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1922 Sacro Cuore

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*1922 Istituto "Sacro Cuore" (Pompei - NA)
Suore Domenicane Istituto Piazza Immacolata, 7 80045 Pompei (NA) "Campania" tel. 081/8633129 - 10

Fondazione dell'Istituto "Sacro Cuore"

L’ Istituto “Sacro Cuore” è tra i più grandi delle Opere pompeiane, desiderate, volute e realizzate dal Fondatore di Pompei “Bartolo Longo”, ed è stato il suo “ultimo voto”.
Vi erano assistiti circa 180 minori, suddivisi tra la Scuola Materna e la Scuola Elementare. Erano bambini dai 3 ai 13 anni, bisognosi d’affetto, di comprensione e soprattutto di cure materne.
A colmare questi vuoti vi erano Suore dedicate a questo speciale apostolato, che aiutavano gli Orfani nella loro crescita umana e spirituale.
Vi erano Suore insegnanti che curavano l’istruzione e l’educazione delle alunne; Suore assistenti che nel resto della giornata seguivano da vicino, curando, nelle minori, il senso dell’ordine, della pulizia ed educandole ad un sistema di vita disciplinata e responsabile.
Tutte le altre Suore collaboravano, con sacrificio ed amore, a rendere l’Istituto una casa calda e accogliente, proprio come voleva il Fondatore.


*L’ultimo voto del mio cuore

Pompei.Il 19 marzo 1922 fu accolta la prima figlia di madre carcerata ed il 15 ottobre dello stesso anno, Mons. Augusto Silj benediceva la posa della prima pietra della nuova Opera definita da Bartolo Longo "l'ultimo voto del mio cuore".
Il 17 dicembre del 1926, Mons. Carlo Cremonesi inaugurò l'Istituto "Sacro Cuore".
Successivamente, il Patriarca Prelato Rossi fece costruire l'attuale edificio, che fu inaugurato il 3 ottobre del 1942 e che oggi prende il nome di "Centro Educativo Sacro Cuore".


*Una nuova opera a Valle di Pompei di carità e di salvezza sociale per le figlie dei carcerati
"Fratelli e sorelle sparsi per l’Orbe, da questa Valle di Pompei che la potenza di Maria aveva già fatto salutare come la Valle dei prodigi e che la misericordia di Lei aveva fatto acclamare come la Valle della carità, sono ormai trent’anni, io levai a voi un grido, che fu come, l’erompere di una forte passione da gran tempo compressa nell’animo mio. Un grido che vi chiamava a un’Opera e a una battaglia, a un’Opera di bene e a una battaglia di fede. Un grido che era l’eco del pianto d’innumerevoli madri, e della disperata angoscia di padri infelicissimi.
Un grido che doveva dare alla libertà, negata dalla scienza positiva, una nuova apologia, alla
carità cristiana un nuovo ardimento, alla fede un nuovo trionfo, all’innocenza Dio stesso: il "Voto del cuore" per un’Opera di rigenerazione e di salvezza pei più miseri, i più reietti di tutti i fanciulli, i Figli dei Carcerati.
Non era soltanto il voto del nostro cuore, il voto di questo peccatore convertito dalla divina grazia, ma era il voto del Cuore di Gesù di questo cuore che è venuto a salvare tutto ciò che era perito, che dirige le sue fiamme e le sue tenerezze là dove maggiori sono le miserie. Non era soltanto il desiderio mio, la brama che mi cruciava l’anima, che mi avvampava in un fuoco di carità per gli Orfani della Legge, ma era pure il desiderio di Maria, di Lei che è la Madre di tutti, ed in modo speciale è la Madre di coloro che non hanno madre, non hanno asilo, non hanno madre, non hanno asilo, non hanno pane, che domani potrebbero non avere Dio; di Lei che è l’Addolorata ritta non solo sotto la Croce del Calvario, ma sotto tutte le Croci dell’umanità, di Lei che predilige soprattutto l’innocenza che soffre, l’innocenza reietta.
A quel grido, il Cuore vostro, fratelli, si commosse, la generosità degli oblatori non ebbero più limiti, e l’Opera sorse; sorse non nella forma consueta, modesta, d’un Orfanotrofio, d’un Ospizio, ma nella maestà d’un monumento. Su quel monumento, ad affermazione dei nuovi trionfi della nostra fede antica, della perenne potenza sociale del Cristianesimo sempre pullulante in nuove Opere di bene, scrivemmo in cifre di bronzo una sola parola: "Charitas! – La carità!".
Ha vinto la Carità, ha vinto l’Amore; si è trionfato del pregiudizio sociale e del pregiudizio scientifico.
Mercé le nostre esperienze il "delinquente nato" è divenuto una favola della scienza, un mito ormai di tempi remoti. Si è provata, l’educabilità, in linea generale, di tutti i fanciulli, anche della prole di padri colpevoli, purché questa educazione sia fatta in speciali ambienti e con speciali metodi. Gli Orfani della Legge, divenuti i figli nostri, sono rientrati con onore alla vita, a far parte
nell’esercito della patria, nell’esercito del lavoro, nell’esercito della fede, ascendendo talvolta perfino alla dignità suprema del sacerdozio.
Fratelli e benefattori sparsi per l’Orbe, istituendo l’Ospizio pei Figli dei Carcerati, noi lasciavamo non tanto per l’Opera incompleta.
Gli Orfani della Legge erano accolti a Pompei, trovavano un pane, un asilo, un padre, ma le loro sorelle? … I Figli dei Carcerati erano salvi, ma le Figlie? No, no; Dio non vuole Opere incomplete…
Possiamo noi, può la carità di Gesù Cristo abbandonare non solo nell’indigenza, ma nel fango queste creaturine, che negli stenti della loro carne e nelle impressioni della loro anima portano la miseria e la vergogna di colpe non loro?
Nessun paragone fra gli Orfanelli e le Figlie dei Carcerati. – Sono due grandi miserie, ma oh, quanto diverse! Le une, le Orfane della natura, suscitano la compassione dei parenti, degli amici, dei concittadini; le altre, cioè le Orfane della Legge, per quella esagerata solidarietà umana che accomuna i padri coi figli, destano invece un senso di ripugnanza. Per le prime tutte le tenerezze, per le seconde tutti i disgusti…
Poveri fiori! Non una mano li raccoglie, ma molti piedi li calpestano. Poveri fiori! Desideravano una luce di bene, un calore di vita, e furono invece isteriliti, furono arsi nel loro primo rigoglio da una fiamma impura, la fiamma di un esempio rovinoso dei propri genitori.
E non solo la miseria delle Figlie dei Carcerati vince quella delle Orfanelle della natura, ma supera quella medesima dei loro compagni di sventura, dei loro fanciullini, i Figli dei Carcerati.
Per esse vi può essere non solo l’abbandono, ma l’insidia, la satanica insidia degli sfruttatori di tutte le indigenze, specie poi delle indigenze infantili. Le poverine possono trovare il soccorso, ma il soccorso di uomini che fanno pagare il tozzo di pane con la peggiore forma di schiavitù, con la schiavitù del peccato.
Le Orfanelle sono un’innocenza abbandonata, i Figli dei Carcerati sono un’innocenza reietta, ma le Figlie dei carcerati sono un’innocenza in pericolo.
Queste fanciulle derelitte, affamate senza una nozione di fede, senza sentimento di Dio, spesso diventano preda di uomini che ne fanno le schiave della loro ingordigia, lo strumento della pubblica corruttela.
Se alla donna indigente manca il pane del Cielo e il pane della Carità, non le resta che il pane dell’ignominia.
Fratelli, chi sottrae all’abbandono e al vizio un Figlio di Carcerato salva un’anima sola; ma chi soccorre una Figlia di carcerato, salva tutto un numero di anime che insieme con lei potrebbero essere travolte nei vortici del vizio.
Ve lo diciamo con le lagrime agli occhi: questa è "Opera di suprema gloria di Dio" ed è insieme Opera di sapiente prevenzione di delitti e di efficace moralità sociale.
Fratelli ascoltate l’ultimo Voto del Cuore del vecchio amico vostro… Ho ottant’anni, Dio mi ha serbato sino a quest’età per vedere il compimento dell’Opera vostra per cantare il Ninc dimittis sulla prima pietra della nuova Istituzione.
Quest’Opera è per me il bagliore del tramonto, ma sarà per molte anime l’alba radiosa della rinascita. Come striscia di luce del tramonto, Dio mi ha serbato l’Opera – la maggiore fra tutte – di salvezza per le anime: a ottant’anni, sul limitare della tomba, non si pensa che alle anime e a Dio, non si guardano che le anime e il Cielo!
Fratelli, la grande crociata è aperta! Fatevi tutti soldati di questa nuova battaglia, apostoli di questa nuova idea! Il nostro motto è questo: - "alla salvezza dell’innocenza in pericolo!" Qui in questa Valle di Pompei, dove ha i suoi prodigi la fede, ma ha pure i suoi prodigi l’amore, ponete questa terza e più bella corona di Carità sulla fronte radiosa di Maria!".
(Avv. Bartolo Longo – da: Il Rosario e la Nuova Pompei, 1921, pp. 193-196)

*Salvare un innocente in pericolo è un atto di giustizia!

“L’ora di Dio è sonata, nessuno manchi all’appello”! Questo invito con cui il Beato Fondatore di Pompei conclude il brano che abbiamo riportato è un grido di dolore la cui attualità è sotto gli occhi di tutti, vista la drammatica condizione in cui versano tanti ragazzi e ragazze del mondo intero.
Nel nostro itinerario di lettura questa volta incontriamo altre pagine, nelle quali il Beato Bartolo Longo parla di “voci di implorazioni e di raggi di carità”, nel particolare momento in cui si rivolge al mondo per realizzare l’ultimo voto del suo cuore, l’Ospizio per le Figlie dei carcerati. Quel voto, cioè, che lo stesso pontefice Benedetto XV, negli ultimi giorni della sua vita, aveva fatto suo con un “Breve”, intessuto “con indimenticabili parole di commozione e di tenerezza”. Per richiamare l’attenzione del mondo Bartolo Longo chiariva i motivi che dovevano sostenere quel contributo affermando che salvare un’innocenza in pericolo voleva dire compiere un atto di giustizia, superando ogni barriera e disponendo l’animo a condividere un destino avverso e le proprie forze morali e materiali a sostenere quelle esigenze che nascono dalle disgrazie.
Diciamo che potremmo parlare in termini attuali di quella solidarietà auspicabile quando soprattutto i più piccoli, gli innocenti sono in pericolo. Alla voce dell’innocenza in pericolo Bartolo Longo associa quella, non meno dolorosa ed umana dei colpevoli, mentre recitano il loro “mea culpa”, cadendo nella più profonda disperazione, pensando ai loro figli soli in mezzo alle traversie del mondo. Per Bartolo Longo la carità deve dimenticare le colpe per interessi di questo dolore, per immaginare gli incubi della disperazione, sostituendo ad essi la speranza che nasce dalla solidarietà: “la riabilitazione dei colpevoli scaturisce, infatti, dalla dolcezza della speranza”. (L.L.)
Da questa Valle di Pompei ogni grido di fede si diffonde dovunque nel Mondo, ha echi d’universalità. Dal profondo della nostra anima levammo a voi, o fratelli, la nostra voce invocando pane e soccorso per l’infanzia più abbandonata e più in pericolo, per le misere Figlie dei Carcerati. E voi avete sentito, o fratelli, che quella voce raccoglieva le disperate invocazioni di mille madri, i gemiti e i singhiozzi di mille bimbe, e il cuore vostro si è commosso e si è aperto a magnifici slanci di generosità cristiana.
Oggi è già un fuoco che si è acceso e divampa; domani sarà un incendio; oggi sono le prime schiere di benefattori, le avanguardie della carità; domani sarà tutta una milizia dell’amore che si leverà in difesa di queste fanciulle, di queste innocenti! Le quali non lottano solo ahimè! Troppo presto con la fame, ma lottano precocemente con l’insidia del vizio; non domandano solo il pezzo di pane, ma più ancora, di fronte al male che vuole asservirle e travolgerle, domandano l’aiuto e la protezione della vostra fede e del cuore vostro.
(…) La miseria, che noi v’invitiamo a soccorrere, è una miseria ben grande, specie nei piccoli paesi del Mezzogiorno, dove è così vivo il sentimento di famiglia, dove anzi la famiglia è il più geloso, il più tenace di tutti i sentimenti, tutti fuggono queste creaturine che stanno in pace con Dio, ma non con la Società; che hanno candida la coscienza, ma non sempre la fede di nascita. Queste innocenze pare che abbiano sulla fronte l’ombra di un delitto. Agli sguardi dei concittadini non sono delle creaturine ingenue, delle creaturine povere, ma sono semplicemente la figlia del rapinatore, la figlia dell’omicida, la figlia del condannato. Quello che è una sventura diventa invece una colpa. Quello che dovrebbe muovere alla compassione, muove invece alla ripugnanza.
(…) Povere creaturine, che male hanno fatto? Qual è la loro colpa? È una colpa forse non avere avuto genitori che le educassero con la loro virtù ancor prima che con la parola? È colpa non aver potuto imparare che cosa sia la bontà nel sorriso dolce di una madre, che cosa debba essere l’onestà nel lavoro forte e dignitoso del proprio genitore? È una colpa l’essersi incontrato nella fame invece che nell’agiatezza, aver avuto troppo presto lo spettacolo del vizio, invece che quello dell’amore? No, no: queste creaturine sono delle innocenti, e se le condannassimo all’abbandono e alla fame, i colpevoli saremmo noi.
(…) La carità è un’opera di giustizia sociale. Chi non benefica non attua in sé l’ideale del giusto, secondo il valore evangelico di questa grande parola.
Avete voluto essere giusti nel condannare i padri; siate egualmente giusti nel salvare le figlie. Noi non vi domandiamo per esse soltanto il pane della Carità; le figlie dei Carcerati, sono un’innocenza in pericolo. Bene, noi vi domandiamo per l’innocenza in pericolo il pane della giustizia.
(da Bartolo Longo: L’ultimo voto del mio cuore –Valle di Pompei – Scuola Tipografica per i figli dei Carcerati, 1925 – pp. 54-59)

(A cura di Luigi Leone)

*Le Suore - Fiori della Carità
Singolare corona al Santuario formano gli Istituti Pompeiani. Sono i fiori della carità cresciuti alla luce della fede e della devozione a Maria e offrono una prova convincente della vitalità di Pompei. Fondati da Bartolo Longo hanno avuto uno sviluppo straordinario e sono la manifestazione della inesauribile fecondità della Chiesa e della sua ansia di elevare la condizione della vita umana a livelli sempre più alti.
Lo sanno tutti che dalla carità degli oranti a Pompei vivono le orfane della natura e della legge, gli abbandonato, i poveri, i bisognosi e per provvedere a tutti costoro si conta unicamente sulla Provvidenza.
… A Pompei, infatti, la preghiera si tramuta in carità.
Finché i genitori o i parenti non le richiedono, le orfane rimangono a spese della carità: si istruiscono, si preparano ad affrontare la vita, si dedicano con interesse ai lavori femminili e
quando trovano un impiego o vanno spose lasciano l’Istituto e, lontane, il ricordo gioioso d’essere cresciute nella casa della Madonna, le anima nella loro vita.
Ma chi dedica le assidue cure ai piccoli bisognosi e alle ragazze? Chi dà ad essi calore, conforto, aiuto, incoraggiamento, amore?
Ci sono le Suore "Figlie del Rosario", volute qui a Pompei da Bartolo Longo, che incessantemente e instancabili sostituiscono in parte le mamme e seguono attimo per attimo la vita delle assistite.
Infatti, quando Bartolo Longo fondò l’Orfanotrofio pensò che per tale istituzione si richiedevano donne attente, cuori generosi, sostituti di mamme, Suore ben preparate alla loro delicata missione tra i fanciulli emarginati.
Si mise in giro per l’Italia per conoscere i migliori Istituti; studiò gli statuti e lo spirito di molte famiglie religiose e, per assicurare cure materne alle sue orfanelle, fondò una Congregazione di Suore "con statuti speciali, opportuni ai loro ministeri di carità, secondo i bisogni di questo luogo, di questo Santuario, di questo popolo" (B. Longo al Card. Mazzella).
Ottenne che tre valenti Suore Domenicane venissero ad indirizzare nei primi passi della vita religiosa il gruppo di giovani maestre e di orfanelle che sbocciavano nella luce della Madonna.
Gli Istituti Pompeiani non dovevano essere la solita opera di beneficenza cristiana a favore di un’innocenza incolpevole mediante il pane della carità, ma essi dovevano avere una grande missione: "Queste fanciulle deboli dispongono di una suprema forza, la forza dell’orazione. Il mondo dà ad esse la carità, esse in compenso danno al mondo la preghiera". (G. Auletta)
Bartolo Longo affidava perciò questi "fiori" alle Suore, fondate da Lui, perché come angeli custodi vegliassero con amore sulle vite di queste creature provate dal dolore e le aiutassero nel cammino e nella formazione di ogni giorno.
Sono tante le Suore che svolgono amorevolmente la loro opera a favore dei fanciulli e fanciulle dei nostri Istituti Pompeiani.
Esse pregano molto e guardano le Opere con gli occhi e con il cuore di Bartolo Longo: si commuovono alla vista di tanti ragazzi bisognosi e si sforzano di trasformare, come il Fondatore, tutto e tutti in un’immensa famiglia dove ci si sente sicuri, protetti, amati.
(Autore: Ermelinda Cuomo - da: Il Rosario e la Nuova Pompei - Maggio 1982)


*L'Istituto per i figli dei Carcerati

Larga risonanza viene al Santuario di Pompei dal fatto che all’ombra di esso fiorisce un Istituto per i figli dei Carcerati nelle due sezioni, maschile e femminile.
Fu il gesuita calabrese (valente avvocato fattosi sacerdote) Padre Giorgio dei Baroni Melecrinis a persuadere Bartolo Longo a lanciarsi in quest’opera nuovissima.
Il Santo Rosario nei suoi quadri, specialmente quelli della vita dolorosa di Gesù, costituisce la meditazione più efficace per un detenuto, la spinta alla comprensione e alla compassione cristiana per noi.
Egli viene a sentire accanto a sé, al suo dolore profondo, quasi la presenza sensibile di Gesù, mentre la carezza della divina Madre, in quella ripetizione delle “Ave, Maria!” lo solleva dal cupo abbandono.
La luce vince le tenebre del cuore e si ricomincia a pensare e a guardare alla vita con fiduciosa speranza e cuore di fanciullo.
Bartolo Longo, persuaso che “soltanto la Religione, la quale solleva l’uomo al di sopra della polvere terrena, può dare al carcerato la forza di soffrire, di rassegnarsi, di sperare …” visitò le carceri e i “bagni penali” più rigorosi con “paterna premura”; spediva ai detenuti il periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei” e altra stampa come il giornale “Valle di Pompei”, immagini, ricordini della Vergine, s’interessava delle loro famiglie.
Di fede e di amore cristiano ha bisogno ogni uomo; ma di più il carcerato.
Suscitarla nel suo cuore per rendergli meno aspre quelle ore che lente e uggiose egli passa nella cella carceraria o nell’ambiente recluso, divenne febbre di amore e di apostolato nel cuore di Bartolo Longo.
Lo lusingava l’idea che il recluso o l’ergastolano in fondo ai più aspri combattimenti dell’anima, a cui si affaccia la disperazione e l’odio contro la società ”se sentisse una voce amica, leale, che venga da oltre la sbarra, guarderebbe con occhio più benigno gli uomini e quella società stessa che lo allontana”.
Cercò allora di mettersi in corrispondenza con essi.
La carità avvicina il ricco e il povero, il sano e l’ammalato, il recluso e il libero nel Nome santo di Dio, che è Padre di tutti e tutti Egli vuole riscaldati dal sole dell’Amore.
La Carità, che è legge negli Istituti Pompeiani – Cittadella della Carità è Pompei – raggiunge nelle carceri i fratelli in pena.
La lettura di libri sani, che non isteriliscono lo spirito con il gelido scetticismo, e quella dei prodigi della Vergine del S. Rosario, furono come le periodiche visite iniziate da Bartolo Longo e continuate oggi dalla Direzione delle sue Opere.
La Madonne ne era contenta, perché si levavano voci di benedizione al Nome di Dio e si recitava la sua Corona e la Novena composta da Bartolo Longo, si praticava perfino nelle carceri dai carcerati i quindici sabati.
Dove prima c’era organizzata la bestemmia, ora si innalzava l’inno della confidenza piena alla Vergine Santissima, invocata e acclamata consolatrix afflictorum, refugium peccato rum, Regina amabilissima del Santissimo Rosario, consolatrice e madre dei carcerati.
E, nemmeno a farlo apposta, il primo omicida che sentì il beneficio della Vergine di Pompei fu un calabrese di nome … Rosario.
Si costituì convinto da Bartolo Longo, dietro promessa che avrebbe assistito il piccolo di 4 anni.
Altro detenuto che diventa ardente propagandista delle glorie del S. Rosario fu un tale Alfonso, anch’egli calabrese.
La visita che Bartolo Longo gli fece si chiuse con un abbraccio e con il pianto vicendevole. Egli pianse fra le mie braccia, e ci separammo come due fratelli …”.
In breve tempo nei 120 bagni penali ed Istituti di pena esistenti in Italia (1891), le pubblicazioni pompeiane diventano come l’unico atteso conforto dei carcerati. “Non vi fu più un detenuto che non cercasse un libro, un opuscolo, un fascicolo almeno che non venisse dal porto di tutti i tribolati, da Valle di Pompei”.
Il “Visitare i carcerati” come comanda la Chiesa porta benedizione alle Opere del Santuario, in quanto si mantiene aperto un colloquio con questi fratelli.
Essi ci tengono a far giungere fino al trono della Vergine i loro palpiti ed aneliti: sono voci di riconoscenza, di implorazione, di pentimento, di fermi propositi; sono anche offerte, (altro che obolo della vedova!) inviate pudicamente e con tanto calore e beneficio degli … orfani della legge.
Un segno sensibile per quel che la Madonna opera a favore dei loro figli e di loro stessi. E così la visita ai carcerati è legge negli Istituti di Pompei.
La Madonna e il suo Rosario operano, indiscutibilmente, i prodigi più impensati, e questi sono determinati anche da un fatto: ogni anno, con i dovuti permessi delle autorità competenti, i detenuti ricevono la visita dei loro figli ricoverati a Pompei. Una visita che dura anche 3 giorni.
Mangiano insieme, insieme passeggiano e fanno corona agli altri detenuti, essendo un sollievo anche per costoro abbracciare e baciare queste creature.
Vi si recano questi piccoli messaggeri della Madonna con il loro distintivo: la Corona del S. Rosario. La portano al collo le bambine e fa spicco il nero ebano di essa sul bianco del grembiule.
A questa corona si deve il ritorno alla fede, alla bontà, alla pace serena dei genitori e dei compagni di pena, come l’accostarsi ai Sacramenti insieme ai figli nella cappella del carcere e la promessa giurata di recitare ogni giorno ilo S. Rosario.
C’è ancora uno scambio di perdono, e la famiglia, dispersa dall’odio e dal rancore, si ricostruisce almeno nell’affetto.
C’è una enormità di lettere di questi padri e mamme che, benedicendo alla visita ricevuta, la dicono una vera rivelazione di amore, felici di aver trovato un punto nuovo per guardare la terra; questa dolce terra che, pur irta di spine e di tribolazioni, tutti amiamo e calchiamo, e sentiamo rigenerata da un vento bellissimo che è vento di redenzione.
Visitare i carcerati vuol dire, far sentire che su di essi splende, con la sua gioiosa presenza, Iddio. L’umanità è la grande famiglia del Signore: la terra la sua casa, nella quale ognuno di noi ha diritto alla gioia.
Vale la pena vivere gli anni di vita per questa parola: “Il figlio dell’uomo è divenuto il figlio di Dio!” Il figlio ha una Madre e questa non si concede riposo per riportare a Dio tutti i redenti dal Sangue preziosissimo del Figlio, come sottolineò il Santo Padre Giovanni XXIII nella visita ai carcerati di Regina Coeli.
Per riuscirvi: come Gesù istituì le Opere di misericordia, la Madre a sua volta istituì la catena dell’amore; il Rosario.
I prodigi del Rosario nelle carceri sarebbe l’argomento più interessante per un romanzo, meglio per un film.
E avremo, tutti, tanto da imparare.

                                                                     

Oggi nelle carceri i cuori esultano allo svolo di un nome e alla visione di un’immagine; la commozione diventa sinfonia in ogni ora del giorno: Ave Maria, piena di grazia, prega per noi, esuli figli di Eva, peccatori, sì, ma figli tuoi, o Madre di Misericordia!
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