire. Solo dirò che per me, non senza l’intervento di una mano soprannaturale, si aperse quella via che poi mi ha fatto pervenire a Pompei all’edificazione del Santuario e alla fondazione di queste Opere che hanno dato origine a una nuova città – La Pompei cristiana di fronte alla Pompei pagana.
Il Venerabile Liguorino destava una sacra meraviglia in tutti che lo frequentavano, e appariva al primo vederlo un santo inimitabile, così per i copiosi doni straordinari avuti da Dio, come per le sue rigide volontarie penitenze congiunte ad infermità incurabili. Viveva, parlava e predicava con un sol polmone, in un corpo affranto e macerato da un complesso di mali. E per giunta egli aveva fatto il voto di non perdere mai tempo: onde nessuna ricreazione, nessuno svago e nessun riposo egli si consentiva mai, e il suo conversare, il suo consigliare, l’ascoltare le confessioni non durava più di cinque minuti. Aveva impegno pronto e vivace, una memoria portentosa, da ricordare e citare tutte le edizioni di libri ascetici, e dirigeva le anime suggerendo i migliori libri che fossero opportuni allo stato di ciascuna.
Un sol fatto. Il Padre Ribera andò un giorno a far visita alla Ven. Caterina Volpicelli, nella cui casa convenivano molte pie signore e signorine per ritiri spirituali e pratiche di pietà. Una di queste, una signorina calabrese, gli chiese consiglio per la sua vita: e il buon Padre le promise di mandarle un libro come guida, nelle sue condizioni. Quel libro che poi le mandò, trattava del modo come comportarsi una donna in Società e da coniugata in famiglia. La Signorina, nel primo avere il libro, - Oh! – esclamò col riso sprezzante – Che libro mi manda il P. Ribera! Non gli ho detto io che voglio imitare Caterina Volpicelli? La signorina tornò in Calabria, e non passò un anno che andò a marito… Ed ecco che il P. Ribera, con quel libro donatole, le profetizzava il suo stato.
Come si possono riferire in due linee tutte le grazie date, che Dio lo aveva arricchito per la salvezza di molti?
Quanti giovani studenti io presentavo al P. Ribera, e quanti sacerdoti! Quante scrutazioni di cuori! Quale mirabili discernimento di spiriti! Quanti profetici lumi circa la scelta dello stato e le divine vocazioni! Citerò un fatto, fra tanti svoltisi sotto i miei occhi, che riguarda la vocazione. Vivevano sino a ieri in Roma due Reverendi Padri della Compagnia di Gesù, il P. Agostino Zagari e il P. Francesco Zagari, fratelli, che giovani studenti a Napoli, io conduceva al caro Padre Liguorino per avere la certezza della loro vocazione religiosa.
Anch’io a quel tempo aveva una certa inclinazione ad abbracciare l’Ordine di San Domenico, e n’era confortato dal prelodato P.M. Radente. Volli chiedere preghiere anche per me, pronto ad eseguire la volontà di Dio.
Il Padre ci accolse benevolmente e promise: - Datemi tempo a pregare.
Passato un mese ci presentammo al padre Ribera. Come ci vide, levò la voce in tono di rimprovero: - Che? ... non è un mese che ci siamo veduti, e voi già venite per saper le volontà di Dio? S. Ludovico Bertrando, quel gran Santo domenicano, in questi simili casi chiedeva sei mesi di tempo a pregare. Tornate un’altra volta.
Trascorsi altri due mesi condussi a lui il solo Agostino, che era mio intimo amico e compagno di studi.
Bussammo alla porta della sua camera. Egli aprì, ci fece entrare senza dire una parola, e richiuse l’uscio.
Immantinenti si volta al mio amico, e su due piedi gli dice con tono sicuro e reciso di profezia: - Don Agostino, la vostra è vera vocazione: fatevi Gesuita, andate a Roma. E rapidamente, rivolto a me, pronunzia queste solenni parole: - Don Bartolino, la vostra non è vocazione, è velleità. Non vi fate Religioso, statevi così… altrimenti… non si compiranno i disegni di Dio…
E ci accomiatò senz’altro aggiungere.
Per comprendere le parole del P. Ribera dirette ad Agostino, è bene sapere che a quel tempo i Padri Gesuiti erano stati espulsi da Napoli, e però disse: “andate a Roma. E, attraverso non poche difficoltà, (era difficile allora ad un giovane studente avere un passaporto per Roma) il mio amico Agostino Zagari, poté giungere sino a Roma, entrare nella Compagnia di Gesù, e lì lavorare molti anni alla gloria di Dio.
Il somigliante avvenne al secondo fratello, P. Francesco Zagari, e così a cento altri, secolari, studenti e professori, preti e religiosi.
I fatti poi avveratisi nella mia persona sono prova del lume di Dio da cui era guidato il P. Ribera nei suoi consigli, che ancora dopo cinquant’anni si vanno compiendo.
Ecco un altro fatto, che basta ad attestare a qual grado insigne il P. Ribera possedesse il dono meraviglioso della scrutazione dei cuori che include quello della profezia. Un giorno – saranno oramai trascorsi cinquanta anni – un giovane mio amico della provincia napoletana, e di cui un doveroso riserbo c’impedisce di dire il nome e di precisarne il luogo di nascita, attraversava il Largo Mercatello, oggi Piazza Dante, in quella popolosa città partenopea, assorto in pensieri che gli assillavano e torturavano l’animo, in riguardo alla sua vocazione.
D’un tratto sente una mano che gli picchia sulle spalle: si volge e vede un Liguorino a lui sconosciuto, rosso in volto come uno che abbia soverchiamente alzato il gomito e che, senza dargli tempo di manifestare la sua sorpresa o la sua irritazione, gli dice, e quasi gl’impone a bruciapelo: - fatti Prete! Scaccia qualunque pensiero. Se hai bisogno di me, vieni a S. Antonio a tarsia.
Il mio amico, accigliato, stava istintivamente per rispondergli con uno sgarbo, per dirgli chi mai lo autorizzava a brigarsi delle sue faccende; ma il Religioso si era dileguato.
Il giovane si sente accrescere lo stupore e l’irritazione. – Doveva esser davvero abbastanza brillo, quel frate! – mormorava. Ma poi considera: - E come mai ha potuto egli leggere nell’interno del mio animo e sapere i fatti miei? Chi lo conosce? Chi lo ha visto mai? ... Chi gliene ha parlato? ...
- Qui c’è un mistero, - conchiude, preso da una subita risoluzione: - bisogna spiegarlo.
S’incammina per Via Tarsia, dove appunto si trova la Casa dei Liguorini. Picchia e al laico che faceva da portinaio, domanda: - Non ci sarebbe qui un Padre, tutto rosso acceso in volto, come uno che avesse … vorrei dire … bevuto un po’ soverchiamente? …
- Ma, per amor del Cielo, interruppe l’altro, qui, per grazia di Dio, non c’è nessuno che abbia queste abitudini … E con amorevoli domande se ne fa abbozzare un ritratto superficiale. E prima che il giovane l’abbia completato, il religioso ha capito e – Basta, basta – interruppe. – Dev’essere il Padre Ribera. – Chi è questo Padre Ribera? – È un santo. Se vuole parlargli è nella sua cella.
E tutti e due si avviano a un corridoio dei piani superiori. Se non che prima ancora di arrivar del tutto al punto ove abitava il santo religioso, una cella si schiude, come se il P. Ribera medesimo fosse stato ad aspettare qualcuno e dice al giovane con una cert’aria di comando: - Entrate. Il mio amico sente crescere la sua meraviglia. Entra e il Padre Ribera senza alcuna cerimonia, gl’impone d’inginocchiarsi e fare la sua confessione generale … - ma come, … Padre! – arrischia l’altro – così. … senza nessuna preparazione? …
- Non ce n’è bisogno. Vi domanderò io, e voi rispondete. E senza domandare, ma come uno che legge su d’un libro aperto, il Padre Ribera in cinque minuti fa una rapida e precisa sintesi dello stato di coscienza del suo penitente e lo accomiata con la profezia che egli un giorno sarà sacerdote. E il fatto si avvera. Il giovane commosso profondamente e profondamente illuminato, decide sulla sua vocazione: inizia la carriera ecclesiastica, ed oggi è uno dei più pii e zelanti Parroci dell’Archidiocesi di Napoli.
7 – Le visite ai Santi viventi in Napoli
Il Prof. Pepe non solo ebbe dinanzi al Signore il merito singolare di cooperare alla mia conversione dallo Spiritismo, col rintracciare e farmi conoscere i due santi Religiosi, come ho narrato, ma fu per me la prima paterna guida nel mutato tenore di vita, dopo che io lasciai l’avvocheria per darmi tutto alle opere di Carità. Fu l’istrumento provvidenziale nelle mani di Dio, perché nel primo anno dopo la mia conversione, egli rimase in Napoli; e con lui ebbi la ventura di conoscere i santi allora allora viventi in quella città, di cui oggi parecchi sono Venerabili, e due già prossimi a esser dichiarati Beati dalla Chiesa, cioè: - il P. Ludovico da Casoria e il P. Ribera.
Per attingere fortezza nelle lotte dello spirito, che sono inseparabili dai primi tempi della conversione, e per essere illuminati e guidati nelle vie del Signore, e più per essere confortati dagli esempi di Santi ancora in vita, andavamo insieme a visitare ora uno ora un altro di esse.
Eravamo divenuti col Professore Pepe due indivisibili compagni legati dal più tenace e santo vincolo della cristiana amicizia, infiammata da un solo e comune amore, l’amore di Dio. Insieme si mangiava, insieme, nella stessa camera, si dormiva, insieme si usciva a passeggio, o meglio in cammino per andare a vedere e conversare con quei Servi del Signore. Questi furon nove, che la bontà divina mi fece conoscere, e che un giorno saranno tutti forse elevati agli onori dell’altare.
In questo punto mi si fa innanzi alla mente quella mirabile schiera, che forma la gloria di Dio e la gloria insieme di Napoli di quel tempo.
Mi si presenta in prima la prediletta vergine e gran Serva di Dio, tanto stimata ed onorata dal Sommo Pontefice Pio IX, Suor M.ª Luisa di Gesù, fondatrice in Napoli del Convento di “Stella Matutina” a S. Antonio Abate, e del Monastero di S. Filomena al Pallonetto di S. Lucia.
Questa privilegiata vergine Terziaria Domenicane pur essendo illetterata, aveva illustrata tutta la Bibbia, a cominciare dai primi libri della Genesi, dell’Esodo, dei Paralipomeni, dei Profeti, dei Salmi, sino ai Quattro Evangelisti e all’Apocalisse.
Oh! quanto bene ci faceva allo spirito il conversare con quella santa vecchietta, sempre serena e sempre sorridente! Era il sorriso della grazia di Dio che le brillava sul volto. E il gaudio e la letizia del suo animo profondeva nell’animo altrui. Celeste dono singolare era questo: le sue preghiere dinanzi a Gesù Sacramentato erano sicuramente esaudite! Di che seguiva un incessante accorrere di tribolate anime che aspettavano grazie dal Cielo, massime del popolo, alla buona Suora ch’era costretta a salire e scendere quasi di continuo dall’ultimo piano, ove era la sua stanzuccia, fin giù alla grata della Portineria. Ed ella non si stancava mai, e con animo sempre ilare tutti ascoltava e tutti consolava, perché, come ebbe a rivelare al nostro comune direttore spirituale, P. M. Radente, Gesù le aveva detto: “I doni di che ti ho arricchito non sono per te, ma per gli altri!”.
8 – Un caro dono di Suor Maria Luisa
Di questa gran Serva di Dio serbiamo a Valle di Pompei un prezioso e caro ricordo.
Ella aveva nella camera da letto una soavissima Immagine, in litografia, della Madonna delle Grazie; immagine prodigiosa, perché da quella la SS. Vergine più volte fece sentire a lei la sua materna voce e parlarle. Seppi ciò dal mio intimo amico Dottor Giuseppe Gaetani, medico della medesima Suor Maria Luisa: e per mezzo di lui, quando essa versava in grave infermità, le feci conoscere il mio vivo desiderio di avere quel quadro della Madonna, però dopo la sua dipartita da questa terra.
La buona Suora mi fece riferire che volentieri mi avrebbe accontentato, ma non poteva perché aveva già promessa l’umile immagine alla nobile signora napoletana D. Maddalena Pandolfelli, sua comare e benefattrice. E così fu. Dopo la morte della Serva di Dio, il quadro passò alla detta piissima signora. Per ventura anche questa aveva per medico il Dott. Gaetani, e anche per mezzo di costui io ebbi la promessa del quadro dalla Signora Pandolfelli, ma dopo la sua morte.
Quindici anni appresso, morta che fu quella nobile signora, l’Immagine della Madonna delle Grazie, tanto da me desiderata venne in mio possesso.
Era il tempo allora che io, avendo comprato in Valle di Pompei un podere in contrada S. Abbondio, mi era messo in animo di costruire colà un Cimitero per gli abitatori della nuova cittadina di Pompei che stava per sorgere attorno al Santuario della Valle del Rosario; onde aveva fatto ricostruire l’antica cappelletta rotonda, diroccata, dedicata appunto alla Madonna delle Grazie in S. Abbondio, da servire per chiesa in futuro Cimitero. E per ristabilire quivi il culto della Madonna delle Grazie, pensai di porre in venerazione nella nuova chiesetta rotonda quella bella, incantevole e prodigiosa immagine, da cui la regina delle misericordie aveva fatto sentire la sua voce celeste alla Serva di Dio Suor Maria Luisa di Gesù.
Il quadro non è certo di gran valore artistico, ma il dolce volto di Maria è sì soavemente materno, sì puro, sì celestiale, che quanti si mirano ne restano rapiti, e sono irresistibilmente mossi ad esclamare: - Quanto è bella!
Da quell’ora la candida Chiesetta sull’amena collina di S. Abbondio è stata il centro di tenerissima devozione di tutti i numerosi contadini sparsi per quei dintorni; ed ogni anno al 2 luglio, giorno della Madonna delle Grazie, vi si celebra una divota, popolare e poetica festa, in cui quella cara Immagine è portata in processione per le circostanti campagne ed anche per le vie della Nuova Pompei.
I pellegrini che vengono da Napoli a visitare il monumentale Santuario della SS. Vergine del Rosario, giunti alla Stazione ferroviaria di Stato, gittino uno sguardo a destra, e mirino un po’ col cuore devoto, di là dalla via ferrata, fra il verde della campagna lussureggiante, su di aprica collinetta. Il piccolo e gentile tempietto rotondo, che dedicammo alla madonna delle grazie e a S. Abbondio. Quivi si venera la bella e attraente figura della Madonna, che fu proprietà della serva di Dio Suor Maria Luisa di Gesù.
9 – Altri Servi di Dio – La Ven. Caterina Volpicelli
E che dire di quel modello delle Signorine napoletane colte e intelligenti, che fu la Venerabile Caterina Volpicelli, la grande propagatrice della divozione del Cuor di Gesù in Napoli? Essa fu la Fondatrice delle Ancelle del Sacro Cuore nel proprio palazzo al Largo Petrone alla Salute. Essa per mezzo delle sue Figlie continua ancora a fare tanto bene a famiglie, a parrocchie, a contrade, a paesi e città, con l’opera dell’istruzione catechistica, degli eserciti spirituali alle signore, col provvedere le chiese povere di biancheria e di arredi sacri, e con altre opere di zelo e di soccorso alle anime.
10 – Il Servo di Dio D. Agnello Coppola
In quel tempo – anno 1867 – il Signore mi fece la grazia di conoscere il Venerabile Servo di Dio Don Agnello Coppola, onore del Clero Napoletano: e fu a questo modo.
Un giorno il mio caro P., Ribera, con quel suo sorriso d’innocente fanciullo, mi dice:
- Ti voglio far conoscere un Santo che cammina: Don Agnello Coppola. Egli è stato penitente di un altro Santo, cioè del Beato P. Saverio Maria Bianchi, Barnabita.
E mi mandò con una sua commissione a casa di Don Agnello, che era già vecchio.
11 – I due Servi di Dio dell’Ospedale degl’Incurabili Francesco Maione e Luigi Avellino
Ma quale dolcezza mi faceva provare il Signore nelle visite ch’io faceva, quasi ogni sera, a due altri Servi suoi, che erano infermi cronici, degenti nel grande Ospedale degli Incurabili! L’uno era il servo di Dio Francesco Maione, Priore della quinta e Sesta Sala, cioè il Capo, il Padre, il Maestro, che si prendeva tutta la cura delle anime di quegli infermi. Giovane ancora a trent’anni, era immobile nel suo letto di dolore, con una gobba al petto e una alle spalle, ond’era costretto di giacere seduto su di un letto bucato, e con una lenta dissoluzione delle ossa delle gambe, da anni.
Morì la sera della festa della Presentazione di Maria Vergine al Tempio (21 Novembre), nel punto medesimo in cui Gesù in sacramento faceva la Benedizione a quella Sala. E le ultime parole di quell’avventurato infermo furono: - Regina mia, vieni e portami! – E la celeste regina menò seco quell’anima al Paradiso.
L’altro era Luigi Avellino, paralizzato metà della persona pel corso di diciotto anni, Priore della Settima Sala al piano inferiore. Aveva libera solamente la mano sinistra, con cui suonava il campanello per intonare il Rosario, per l’avviso della recitazione in Comune della Novena alla Madonna di Pompei e di altre preghiere, a cui partecipavano con affetto e divozione tutti gli ammalati della Sala.
I corpi di questi due Servi di Dio, infermi poveri, si trovano oggi in Deposito Canonico della Chiesa dell’Arciconfraternita di S. Giuseppe Maggiore in Napoli.
12 – Il P. Pennasilico - filippino
Non minore conforto veniva poi nell’animo nostro ogni volta che visitavamo il Confessore del Padre Ribera. – Chi era il Direttore del Ven. P. Ribera? – Era il canuto P. Pennasilico dell’Oratorio di S. Filippo Neri in Napoli, detto dei Girolamini, da tutti stimato santo. Quel vecchietto filippino che pareva un romito, era pure il confessore del nostro Prof. Vincenzo Pepe, e di quell’illustre letterato e agiografo Filippino, nobile napoletano, che fu il Padre Alfonso Capecelatro, divenuto poi Cardinale di Santa Chiesa: nonché dell’altro Oratoriano P. Carlo Mola, che prima di esser nominato Vescovo di Foggia era Prefetto della Congregazione dei Dottori e Cavalieri, cui apparteneva anch’io. Il P. Pennasilico era similmente direttore di spirito del venerato P. Aniceto Ferrante, che fu poi Vescovo di Gallipoli, e del venerando P. Longo, filippino, morto anch’egli in gran concetto.
13 – Il Ven. P. Lodovico da Casoria
Ma più degli altri usavamo visitare e accompagnare nel suo cammino, fatto sempre a piedi, e nei suoi viaggi in treno il P. Lodovico da Casoria, il San Francesco dei nostri tempi, già dalla chiesa dichiarato Venerabile e oggi in via di Beatificazione.
O Napoli fortunatissima! Nel tuo seno Iddio, in quei torbidi tempi di rivolgimenti politici, aveva formato tanti Santi, da renderti privilegiata fra tutte le città d’Italia, e più ancora tra le nazioni straniere!
(Dal processo canonico, che ho dovuto studiare per compilare la Vita del Venerabile P. Gian Leonardo De Fusco dei Predicatori, ho potuto costatare che vi sono nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Napoli ben trecento Processi di Venerabili che aspettano la beatificazione. Napoli, dunque, ha un numero di Santi superiore a quello che può oggi vantare tutta la Francia).
14 – Il Ven. P. Lodovico da Casoria e Vincenzo Pepe
Il P. Lodovico aveva tanta stima del valore e delle virtù del Prof. Pepe, che volle nominarlo Maestro d’Italiano del nuovo Collegio da lui aperto per i figli di nobili napoletani, intitolato della carità, e diretto dal Sac. Enrico Attanasio, filosofo e scrittore di gran valore, che dirigeva ancora il Periodico “La Carità e l’Orfanello del P. Ludovico da Casoria”.
Ma il modo come fu trovato Vincenzo Pepe, quando il P. Lodovico desiderava invitarlo qual Professore in detto Collegio, fu al tutto singolare.
Il mio amico Pepe aveva ottenuto l’ufficio di Censore nel gran Collegio Medico con lauto stipendio.
Sennonchè quei giovani medici annusarono che il loro Censore era scrupoloso, e quindi, per stuzzicarlo” e prendersi gioco di lui, bestemmiavano come vetturini toscani mattina e sera, nonostante tutti gli avvertimenti paterni del malcapitato Censore.
Il povero Vincenzo fece questo ragionamento: - per causa mia si offende Dio in questo Collegio: dunque devo andarmene. Così compì l’eroica risoluzione di abbandonare quel posto onorifico e lucrativo. Ma prima andò per consiglio al Ven. P. Ribera, il quale come lo vide, gli disse con la solita brevità e con tono risoluto: - D. Vincenzo, partite per Roma e fare i santi Esercizi. E l’ubbidiente Professore immantinente lasciò tutto e partì per Roma. Prima di partire andò a visitare la nostra Suor Maria Luisa di Gesù, e la informò del suo proposito di andare a Roma per gli esercizi spirituali impostigli dal P. Ribera.
Quella Serva di Dio per aiutarlo, gli disse: - Ora vi raccomando io a un Santo, al P. Don Giovanni Merlini, il terzo Direttore Generale della Congregazione del Preziosissimo Sangue, fondata dal Beato Don Gaspare del Bufalo, e poi diretta dal suo successore D. Biagio Valentini.
E gli scrisse una lettera. Con questa autorevole raccomandazione il Prof. Pepe compì con gran profitto il suo ritiro spirituale in quella Casa dei Padri del Sangue Sparso in Roma, e il Servo di Dio P. Giovanni Merlini, nell’accomiatarlo, lo benedisse facendogli una profezia riguardante la sua futura annosa vita…! Compiti gli Esercizi, il Prof. Pepe tornò a Napoli; ma tra il viaggio e le spese pel vitto aveva dato fondo a tutto il danaro che possedeva. Quando giunse alla Stazione di Napoli, si trovò in tasca soltanto sei soldi, bastevoli appena per la mancia a un ragazzo che gli portasse la valigia. Senza menomare la sua fiducia nella provvidenza, a cui era stato da anni educato, disse tra sé: - Per pranzare, ora vado a casa di Bartolo Longo; ma per trovare un’altra occupazione a Napoli? … ci penserà Dio!
E s’avviò a piedi preceduto dal ragazzo. Giunto nella larga e popolosa Via Foria, ecco inaspettatamente si abbattè col Rev. Alfonso Attanasio, fratello del Prof. D. Errico sopra nominato. - Oh che incontro! – fu la spontanea esclamazione di ambedue.
E D. Alfonso fu presto a soggiungere: - Sono andato cercandovi per ogni dove, e non mi è riuscito trovarvi altro che in mezzo a questa via! ... Ho l’incarico da mio fratello, e per espresso desiderio del P. Lodovico, d’invitarvi a Professore d’Italiano al Collegio della carità, che il Padre ha aperto prendendo in fitto il palazzo Casa Catena al largo S. Domenico Maggiore.
Il Prof. Pepe, commosso e ringraziando in cuor suo la Provvidenza. – Non più per questa via; - ordina al ragazzo della valigia; - andiamo invece a S. Domenico Maggiore.
15 – I suoi studi sulla Bibbia
Fu quello il tempo in cui il Prof. Pepe seguì un’interna ispirazione di darsi allo studio delle Sacre scritture, intorno a cui consumò quarant’anni di vita. Egli lesse due volte tutta la Bibbia; perché – mi diceva – chi non legge la Bibbia da capo ma fondo non può mai avere un’idea chiara e condegna della parola di Dio.
Gli Evangeli poi furono la più grande attrattiva dell’animo suo. Trenta volte, di sua mano, copiò i quattro Evangeli in italiano, per commentarli, con la traduzione dei commenti di S. Tommaso d’Aquino, e con idee al tutto proprie, effetto di continue e profonde meditazioni.
Sull’argomento “La Trina-Unità dei Santi Evangeli” scrisse parecchi volumi, di cui alcuni videro la luce. Altri manoscritti furono da lui lasciati in testamento alla Biblioteca Comunale di Brindisi. Seguace perfetto della Teologia e della Morale di S. Tommaso, aveva sempre pronti passi e sentenze dell’Angelico Dottore da applicare alle varie circostanze della vita.
16 – E i suoi difetti?
Ma chi non ha difetti in questo mondo? È comune proverbio: ama l’amico col suo difetto. Il Venerabile Ludovico Blosio Abate Certosino, nel suo aureo e rarissimo libro: “ISTRUZIONE DELLA VITA ASCETICA E CONSOLAZIONE DEI PUSILLANIMI” c’insegna una teoria più bella: - i difetti – egli scrive – sono un mezzo di nostra santificazione. Iddio talune anime privilegiate arricchisce dei suoi carismi, le fa crescere nelle virtù, esaudisce le loro preghiere, ma, per quanto esse preghino e si studiano di togliere alcuni propri difetti, spesso non concede loro questa grazia. Ciò dispone il Signore nei suoi disegni di sapienza e di amore nel guidare a perfezione le anime a lui dilette, ed ottiene due scopi: primo, toglie a queste anime la presunzione nelle proprie forze; secondo, fa scemare la stima e l’onore verso di loro da parte di quei che le circondano. Questi, guardano più facilmente i difetti che non le virtù di quelle anime elette, le tengono in dispregio, o almeno non le hanno nella stima dovuta. Quelle anime intanto hanno in tal modo l’occasione di far continui, per quanto difficili e quindi più meritevoli, progressi in quella virtù, che è il fondamento della santificazione, cioè nella santa umiltà.
Ancora il P. Tissot, sulla profonda dottrina del Venerabile Blosio, pubblicò un libro utilissimo con questo titolo: “L’ARTE DI TRARRE PROFITTO DALLE PROPRIE COLPE”, che riesce di grande conforto ai peccatori ravveduti.
Ma un altro profondo ammaestramento, di gran conforto alle anime elette e combattute nel cammino della perfezione, ci lasciò quel santo Vescovo francese, scrittore dolcissimo e sapiente, il celebre Mons. Fènelon, nel tomo 3° delle sue Opere, poggiandosi sull’autorità del gran Vescovo d’Ippona, Padre e Dottore della Chiesa, S. Agostino.
“Non vi spaventate perché vi trovate vivo, impaziente altero, decisivo: questo è il vostro fondo naturale; bisogna sentirlo. Convien portare (dice S. Agostino) il gioco della confusione giornaliera dei nostri peccati. Conviene sentire la nostra debolezza, la nostra miseria, la nostra impotenza di correggerci. Convien disperare del nostro cuore, e non sperare che in Dio”.
Un’ultima massima per chiudere. Il nostro compianto amico Mons. Gennaro Aspreno Galante, uno dei più dotti e santi preti del Clero napoletano degli ultimi tempi, ripeteva un motivo che era proprio di quel gran Domenicano Monsignor Rosini, Vescovo di Pozzuoli: “Rispettare i difetti nelle grandi virtù”.
17 – gli ultimi anni
Gli ultimi venti anni di sua vita Vincenzo Pepe li passò nella sua casa paterna in Latiano, appartato da tutto e da tutti, in grande penuria di beni, ma in grande ricchezza di spirito e di pace dell’anima, immerso nel suo prediletto lavoro, cioè nel tradurre parte della Somma Teologica di S. Tommaso, e tradurre un’opera di un dotto Domenicano Francese, intitolata: “La Chiave della Somma di S. Tommaso”, che faceva innamorare quanti ne sentivano la perspicua traduzione in lingua pura italiana.
Questo lavoro, tutto manoscritto e copiato da lui in chiara calligrafia, lasciò pure inedito alla Biblioteca Comunale di Brindisi.
La sua figura l’ho sempre presente: vecchio, alto, secco, viso severo, forse per l’abitudine inveterata di correggere discepoli non sempre docili e studiosi, parco di parole, ma ricco di sentenze, specie dei Proverbi di Salomone e dei Libri della Sapienza. Il suo breve parlare era condito di sentenze della Bibbia e pensieri di San Tommaso d’Aquino, adatti per ogni occasione, anche per vita civile.
Quest’ultimi venti anni visse in vera povertà: lontano dall’insegnamento, non viveva se non d’un vitalizio di una lira al giorno, lasciatogli da un Barone al cui figliuolo egli aveva fatto da aio (educatore) per dieci anni continui; e da quella lira doveva sottrarre tre soldi al giorno per pagare la tassa allo Stato! ...
 
Portò questo peso della povertà, con gran fortezza di spirito, pienamente uniformato alla volontà di Dio.
 
Per la sua non comune cultura, e per tante sue virtù, massime per la sua rettitudine, semplicità, sincerità (non permettendosi una lieve bugia neppure per scherzo), e un’illuminata pietà, io non potevo vivere senza di lui.
 
L’ultima volta che ci vedemmo fu nel Maggio del 1910, quando mi recai a Latiano. Come si usava dai miei, sempre ch’io mi trovassi colà, anche quella volta il Prof. Pepe fu da mio fratello invitato a restare tutti i giorni a pranzo con me.
 
Uno di quei giorni gli chiesi come intima familiarità: - Vincenzo, perché non mi presti qualcuna di quelle care e soavi preghiere composte dal tuo santo e dotto confessore Padre Pennasilico, con le quali usavamo, cinquant’anni indietro, apparecchiarci alla Santa Comunione?
 
Ed egli mi rispose rivelandomi un segreto, e fu l’ultimo: - Sì, è vero che per lo spazio di settant’anni io non ho mai potuto fare una Comunione fervorosa per cui avevo bisogno di leggere le preghiere scritte da altri, santi e dotti; ma in questi ultimi anni che sto traducendo la Somma di San Tommaso d’Aquino non ho più bisogno di valermi di preghiere altrui … Dopo la Comunione sento che l’anima mia sale, sale … sale in alto! ...
 
Da queste parole compresi che il Signore, dopo quella lunghissima ed ardua prova dell’aridità, sostenuta con tanta fede e costanza, lo premiava infine col dono di un’alta contemplazione.
 
Della sua morte si potrebbe dire che tal morì qual visse. Appressandosi l’ora dell’estremo viaggio, fu interrogato dal medico amico se volesse ricevere i Sacramenti, Ed egli con gioia accettò la proposta.
 
Poco dopo le campane della Chiesa Madre di Latiano annunziavano che il Viatico veniva recato ad un agonizzante. Tutto il popolo, che venerava quell’uomo di vita intemerata, volle accompagnare il Santissimo e fare insieme omaggio al moribondo.
 
Vincenzo Pepe rispose egli stesso alle preci del Sacerdote, anzi, mentre gli si amministrava l’Estrema Unzione, baciava con fede e rispetto l’Olio Santo. Quindi, dopo una lunga serie di preghiere, disse col tono suo naturale, reciso: - Basta ora. Mi sono stancato. Lasciatemi riposare. Tutti si affrettarono a uscire dalla sua camera, ed egli reclinò il capo stanco dell’origliere.
 
E rimase così. Da quell’istante cominciò il suo riposo eterno!
 
Tutto il Clero di Latiano spontaneamente si offerse di farne solennemente le esequie in attestato di stima a quel venerando concittadino.
 
Il lettore ora comprende perché in tutte le mie peregrinazioni per la propaganda dell’Opera Pompeiana, io mi accompagnassi col caro mio Vincenzo Pepe, che ho chiamato il mio Angelo Custode.
 
La mia amicizia con lui si può paragonare solo con quell’altra fraterna, inalterabile, santa, che mi legò per quarant’anni di seguito, fino alla morte, al comune amico, cioè+ a quel pio e dotto medico calabrese, mio compagno e collaboratore, il miracolo di Santa Cecilia, Dott. Giuseppe Gaetani; e con quella altresì fraterna inalterabile e santa che mi legò al carissimo P. Giovanni della SS. Trinità, e al venerato ed amato P. Domenico D’Aragona della Compagnia di Gesù, anch’egli calabrese  che per trent’anni fu mio compagno nell’Opera Pompeiana. Tutti e quattro ci guardano dal Cielo e ci aspettano lassù.

(Autore: Bartolo Longo)

*Capo XIV - Uno dei nostri primi collaboratori del Periodico

Libro Settimo - pag. 418
Uno dei nostri primi collaboratori del Periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” Don Giuseppe De Bonis di Vallecorsa. (Anno 1885)
Quando riandiamo con il pensiero i primi fervidi anni del nostro lavoro e del nostro ardente entusiasmo, anni che segnarono, per disposizione del cielo, un’improvvisa e luminosa aurora per queste terre abbandonate e tuttavia destinate ad essere uno dei soggiorni prediletti di Maria, non possiamo disconoscere di quanti provvidenziali aiuti il Signore medesimo abbia voluto circondarci, affinché più presto e più efficacemente si compisse l’Opera da Lui stabilita.
La mano della Provvidenza scorgemmo sempre nelle generose e inaspettate offerte, nel concorso unanime di mille cuori, nel plauso universale di popoli e nazioni, nella riuscita e medesima di ogni nostro ardimento; ma più di tutto – e ciò commuove profondamente il nostro cuore – in una corona di fervidi e sinceri amici, di anime elette che condivisero con noi gioie e dolori, e che per noi furono, chi in un modo, chi in un altro, di valido aiuto per lo sviluppo del Santuario e delle Opere di Valle di Pompei.
Dolorosamente questi cari e indimenticabili amici ci sono stati l’un dopo l’altro rapiti quasi tutti dalla morte; e, nello schianto dell’anima, c’è di conforto ridestarne i ricordi e additarli ai lettori e agli associati del nostro Periodico, perché essi sono della medesima e spirituale famiglia, e non potranno per questa ragione riuscire per loro fuor di proposito le nostre funebri rievocazioni.
Una della serie non ristretta di questi benemeriti e primi collaboratori fu il piissimo e dotto Arciprete Don Giuseppe de Bonis di Vallecorsa.
Avevamo l’animo affranto per la perdita del nostro Padre ed Amico intimo, il venerabile P. Lodovico da Casoria (Marzo 1885) quando ci pervenne una poesia in lode di lui per il nostro periodico che, in quegli anni, era una vera palestra di fede e di arte.
L’ode, con vero slancio lirico, cominciava così:
Lasci la terra deriosa e in piano Tu che per lei la vita offristi intera
D’amor sull’ara, o Santo;
E vivido trasporti ad altra sfera
Del tuo bel cuore il fuoco,
Simile a un astro che tramuti loco…
Il verso armonioso e sonante, la perfezione della forma, il palpito di vita che la pervadeva, attrassero fortemente la nostra attenzione e ci fecero intravvedere tutte le geniali e squisite attitudini del suo autore per una efficace collaborazione nel nostro giornale.
Si accese così un vivo desiderio nell’animo nostro di conoscere quel delicato e fervente poeta.
Pochi giorni dopo eravamo immersi nelle più profonde preghiere innanzi all’Immagine della Madonna nel Santuario. Ci trovavamo tra i primi scanni, ove mattina e sera le più piccole Orfanelle pregano la loro divina Madre. Avevamo tante cose da dirle e tante cose da domandarle! E fra le tante, un efficace collaboratore per il Periodico destinato a passare come una face ardente di popolo in popolo, di nazione in nazione per propagare le glorie di Lei, per predicare la divozione al Rosario dove la nostra voce non poteva arrivare, per essere uno dei principali fattori di cui la Provvidenza stessa voleva servirsi per cominciare a compiere opere novissime e straordinarie.
Sul più bello della nostra preghiera, qualcuno venne ad avvisarci che un giovane sacerdote chiedeva di noi. Il cuore ci disse subito, come per improvvisa rivelazione: - Sarà certamente il sacerdote De Bonis! E il nostro saluto a lui che ci veniva incontro, furono appunto queste parole, accompagnate da un sorriso che rivelava la gioia e la certezza del cuore: - voi siete senza dubbio il Sacerdote De Bonis! ... Ed era così. E se il cuore ce lo aveva preannunziato, il suo aspetto dignitoso e garbato, la maniera stessa di vestire così pulita e corretta e pur senza ricercatezze, le sue prime parole piene di cortesie e di sonno, e più di tutto il sapere dal labbro di lui medesimo che egli era stato per non breve tempo sotto la direzione del dotto e santo nostro Amico, il P. Giorgio Melegrinis della Compagnia di Gesù nel seminario convitto di Alatri, ci fecero comprendere che avevamo fatto un prezioso acquisto; anzi la Madonna aveva esaudito le nostre preghiere e c’inviava Lei stessa un fervoroso e instancabile collaboratore.
Oh, se egli avesse potuto restare al nostro fianco e prendere, com’era nostro ardente desiderio e come sarebbe stato per lui di grande compiacimento, prendere – dicevamo – un’intensa partecipazione alle svariate Opere nascenti o già in rigoglio!
Quel sacerdote era nato per essere un Apostolo. Ma non s’era trovato un bel giorno, e inconsapevolmente, sulla via del Sacerdozio.
Stando ancora nel Seminario-Convitto di Alatri, egli aveva conosciuto un piissimo e intelligentissimo giovane suo condiscepolo al quale s’era legato con santa amicizia e col quale formava l’orgoglio della classe per profitto e bontà di animo. Tutti e due avevano avuto il dono della poesia: il De Bonis quello della poesia italiana, in cui riusciva ammirevole, giovinetto ancora, e spesso anche improvvisando; e l’altro, che oggi corrisponde al nome del dotto e zelatissimo Padre della Compagnia di Gesù, Giuseppe Maria Broja, il dono della classica poesia latina.
Quest’ultimo per illuminato e santo consiglio del Venerabile Liguorino P. Emmanuele Ribera, abbracciò la carriera ecclesiastica e poi, entrò nella Compagnia di Gesù.
Questa notizia sconvolse di una santa invidia l’animo del giovanetto De Bonis, che andava ripetendo all’amico: - Oh, quanto invidio la tua sorte! A me invece converrà darmi allo studio di Medicina e Chirurgia, perché tale è la volontà di mio padre…
Per questo bene supremo dunque egli lottò, pianse, soffrì, assaporò le più aspre e terribili prove.
Il suo cuore colmo e traboccante di tenerezze venne a trovarsi in fiero contrasto con la recisa volontà del padre suo che, a nessun costo, voleva permettergli una tale decisione.
Gli fu perciò mestieri, non soffocare, ma reprimere, conservare e alimentare in segreto la fiamma delle sue sante aspirazioni.
Dal Seminario-Convitto di Alatri quindi passò al Collegio Pontano di Napoli per compiervi gli studi liceali e conseguire la licenza.
Ma prima di metter piede nell’Università, il padre, che in fondo aveva un ottimo cuore e che amava svisceratamente quel suo figliuolo, gli concesse il sospirato consenso, ed egli potè entrare nel Seminario di Gaeta per cominciarvi gli studi sacri.
Il giovane De Bonis intanto non aveva mai smesso la sua entusiastica collaborazione a giornali e pubblicazioni cattoliche, specialmente di Napoli. Si vedeva evidente l’opera del Cielo in questo allenamento giornalistico per farne un giorno un collaboratore del Periodico della Madonna IL ROSARIO E LA NUOVA POMPEI.
Il conoscere tutte queste cose ci fece subito pensare: - Questo Sacerdote nato per le sante battaglie del Signore e che non desidera se non spendere le sue forti e inesauribili energie per la gloria di Lui, quale campo non troverebbe qui in opere che non conosceranno mai limite o misura?... Ci affrettammo rivolgerci senz’altro al suo Arcivescovo, Monsignor Contieri con queste testuali parole: Eccellenza Rev.ma,
“Dopo tanto pregare, mi sono sentito spinto da interna forza a domandare a V. Ecc. Rev.ma il Sac. Giuseppe De Bonis di Vallecorsa in aiuto di quest’opera nascente di Maria, per solo tre anni… Qui si tratta di un sacrificio che la Madonna vuole da Vostra Eccellenza… e la Madonna mi ha messo in cuore che l’unico mio compagno (e forse successore dell’Opera di Pompei) è il Sac. De Bonis Giuseppe. Io, dal canto mio, ardisco di dare all’Ecc. V. Rev.ma un aiuto in ricambio della perdita che fa col concedermi il De Bonis: - Sosterrei a mie spese nel Seminario di Gaeta tre chierici poveri a sua scelta, e ad uno di questi darei anche il patrimonio…”.
Valle di Pompei, Giugno 1885.
BARTOLO LONGO
Ma se a noi s’erano disvelate le peregrine doti d’animo e di mente di quel degno Sacerdote, esse non potevano essere nascoste al suo santo Vescovo; e se mille disegni s’erano destati nell’animo nostro, non minori e giustamente dovevano esser quelli concepiti dall’insigne Presule sul valoroso e pio Don Giuseppe.
Ecco perché in una cortese e benevolissima risposta, Mons. Contieri ci fece comprendere che in nessun modo avrebbe potuto privare la sua Archidiocesi di un elemento così prezioso.
Ci rassegnammo e confidammo nella provvidenza e nell’affetto stesso di Don Giuseppe De Bonis, che già era diventato nostro fedelissimo amico, per una certa collaborazione anche da lontano.
Valle di Pompei aveva troppo infiammato di entusiasmo l’animo del valente scrittore e geniale poeta, perché egli, pur obbedendo ciecamente al suo Vescovo, potesse restar del tutto estraneo a noi.
Sentiva violentemente la nostalgia di questa Valle santificata dalle Opere della Provvidenza, e di tanto in tanto egli ritornò qui, per lo spazio di parecchi anni, per attingervi nuove fiamme e per temprare i suoi palpiti ardenti. Non ci fu infatti occasione o avvenimento che non facesse fiorire nell’animo suo le più gentili idee, o i più forti pensieri che subito si traducevano in liriche alate, o in pagine di poderosa e invidiabile prosa. Dal 1885, cioè alla morte del P. Lodovico da Casoria, a tutto il 1890 – anno memorando nella storia del nostro Santuario e delle sue Opere a cagione del Breve Quotquot Religionis dovuto all’immortale Pontefice Leone XIII che Santuario ed Opere elevava alla più alta dignità – la collaborazione di Don Giuseppe De Bonis fu mirabile e senza interruzione. Egli stesso si è innalzato coi suoi scritti un monumento imperituro.
Dovremmo troppo dilungarci se dovessimo parlare del suo sapere e dell’arte onde si ornavano i suoi scritti. Ci limitiamo a raccogliere almeno qua e là il semplice titolo di qualcuno dei suoi innumerevoli lavori pubblici in questo Periodico.
- Veritas (1885) – Serafino (1885) -  Impressioni d’un pellegrino a Valle di Pompei (1885).
Specchiatevi spesso (1886) – L’Esaltazione al Sommo Pontificato di Leone XIII (1886) – Le Ceneri ed il Rosario (1886) – L’ora della Misericordia (1886) – Per la Sorella nostra Caterina da Siena (1886) – Un anniversario memorando (1886) – Storia del nascente Santuario di Valle di Pompei (1886) – Una memore Primavera (1886) – L’Assunta (1886) – Il Pontefice del Rosario (1886) – La Supplica a Maria e le fanciulle Pompeiane (1886) – Il Ritorno del Pellegrino in Valle di Pompei (1886( - L’asilo dei Bambini in Valle di Pompei (1886).
Alla Regina delle Vittorie (1887) – Le cento città a piè del trono di Maria (1887) – Il trono di Maria a Valle di Pompei (1887) – Dopo le grandi feste del 1887 – Il canto del Pellegrino in Valle di Pompei (1887) – Gli asili d’infanzia in Valle di Pompei (1887) – Torre Alata (1887) – Il Ricovero delle Orfane sotto il manto della regina del Rosario (1887) – Le bellezze della carità in Valle di Pompei (1887) – L’eco di due Valli e il saluto di due popoli (1887) – Sui ruderi d’una Fulloniva (1887) - L’ora universale del Rosario (1887).
L’Astro dell’Epifania (1888) – Il Rosario a pie’ della Croce (1888) – L’anno XII delle glorie di Maria (1888) – Nostra Signora di Pompei Divina Consolatrice dei carcerati (1888) – La voce di Maria (1888) – Inno delle Orfanelle (1888) – Un pensiero ai defunti associati (1888).
Il celeste Bambino corteggiato dai bambini e dalle Orfanelle di Valle di Pompei (1889) – L’aurora e il meriggio della Nuova Pompei (1889).
Valle di Pompei nella vigilia delle grandi feste di Maggio 1890. – Divina Consolatrice dei Carcerati (1890) – L’Opera di Pompei elevata alla più alta dignità (1890).
Dai titoli stessi traluce la fiamma della sincera e infrenabile poesia onde vibrava l’anima di quell’impareggiabile Sacerdote.
Avremmo voluto qua e là coglierne il più bel fiore, e presentarlo ai nostri nuovi lettori e associati, ma lo spazio non ce lo concede. Una sola eccezione facciamo, per una breve, ma squisita lirica in cui se l’arte e perfetta, divampante è la tenerezza e l’amore per Maria:
Il ritorno del Pellegrino in Valle di Pompei
Non del tempo l’occulta ala nemica
I sacri del mio cor palpiti sfiora;
Conosco i segni della fiamma antica
Che con virtù novella mi divora.
E riedo a te, che della pace sei
Arca beata in procelloso mar;
Come ritorna, o Valle di Pompei,
L’augello il conscio nido a visitar,
E mi è gloria curvar la fronte ardita
Su la tua polve, e con le labbra ardenti
Bevere l’arra di celeste vita
Che spira nei tuoi fulgidi portenti.
Che negli azzurri del tuo santo cielo
Folgora sempre il pio Astro d’Amor.
Eterno duce del mio spirto anelo
Ne’ dubbi della vita e nei dolor.
Tu dell’itala terra e di remote
Plaghe sei centro di sicura speme;
E rivi effondi di dolcezze ignote,
Quando l’ira del mondo i giusti preme.
Qui roteando angelici cortei
Veggio e li ascolto di Maria cantar…
Io qui, stanco, riposo; e qui vorrei
In un grido d’amor l’alma esalar!
Ci affrettiamo a notare che ogni sua pagina, ogni suo verso sorgeva da un duplice amore: l’amore più tenero e profondo verso Maria, l’amore più cordiale e entusiastico verso le Opere di Valle di Pompei. Egli non adattava né la mente né l’estro agli avvenimenti: egli ne era conquiso e scriveva, o cantava, per bisogno del suo cuore.
Le graziose e pur sapienti pagine che furon poi raccolte in un volume a parte, intitolato “Rose e spine pompeiane”, sono una piccola e poetica storia, pervasa di verità e di amore.
Traboccanti di affetto sono i suoi bozzetti; ricca di cultura, piena di saggezza è la sua prosa vasta e sonante.
E quanto ai suoi commoventi bozzetti di “fanciulli abbandonati alla predizione”, le geniali e sapienti sue considerazioni e illustrazioni di “Lettere di Carcerati” che a noi pervenivano per invocare sollievo coi libri di lettura e di preghiera, si può dire che furono essi a destare la prima scintilla per l’istituzione così nuova e così caratteristica di civile redenzione, sorta qui all’ombra del Santuario di Maria; quella dell’Ospizio Educativo per le grame creature dei colpiti dalla legge.
Quanta affettuosa amicizia lo legassero alla nostra persona si può vedere da questa sua cara e commuovente lettera:
Ill.mo Sig. Avvocato,
Ritorna il Suo onomastico (S. Bartolomeo) e ritorna a me, per la trentunesima volta, l’occasione carissima di presentarle l’augurio di elettissime grazie.
In questo periodo di trentun anno, sempre uguale si mantenne, per sua Bontà, la sua amicizia verso di me; sempre sincera e grande, per grazia di Dio, la mia affezione e venerazione verso di Lei. L’amicizia, iniziata in occasione della morte di un Santo (il Ven. P. Ludovico da Casoria) e poi raffermata nel primo articolo in prosa (Veritas) che pubblicai il 4 Agosto 1885, si manifesta, così pura, fervente, santa nel vespro della nostra vita, qual’era nell’alba della mia vita sacerdotale. E non poteva accadere diversamente, poiché io conobbi ed amai in Lei il cattolico esemplare, il figlio devotissimo del Vicario di G.C., l’assertore e propagatore instancabile delle glorie della nostra Religione.
Iddio ne sia benedetto!
Ella dunque che, ricco di meriti, è degno delle grazie più preziose, gradisca da me, anche una volta, l’assicurazione che io tutte le imploro da Dio sul Suo Capo, ogni giorno, e particolarmente nella ricorrenza del Suo onomastico. E si degni Ella pure rammentarsi talvolta di me davanti l’altare di Maria Santissima, nel nome e per amore della quale ebbe vita questa santa e diuturna amicizia nostra su la terra, e che vivamente confidiamo si eterni in cielo.
La mia dimora è sempre in Roma, dove presto qualche servigio della Chiesa sotto la dipendenza del Superiore, ottimo tra gli ottimi, che Iddio ha dato a lei ed a me, ossia di Mons. Silj.
Si compiaccia far gradire i miei ossequi alla Ecc. ma Signora Contessa, e mi creda sempre con sensi di devoto affetto.
Roma – Via S. Ignazio, 9.
22 agosto 1916
Suo U.mo Servo
ARCIPRETE GIUSEPPE DE BONIS
Come i lettori avranno agevolmente notato il carissimo Don Giuseppe De Bonis non ci scriveva più dalla sua natale Vallecorsa.
Dolori ininterrotti, sofferenze non comuni, umane persecuzioni lo costrinsero a duro e volontario esilio.
Lo scopo di queste nostre poche e modeste parole è stato quello di rendere un sentito omaggio alla memoria del caro e indimenticabile Amico, e non di esumare tristi vicende che dimostrerebbero come il suo perfetto e ardente zelo, la sua virtù di intemerato Sacerdote non trovarono sulla terra che una fitta corona di spine. E il retaggio di chi opera il bene, e Dio lo permette per disegni sempre degni della sua sapienza e del suo amore.
Lasceremo dunque nel nostro cuore questo triste segreto e diremo solo che, dopo d’essere stato costretto a trovar fuori della sua diocesi un mezzo per sopperire alle urgenze della vita, colto da infermità, faceva di nuovo ritorno alla sua terra. Di lì ci scriveva ancora:
Veneratissimo Sig. Avvocato,
Mentre procuro di fare la volontà di Dio, aspettando che egli mi restituisca la salute e le forze che, già da un anno, furono scosse da non lieve infermità, ricevo, con somma consolazione del mio spirito, il Suo venerato biglietto con gli affettuosi Suoi auguri pel mio Onomastico. Ne ringrazio, con tutto il cuore, Vostra Signoria, e ringrazio Dio benedetto che il nome di lei ha eretto a segnacolo di conforto, di pace, di santificazione per tanti, e specialmente per me. Sono grato a tutti coloro che, nel mio Onomastico, si sono ricordati di me; ma il Suo grande Ritratto che sta, nel mio Studio, tra quelli di Mons. Contieri e del Prof. Toniolo, mi parla, ogni dì, al cuore con la voce più eloquente d’incoraggiamento e di carità, ed io lo addito ai miei nipoti, come esempio d’indefettibile luce pel laicato cattolico.
Faccia gradire i miei profondi ossequi all’Ecc. ma Signora Contessa; preghi per me la SS. Vergine, e mi creda sempre con devotissimo affetto.
Vallecorsa
Suo U,mo Servo in G.C.
ARCIPRETE G. DE BONIS
Sarà difficile, per non dire impossibile, dimenticarci di Lui, sia innanzi all’Immagine Taumaturga ai cui piedi lo conoscemmo la prima volta, sia in ispecial modo assistendo al divino Sacrifizio, o nel quotidiano cibarci del Pane Eucaristico.
Ma se mai, tra dolori e gravose occupazioni, che senza tregua si avvicendano per noi, per poco il pensiero si smarrisse, dal profondo dell’anima nostra sorgerebbe come un’eco soave e ammonitrice la voce d’un canto – forse il più bello dei canti di Don Giuseppe De Bonis -  il canto caratteristico dei fanciulli e delle Orfanelle della Madonna di Pompei, che si ripete ogni volta che l’Immagine Prodigiosa esce dal suo Santuario in solenne Processione per benedire la sua Valle:
Sopra gl’infranti delubri
D’inverecondi Dei,
Segnal di gaudio ai popoli
Oggi, Maria, Tu sei;
Stella del mare ai naufraghi,
Vampa immortal d’amore,
Rapita al tuo fulgore
La terra esula in Te…
Tutti i nostri antichi zelatori e devoti, tutti i pellegrini della Vergine conoscono questo canto e ricordano la commozione da cui furono presi quando esso echeggiava, mentre la Regina del Rosario, la Madre Taumaturga di Valle di Pompei usciva solennemente dal suo tempio e spargeva nel suo passaggio processionale sulla terra da Lei prediletta celesti sorrisi e inenarrabili benedizioni. Quelle stupende processioni ci parlavano di quella eterna e senza paragone a cui assistono nella gloria beata le anime chiamate all’interminabile felicità.
Ebbene, mentre raccomandiamo alle preghiere dei lettori ed associati l’anima eletta del carissimo Don Giuseppe De Bonis, ci è dolce il pensare che egli ora unisca il suo canto, la sua gentile e devota poesia, al canto degli Angioli, nella luce dei Cieli.                                                      

(Autore: Bartolo Longo)

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