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Monumenti/Archeologia

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*Anfiteatro Campano *Arco di Adriano *Complesso Via Torre *Criptoportico *Domus Confuleis detta Bottega del Tintore *Domus di via degli Orti *Domus Imperiale *Duomo del V secolo *Fornace Etrusca *Mausoleo *Mitreo *Museo Archeologico dell'Antica Capua *Museo dei Gladiatori *Museo delle Carrozze *Ninfeo di via Bonaparte *Officina del Bronzo *Vasca

*Anfiteatro Campano
Punto di riferimento principale della città è l’Anfiteatro, sito in piazza I° Ottobre 1860, costruito tra la fine del I e gli inizi del II secolo dopo Cristo in una posizione strategica, vicino alla via Appia e al decumano maggiore della centuriazione.
Abbellito dall’imperatore Adriano con statue e colonne e inaugurato dall’imperatore Antonio Pio nel 155 d.C., fu devastato dai barbari nell’841. Adibito successivamente a fortezza, divenne in età medievale e rinascimentale una vera e propria "miniera" di materiali di costruzione, subendo spoliazioni di marmi, colonne e ornamenti.
Fu Francesco I di Borbone a porre fine allo scempio con un editto datato 1826. L’Anfiteatro
Campano si sviluppava su tre piani con arcate decorate da statue e un quarto a parete continua.
L’edificio poteva ospitare fino a 60mila spettatori, ai quali i posti erano assegnati in base all’ordine sociale.
Senatori e magistrati godevano di una visuale migliore; alle donne era riservata la "cathedra". Nell’arena si svolgevano combattimenti tra gladiatori e spettacoli con animali (leoni, orsi, tori, elefanti). Attraverso le botole, ancora oggi visibili, venivano innalzati oggetti scenici come rocce o colonne.
Oltre a un consistente avanzo dei due piani inferiori, sono giunti a noi in ottimo stato i sotterranei, che rappresentano il luogo più suggestivo da visitare.
Qui, attraverso una rampa, venivano trasportati gli animali poco prima di entrare nell’arena. Erano, inoltre, dotati di una vasta cloaca a croce per lo scolo delle acque. I canali convogliavano il liquido contenuto in una cisterna, utilizzato per la pulizia dei sotterranei stessi e dell’arena, nelle fognature poste a nord e sud dell’Anfiteatro.
L’edificio, secondo per dimensioni solo al Colosseo di Roma, è a pianta ellittica: l’asse maggiore è lungo 167 metri, quello minore 137.
Gli archi dei tre piani inferiori erano costituiti da ottanta arcate ornate da busti di divinità (alcuni furono distrutti, altri riutilizzati, altri ancora sono esposti nei musei).
Si conservano solo due archi sulle cui chiavi vi sono protomi raffiguranti Giunone e Diana. All’esterno della struttura sono sistemati sepolcri sui quali sono presenti tracce degli affreschi che li decoravano.
Nello stesso luogo, in età repubblicana, sorgeva il primo Anfiteatro, antecedente a quello oggi visibile, nel quale aveva combattuto il gladiatore Spartaco, capo della rivolta servile nel 73 a.C.; si tratta del più antico anfiteatro d’Italia costruito in piano e del quale sopravvivono pochi resti visibili. In particolare, scavi in proprietà privata de Paolis hanno evidenziato resti delle gradinate.


*Arco di Adriano
L’Arco di Adriano, comunemente definito "Arco di Capua", sito in via del Lavoro (antica Via Appia) è un arco di trionfo originariamente a tre fòrnici, delle quali restano quella di sinistra, ancora integra, e un pilastro della centrale.
L’Arco, alto circa 10 metri, risale al II secolo d.C. e, da una lapide rinvenuta nel 1700, si deduce che fu dedicato ad Adriano; pare, infatti, che l’imperatore amasse soggiornare a Capua per il clima dolce e lo splendido paesaggio.
Alcuni studiosi, tuttavia, attribuiscono l’arco a Traiano, che volle la ristrutturazione della via Appia. Il monumento era un tempo rivestito di lastre di marmo e ornato da statue poste nelle nicchie.
Su una lapide collocata nel 1863 sono incise le parole dettate dal patriota Luigi Settembrini per ricordare la "battaglia del Volturno", combattuta il primo ottobre 1860.

L’Appia giungeva alle porte di Capua Vetere, e qui, concludendo il primo tratto del tracciato, si innestava sul decumano della città che procedeva esattamente da ovest verso est. Qualche secolo dopo, più o meno nel punto di collegamento delle due strade, venne innalzato un maestoso arco onorario.
L’arco onorario o di trionfo, opera architettonica con funzione celebrativa, veniva costruito o per commemorare un personaggio illustre, o per far risaltare la costruzione di un’opera di grande importanza, come ad esempio l’arco che l’imperatore Domitiano fece costruire, presso Sinuessa, all’inizio della Via che porta il suo nome.
Anche nel nostro caso, il monumento risale certamente all’epoca imperiale, perché al tempo in cui ebbe inizio la costruzione della Via Appia, l’uso dell’arco onorario o trionfale non era ancora in vigore. Infatti i più antichi monumenti di tal genere furono eretti durante il II sec. A. C. e il loro impiego si diffuse maggiormente tra la fine della Repubblica e il principio dell’Impero.
Il monumento conosciuto anche come “Arco Adriano” e, a volte, anche come “Arco Felice”, nella sua integrità, era lungo circa 25 metri, alto all’incirca 10, largo 5, e presentava tre fòrnici, rivestiti di marmi e di stampe. Ma di tutto il rivestimento non sono state trovate tracce e quindi non si sa a chi fosse dedicato. Forse venne innalzato per rendere omaggio all’imperatore troiano (98-117 d.C.) che aveva fatto ristrutturare la Via Appia, o per ringraziare l’imperatore Adriano (117-138) d.C.) del restauro, o più verosimilmente all’abbellimento dell’Anfiteatro che sorge poco lontano.
Nei pressi del monumento, verso il 1700, fu ritrovata una iscrizione, e, a quel tempo, si ritenne potesse riferirsi alla costruzione dell’Arco che prese, così, il nome di Arco di Adriano. L’iscrizione si conosce perché venne citata, nei suoi manoscritti dal primicerio D’Isa, studioso locale vissuto in quel periodo, ma fu ritenuta falsa da Teodoro Mommsen (1817 – 1903), una autorità nell’epigrafia latina, fra l’altro delle Iscrizioni Latine del Reame di Napoli, pubblicate nel 1852. L’epigrafe era la seguente:
IMP CAES P AELIO
HADRIANO AUG
PATRI PATRIAE
SUBLEVATORI ORBIS
RESTITUTORI OPE
RUM PUBLICORUM
INDULGENTISSIMO
OPTIMOQ PRINCIPI
CAMPANI
AB INSIGNEM ERGA EOS BE
NIGNITATEM D D
Trad: All’imperatore Cesare Publio Elio Adriano Augusto, padre della Patria, sollievo del mondo, restauratore delle opere pubbliche, indulgentissimo ed ottimo principe, i capuani, per la particolare benevolenza verso di loro, dedicarono.
Come facilmente si può notare, nell’iscrizione vengono elargiti profondi ossequi e ringraziamenti all’Imperatore Adriano, quale restauratore di opere pubbliche, e si potrebbe annoverare fra esse anche l’Anfiteatro, ma non viene citata nessuna opera in particolare né tanto meno il nostro Arco.
Attualmente del monumento si ammira solo la struttura in laterizio: nuda, completamente priva di ogni sua parte dell’antico marmoreo splendore. Non è dato sapere in che epoca e quali furono gli avvenimenti per cui venne spogliato di tutte le sue decorazioni e distrutto per metà. Tuttavia, è possibile azzardare una ipotesi: il marmo e le statue vennero utilizzate per produrre calce viva usata nelle costruzioni della nuova Capua.
La struttura in mattoni poggia su di un basamento di massi di travertino locale, rialzato di poco dall’attuale livello stradale.
Dell’antica possanza e magnificenza, si conservano: un fornice intero ed un pilastro dell’arcata centrale che risultava più alta delle altre; il terzo fornice manca del tutto da tempo immemorabile, e le sue fondazioni sono tuttora interrate in una proprietà privata attigua al monumento.
Sulle pareti frontali dei pilastri si notano alcune nicchie; inoltre, sul lato destro, venendo da Santa Maria, nella struttura dell’unico pilastro sono presenti due nicchie, che, durante il XVII sec. vennero impreziosite da cornici di stucchi, delle quali, oggi, restano solo poche tracce. In una di esse, col titolo di S. Maria dell’Arco Felice. (F. Granata – op.cit. – vol. II pag. 56), vi era dipinta l’effige della Santissima Vergine, che appare molto deteriorata. L’altra presenta deboli tracce di un Crocifissione. Alcuni gradini, addossati a questo pilastro, formavano una piccola scala terminante, con uno stretto pianerottolo, al di sotto delle nicchie suddette. La scaletta venne eli9minata nella prima metà del Novecento. Si è supposto che essa, peraltro presente solo sotto l’arco centrale, più largo e più alto rispetto ai laterali, servisse per il transito dei pedoni dell’antica Capua. Ma si ritiene che fosse stata costruita per raggiungere comodamente le nicchie contenenti le sacre immagini, durante lo svolgimento di cerimonie sacre.
Nel XVII sec. A destra dell’arco fu rinvenuta una grande ara votiva dedicata al “Genio della Colonia Campana”, a suo tempo fatta costruire da un duumviro della città sotto il consolato di Statilio e Scribonio nel secondo anno del regno di Tiberio. Sempre nei pressi dell’arco nel 1637 era stata rinvenuta un’altra ara dedicata a Giove. In essa scolpita si vedeva un’aquila che stringeva fra gli artigli un fulmine.
Tra il 1851 e il 1858, nei pressi dell’Arco, durante i lavori eseguiti per l’allargamento della via Appia, fu rinvenuto un buon numero di antiche tombe che vennero sistematicamente ripulite dei loro corredi funebri, venduti ai principali musei europei.
Nella battaglia del 1 Ottobre 1860, il monumento, fu una postazione di notevole importanza per la linea difensiva del fronte: sotto gli archi vennero posizionati i due cannoni borbonici su cui si erano impadroniti i garibaldini, e il loro uso contribuì notevolmente alla vittoria finale.
Il pittore Giovanni Fattori fissò la scena dell’episodio in una tela a cui diede il nome di “Difesa a Porta Capua”, oggi conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze.
Nel primo anniversari della battaglia, sulla facciata dell’arco rivolta verso Capua, venne apposta una lapide in marmo il cui testo, dettato da Luigi Settembrini, così ricorda:
QUI
IL GIORNO PRIMO OTTOBRE 1860
GIUSEPPE GARIBALDI
VINCEVA L’ULTIMO RE DELLE DUE SICILIE
CHE IL POPOLO DI SANTA MARIA
CHE LO VIDE E LO RICORDERA’ SEMPRE
VOLLE SERBARE IL NOME
BATTERIA GARIBALDI A PORTA CAPUA
DATO A QUESTO LUOGO NEI GIORNI DELLA PUGNA
PRESSO L’ANTICO ARCO
DONDE EGLI FULMINO’ I NEMICI D’ITALIA
TUTTA LA CITTADINANZA PONEVA QUESTA MEMORIA
IL PRIMO OTTOBRE 1861
Durante la notte dell’11 gennaio 1863, la lapide subì un attentato dinamitardo, e fu ridotta in pezzi. In brevissimo tempo, cioè l’8 febbraio dello stesso anno, l’iscrizione venne rimessa al suo posto.
Nel 2000, qualche decina di metri dopo l’Arco, sulla sinistra, durante gli scavi delle fondazioni per una moderna abitazione, furono rinvenuti i ruderi di una villa del I – II sec. D.C., verosimilmente costruita in prossimità delle mura cittadine. Furono effettuati rilievi, fotografie, studi; poi tutto venne ricoperto con dei teloni di plastica e fine pietrisco. A futura memoria.
Sulla destra, quasi dirimpetto a quanto sopra, si apre una stradina che fino a pochi anni fa era intitolata Via Rovereto, oggi è dedicata al musicista Gaetano Donizetti. La strada, nei tempi passati, era chiamata Via dei Sepolcri Antichi, perché attraversava un sepolcreto del V, IV, III sec. A.C. (F. Palmieri – Santa Maria C.V. – Vecchie immagini… pag. 158).
Essa ricalca, nella centuriazione dell’Ager Campanus, il tratto meridionale del Decumano Massimo che partendo da Atella arrivava fino a Volturno in linea retta da sud a nord. Nei pressi di S Maria si possono ritrovare tracce del decumano, iniziando dal Ponte alla Colonna, via Cumana, via Farias e proseguendo con via Donizetti ex via Rovereto, vico Masucci, via Colonna Julia, ex via Suffragio, e via Spartaco ex via Grattapulci. È ipotizzabile che lungo questo percorso, in qualche tratto, il decumano massimo passasse all’interno della città affiancandone le mura.
Dopo l’Arco, secondo J. Beloch, si apriva una delle porte di Capua: “la Porta Romana”, ricordata da Tito Livio, il quale scrisse di una fortissima tempesta e di una intensa caduta di fulmini, che devastarono la stessa porta, la casa Bianca e distrussero alcuni pinnacoli delle mura. (Tito Livio – Ab Urbe Condita – libro XL cap. 45).

Attraversata, dunque, Porta Romana, si entrava nella più importante città della Campania, la città “che visse le più drammatiche vicende della lotta per la conquista del mezzogiorno d’Italia fra italici, greci ed etruschi, fra sanniti e romani, fra Annibale e Roma” (A. Maiuri – Vita d’Archeologo pag. 43); “la città capace di reggere un impero, che Cicerone contrapponeva a Roma per la bellezza, la razionale disposizione del suo impianto, la regolarità delle sue piazze e delle sue strade”… (A. Maiuri – Passeggiate Campane – pag. 148).


*Criptoportico

Al di sotto dell’ex Casa Circondariale affacciata su Corso Aldo Moro e su Via Galatina sono parzialmente conservate le strutture di un grande criptoportico, danneggiato e ricoperto nel 1707 quando vennero edificate le scuderie del reggimento di cavalleria e nel 1820 per la costruzione del carcere.
La struttura, la più grandiosa di questo tipo in Campania. è a tre bracci, di cui quello centrale è lungo m 96.80, mentre quelli laterali m 79,60.
Ogni braccio è a navata unica, larga m 7,10 con copertura voltata: l’altezza originaria era di 10 m, anche se attualmente è ridotta a 7 m per il rialzamento dei pavimenti.
Gli ingressi erano collocati all’estremità del lato interno e scale a due rampe portavano al piano superiore.
Il corridoio era illuminato da ben 80 finestre collocate nella parte interna, mentre 30 nicchie sicuramente con statue, ornavano il muro esterno.
Sulle pareti agli inizi del Novecento si potevano ancora scorgere avanzi di decorazione dipinta, oggi totalmente scomparsa, con scene figurate sulle pareti, come la rappresentazione di Europa sul toro, e una volta con riquadri policromi.
Il criptoportico, che non sappiamo ricollegare con certezza a nessun edificio preciso, era collocato sul lato breve della piazza del toro, sulla quale si affacciavano anche il teatro e gli edifici sacri, pertanto potrebbe essere solamente un luogo di passaggio, per evitare sole e pioggia, che ospitava, come d'uso, qualche ufficio ai piani superiori.


*Domus Confuleius detta Bottega del Tintore

La Domus Confuleius apparteneva ad un liberto (un ex schiavo affrancato), probabilmente di origine orientale, di nome Publio Confuleio Sabbione il quale in questa domus non solo vendeva ma anche lavorava il sagum, un mantello di lana pesante usato dai militari di basso rango, e da qui la qualifica di sagarius. Essa è sita sotto un condominio privato in corso Aldo Moro a Santa Maria Capua Vetere.

Storia
Struttura

La domus è venuta alla luce a seguito di scavi compiuti nel 1955 per la realizzazione del palazzo che oggi sovrasta la domus. Notizie del suo proprietario, e addirittura del suo architetto, ne abbiamo traccia grazie alle iscrizioni riportare sulla pavimentazione attraverso dei mosaici pavimentali.

Latino:

"P (UBLIUS) CONFULEIUS, P(UBLI) (ET) M(ARCI) l (IBERTUS) SABBIO SAGARIUS / DOMUM HANC AB SOLO USQUE AD SUMMUM / FECIT ARCITECTO T(ITO) SAFINO T (ITI) F(ILIO) FAL (ERNA) POLLIONE"

Italiano:

"Publio Confuleio Sabbione, liberto di Publio e di Marco Confuleio, sagario, fece fare questa casa dal suolo fino al tetto, essendone architetto Tito Safino Pollione, figlio di Tito, della tribù Falerna".
L’iscrizione sul pavimento
L'iscrizione fu realizzata, con molta probabilità, come segno di autoconclamazione da parte di Confuleio per attestare la sua scalata sociale e il suo essere diventato un uomo libero.

Struttura

Alla domus si accede attraverso una scala a doppia rampa. La domus è composta da due stanze con volta a botte aderente al lato sud con un lucernario circolare. Le due stanze dovevano essere originariamente finemente decorate sia alle pareti con affreschi, di cui ci restano solo traccia e che fanno supporre che sia il soffitto a volta che le lunette erano decorate da bande orizzontali rosse mentre le pareti erano dipinte a schema geometrico, sia i pavimenti, con i mosaici che sono arrivati a noi quasi intatti con mosaici a forme geometriche e vegetali con tessere bianche e nere su fondo di cocciopesto rossastro.
La prima stanza è divisa a metà da una stretta fascia rettangolare costituita da cerchi con crocette centrali. Questa fascia divide la stanza in due diverse decorazioni pavimentali:
a nord un tappeto rettangolare di rombi a tessere bianche incorniciato da tessere alternativamente bianche e nere,
a sud un quadrato, circondato ai quattro lati da decorazioni a tema vegetale, con al centro un cerchio decorato da una fascia esterna di meandri e una interna a spicchi, e incorniciato da una distesa di crocette.
In questa stanza è presente una vasca rettangolare e un pozzo circolare che molto probabilmente erano usate per la lavorazione del segum e quindi fanno supporre una funzione vestibolare di questa prima stanza.
Alla seconda stanza si accede attraverso una apertura posta nella parete ovest della prima stanza con pavimentazione a tappeto rettangolare diviso in quadrati con al centro crocette. Appena entrati vi è un'iscrizione mosaica recante un augurio ai visitatori.

Latino:
"RECTE OMNIA7VELIM SINT NOBIS"
Italiano:
"Vorrei che tutte le cose ci vadano bene"

A fianco a tale iscrizioni è sita l'altra iscrizione vista prima con l'indicazione del proprietario e dell'architetto. Come per la prima stanza anche la seconda presenta due tipi di decorazioni divise proprio dalle due iscrizioni:
a nord un tappeto di esagoni con al centro crocette
a sud una fascia rettangolare con decorazioni a tema vegetale e a seguire un tappeto di meandri a croce uncinata con al centro un quadrato di crocette che incorniciano un rosone con cerchi e archi che si intersecano.

(Da: Wikipedia, l’enciclopedia libera)

*Domus di via degli Orti

La domus di via degli Orti si trova nella parte orientale della città antica. Innanzitutto dobbiamo precisare che questa struttura architettonica, comunemente definita villa, è in realtà una casa cittadina; nell'antichità c'era una netta distinzione tra una Domus e una villa.
La Domus era una casa di città, anche se molto grande e con giardino; una villa era, invece, una casa extraurbana, di solito con annessi fondi agricoli oppure con impianti di produzione. Soprattutto nelle campagne romane ci sono grandi ville con annesse fabbriche di produzione di laterizio, per cui chi possedeva una villa era un ricco proprietario le cui ricchezze derivavano o dal commercio, da una attività industriale oppure dal possedimento di latifondi.
Quindi, anche se questa viene definita villa, in realtà è una Domus. Fu trovata negli anni 60, quando il comune di S. Maria C.V., dovendo costruire una scuola, espropriò un terreno ad un privato. Nel momento in cui si incominciò a scavare, i dipendenti della sovraintendenza si accorsero che dal terreno venivano fuori materiali di interesse archeologico, salvando così la Domus dalle ruspe.
Sulla base dei dati che via via emergono, dagli scavi, si sta cercando di ricostruire la giusta distribuzione delle strutture urbanistiche nonché di riconoscere la specificità dei singoli ambienti oppure addirittura di interi complessi, come è il caso della Domus di via degli Orti.
Nel momento in cui ci si rese conto dell'importanza del ritrovamento della Domus, la sovrintendenza intervenne ampliando gli scavi e, quindi, portando alla luce una serie di ambienti tra i quali alcuni molto interessanti, soprattutto per il tipo di pavimento ancora ben conservato. Oggi, nella maggior parte dei casi, le coperture originali degli ambienti non ci sono più perché i tetti, essendo costituiti di travi di legno ricoperte da tegole o coppi, sono i primi a cadere, o per cedimento del legno o per distruzione intenzionale, come l'incendio dell'antica Capua dopo che era stata occupata dai Vandali.
Anche il vento, la pioggia e le intemperie hanno deteriorato le strutture murarie. Della Domus è stata individuata solo una parte residenziale, con la sala da pranzo e il settore termale.
Questa villa, del I - IV sec. d.C., è stata costruita in modo da adattare i diversi strati di terra e le diverse strutture che osserviamo.
Quando la casa è stata scavata, si usava una tecnica di scavo diversa di oggi. Si puntava a mettere in evidenza la struttura muraria, ma la ceramica non si raccoglieva, mentre oggi per gli archeologi è più importante raccogliere frammenti di ceramica, perché ogni tipo ha una precisa data di produzione. Se noi troviamo un frammento di ceramica, due, o meglio se sono di più, siamo più sicuri nella datazione. Poniamo che i frammenti siano del IV secolo d.C., sappiamo allora che questa villa nel IV secolo era abitata o comunque fu abbandonata nel IV sec.
Si sono messe in luce le strutture, ma i materiali (ceramici e altro) non sono stati conservati, per cui è difficile datare la costruzione. É anche difficile interpretare i diversi ambienti, la loro funzione. Ad esempio, un ambiente è stato interpretato come triclinio e probabilmente doveva esserlo anche quest'altro.
Si tratta di due locali in cui si banchettava e chiaramente non erano le nostre sale da pranzo; erano sale da pranzo molto importanti per ospiti di lusso ed erano riccamente decorate. L'attribuzione al triclinio è stata fatta perché sono stati trovati due pavimenti a mosaico molto lussuosi, molto importanti, e a questo punto si è pensato che fossero delle sale adibite ai pranzi con ospiti importanti, però non se ne può avere la sicurezza.
Di solito, però, la zona del triclinio si trova all'ultimo stadio (alla fine della villa). Questo fa pensare che il triclinio inizialmente fosse sistemato al lato opposto.
Potrebbe anche essere che in realtà il triclinio sia stato costruito direttamente dove oggi lo consideriamo, in modo da sfruttare la fontana con le cascate, e la vasca come scenografia per quelli che pranzavano qui.
Questa sistemazione diversa potrebbe far pensare a una casa atipica; ma abbiamo oggi delle case romane, per lo più case di Pompei del I sec. d.C., conservate dalle eruzioni, e ville tardo-antiche simile a questa, oppure le grandi ville sul lago di Garda, a Desenzano Sirmione, oppure quelle di Piazza Armerina (III secolo d.C), che hanno una struttura leggermente diversa rispetto a quella che noi consideriamo la casa romana canonica.
Triclinio
L'ambiente con lussuosi pavimenti di opera settile a marmi bianchi e neri. Il pavimento è stato in passato rilevato e collocato presso il Museo Archeologico di S. Maria C. V., in attesa di restauro.
Il triclinio aveva la funzione di rappresentanza, per gli ospiti illustri.
Conteneva tre letti, ciascuno per tre persone, sui quali gli ospiti si adagiavano per consumare i pasti e per conversare. Muro a pianta curvilinea; parte delle pareti dovevano coronare un ambiente dotato di riscaldamento.
É eseguito in opera mista, che alterna file di mattoni in terracotta e file di pietre. Il muro è databile tra il III e il IV sec. d.C., quindi al tardo impero in cui si prediligevano le superfici curve alle piane.
L'ambiente aveva due pavimentazioni distanziate con colonnine composte di dischi in terracotta e pietra. Il criterio era adottato per la propagazione dell'aria calda. L'incuria, nei decenni successivi, ha disperso buona parte dei dischi.


*Mausoleo
Nel 1950 il Prof. Alfonso De Franciscis condusse alcuni scavi


*Il Mitreo (A)
Scoperto nel 1922, il Mitreo è del II sec. d.C., quando il culto orientale del dio Mitra ebbe la sua massima diffusione in tutto l’Impero Romano; si tratta di uno dei pochissimi e meglio conservati templi dedicati al dio Mitra in tutta Europa.
Presenta un vestibolo e una sala con sedili laterali (riservati agli adepti) al di sopra dei quali alcuni affreschi illustrano i sette gradi di iniziazione. La volta è dipinta con stelle a otto punte verdi e rosse.
Sulla parete di fondo si può ammirare l’affresco, straordinariamente ben conservato, che ritrae Mitra nell’atto di uccidere un toro bianco. Agli angoli del dipinto, il Sole, la Luna, l’Oceano e la Terra "assistono" al sacrificio.
Completano la scena un corvo, un serpente, un cane, uno scorpione e due portatori di fiaccole, che simboleggiano il sorgere e il tramontare del sole. Mitra, infatti, era concepito come potenza benefica connessa con la luce.

*IL Mitreo (B)
A Santa Maria Capua Vetere fu scoperto un Mitreo nel 1922, da Nicolino Cortese, durante uno scavo nel cortile della sua abitazione. Risale al II – III d.C.  
Il Mitreo, cioè un luogo di riunione dei discepoli di Mitra, è una cripta sotterranea formata da un’aula rettangolare di m 23x3; si trova in una piccola traversa di Via Morelli, non lontano dal Museo archeologico dell’antica Capua.
L’unicità del Mitreo di S. Maria è il fatto che la decorazione è tutta dipinta, anzichè essere scolpita o a bassorilievo.  
La volta è dipinta a stelle a sei punte verdi e rossastre.
Lungo i lati lunghi ci sono i sedili per i fedeli e, al di sopra, affreschi che illustrano i sette gradi del rito di iniziazione, con i vari gradi di percorso spirituale.
Bellissimo l’affresco sulla parete principale (come in tutti i Mitrei): il dio Mitra (abito rosso, cappello frigio, manto foderato in azzurro con sette stelle) uccide un bianco toro (il toro sacro – tauroctonia); un cane (il bene), un serpente (il male), un corvo, uno scorpione e una formica l’attorniano; il Solr, un tedoforo con una fiaccola alzata e l’Oceano (a sinistra) e la Luna, un tedoforo con fiaccola abbassata e la Terra (a destra) assistono.
Intorno alla scena centrale, vi sono tutti gli altri simboli ritraici. Dall’altare parte un canaletto che raccoglieva il sangue degli animali sacrificati, convogliandolo in un pozzetto.
Sulla parte occidentale si vede la luna su una biga tirata da due cavalli.
Il culto di Mitra, antico dio iraniano, era molto diffuso in Asia e i Greci ne conoscevano l’esistenza almeno sin dal V secolo a.C., ma spostandosi verso occidente, assorbì una coloritura astrologica.
Il culto di Mitra non era ostacolato dall’autorità politica che lasciava ai sudditi piena libertà religiosa.
La religione mitraica aveva un seguito in prevalenza maschile, soprattutto tra i militari romani.
Un culto misterico, invece, particolarmente seguito dalle donne era quello frigio di Cibale, la Grande  Madre. Un altro culto, questo di origine egizia, anch’esso molto apprezzato, era quello di Iside e del suo sposo Osiride.
Il famoso tempio di Iside a Pompei era attivo al momento dell’eruzione che seppellì la città vesuviana nel 79 d.C.
Il Mitraismo a Capua, probabilmente introdottovi dai gladiatori che, per lo più, erano orientali o dai marinai che frequentavano la città (collegata col mare per mezzo del Volturno) perché addetti all’allestimento degli spettacoli navali nell’anfiteatro, ebbe vita effimera, in quanto, con l’Editto di Castantino (313 d.C,), crollava il pantheon pagano e, con esso, le altre forme di religiosità venute dall’oriente.
Infatti, a quella data, la religione cristiana si era già affermata nel popolo capuano grazie alla predicazione di S. Prisco, di S. Rufo e di S. Agostino e per essa già sette vescovi avevano subito il martirio.
*Dal libro “Santa Maria Capua Vetere (2016) di: Salvatore Fratta
Il vicolo ospita il “MITREO”. Il monumento è considerato fra i più importanti perché in esso si trova rappresentata la completa liturgia mitraica ed è fra i pochi in cui la raffigurazione del sacrificio è dipinta e non scolpita. L’ambiente che lo ospitava, venne riscoperto casualmente il 26.09.1922, durante i lavori per la costruzione di un pozzo, o per rinforzare le fondamenta di un fabbricato, nella proprietà del Sig. Cortese. Alcuni anni dopo la scoperta, si iniziò l’esplorazione e lo studio di quanto rinvenuto.
Nel 1930, venne nella nostra città la Principessa Maria Josè del Belgio sposa del principe Umberto II di Savoia. Appassionata amazzone era venuta per visitare l’Istituto Incremento Ippico e i cavalli di razza che in esso si selezionavano.
Invitata, dal podestà Avv. Pasquale Fratta, a visitare il sito, ella rifiutò per non affrontare la discesa con una scala a pioli.
Il podestà, allora, senza indugio e a proprie spese, fece costruire le scale che attualmente permettono una comoda discesa negli ambienti sotterranei. Una lapide così riporta:
Trad: Questa cripta, già dedicata ai sacri misteri dell’invitto signore Mitra, nell’anno 1922 sottratta alle tenebre, era accessibile attraverso angusti lucernai; ora in verità si percorre facilmente mediante scalini e con il suo splendore illumina l’antica Capua. La Sovraintendenza alle Antichità della Campania ed il solerte rettore della città capuana, Pasquale Fratta, che elargendo con generosa mano non badò ad alcuna spesa, fecero costruire nell’anno 1932.
Il Mitreo, ubicato a poca distanza dal Campidoglio, era un tempio sotterraneo in cui si riunivano i seguaci del culto di Mitra. Le prime testimonianze di questa religione, appartenente alla cultura dei popoli indoeuropei, risalgono al XIV sec. a.C.
Il dio Mitra o Mithra, definito come “signore dei vasti pascoli” sia terreni che celesti, oltre ad essere considerato una divinità solare, è indicato nei testi sacri persiani (Avesta) e in quelli indiani (Veda) anche come dio dell’onestà, dell’amicizia e dei contratti. Infatti la parola indo-iranica “mitra”, come nome comune, significa letteralmente contratto, patto stipulato tra il re degli Ittiti ed il re degli Urriti verso il 1400 a.C.
Egli è dunque il garante dei patti stipulati tra gli uomini. Inoltre essendo il dio che protegge quanti osservano la giustizia e la verità, perseguita implacabilmente i mentitori e gli ingiusti. Secondo la mitologia mitraica, il dio Mitra nacque da una roccia armato di un coltello e di una torcia e con in capo il berretto frigio. Era la più importante fra le divinità al servizio del dio supremo Ahura Mazda il creatore dell’universo. Era il dio della giustizia, particolare del percorso celeste del Sole.
Il dio supremo ordinò a Mitra di cacciare e catturare un toro bianco, di trascinarlo in una grotta e di sacrificarlo. Col sacrificio dell’animale, la Terra, bagnata dal sangue del toro, diede origine alla vita animale e vegetale.
I primi a diffondere la nuova religione nel mondo occidentale, secondo un passo della “Vita di Pompeo” scritta da Plutarco, furono i pirati della Cilicia. Costoro sconfitti e deportati da Pompeo nel 67 a.C., durante la loro prigionia, con sacrifici dai romani ritenuti alquanto strani, celebravano le cerimonie segrete proprie del culto mitriaco.
Fra i romani la maggiore diffusione del nuovo culto si ebbe verso la fine del I sec. d.C. trasmessa dai legionari romani assai devoti al dio.
La nuova religione, proponeva una moralità superiore rispetto alla religione pagana romana improntata ad un rapporto di “do ut des” tra il singolo individuo e la divinità. Per questo si affermò, facilmente, in tutte le province dell’Impero, acquisendo, però, un carattere misterico che risultò essere diverso rispetto ai rituali e al culto originario.
Per i romani, il dio Mitra si identificava con una divinità solare il “Sol Invictus”, ma poiché era nato in una grotta, le cerimonie inerenti il suo culto erano praticate in luoghi sotterranei, come poteva essere una caverna naturale adattata allo scopo o un edificio costruito ad imitazione di una grotta, detto appunto Mitreo.
La grotta era considerata il luogo dove l’uomo si poneva a contatto con le forze e i poteri della Terra.
Le funzioni religiose, assolutamente vietate alle donne, si svolgevano unicamente all’interno del santuario, ed erano ammessi a partecipare solo gli iniziati di sesso maschile.
L’iniziazione mitraica era segreta e colui che voleva aderire dava inizio al suo percorso religioso con il solenne giuramento di non rivelare a nessuno e per nessuna ragione i segreti del rito sacro, di cui, ancora oggi, non si conosce molto.
Dopo l’avvenuta ammissione alla comunità, l’iniziato poteva percorrere i vari livelli della gerarchia, che comprendeva sette gradi: corvo, sposo, soldato, leone, persiano, messaggero del soler ed infine padre, che, quale rappresentante di Mitra sulla terra, assolveva a funzioni sacerdotali essendo il grado più alto dell’ordinamento. Vi era inoltre il “pater patruu” (padre dei padri), che probabilmente era colui al quale i “pater” dovevano rispondere del loro operato. I seguaci del mitraismo credevano nella risurrezione del corpo, nel giudizio finale e nella vita eterna; le aspersioni richiamavano il Battesimo cristiano, e durante le cerimonie veniva celebrato anche un banchetto rituale con carne e vino, in ricordo del sacro banchetto condiviso fra il Sole e Mitra dopo il sacrificio iniziale.
In verità, questo banchetto può far venire in mente l’agape dei primi tempi del cristianesimo, evolutasi, poi, nell’Eucarestia. Ma esiste una fondamentale differenza nella religione mitraica è il dio che celebra il sacrificio, mentre nella religione cristiana il dio è la vittima sacrificata.
Incisa su un altare mitraico rinvenuto a Roma, appare questa frase: “Tu ci hai salvato spargendo il sangue eterno”. Per queste sue caratteristiche il Mitraismo contese a lungo al Cristianesimo il ruolo di religione dominante, e scomparve in seguito al decreto di Teodosio, nel 391 d.C. che bandì tutti i riti pagani.
Il cristianesimo divenne la religione ufficiale del mondo romano, principalmente per ciò che offrì agli uomini: la fede e la speranza di una vita migliore, e le offrì agli uomini: la fede e la speranza di una vita migliore, e le offrì a tutti senza distinzione di sesso, di età, di condizione sociale. Tutto ciò, invece, non era previsto dalla religione mitraica chiusa in un ambito puramente maschilista e sottomesso.
A somiglianza di altri santuari, il nostro, risalente al II sec. d. C., si compone di un vestibolo e di una camera rettangolare, chiamata, nelle fonti epigrafiche “spelaeum”, ossia grotta, parola che però è spesso alternata con “spelunca, cypta”.
Al suo ampio vestibolo si accedeva tramite una scalinata posizionata nel lato corto e verosimilmente in questo ambiente si svolgeva il rito della iniziazione. Il locale comunica con la spelunca posizionata a sinistra, formano con essa un angolo di 90 gradi: l’aula misura poco più di 12 metri di lunghezza per 3,5 metri di larghezza, con il pavimento di cocciopesto per cui sono inseriti frammenti di marmo.
Alle pareti laterali sono sistemati banchi in muratura adoperati per il banchetto rituale, forniti di pozzetti e di piccole vasche per le abulazioni di rito. La volta a botte si presenta di colore giallo ed in essa spiccano stelle a sei punte colorate in verde e in rosso.
Sulla parete nel fondo della grotta, vi è l’altare in muratura che occupa per intero i tre metri e mezzo di larghezza dell’ambiente, è profondo metri 1,57 e si alza dal pavimento di circa 70 centimetri. È rivestito di intonaco rosso e sul lato anteriore è dotato di un canaletto.
Sulla parete, al di sopra dell’altare, un affresco rappresenta la scena della Tauroctonia, cioè rappresenta il dio Mitra nel momento culminante del sacrificio di un toro, immagine delle forze generanti della natura: fertilità, morte e risurrezione.
Il dio è raffigurato nel tradizionale abbigliamento persiano: da un rosso berretto frigio, con bordature in verde e oro, spuntano ciocche di capelli; la corta tunica è rossa con gli orli in verde, gli aderenti calzoni hanno gli stessi colori. Un mantello, all’esterno anch’esso rosso e con ricami oro, all’interno celeste con sette stelle dorate, si presenta gonfiato per richiamare alla mente la volta celeste con sette stelle dorate, si presenta gonfiato per richiamare alla mente la volta celeste e i sette pianeti allora conosciuti.
La scena mostra il dio in piedi appoggiato sulla gamba destra; con una mano, la sinistra, tiene per le narici il candido animale e col ginocchio sinistro grava sul toro terrorizzato e accosciato, mentre con l’altra mano affonda la lama nel collo del sacro animale. Il sangue, copioso, sgorga dalla profonda ferita e un cane avidamente lo lecca. Uno scorpione attanaglia i testicoli dell’animale. Un lungo serpente striscia sotto l’addome.
Il toro rappresenta il Caos sconfitto dal dio solare; lo scorpione ed il serpente sono considerati come le forze del male e ci tentano per impedire che il sangue fecondi la terra, il cane invece è considerato alleato di Mitra.
Il dipinto, quindi, intende rappresentare il dio Mitra come potenza vivificatrice del Sole.
Ai lati del dio, sono raffigurati due geni:
- il primo Cautes (vita, luce) che regge in alto una fiaccola accesa simbolo del sorgere del sole, del sorgere della vita.
- il secondo Cautopates (morte, oscurità) tiene la fiaccola abbassata a significare il tramonto del giorno e della stessa vita.
Nell’affresco, inoltre, sono presenti quasi tutti gli elementi dell’universo conosciuto. In alto a sinistra appare raffigurato il Sole con un lembo di rosso mantello e con una corona di raggi; da questa, un raggio viene inviato verso Mitra. A destra si scorge una pallida figura femminile: la Luna. Anche queste due figure rappresentano inizio e fine dei cicli vitali. In basso a sinistra la testa barbuta di Oceano con una corona di chele, a destra quella della Terra con una capigliatura verde a simboleggiare la vegetazione.
Le pareti della sala portano tracce di altri affreschi e presso l’ingresso, sono visibili, fra due alberelli dipinti che fanno da cornice, ancora due personaggi portatori di fiaccole.
Sulla lunetta della parete opposta all’altare si nota, con facilità, la Luna che guida una biga e incita i cavalli con la frusta.
E ancora si possono notare, anche scarsamente, visibili, alcune scene dell’iniziazione di un adepto, che nudo, accompagnato da sacerdoti, passa per i vari gradi.
Infine, sulla parete sud, circondato da una cornice dipinta in rosso, è fissato un piccolo bassorilievo rappresentante Amore (Eros) e Psiche.

                                                                                                           

Amore, rappresentato da un giovane nudo e con le ali, regge con la mano sinistra una fiaccola e appoggia la destra su Psiche che presenta ali leggere, diverse da quelle di Amore, ed è vestita con un lungo abito drappeggiato. Si ritiene che l’opera voglia indicare la purificazione delle anime; oppure, secondo un’altra interpretazione, Amore guida ed illumina il cammino dell’Anima verso l’aldilà.

*Museo delle Carrozze

Il Museo delle carrozze è posto nella sede dell'Istituto Incremento Ippico di Santa Maria Capua Vetere II Museo raccoglie una collezione di carrozze ben conservate che erano in uso al Comando del Presidio Militare di Caserta.
I pezzi più importanti sono una decina e risalgono alla fine dell'800: una carrozza a canestro di vimini Victory che ricalca il modello di carrozza costruita per la Regina Vittoria d'Inghilterra, una Break con diversi posti a sedere e con accesso posteriore, mezzo di trasporto equivalente al nostro pullman, una Coupè per il trasporto del generale - comandante del Presidio - e della sua famiglia ed altre di notevole interesse come le domatrici di differenti epoche.
Insieme alle carrozze sono esposti anche numerosi carri che servivano per trasportare gli approvvigionamenti all'istituto, finimenti, attrezzature varie e la bottega del maniscalco.

*Vasca
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